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RADAR MEN FROM THE MOON – Subversive II: Splendor of the Wicked
La sperimentazione è il credo dei Radar Men From the Moon, trio olandese giunto al quinto album con questo "Subversive II: Splendor of the Wicked" (edito da Fuzz Club Records). Partito da consolidate basi psichedeliche, il gruppo di Eindhoven ha progressivamente cambiato il proprio sound allontanandosi in maniera quasi definitiva dagli stilemmi classici del genere, attraversando fasi space rock e giungendo a varcare confini tra il kraut, la sperimentazione noise e la trance ambient.
In questo nuovo lavoro, seguito di "Subversive I" (2015), i tre accentuano la vena noise, specie nella prima parte dell'album con il secondo brano "Splendor of the Wicked" e la terza "Masked Disobedience". Vengono messi in atto una visione ed un approccio cyber punk: sono pochi gli elementi psych ancora presenti nel sound, all'interno del quale emergono influenze post punk e post rock (soprattutto nel brano d'apertura "You Filled the House with Merciless Sand"). "Splendor of the Wicked" è fortemente debitrice dell marchio Sonic Youth, così come la già citata "Masked Disobedience". Con "Rapture" entriamo in una dimensione totalmente diversa: il minimalismo dei nostri ci trasporta nei cupi meandri trance trip hop e fa da ponte alla chiusura affidata a "Translucent Concrete", capace di ripetere le coordinate ipnotiche della canzone precedente in una sorta di colonna sonora (difficilmente etichettabile) da rave party psichedelico.
Insomma, i RMFTM giocano con la materia lisergica stravolgendola e rendendola talvolta ostica, talvolta destabilizzante. Non facilmente assimilabile con pochi ascolti, la scrittura dei tre richiede una forte apertura mentale. Segno che il gruppo ha una notevole gamma di frecce nel proprio arco: ma da belli e incompiuti, gli manca ancora il colpo letale con cui sferrare il ko definitivo. Antonio Fazio
RADIO MOSCOW – Brain Cycles
I Radio Moscow sono una di quelle band che dopo averle ascoltate ti fanno sentire meglio. Il loro disco omonimo d’esordio presentava squisite sonorità vintage fine anni 60 / inizio 70. Chi li conosce sa perfettamente di quali vibrazioni stiamo parlando. Ora il giovane trio americano ritorna con un nuovo album intitolato “Brain Cycles” ed è ovviamente superfluo dire che si tratta di pura delizia per le orecchie. Pur non inventando assolutamente nulla di nuovo (ma è proprio questo il bello!) il disco fila via liscio che è un piacere.Si parte con l’intro di batteria zeppeliniana dell’iniziale “I Just Don’t Know” accompagnata da marcati influssi psichedelico/hendrixiani (componente che troveremo spesso nella proposta dei nostri). A seguire la bellissima “Broke Down” con il fantasma di Clapton e soci che aleggia fiero. Fenomenale “The Escape”, scheggia impazzita fuoriuscita da “Flash” dei Moving Sidewalks. Da brividi! Il viaggio prosegue con l’accoppiata “No Good Woman” e la title track, entusiasmanti visioni post Blue Cheer/Groundhogs/Incredible Hog, tanto per dimostrare una volta per tutte (se mai ce ne fosse bisogno) quali sono le passioni dei ragazzi. Da segnalare anche il coinvolgente funk blues di “Hold On Me”, un brano che ti fa muovere i piedi anche se non ne hai voglia. Questi i brani che colpiscono maggiormente, seppure sia tutto il lavoro ad essere fresco e convincente. Grande musica, vecchia finché si vuole, ma ispirata, sincera e che va dritta al cuore e all’anima. Insomma, che piaccia o no, questa è la musica più bella del mondo! E che a farla siano tre baldi giovani è ancora più importante oltreché commovente. Un plauso finale a Dan Auerbach che ha avuto il fiuto di scoprirli. Cercate di non farveli scappare. Cristiano Roversi
RAGING SLAB – Pronounced eat-shit
I Raging Slab sono ormai in giro da parecchi anni: nati a New York nel 1985 su iniziativa di Greg Strzempka (voce, chitarra) e Elyse Steinmar (slide guitar, voce), hanno affrontato indenni il passare degli anni sfornando album a ripetizione (l’esordio “Assmaster”, gli altrettanto convincenti “True death”, “Raging Slab”, “From a southern space”, “Dynamite monster boogie concert” e “The dealer”) e assestando la formazione sulla sezione ritmica formata da Alec Morton (basso) e Rob Cournoyer (batteria). L’ennesimo lavoro della formazione vede la band accasata presso l’agguerrita Tee Pee Records e questa nuova avventura in tandem con una piccola label sembra aver ridestato i nostri: “(Pronunced Eat-shit)” si presenta sin dal titolo e dalla copertina come un vero e proprio tributo ai Lynyrd Skynyrd e a tutto ciò che è southern rock. La vena boogie che da sempre contraddistingue i quattro non si è certo smarrita, ma in questa occasione viene filtrata attraverso la matrice sudista ed un gusto per l’hard rock classico (Cactus e Mountain) e passionali arrangiamenti blues di matrice ZZ Top. Da capogiro sono come al solito gli assoli di chitarra e slide, le parti sanguigne d’organo e i chorus super orecchiabili che i Raging sono capaci di distillare, tuttavia non mancano neppure parti più tirate ed episodi maggiormente cadenzati (un esempio è l’oscura e magmatica “Black bell”). Su tutte le tracce emerge la classe pura di bellissime song come l’incredibile “Ruby”, southern rock come non se ne sentiva da tempo, “Dry your eyes”, dedicata alla memoria di Joey Ramone, “Shake what you can”, ballata notturna e malinconica, e la coinvolgente “Never never known”, ottima da ballare e cantare a squarciagola nel pieno di una sbronza… Se gradite le atmosfere che si respirano nel Sud degli States, lo spirito degli anni ’70 e ciò che si ascolta nei fumosi locali del Texas non c’è molto altro da aggiungere, i Raging Slab fanno al caso vostro. Un altro essenziale tassello aggiunto ad una discografia già di per sé ricca e preziosa. Alessandro Zoppo
RAIKINAS – (T) R.I.P.
Il (T) R.I.P. che ci propongono i Raikinas, dalla Sardegna, è una visione in technicolor di orizzonti sabbiosi e onde psichedeliche. Simili per molti versi alle band della prima ondata di stoner italiana (gli Acajou sono davvero dietro l'angolo), i nostri pestano duro. Anche se non disdegnano di carezzare con passaggi prossimi al grunge ("Earth Puissance", la jazzata "Suspension" e "Never Return", che rievoca il sound dei primi Alice In Chains), l'idea dietro al progetto è di tracciare un continuum sul sentiero aperto da band come Slo Burn, Unida e Queens of the Stone Age, richiamati soprattutto nello stile chitarristico dei bravi Antonio e Marco, autori di riff e solos convincenti.
Quando aumentano i giri del motore e l'urgenza adolescenziale rade al suolo tutto e tutti si hanno i risultati migliori: "Tears of Fire" – che apre il disco dopo una breve intro ambientale – è puro hard stoner alla maniera di Dozer, Lowerider e Demon Cleaner. Roba forte nordeuropea che magicamente rivive nell'espressione degli isolani. Anche la title track strumentale è di forte impatto sonico. Rumori di feed spersi nell'universo impattano con il wall of sound dello Stregone Elettrico e si realizza appieno il Raikinas pensiero: hard stoner mescolato a riff pachidermici. Se avete il coraggio di pensare ad una danza dei mamuthones, ubriachi e stonati, con un sound heavy psych, allora questi quattro ragazzi di Ossi vi offriranno il gancio giusto per vivere questa visione. Con una bottiglia di Filu 'e ferru in mano, of course. Eugenio Di Giacomantonio
RAILSPLITTER – 860 some odd Lbs.
I Railsplitter rappresentano alla perfezione l’immaginario legato ad una gang di biker ubriaconi ed assatanati: scarse notizie sul loro conto, un promo d’esordio composto da sei pezzi e tanto ma tanto frastuono lancinante partorito dalla mente di questi quattro deviati. Si sa che vengono da Orlando, Florida, che hanno fatto parte di altre band (il singer Scott e il chitarrista Mike nei Dragbody, il drummer Dan nei Bloodshovel e il bassista Phil negli Almighty) e che dall’ascolto della loro musica si esce molto frastornati… Il loro sludge doom contaminato con l’hardcore non sarà il massimo dell’originalità, anzi, a volte è molto derivativo, ma è composto e suonato con tanta di quella cattiveria, convinzione e brutalità da far sanguinare le orecchie. Eyehategod, Bongzilla e Cable sono i punti di riferimento, dunque riff drogati ed asfissianti ripetuti fino alla nausea, ritmiche modello rullo compressore e vocalizzi che sembrano provenire da un buco nero putrido e malsano. A volte però, a dimostrazione di una felice vena creativa, dall’oscurità senza speranza escono fuori sottili melodie che rendono le composizioni più brillanti e fruibili rispetto ai canoni dello sludge: esempi lampanti ne sono l’iniziale “Long time comin’”, l’esagitata “Stabbem in the neck” e la devastante “Give ‘em hell”. Le restanti tracce invece ci sputano addosso violenza e delirio in un alternarsi di rasoiate (“Rafters to the vice”) e pugni ai fianchi, assestati ora a colpi di groove soffocante (“King of the maggots”), ora con una lentezza che fa rabbrividire (“Lights out”). Rombo assordante del motore, giubbotto di pelle, dito medio alzato e via, i Railsplitter faranno la gioia di tutti i bikers e (ovviamente…) degli amanti dello sludge. Consigliati per dare sfogo alla parte insana del vostro ego. Alessandro Zoppo
RAINBOW BRIDGE – James and the Devil
Prodotti da una realtà del tutto nostrana quale la Tarock Records (Puglia), i Rainbow Bridge lanciano "James and the Devil", nuova incursione dopo l'assaggio del 2010 dal titolo omonimo. Il trio composto da Giuseppe Piazzolla (voce e citarre), Alessio Campanozzi (contrabbasso) e Paolo Ormas (cajon, batteria) dona nuova luce ai classici del re indiscusso del rock psichedelico: Jimi Hendrix. L'improvvisazione è la forza trainante. Ne scaturisce un disco fluido, carico di sonorità etniche, desert rock, blues e folk magistralmente fuse in una track list dal doppio volto, tenero e tagliente.L'anima dei Rainbow Bridge si mette a nudo, esaltandosi in brani come "Foxy Lady" (dal contrabbasso prepotente suonato con archetto), continuando con "Red House" in pieno stile Muddy Waters, passando per "Manic Depression" – dalla vena etnica doorseggiante – e finendo con "All Along the Watchtower", trasformata in una vera e propria folk ballad. L'apparenza in questo caso inganna: "James and the Devil" è una vera e propria reinterpretazione, basata sulla ricerca delle radici che stanno alla base del sound di Hendrix e sullo studio di nuove sfumature stilistiche. Il vecchio e il nuovo s'incontrano, si fondono, si completano. L'intensità viscerale con cui viene suonato, completa un disco che nonostante sia definito propriamente un tributo profuma di fresco. Autentici! Enrico Caselli
Rainbow Bridge – Dirty Sunday
Un blues acido e distorto è quello dei Rainbow Bridge da Barletta. Attivi da più di dieci anni, i tre sono entrati in studio in una giornata autunnale del 2016 ed hanno inciso questi cinque pezzi tutto di un fiato, senza sovraincisioni, dando libero sfogo alla loro natura di jam band. Sin dal moniker scelto ci troviamo di fronte a dei ragazzi infatuati dall’experience hendrixiana a cui hanno addizionato peyote e THC per snaturare quel diavolaccio del blues dentro bordelli del Rancho de la Luna. “Dirty Sunday” ha proprio la pacca di una nottata brava a bere whiskey dalle tette delle spogliarelliste, mentre “Maharishi Suite” è una prova dell’abilità chitarristica del bravo Giuseppe “Jimi Ray” Piazzolla che dell’illustre omonimo argentino non ha nulla se non l’eleganza esecutiva. I pezzi sono tutti strumentali e hanno la vocazione a sciogliersi liberamente tra le trame più casuali ed accidentali, anche se c’è sempre un gancio dove trovarsi per non far deragliare la questione. “Hot Wheels” è altra piccola pepita dove si spinge di più verso la potenza del riff piuttosto che nella fantasia dell’improvvisazione, mentre la conclusiva “Rainbow Bridge” è giusto il manifesto della band: un riff handrixiano al 100% introduce una jam assatanata dove i solos di “Jimi Ray” tagliano la sfera del reale... Ottimo antipasto per prove più lunghe ed articolate questo primo lavoro. Ma c’è di che gioire. Eugenio Di Giacomantonio
Rainbow Bridge – Lama
I Rainbow Bridge li avevamo lasciati alla corte di sua maestà Jimi Hendrix e li ritroviamo là, satolli di una abbuffata fuzzalicius come nei migliori party del 1969. Giuseppe “JimiRay” Piazzolla è il perno su cui si solleva questo mondo e il suo soprannome è l’evidenza a cui questo mondo appartiene, anche se il gusto è quello che fa la differenza. Rispetto al predecessore “Dirty Sunday”, del tutto strumentale, qui abbiamo quattro pezzi cantati su sei, anche se, per essere onesti, le liriche assumono il carattere accessorio, dato che la prima dama su cui concentrare le attenzioni è proprio la chitarra di JimiRay. “The Storm is Over” completa il dittico Jimi/Stevie Ray con slow hand Clapton, risultando una out-take dei Cream del primo bluesy album “Fresh Cream”. Spunta anche un’attitudine epica in “Day After Day” anche se il segno autografo della band lo riconosciamo meglio in “Lama” e “Spit Jam”, cavalcate immortali e immorali. “Words” è una piccola sorpresa di proto heavy metal con un tiro alla Steppenwolf mentre ”No More I’ll Be Back”, finale da dodici minuti, è una gemma southern rovente come un piatto di chilaquiles messicane. Inscritti nel solco della tradizione della musica immortale, i Rainbow Bridge non deludono: resta da capire la curiosa e misteriosa infatuazione per i lama, omaggiati nei ringraziamenti come migliori amici dell’uomo (!), insieme a birra e alcool ovviamente.   Eugenio Di Giacomantonio
Rainbow Bridge – Unlock
Lascia un retrogusto amarognolo l'ascolto di questo nuovo album dei Rainbow Bridge chiamato Unlock. Un riferimento non alla volontà degli autori, ma alla strana contingenza storica che viviamo. Il titolo dice tutto: siamo al cospetto di una band felice di ritrovarsi a suonare ed incidere subito dopo la quarantena di questa primavera ed il sound che ne esce stabilisce il godimento della libertà ritrovata. Un flusso continuo, un lasciare i freni e i vincoli dietro le spalle. In parole povere, il piacere di ritrovarsi. Giuseppe 'JimiRay' Piazzolla e Paolo Ormas sono tornati dentro quattro mura e hanno iniziato a suonare il giorno di martedì 16 giugno e quello che sentiamo è giunto sino alle nostre orecchie con questo EP (per modo di dire) di oltre quaranta minuti. È ovvio, anche per il nome scelto, che davanti agli occhi dei nostri c'è l'ombra di Jimi Hendrix e questo è evidente dallo stile e dalla bravura di Giuseppe alla chitarra. Ma c'è molto altro, come il trio dimostra dai tempi di Dirty Sunday e del più recente Lama. Prendiamo per esempio l'iniziale Marvin Berry: una cosa così non poteva uscire dalle mani di un gruppo qualunque. L'influenza pare quella dei Budgie, in quanto a rocciosità e bellezza. Speero the Hero prende un passo molto più psych, con un andamento pinkfloydiano nell'essenza ma con una chitarra decisa che sale nella forma densa di un Jason Simon o di un Dave Heumann. Marley vuole fare il verso al re del reggae con un ritmo in levare che stranamente riporta tutto a casa Seventies rock, nei quartieri popolati da gente come i Sir Lord Baltimore. The Girl That I Would Meet This Summer è puro Hendrix al 100%, con citazioni del Dio di Seattle sparse qua e là, tanto che ci si meraviglia di non sentire il suo vocione scuro attaccare su di un riff tutto di un fiato (finale motorheadiano Mark I da brividi). Si chiude con Jack Sound, blues distorto posizionato da qualche parte tra il divino Muddy Waters e i Groundhogs. Unlock è un dischetto consigliato soprattutto agli amanti del rock blues acido più diretto e genuino: qui c'è del pane per i loro denti. https://www.youtube.com/watch?v=bJ2EKxqz0C4

Eugenio Di Giacomantonio

RAISING SAND – Riding the blinds
Appena "Riding the blinds" entra nel lettore, si è immediatamente portati a pensare che i Raising Sand siano un gruppo americano. E invece, sorpresa delle sorprese, si tratta di quattro ragazzi inglesi, con una passione evidente (non nascosta) per il rock classico a stelle e strisce. Ma c'è subito da aggiungere che aggirare la tradizione hard britannica non è certo una scelta sbagliata, anzi. La band sa ciò che vuole e questo ep di quattro pezzi lo dimostra in pieno. È raro trovare tanta completezza e tanta bravura (in composizione ed esecuzione) in un debutto.Perché i Raising Sand sanno come muoversi nei territori caldi e passionali dell'hard rock. Sanno come variare la propria proposta, come aggredire e come ammaliare. Come costruire riff possenti e amabili melodie, cavalcate psichedeliche e soavi ballate. Doti non da poco insomma, considerando che si tratta di esordienti. Basta ascoltare l'iniziale "Unexpected legacy" per farsene un'idea. Esplode un southern hard soul come di recente solo i Black Crowes sono stati in grado di eseguire: fisico, pastoso, carico di feeling, totalmente devoto al sound magico di Rolling Stones, Allman Brothers Band e Lynyrd Skynyrd. E l'assalto continua quando si passa a "Dogtown blues", bollente heavy blues che non ne ha per nessuno, con tanto di armonica, vocals sentite (bravissimo il singer Vinny Foreman), ritmiche che marciano senza sosta e chitarre dall'incredibile groove. Quando è il turno di "Fake" le atmosfere cambiano ancora. Passiamo infatti ad un hard rock'n'roll che rimanda all'universo colorato e selvaggio degli Hellacopters. Molto riuscita anche questa prova, dimostrazione che le capacità di scrittura dei Raising Sand sanno variare registro anche all'interno di un unico grande genere. Che per finire si concede con "Witness to the storm" una splendida ballata dai toni southern, ricca di pathos e dall'incandescente finale heavy soul. Siamo al primo passo e le premesse sono più che lusinghiere. Ci auguriamo solo che al traguardo del full lenght tanta grazia non vada perduta. Alessandro Zoppo
RAMESSES – Misanthropic Alchemy
Arriva il traguardo del debut full lenght per i Ramesses di Mark Greening e Tim Bagshaw (ex Electric Wizard), dopo i due lunghi EP “We will lead you to glorious times” e “The Tomb”. Che dire? Rispetto alle precedenti uscite non è cambiato praticamente nulla, e i Ramesses appaiono ancora una versione cacofonica degli Electric Wizard più slabbrati e lerci, complice anche una registrazione e produzione assolutamente sporche e rozzissime (la batteria ha un suono indecente).L’iniziale “Ramesses pt.1” è una brutal sludge song dinamica (per i tempi medi del genere) che anticipa l’accoppiata “Ramesses pt.3” / “Lords musrule”, lunghe canzoni dotate di brevi squarci melodico/psichedelici affossati da dei suoni veramente indegni. La strumentale “Terrordactyl” ha un mood lontanamente orrifico, mentre la conclusiva “Earth must die” presenta un ipnotico arpeggio iniziale davvero gradevole, che va però poi a ripetersi per tutta la durata di essa. In conclusione, i Ramesses rappresentano bene le caratteristiche, positive e negative, del genere da loro proposto: da un lato l’ossessiva lentezza/pesantezza capace di stordire i sensi nella sua monoliticità; dall’altro la tremenda ripetitività e staticità dei loro brani sfianca da subito l’ascolto e per arrivare in fondo occorre essere davvero malati di queste sonorità. Siete avvisati. Marco Cavallini
RAMESSES – Possessed by the Rise of Magik
Il rituale dei Ramesses, gruppo formato dagli ex Electric Wizard Mark Greening e Tim Bagshaw, prosegue e giunge al terzo capitolo. Ed è un capitolo rilevante, perchè "Possessed by the Rise of Magik", oltre alle consuete sonorità doom, si avvale di elementi gothic, a tratti perfino dark wave, che lasciano presagire qualcosa di particolarmente intrigante.Dopo il precedente "Take the Curse", chi si attendeva una prova di continuità è rimasto sicuramente spiazzato. Le differenze sono palpabili anche se non bisogna pensare ad un taglio netto con il passato. I brani sono lenti ed ossessivi, la voce anche se monocorde, in un primo istante può effettivamente lasciare freddi, ma poi strada facendo si integra perfettamente nel contesto. Esaminando più nel dettaglio il disco vanno segnalati pezzi come la opener "Invisible Ritual", molto vicina ad alcune cose dei Cough; "Towers of Silence" dall'andamento iniziale decisamente darkeggiante prima di sprofondare in uno sludge maniacale; la funerea e straziante "Sol Nocivo" e l'ottima "Plague Beak" che pare uscita da un improbabile crocevia tra Joy Division e Black Sabbath. L'aria che si respira è sinistra, lamentosa, ripetitiva, quasi pedante, ma fa di quest'album una possibile nuova frontiera del doom estremo che fra qualche anno potrebbe raggiungere inaspettati (e meritati) riconoscimenti. L'esempio può essere rappresentato soprattutto dalla conclusiva title-track dove la materia sludge viene rarefatta a certa wave decadente d'annata annullandosi e dando l'impressione di formare un corpo unico. Non è un sound di facile digeribilità, sia chiaro, ma da qui può iniziare un nuovo percorso. Ne riparleremo. Cristiano Roversi
RAMESSES – We will lead you to glorious times
Avevamo avuto modo di testare la qualità dei Ramesses già in occasione dello split con i Negative Reaction uscito qualche tempo su PsycheDOOMelic Records. Ora a prendere in custodia il trio ci pensa la sempre attenta This Dark Reign, etichetta californiana che dà alle stampe “We will lead you to glorious times”, ep di quattro pezzi arricchito da due videoclip (ottima le realizzazione di Marcelo Garcia e Marek Steven).Per chi non lo sapesse, i Ramesses sono la nuova creatura partorita da Mark Greening e Tim Bagshaw dopo la loro fuoriuscita dagli Electric Wizard. Assoldato Adam Richardson al basso e alla voce, i tre hanno iniziato le jam nelle foreste del Dorset un paio d’anni or sono. I due brani presenti nello split con i Negative Reaction avevano però fallito il bersaglio: troppo spompati, poco messi a fuoco, rovinati oltre misura da una registrazione a dir poco orrenda. Con l’occasione della prima release ufficiale le cose iniziano già a migliorare: i suoni sono all’altezza della situazione e qualche bagliore inizia a comparire. Innanzitutto sembra essere più netta la voglia di osare, di sperimentare oltre i classici canoni doom. In questo senso il vocione gutturale di Richardson e certe sfuriate ultra aggressive ampliano il terreno con incursioni in ambiti death e crust. Le perplessità rimangono sui pezzi già editi in precedenza: “Master (Your demons)” è un buon episodio sludge doom condito da melodie perverse e accelerazioni furibonde, ma che non fa certo gridare al miracolo; “Ramesses II” ha parti di chitarra assassine e vocalizzi allucinati, mostrando punti d’evoluzione sviluppati meglio nei restanti brani. “Witchampton” infatti esprime al massimo la cattiveria mal espressa in precedenza. Inizio lento e sinistro, ruvide esplosioni ritmiche, chitarre e vocals totalmente fuori di senno. E’ su questa strada che i Ramesses esprimono al meglio se stessi. Un mantra psych doom che si ripete in “Black domina”, già apprezzata sulla compilation “Dreams of what life could have been”. In questo caso le due anime della band, quella lisergica e quella mefistofelica, collimano alla perfezione regalandoci 11 minuti di finissimo doom psichedelico, un viaggio all’interno di un vuoto cosmico oscuro e avvolgente che ci auguriamo possa ripetersi in occasione del full lenght… Full of downers and quickening horizons some of us are more doomed than others… Alessandro Zoppo
RAMESSES / NEGATIVE REACTION – Split
C’era molta attesa circa questo split cd edito dalla PsycheDOOMelic Records. Oggetto della curiosità non erano tanto i Negative Reaction (ormai una certezza per tutti coloro i quali si nutrono delle pastose sonorità sludge doom) quanto i Ramesses, nuova entità che ha preso vita dai titanici Electric Wizard dopo l’uscita dalla band di Tim Bagshaw e Mark Greening. Purtroppo, dopo aver ascoltato questo dischetto l’esito è sorprendente e si rimane alquanto delusi… Ma procediamo con ordine. La prima fetta di split spetta infatti ai Negative Reaction, fantastico gruppo newyorkese già autore di tre acclamati dischi (l’esordio “Endofyorerror”, il mastodontico “The Orion Chronicles” e il capolavoro “Everything you need for galactic battle adventures”). I due nuovi brani qui proposti non fanno altro che confermare la grandezza di questi tre folli e contribuiscono non poco ad annichilire la performance dei Ramesses. Già l’iniziale “A song for constance” fa presagire risultati strabilianti: un riff di chitarra secco e putrido si accompagna a ritmiche variegate e a vocals schizoidi prima di concludere la sua corsa sbattendo su un break lento e soffocante come una colata di catrame bollente. Ma è “NOD” il vero gioiello targato Negative Reaction: si tratta di uno dei migliori pezzi sludge scritti negli ultimi 5 anni, 10 minuti di oscura goduria che si aprono e si chiudono in modo incredibile (chitarre pesantissime, urli strazianti e atmosfere terribilmente tetre!) e nel mezzo vengono esaltati da parti di flauto che donano un tocco ancestrale ed esoterico al tutto. Poche storie, i Negative Reaction spaccano il culo, è ora che tutto il mondo lo sappia! Ma veniamo ai Ramesses. Come tutti sapranno troviamo gli ex Wizard Mark Greening alla batteria (anche al piano) e Tim Bagshaw alla chitarra, ai quali si è poi aggiunto Adam Richardson, basso e voce. Rispetto al sound lento, devastante, claustrofobico ma pur sempre psichedelico della band madre, i Ramesses presentano una accentuazione dei toni sludge, proponendo un sound grezzo e poco rifinito, contaminato in molti frangenti anche dal black, dal death e dall’hardcore. Le attese suscitate in realtà lasciano alquanto delusi perché tutta la magia degli Electric Wizard sembra essersi persa nei meandri di una proposta piuttosto stereotipata e confusionaria. Non che i Ramesses siano una band da buttare via, anzi, ma la nostra immaginazione già volava verso qualcosa di unico ed imprevedibile. Invece, complice anche una produzione veramente indecente (a tratti si fatica a distinguere i vari strumenti ed i suoni di batteria sembrano quelli di “St.Anger” dei Metallica…), “Master (your demons)” e “Ramesses II” sono due composizioni assolutamente nella norma, prive di colpi di scena. La prima ha un andamento lugubre intervallato da frammenti accelerati ma nel complesso è meno cattiva di quanto vorrebbe essere; la seconda ha ottime parti di chitarra e vocalizzi allucinati, punti sui quali lavorare per migliorare la qualità della proposta. Facendo una media, i Negative Reaction prendono un tondo 8, i Ramesses un risicato 6. Se la matematica non è un’opinione il risultato è 7… Alessandro Zoppo
RANDY WATSON – Out
L'epopea del grunge pian piano sta tornando in auge. Quei suoni, quei modi di interpretare le proprie emozioni e le strutture melodiche, stanno riempiendo le composizioni di molte band attuali. E pensare che proprio quest'anno l'idea del grunge compie vent'anni… Un tempo giusto per ricordare e rinnovare, quindi. Allo scopo sembrano giustamente preposti i pavesini Randy Watson che, con un EP di cinque pezzi edito dalla Incipit Recordings, ci danno la propria versione di come dovrebbe suonare una rock band."First" apre il disco con una chiara movenza Foo Fighters: premi sull'acceleratore e lasciati andare, baby! "Fever of February" articola un po' meglio il discorso sul versante desertico/dilatazone. Una parte centrale accuratamente rifinita ci mostra un gruppo che sa suonare bene, anche nei momenti in cui il ritmo scende e bisogna modellare maggiormente il suono. "Scylla" fa il paio con "Cariddi" e mostra come colei che dilania (Scilla) e colei che risucchia (Cariddi) possano trasmettere il proprio stato di terra di confine, intesa proprio come fine del mondo, in musica. La prima è aspra come vortice di mare: denso e feroce è il contrasto tra le parti; la seconda ammalia e ammorbidisce l'ascoltatore: un groove lento ed evanescente esplode in un finale distorto con acidi solo di chitarra. Il "fuori" evocato dal titolo dell'album è stato raggiunto. Abbiamo preso il largo, mentale e fisico, verso fughe escapiste dalla realtà ed ora ci affidiamo tra le braccia di "Caronte" verso una discesa negli inferi senza piu' ritorno. Cinque brani sono pochi per avere una visione d'insieme del progetto Randy Watson, data la molteplicità delle ispirazioni che alimenta il gruppo, ma se i ragazzi sapranno proseguire su questa strada, sicuramente avremo il modo di vantare un gruppo con una mood efficace e personale. Eugenio Di Giacomantonio
RANDY WATSON – Side-B
I Randy Watson sono una band di Rivanazzano Terme (PV) nata nel 2006, e "Side B" è il loro secondo lavoro avendo all'attivo anche un EP edito da Incipit Recording nel 2009 ed intitolato "Out".Il disco si apre con "Face": arpeggi dal sapore slintiano battagliano con parti più grintose, la sezione ritmica rimane però troppo monotona per riuscire a sviluppare una struttura convincente. "I Haven't Found" mischia le carte in tavola, dall'alternative della prima traccia passiamo al più classico dei pezzi post-grunge: viene subito da pensare a gruppi come Pearl Jam e Nickelback. Suona troppo di già sentito. "Lil' Steps" invece ti sorprende. Si prende il lusso di durare 7 minuti e non stancarti. Arpeggi spaziali, atmosfere sognanti, si sfocia in una psichedelia esotica, in una raga orientaleggiante che chiude il pezzo. "Girl from Province" è la ballad acustica che si poteva in fin dei conti evitare. Alla fine dei giochi la cosa che più risalta è la confusione. Il passare da idee in un qualche modo convincenti, all'abuso di strutture stereotipate. Le qualità ci sono, tutto sta nell'indirizzarle nella via più adatta per evitare di cadere nel già sentito. Giuseppe Aversano
RECOURSE – Weakening The Structure
Questo lavoro degli americani Recourse, dal Maryland, va a piazzarsi a metà strada tra un violento hardcore e un tecnicissimo death metal. Tra le influenze più moderne la bio va a citare band come gli Hatebreed o i Lamb of God e probabilmente sono queste le coordinate da prendere in considerazione, senza negare però alla band una certa personalità. A valorizzare il lavoro una produzione all'altezza che non mi è affatto dispiaciuta ad opera di John Gallagher dei Dying Fetus (special guest nella di Scorched Earth) e un'intensità mantenuta dalla prima all'ultima traccia.Il lavoro è stato registrato nel 2003 ma esce quest'anno per This Dark Reign (sussidiaria della Devil Doll Records) con l'aggiunta di due bonus tracks inedite, che nulla aggiungono e nulla tolgono alla carica devastante del quartetto. Ovviamente siamo al di fuori della sfera stoner-doom a noi tanto cara, ma i Recourse dimostrano di avere le carte in regola per farsi apprezzare da chi è più vicino al filone metal-hardcore. The Bokal
RECS OF THE FLESH – Illusory Fields Of Unconsciousness
I Recs Of The Flesh, quartetto guidato dal chitarrista/cantante Massimo Usai, sono attivi dal 2004 e giungono dopo una serie di buoni demo ed Ep al primo full-length, "Illusory Fields Of Unconsciousness", un concentrato di esplorazioni psichedeliche e post-dark che nascono nell'attuale scenario del rock indipendente, un calderone tornato particolarmente ribollente negli ultimi tempi. Lo sforzo profuso in sede di composizione non è affatto trascurabile, ma gran parte del merito della riuscita del progetto va alla caratura della formazione, che oltre a Massimo comprende altri tre validissimi cosmonauti dell'inconscio: la tastierista Sara Melis, capace di arricchire il suo background wave/shoegaze con nervature psych '70 ed altre più tipicamente moderniste, il bassista consacrato all'eterno culto del feedback Justin Wood (dagli americani Small White) e il quadrato e preciso drummer catalano Xavier Dilme.I nostri realizzano un'opera sopra la media nell'ambito del nuovo oscuro trance rock, quello che riutilizza le lezioni ottantiane del noise della East Coast, gli stilemi (e il flavour) del versante goth dello shoegaze, e il duro heavy psych nato dalle ceneri dei Queens Of The Stone Age, sparse ormai un po' ovunque e che non accennano a dissolversi, ennesima riprova dell'importanza dalla creatura di Homme nel convulso panorama dell'alt-rock da un lustro a questa parte. Inquieto, radicale, ma orchestrato con intelligenza e trasporto, l'album è un inesorabile susseguirsi di affilati pattern dalle ritmiche battenti, capace di inoltrarsi con risultanti soddisfacenti nella psichedelia acida, e questo non trascurabile fattore ispessisce il mood decadente e noir, arrecandogli una chiave di lettura psiconautica dalla costante tensione sensoriale. L'incipit psycho-shoegaze di "Social Failure" lambisce durissimo industrial rock seppur tra disfatte armonie, e subito emergono le tastiere da incubo della Melis, col pesante basso a ricucire in continuazione; quindi segue "Burnover" basato su un riff trance rock che intelaia un'ossatura tipica del goth, in una sorta di sincopato trait d'union tra Qotsa e Fields of Nephilim. La distanza da manierato electro-rock è assicurata da "Intensive Care Unit", uno dei capisaldi del cd: basso doomy che apre le porte ad uno stato di alienazione psicologica, ed è un pezzo che risente di Spaceman 3, il Bowie paranoide di "Space Oddity" e le fluttuzioni degli ultimi Warlocks. L'aggressione robotica di "Getting It on" e "Not Easily Impressed" bilanciano "Urban Tension Development Swing" e "Behave (On The Path Of The Psycho)", due opalescenti fusioni di Nine Inch Nails e melodie psych. "Reveletions From The Self" si abbandona al rock crepuscolare innestando ritmiche marziali su una progressiva sovrapposizione strumentale, e anche "Friends?" partecipa positivamente con i suoi riff di marca Refused/Prong ammorbiditi da un incedere umorale alla Sisters Of Mercy. "Solutions To Non Existing Problems" continua ad interloquire alla metà oscura, prima che si faccia strada il pezzo più ambizioso, "Never Forget", aperta da keyboards prog che poi evaporano in alterazioni percettive generate da un'antitetica altalena di refrain eroici, arie dismesse e rumorismi barrettiani. Ben fatto. Roberto Mattei
RED AIM – Niagara
Dai Red Aim sappiamo già cosa aspettarci: dell’hard rock settantiano (tra le band influenti di sicuro i Deep Purple) diretto e un po’ piacione, imbellettato quanto basta per non far vedere i numerosi interventi di clonazione. Quindi derivativi sì ma con brio. Anzi, senza scomodare troppo John Lord e compagni spesso e volentieri i tedeschi si avvicinano all’hard rock ‘patinato’ degli ultimi Spiritual Beggars, riuscendo a confezionare delle canzoni più (Salamander ad esempio) o meno (Sisal sister) grintose e fresche, o alle Regine dello zio Homme versione-primo-disco (Ghost of beluga, Niagara). Va molto meglio invece su brani come The stupidity of going east dove questa pesantissima influenza viene tenuta a bada dal fuoco sacro di un hard rock autentico e massiccio. Non c’è molto da disquisire, la croce e delizia dei Red Aim sta nel saper scrivere dei brani di pesante leggerezza. Se Almost night train impressiona positivamente coinvolgendoti tanto da far cadere il muro di obiezioni che stavi partorendo con fatica, in altre occasioni il loro songwriting è molto meno ispirato se non addirittura nullo. Come considerare pezzi futili e inutili come Matula e Matador o veri e propri plagi kyussiani come The invisibile ray e Rivolta? Un allungamento del brodo. ‘Niagara’ sarebbe stato più piacevole e riuscito con quattro o cinque pezzi in meno. In ogni caso fotografa una band senza una personalità forte. Non penso proprio che abbiano fretta di maturare… Francesco Imperato
RED GIANT – Devil Child Blues
Applauso e doveroso inchino per la Small Stone, etichetta di Detroit che ha ormai preso il posto della defunta Man’s Ruin nel regno dello stoner rock. Questa volta l’opera compiuta è più meritoria del solito: riportare in pista i grandiosi Red Giant, autori di dischi stupendi come “Psychoblaster and the misuse of power” e “Ultra magnetic glowing sound”. Ed era proprio da quest’ultimo lavoro (datato 1999) che la band non si faceva viva, destando apprensione tra i tanti che avevano goduto le gioie stoner psych punk di quel disco.A cinque anni di distanza le aspettative non sono state affatto deluse, anzi: “Devil child blues” ripaga ampiamente l’attesa restituendoci una formazione coesa, viva e pulsante, ancora capace di spaccare culi e far viaggiare sui tracciati astrali della psych music. La psichedelia più pura e furiosa però è stata momentaneamente lasciata da parte, la stasi eterea dell’acid rock è contratta e inserita in brani tirati e compatti, nei quali scorre fluida dilatandosi solo quando necessario. Ciò che viene fuori è dunque un grandissimo lavoro, forse il migliore di sempre ad opera dei quattro. Si alternano infatti mazzate colossali come le iniziali “White mom” e “Jet pack” e divagazioni lisergiche del calibro di “I breathe fire” (lenta e soffocante come non mai), “(How ya doin’ that) Time machine” (stoner con la S maiuscola!) e “Devil child blues”, uno dei brani migliori del lotto per impatto e forza straniante. Altrove è l’urgenza punk a farsi più pressante (“Hoping for the golden BB”, “Drip”), mentre “John L. Sullivan”, “Got it alone” e “Millenium falcon” sono Red Giant al 100 per 100, aggrovigliate e fumose matasse heavy psych tra le quali ci si fa strada a colpi di cambi di tempo e chitarre incandescenti. Ovviamente non poteva mancare il sigillo conclusivo: “Fun house”, tratta dal repertorio storico degli Stooges, riproposta con la giusta carica mesmerica ed il doveroso piglio hard punk. Ci voleva il ritorno dei Red Giant, la loro mancanza si sentiva nel panorama stoner odierno. Soprattutto se pensiamo che questo “Devil child blues” è un disco stoner nel senso vero e proprio del termine. Da comprare senza se e senza ma. Alessandro Zoppo
RED HARVEST – Internal punishment programs
Li avevamo lasciati un paio d’anni fa quando le nostre orecchie grondavano ancora sangue dinanzi alla pesantezza fuori di senno di “Sick transit gloria mundi”. Li ritroviamo ora con un nuovo lavoro che per certi versi è un passo indietro nella carriera dei Red Harvest. E’ come se il gruppo norvegese con “Internal punishment programs” sia voluto andare alla riscoperta delle proprie origini. Non un passo indietro nella qualità dunque, bensì nella voglia di sperimentare e di abbattere confini.La componente industrial e certi tagli di doom apocalittico sono messi in secondo piano. Ciò che è privilegiato è l’impatto, duro e puro. Detto così può sembrare una mossa sbagliata ma l’ascolto fa pensare il contrario. Metal estremo, o meglio, portato alle estreme conseguenze. Ma reso in modo compatto e convincente. Si percepiscono echi di Fear Factory, Ministry, Voivod, Sepultura e Meshuggah. La rielaborazione però è molto personale se è vero che “Anatomy of the unknown” ha ritmiche tritatutto e un feeling morboso. Se è vero che “Mekanizm” mischia con gran classe metal, dark wave e beat ossessivi, “Teknocrate” dilata allo spasimo thrash e cadenze doomy e “Wormz” sputa riffoni cattivi su una base techno industrial. Il pessimismo e la visione di un futuro dominato dalla macchine sono ancora i temi principali. Magari qualcuno nutriva aspettative troppo elevate per questo disco. E forse proprio per questo saranno in molti a storcere il naso. Ma qui ci sono da riconoscere molti meriti. “Internal punishment programs” non sarà un lavoro fondamentale ma quanti sono oggi in grado di descrivere con tanta lucidità gli scenari malsani e alienanti del presente prossimo? In fondo la band di Ofu Kahn prosegue per la propria strada. Disco non scritto a tavolino ma figlio del momento e dell’ispirazione. “Sick transit gloria mundi” resta insuperato ma questo nuovo capitolo mantiene fede alle aspettative e non deluderà i fan della band. Alessandro Zoppo
RED SCALP – Ep No. 1
Continua il viaggio di Perkele alla scoperta dell'underground stoner polacco, e questa volta tocca ai Red Scalp, giovanissima band di recente formazione la cui provenienza è divisa tra le città di Pleszew e Poznan. Siamo di fronte ad un EP di stoner metal piuttosto tradizionale dall'attitudine e dal groove decisamente southern rock, che trae la sua forza dalle sue lunghe cavalcate strumentali. Sulla rete vengono descritti come "un mammut siberiano che è appena stato scongelato dopo 15.000 anni", dunque proprio per questo motivo ha le corde vocali un po' intorpidite. La voce difatti, così come molte delle linee vocali qui presenti, non convince mai appieno, troppo prevedibile e priva di melodie in grado di rimanere davvero in testa. Un peccato, perché di spunti interessanti ce ne sono diversi. L'impronta dello stoner degli anni d'oro è fortemente presente – Kyuss, Acid King, Acrimony, per citare alcuni nomi. "Tatanka" incorpora cadenze tipiche dei canti dei nativi americani, con un risultato forse troppo accademico, che con qualche chilo in più di delay sulla voce avrebbe funzionato sicuramente meglio; buono comunque il riff portante che ricorda molto gli ultimi Electric Wizard. Le strofe di "Jackie Boy" suonano un po' troppo come quelle di "Scorpionica" degli Orange Goblin, sebbene il brano si muova sulle sonorità paludose della Lousiana, che funzionano piuttosto bene. La conclusiva "Sin City" convince forse più delle altre, lineare ed efficace scorre fluida nonostante le evidenti pecche di produzione, che col tempo sono certo verranno sicuramente colmate. Davide Straccione
REMEMBER NOVEMBER – Funeral Doom Session Vol. 2
Quando si pensa alla Puglia la mente corre alle spiagge assolate, agli immensi campi di grano, alla storia gloriosa di un territorio ospitale. Nel caso del progetto Remember November il campo d’immaginario si ribalta: buio, ossessioni, pensieri tremendi. È questa l’idea perseguita da Murnau (batteria) e Doomenicus (voce, chitarre), i due loschi figuri che animano la band. Oscurità e passione al servizio di un doom metal paralizzante, catatonico, scandito da vocals psicotiche, riff monolitici, un drumming soffocante e atmosfere orrorifiche (quelle di “Litany of death” sono davvero paurose). Insomma, la deriva funeral lanciata da colossi come Esoteric e Evoken, senza dimenticare la citazione d’obbligo, i Cathedral dell’epocale “Forest of Equilibrium”.Cinque brani per 63 minuti, una sessione lunga, dolorosa e catatonica, che induce ad uno stato d’ipnosi istintivo, complice anche una registrazione volutamente sporca e primitiva. Un aspetto questo che spesso gioca a sfavore del duo, perché in alcuni frangenti (la parte centrale di “Slow march for the day of your funeral”, tanto per fare un esempio) una maggiore pulizia (e conseguente incisività) dei suoni avrebbe giovato non poco al risultato finale. L’obiettivo di base è comunque quello di creare un flusso ininterrotto di sensazioni malinconiche, agghiaccianti, senza respiro. Da questo punto di vista il risultato riesce alla perfezione. Certo, in futuro una maggiore varietà in sede di songwriting non potrà che essere apprezzata. Per ora Remember November rimane un prodotto eccellente per chi vive (o muore?) a pane e funeral doom. Astenersi allegroni. Alessandro Zoppo
REQUIEM – The Story 1985 – ’92
L'etichetta ligure Black Widow, in collaborazione con la concittadina Blood Rock, ha intrapreso un'operazione di ricerca e restauro di un tassello dell'immenso mosaico che è la scena pesante italiana dalla fine dei 60 ad oggi. Se negli anni 70 dominavano, orgogliosamente ed a testa alta, le formazioni progressive, alla fine del decennio e per i due/tre lustri successivi il panorama tricolore si arricchì di artisti che si divisero soprattutto tra l'hardcore, la new wave ed il metal/doom. Come sempre si trattò di figli e figliastri della tradizione continentale ed americana, ma nessuno rimarrebbe scandalizzato nel dire che nei nostri confini nazionali le esperienze condivise in Europa vennero marchiate da uno stile italiano.I Requiem appartengono al filone metal, anzi "metal mentis" come lo definì il fondatore, Mario "The Black" Di Donato. Questo metal mentis, a parte la somiglianza con l'etichetta del post - me(n)tal che domina gli ultimi anni, è in sostanza un protometal figlio dell'hardcore e vicino a quelle produzioni particolarmente ‘raw’ che caratterizzarono i primissimi Iron Maiden (quelli eccezionali con Paul DiAnno dietro il microfono), la NWOBHM dark e luciferina dei grandissimi Mercyful Fate di “Melissa” e la velocità dei Venom. Il tutto condito da una pesantissima mano doom e dark, in cui la disperazione e la perdizione di fronte all'incommensurabile eternità della morte viene mitigata da una logica cristiana che spera nella salvezza dell'anima. E questo si nota dalla scelta dei titoli e delle ambientazioni, con scelte a cavallo tra latino medievale (“A periculo mortis”, “Post Mortem Vale”, “Dies Irae”, “Ora Pro Tenebris”) ed inglese (“Soldiers of Death”, “Angels Night”, “Destruction of the Dark”, “Heart of Storm”). Il lavoro è un doppio album, che contiene la maggior parte della produzione della band pescarese: nel primo disco troviamo gli ep "Nunc et Semper", "Per Aspera" ed "Ex Voto" più la raccolta "Requiem 1985-'88". Tra il primo disco ed il secondo si vede il passaggio di testimone tra i due cantanti che si sono avvicendati nella storia dei Requiem, con due stili vocali completamente differenti. Gli inizi con Ken "The Witch" Thunder (al secolo Massimo Dezio) sono caratterizzati da uno stile a cavallo tra una NWOBHM oscura e gracchiante, vicina a mostri sacri come Rob Halford o lo stregone danese King Diamond. Nel 1989 Ken Thunder lascia i Reqiuem per lotte intestine con il leader e mastermind “The Black” Di Donato, che lo sostituisce con il doomster puro e duro Eugenio Metus Mecci, dallo stile epico e decadente. Arriva così il momento di “Via Crucis”, bissato da un album dal vivo. Entrambi sono presenti nel secondo cd, tuttavia se “Via Crucis” è un lavoro dalla produzione molto più curata e dalle atmosfere più rallentate e pesanti, il live fu registrato con una qualità da bootleg e si risolse in un lavoro che ammazzò le potenzialità e contribuì alla chiusura del progetto Requiem. Di Donato cominciò a dedicarsi con maggiore frequenza al suo progetto The Black, fino a farsi assorbire completamente e perdere interesse nei Reqiuem. Oggi rimane questo cofanetto, dall'artwork bronzeo-dorato e dalle linee medievali nelle incisioni e nelle immagini, con un booklet contenente una short bio e foto d'annata. L'acquisto è consigliato agli amanti delle sonorità dell'epoca ed agli appassionati cultori del primo doom e metal degli inizi degli anni 80. Meno adatto a chi apprezza atmosfere più eleganti ed arrangiamenti costruiti e che non digerisce lo strato sporco ed abrasivo, carico di feedback e ‘raw’ tipico delle prime formazioni di trent'anni fa. In ogni caso complimenti alle etichette per la pazienza e la cura dedicata a questo lavoro. Gabriele "Sgabrioz" Mureddu
REVELATION – Inner Harbor
C'era una volta il Maryland doom... Tra la fine degli 80 e i primi 90 un pugno di band diede il via ad una importantissima scena underground che seppe far risorgere la musica del destino. Nomi quali The Obsessed, Iron Man, Internal Void, Unorthodox e Revelation diedero vitale importanza ad un intero movimento, tanto che ancora oggi molte doom band (ed in alcuni casi anche stoner rock band) guardano alla scuola del Maryland e alla grande lezione impartita. Attivi dal 1986 i Revelation dopo alcune demo giungono all'esordio nel 1991 con "Salvation's Answer", uno dei primi lavori licenziati dall'allora neonata Rise Above Records. Album bissato nel 1992 con "Never Comes Silence" per la leggendaria e sfortunata Hellound Records di Berlino, autentica doom label che mise sotto contratto tutte le principali formazioni del Maryland oltre che Saint Vitus, gli svedesi Count Raven ed altre realtà doom dell'epoca, prima di chiudere i battenti per crack economico. Nonostante la fine dell'etichetta tedesca, le latenti difficoltà economiche per un genere che non saprà e non vorrà mai emergere dall'underground e la conseguente crisi, il trio pubblica nel 1995 il terzo full-length "...Yet So Far" e riesce comunque a proseguire il proprio cammino pur tra alti e bassi.Dopo una demo, uno split, un paio di compilation ed un lungo periodo di silenzio e grazie all'interesse della Leaf Hound Records, i Revelation realizzano tre album in un anno e mezzo tra il 2008 e il 2009. La label ristampa anche i primi due lavori della band; inoltre dal 2004 i tre membri attuali ed originali del gruppo danno vita al progetto parallelo Against Nature, act dedito a forme incrociate di progressive, metal, doom, hard e blues rock. Una ramificazione fertilissima, che tra il 2005 e il 2012 porta alla realizzazione di ben 17 album! "Inner Harbor" segna il ritorno dei Revelation classici tre anni dopo "For the Sake of No One" ed è il sesto album ufficiale per il trio. Musicalmente il sound proposto appare essere più vario rispetto al recente passato: nel precedente lavoro la band aveva confermato l'attitudine old school e traditional, ora affronta sfumature diverse come il progressive rock, grazie anche all'uso delle tastiere. Chiaro che il gruppo statunitense porta in dote il retaggio degli Against Nature, senza tuttavia perdere i forti connotati doom. I tempi restano cadenzati con una maggiore apertura melodica ed un suono dunque più complesso ed articolato. Va detto, a onor del vero, che i tre si sono sempre distinti per qualità tecniche di assoluto valore. Insomma, i Revelation del 2013 ci consegnano un altro grande tassello di progressive doom che non deluderà sia nuovi che vecchi fan. Da segnalare che "Inner Harbor" è scaricabile dal sito della Bland Hand Records, è disponibile il CD via Shadow Kingdom ed in edizione limitata in vinile via Pariah Child. Antonio Fazio
RHYTON – Kykeon
Da Brooklyn all'Egeo e ritorno. È questo il percorso affrontato dai Rhyton in "Kykeon", terzo lavoro sulla lunga distanza dopo l'esordio omonimo e "The Emerald Tablet". David Shuford (D. Charles Speer, NNCK), Jimy SeiTang (Stygian Stride) e Rob Smith (Pigeons) alzano l'asticella e dalla pura psichedelia free form approdano ad un avvincente mix strumentale di psych rock, folk greco-turco, ambient ritualistica e progressive boogie. Il risultato è sorprendente: complice il lavoro di Jason Meagher ai leggendari Black Dirt Studios, "Kykeon" è un'esperienza sonora psicoattiva che si nutre delle dolci melodie create da Shuford tra chitarre acide, bouzouki, saz, baglamàs e doumbek, del basso pulsante e dell'organo mesmerico di SeiTang, del drumming primordiale di Smith.
Cantano e ammaliano le sirene tra feedback e fluidi volteggi armonici nell'iniziale "Siren in Byblos", volano alti i pensieri nella "Topkapi" del sultano di Costantinopoli, una jam trainata dal tremolo del saz che apre i cancelli su chioschi, harem, cortili e corridoi illuminati. "Gneiss" è nervosa e groovy, infettata di blues e distorsioni rocciose, mentre "Pannychis" è un funk alla mescalina in odore di Stax con un bouzouki onirico e un organo solenne al posto del sincopato wah wah. "California Black Box Vapors" urla heavy psych rabbioso da power trio indemoniato e apre alla conclusiva "The Striped Sun", infinito trip psych kraut misterioso e straniante che trascende ogni forma e chiede all'ascoltatore il difficile, sublime compito di abbandonarsi. Davvero fantasiosi e ricchi di grazia i Rhyton. Il loro sonic voyaging è imperdibile. Alessandro Zoppo
RIDGE – A Countrydelic And Fuzzed Experience In A Columbian Supremo
Ridge: quando le meteore lasciano il segno.È il 2001 e dalla fiorente Svezia esce allo scoperto un trio la cui storia è durata poco più di 2 anni (riformatisi di recente nei suoi 2/3 con i discreti Matadors). Dall'elaborato titolo del loro unico album va evidenziato un aspetto in particolare: l'aggettivo 'fuzzed' dell''experience' dei Ridge si traduce in 10 capitoli di stoner duro e puro di derivazione Fu Manchu. Il disco non aggiunge niente di nuovo alla storia del genere, però è una rivisitazione lucida ed entusiastica dei migliori momenti dei 4 californiani. Andreas (voce e chitarra) ricalca le orme del maestro Scott Hill sia nei riff che nella voce (praticamente identica), ma soprattutto nella sua capacità di avvolgere l'ascoltatore con cavalcate sonore dall'appeal irresistibile ("Como Un Toro" e "Fuelle" fanno scuola); la componente 'space' ben in vista a tratti sembra suggerirci l'incontro con un ipotetico sequel di "In Search Of…" (sentire "No Way Near", "Rancho Relaxo", "Cayuga 240" o "Avalanche" per credere). I 40 minuti di "A Countrydelic…" non presentano cadute di tono e la carica è sempre devastante, il che rende molto difficoltoso cercare di distaccarsi dall'ascolto. Se di facciata l'album in questione potrebbe risultare piuttosto 'monotematico', ci pensano alcune tracce a sorprendere: "Zeb" è il classico saliscendi chitarristico tipico degli Unida, mentre "Godspeed" parte con il plagio spudorato del riff di "Dirty Deeds Done Dirt Cheap" degli AC/DC per poi sfogarsi e reinterpretarlo in chiave heavy-stoner. Dovrebbero ristampare l'album con un nuovo titolo: "A Countrydelic, Fuzzed, Magical But Flashing Experience…". Applauso ai Ridge. Giacomo Corradi
RIJNSWAND – Dharma karma
Che botte da orbi che tirano i Rijnswand! Era da diverso tempo che non capitava di sentire un gruppo in giro da non molto eppure così affiatato, coinvolgente, dinamico, trascinante. Per giunta vengono dalla Finlandia, terra nota più per il black e il power metal che per il rock. Eh si, perché qui di rock si parla, ma di quello vero, spontaneo, grezzo e senza compromessi. Il rock che nasce dagli anni ’60 e ’70, passa attraverso il punk, lo street ed il grunge e oggi giunge a noi in questa forma. In realtà i Rijnswand non sono certo una band alle prime armi. Si sono formati nel 1998 e hanno già edito due mini ("And now this nel 2000 e "Friday 13th" nel 2002). "Dharma karma" possiede però tutte le carte in regola per sfondare e soprattutto per fare breccia nel cuore di tutti gli amanti del rock’n’roll. Quattro pezzi che fanno muovere il culo partendo dalle sonorità classiche di Rolling Stones e Led Zeppelin ed arrivando ad influenze stradaiole e punk. Hard rock di classe insomma, come si può notare sin dall’iniziale "Dharma karma", pura iniezione di adrenalina che non sfigurerebbe come potenziale hit in cima a tutte le charts (e che libidine quegli intrecci di chitarre à la Thin Lizzy..). La successiva "Mindware" è invece una ballata rock dai sapori notturni e crepuscolari in stile Nick Cave, tanto per farci capire che Henri (voce), Mikko (batteria), Jaako (basso) e Jari (chitarre) ci sanno davvero fare. Con "Down south (to the crack)" torniamo su territori rock deluxe, pieni di belle ragazze e drink alcolici. "Cockroach" chiude i conti in grande stile, hard rock’n’roll tirato e ficcante, poco spazio ai convenevoli e tanta ma tanta sostanza! Un gruppo assolutamente da supportare i Rijnswand, non farlo sarebbe un vero delitto! Siete avvisati.. Alessandro Zoppo
Rinunci a Satana? – Blerum Blerum
Rinunci a Satana? No, sembrano rispondere Damiano Casanova (Il Babau e i Maledetti Cretini) e Marco Mazzoldi (ex Fuzz Orchestra e Bron y Aur), le menti dietro al miglior moniker mai esistito in lingua italiana. "Blerum Blerum" è il loro secondo album, un concentrato di "Hard-Asperger-Rock" suonato con chitarre, batteria, ekoTiger e synth. Damiano e Marco partono a razzo e finiscono incredibilmente a razzo, snocciolando nove perle strumentali, spassose fin dai titoli. Apre "Valhalla Rising", bellissimo bignamino (con riferimento al film di Nicolas Winding Refn) su tutto quello che sono stati i Black Sabbath nell'ambito della musica heavy e il richiamo di Iommi viene seguito nella successiva "La veneranda fabbrica del Doomm", che sul finale diventa una vera e propria "Paranoid" sfacciata e paracula (ma i due citano simpaticamente anche "War Pigs" per un secondo). Seguono "Blerum" e "Blerum", gemelle diverse: la prima è un blues come lo potrebbe suonare un ubriaco, la seconda un blues come lo potrebbe suonare Brant Bjork. "Salice Mago" è una ballata southern con abuso di wah-wah che la rende incredibile, la successiva "Niente di nuovo sul fronte occidentale" ribadisce il concetto che non è niente di nuovo l'amore smisurato verso il Sabba Nero, anche se viene virato verso sapori orientali (pensate in qualche misura agli Stinking Lizaveta). "La serata del Gourmet" presenta delizie tutte italiane condite con ingredienti Osanna, The Trip e Metamorfosi, servite su un letto di popolare napoletana; "Chi sta scavando?" è un delirio con urla primordiali, ma non come John Lennon di "Mother" quanto come un bimbo che si incazza perché lo portate via dalle giostre. Chiude "Dr. Tomas Ragtime Blues" che, come dice il titolo, è un congedo bifolco di un minuto e mezzo. Bravi Damiano e Marco: fantasia, classe e cazzimma. Sentiteli voi i piagnoni, io mi diverto con loro. https://www.youtube.com/watch?v=zLI9AqKBPio Eugenio Di Giacomantonio
RIPPER – …And the dead shall rise
La Black Widow prosegue la sua opera di filologia musicale e questa volta riporta alla luce l’unica opera dei misconosciuti Ripper. Uscito originariamente nel 1986 ad opera della Iron Works di Los Angeles in un numero limitato di copie e divenuto così un disco di culto, “…And the dead shall rise” è stata la sola emissione partorita da questa band statunitense, dedita a quello che comunemente viene definito “horror metal”. Ormai dimenticato ma con una ristretta cerchia di appassionati in tutto il mondo, parliamo di un genere che parte dal dark sound degli anni ’60 e ’70 (Black Widow, Black Sabbath, High Tide, primi Judas Priest, Pentagram) e che nel corso degli ’80 ha trovato perfetta realizzazione nell’ala oscura della NWOBHM e nel doom più cinereo (Angel Witch, Witchfinder General, Witchfynde), partorendo grandissimi gruppi come i nostrani Death SS o i meravigliosi Mercyful Fate. I Ripper si ponevano proprio su questa strada sfornando un sound cupo e ossessivo, incentrato sul riffing affilato della coppia Rob Graves/Johnny Crystal e su ritmiche tirate e maledette (opera del drummer J.D. Shadowz e della bassista Sadie Paine). I tappeti lugubri e spettrali in stile Goblin creati dalle tastiere dell’ospite Steve Bogle completano il quadro, che se a qualcuno può sembrare anacronistico, di cattivo gusto o ingenuo (alla musica si accoppiano anche lyrics e look a tema) in realtà è la testimonianza di un momento molto importante nell’evoluzione dell’hard & heavy sound. Brani come la devastante “Death awaits you” e la marziale “The executioner” trasudano un feeling gelido e malvagio, in “Sinistre minister”, “Night cruizer” e “Don’t tie me down” i vocalizzi ora profondi ora in falsetto di Graves e quelli acutissimi della Paine si intrecciano a meraviglia con soli di chitarra sempre ispirati e fendenti come rasoiate. Gli effetti sonori da film horror inseriti tra un pezzo e l’altro rendono l’atmosfera ancora più terrificante: la sensazione è proprio quella di essere catapultati in un cimitero durante una notte buia e tempestosa… Ovviamente non mancano passaggi più diretti e spediti (“Halloween”, “Metal mission”), mentre “Wake the dead” è l’episodio che più si accosta al doom e spicca per intensità e cifra espressiva. Ancora una volta il lavoro della Black Widow è stato eccellente: in tempi in cui si spacciano per grandguignolesche la musica e l’apparato scenico di emeriti imbecilli mascherati, la riscoperta di un tesoro nascosto dell’horror metal non può che essere apprezzata. Dagli amanti di queste sonorità ma non solo… “When the fog rolls in and you hear the wolves cries, the graves will open and the dead shall rise” Alessandro Zoppo
RITE – Shoot skull for jackpot
La Waterdragon è un'etichetta francese che sforna sempre ottimi lavori in campo stoner rock e affini. Ecco così che questa volta tocca ai finlandesi Rite farsi valere e rispettare le premesse qualitative della label con il disco di debutto "Shoot skull for jackpot". La band si forma nel 1994 ma si assesta solo due anni più tardi, compiendo tuttavia i primi passi discografici con l'ep "Goddamn" del 2001 e la partecipazione alla compilation "The mighty desert rock avengers". Il genere proposto è uno stoner'n'roll tirato e coinvolgente, che si ispira sia a grandi del passato come Kiss e MC5, sia a colossi come gli ultimi Entombed, dunque accostandosi a quel filone tipicamente scandinavo che unisce stoner e rock selvaggio, sulla stessa scia di Sunride e Zerocharisma per intenderci. Dal punto di vista compositivo le chitarre di Janne e Sami sono sempre rocciose e travolgenti, la sezione ritmica (Juha alla batteria e Manu al basso) controbatte colpo su colpo accelerando e decelerando ogni volta che c'è bisogno, mentre la voce di Jarkko appare il vero punto di forza del gruppo, essendo capace di modulare aggressività e pacati cambi di tono. A dimostrazione di quanto detto si possono subito citare le due tracce iniziali: "Bastard song" e "One hell of a mess" sono due perle di heavy rock'n'roll semplice e diretto, melodiche e sfacciate quanto basta per renderci partecipi di un headbanging sfrenato…"Climbin' the blacklist" sembra invece evocare il fantasma dei primi Danzig, quelli più rock e immediati, mentre "Sharpshooter" e "One man revolution" si caricano di irruenza punk veloce e cattiva, sempre pronta a sbatterci in faccia un concentrato di ferocia e strafottenza nella migliore vena rock'n'roll. Allo stesso modo "Surmanajo" si fa valere per le sue ritmiche corpose e granitiche, come accade anche in "Human fuse", episodio di riff rock sulfureo ed inarrestabile. Se "Das vegas" prosegue il discorso intrapreso fin dall'inizio con una mazzata di sanguigno heavy rock piazzata nel bel mezzo del volto, una song come "Doomsday machine" rallenta leggermente i toni grazie ad un andamento cadenzato e a chitarre dal groove gigantesco. Tutto fila liscio in questo dischetto, se siete in cerca di emozioni forti e di una perfetta colonna sonora per i vostri party alcolici avete trovato la musica adatta…d'altra parte il finale affidato a "Damned if I do" non fa che confermare la vena tritaossa di questi cinque ragazzi finnici che in tre minuti scarsi ci vomitano addosso potenza e impeto da vendere. Dunque un ottimo debutto questo "Shoot skull for jackpot", disco che conferma la validità di una label come la Waterdragon e lancia i Rite nell'olimpo delle stoner star… Alessandro Zoppo
RIVER, THE – Different ways to be haunted
Dopo averci positivamente impressionato con la demo "Oneiric dirges in mono", tornano a farsi sentire i The River, band inglese ormai pronta per il debutto ufficiale di lunga durata. A dimostrazione di ciò ci pensano questi tre nuovi brani, scritti ed eseguiti con la solita classe e la consueta grazia. Vengono meno i riferimenti vagamente sludge del promo del 2003, trovano invece maggior ampliamento le componenti malinconiche e gothic, evidenziate dalla suadente voce di Vicky. Un compendio doom a base di Mourn, Cathedral, The 3rd And The Mortal e Solstice, nella migliore tradizione della scuola britannica insomma.Si parte subito forte con i sette minuti dell'iniziale "A close study", che si poggiano su un riff corposo e su ritmiche paralizzanti, rianimate solo da una interpretazione vocale da brividi e da un finale furioso. Così come accade per "Broken window", altro colosso doom dal taglio cupo e disperato, giostrato su un feeling sinistro ma pur sempre malizioso. Mentre "White library" in questo senso è ancora più aggressiva, ma quando il chorus si apre a incredibili variazioni melodiche c'è solo da sognare ad occhi aperti. Tutto funziona dunque, sia quando si aggredisce che quando si ipnotizza. Siamo già alla terza uscita e per i The River la qualità aumenta in maniera esponenziale. A questo punto l'esordio vero e proprio è solo questione di momenti. Almeno così riteniamo opportuno e auguriamo loro. Alessandro Zoppo
RIVER, THE – Oneiric dirges in mono
La grande schiera del doom britannico sembra trovare ogni giorno nuovi adepti, The River sono senza dubbio tra questi. “Oneiric dirges in mono” è un promo abbastanza vecchio (risale ormai a due anni fa, ma il nuovo lavoro della band è in fase d’uscita proprio in questi giorni), nonostante ciò ci offre l’immagine di un gruppo compatto e completamente a suo agio nell’elaborare un sound diretto e complesso.Le basi doom sono infatti imbastardite da accenni sludge e in line up spicca la scelta di affidare le vocals alla bella Vicky, che con i suoi toni dona un certo flavour romantico alle composizioni. “Opaque”, primo pezzo, lo dimostra in pieno: parte come una marcia funebre dai sapori sludge, ma quando entra in campo la voce si passa ad un doom più classico, di maniera, a tratti gotico, sporcato dalla scarsa qualità della registrazione ma impreziosito dagli intrecci di piano e chitarre che creano un sensuale vortice, oscuro e suadente. In “Amber” invece il riferimento principale sono i Mourn, soprattutto per la vocals di Vicky che ricordano molto quelle di Caroline Wilson. Quanto al resto, i riff qui si fanno spessi e corposi, la melodia si insinua senza lasciare scampo e crea un’ondata emotiva davvero forte. Bravi The River, sono una promessa da tenere sott’occhio per l’immediato futuro. Attendiamo con ansia il nuovo lavoro. Doom on! Alessandro Zoppo
ROADKILL SODA – Oven Sun
Arriviamo colpevolmente tardi alla scoperta dei Roadkill Soda, band proveniente dalla Romania. "Oven Sun" rappresenta l'album di debutto per il quartetto di Bucarest, che segue l'EP amatoriale "A Fucked Up Trip Gone Bad". Il disco contiene 10 canzoni per 35 minuti di stoner rock dal sapore grunge. Dalla Romania passando per il deserto californiano dunque, giungendo fino a Seattle, questo lavoro odora di anni '90, ma a tratti l'odore diventa un po' stantio. Il lavoro delle chitarre è degno di nota, con riff potenti e diretti, la voce di Sebastian Stancu è corposa anche se troppo legata agli illustri frontman del grunge, Chris Cornell e Laney Staley su tutti, non assomigliando a nessuno dei due ma allo stesso tempo pagando dazio ad entrambi. La scuola Kyuss/Hermano/Unida incontra quella di Soundgarden/Alice In Chains/Pearl Jam, e la fusione migliore di queste due anime viene fuori nella titletrack, dall'incedere fiero e psichedelico. Nessun altro brano del disco riesce a raggiungere questi livelli, anche se non mancano tracce spassosamente rock come "The Blame Is Mine", "Rocket Rodeo" e in particolare "Can't Take Control", in cui troviamo degli ottimi cori sleaze. Si intravedono buone cose nel futuro di questi ragazzi, dovranno solo imparare a sfuttare al meglio tutto il potenziale. La strada è quella giusta. Davide Straccione
RODEO DRIVE – Morbid Beauty
Aspettavo da tempo l'occasione per poter parlare dei Rodeo Drive. La formazione berlinese che ho incontrato quasi esattamente un anno fa (il mio primo articolo dalla Germania, la mia prima intervista per Perkele) un paio di mesi fa ha finalmente pubblicato la sua prima uscita ufficiale. L'album si chiama "Morbid Beauty" ed è composto da 8 tracce. Sapevo che i ragazzi non avrebbero deluso le mie aspettative e sono proprio contenta di poter condividere il mio parere adesso che tutti possono rendersi conto di ciò di cui parlo. La proposta sonora spazia dal blues al jazz – la batteria è un caposaldo ideale di questo disco, sempre pronta a lanciare input che non sono scontati, complimenti – passando per un crocevia heavy e psichedelico. I richiami alle atmosfere lisergiche sono forti, così come la cadenza vintage (che abbraccia due o tre decadi) delle stonature e delle distorsioni. I tre componenti dei Rodeo Drive hanno fatto tutto ciò che dovevano per meritarsi una promozione completa (per quanto il mio parere possa valere) di questa prima uscita. Non sto osannando senza ragion di causa: "Morbid Beauty" non è di certo un disco perfetto. La voce a volte sembra affaticata, la chitarra è sporca (grazie a Odino), l'artwork non mi piace. "Morbid Beauty" però ha qualcosa che manca a molte produzioni contemporanee: in questo album ci sono delle idee. Dietro al mero ascolto di ogni brano, si percepisce chiaramente l'idea: un lavoro creativo che – indipendentemente dalla sua durata dello sforzo – riesce a trasmettere il valore del contenuto. In fede, S.H. Palmer
ROSÀRIO – Vyscera
I Rosàrio giungono al loro debutto discografico sotto la giovane label In the Bottle Records. La line-up made in veneto (Montagnana, PD), composta da Alessandro Magro (voce), Nicola Pinotti (chitarra), Fabio Leggiero (basso) e Stefano De Battisti (batteria), ha dato vita a questo primo album con una velocità sorprendente, giacché a stento raggiunge un anno d'attività. Pertanto, "Vyscera" non può che essere un disco diretto, realizzato di getto: le sette tracce, registrate in presa diretta presso le Officine Bahnhof di Padova, non raggiungono i trenta minuti di musica totali. "Dome", inquadrando subito il carattere denso e senza fronzoli di una parte del sound dei Rosàrio, suona la carica e conduce verso la successiva "Road to Polaris", altra faccia della medaglia più contorta e malata. "We Haunted", evidenziando i crediti verso una band come gli Alice In Chains, sfugge verso lo spartiacque strumentale "Natkamtara". La vena psichedelica qui prende il sopravvento, lasciando spazio all'estro della band che a briglia sciolta si esprime in maniera meno schematica. Nei due minuti e mezzo di "Caravan Kid" si schiaccia finalmente sull'acceleratore, scuotendo una scaletta fino ad ora non particolarmente ricca di cambi di marcia. Con "Callistemon" ci avviamo verso la fine: la traccia in questione ospita Riccardo Zulato, seconda chitarra e autore delle grafiche (realizzate a mano) firmate Cikas Lab. Altro ospite nella traccia di chiusura "Inner" è Carlo Stellin, il quale con il suono avvolgente del suo didgeridoo s'innesta nella intro psych di un brano strettamente legato ad atmosfere tipiche dei Tool. Insomma, la band veneta non si distingue certo per inventiva, realizzando un disco che deve tanto al sound di band come Kyuss, Alice In Chains e Tool. Nonostante tutto, proviamo a considerare "Vyscera" come uno 'sfogo' dettato, forse, dalla voglia di far esplodere la propria musica senza star lì a ragionare troppo su un possibile sviluppo personale. I Rosàrio dimostrano di saper suonare uno stoner rock aggressivo, che qualche anno fa sarebbe stato apprezzato su qualsiasi latitudine terrestre, ma oggi tutto ciò non basta. Memento audere semper! (G.D.) Enrico Caselli
ROSETTA – The Galilean Satellites
Progetto imponente, distribuito su doppio CD in formato digipack per un totale di quasi 2 ore di musica. I pezzi sono solo una decina, molto diluiti e sovente superano i dieci minuti. In queste lunghe composizioni i Rosetta vanno ad elaborare quello che sembra essere un concept su un uomo spaziale, dove vortici cosmici e vocals inquietanti vanno a braccetto trascinando l'ascoltatore nell'odissea architettata dal gruppo. I riferimenti stilistici proposti corrispondono a band come Isis o Neurosis e questo può già darvi la dimensione del sound di questo disco: nel primo CD i pezzi, che partono sempre da atmosfere alquanto rarefatte, si fanno spesso più aggressivi nel momento in cui vengono innalzati muri sonori fatti di chitarre e urla apocalittiche, mentre nel secondo disco le atmosfere sembrano più tranquille (ma non per questo meno angoscianti) e vicine a quello che può essere definito space/ambient.Lavoro molto ben realizzato sotto molti punti di vista, questo The Galilean Satellites ha la (prevedibile) pecca di diventare un po' noioso alle orecchie dei meno avvezzi a certi suoni, soprattutto per il fatto che le composizioni tendono ad assomigliarsi parecchio; forse di fronte ad un progetto tanto imponente quanto pretenzioso non si poteva chiedere molto di più, ma vi consiglio qualche ascolto prima di imbarcarvi nell'acquisto dell'opera dei Rosetta. The Bokal
Rotor – 2
Davvero un gran gruppo i Rotor. Tuttavia classificarli come semplice stoner rock band sarebbe un grosso errore. Certo, nel sound strumentale dei tre (Tim alla chitarra, Milan alla batteria, Marco al basso) sono evidenti i richiami ai numi tutelari del genere come Kyuss, Fatso Jetson e Karma To Burn, ma la ricchezza compositiva che già caratterizzava il loro esordio e che qui ritroviamo ancora più accentuata non è affatto da sottovalutare, anzi. Lo spettro sonoro che il trio tedesco affronta in “2” è talmente vasto da non porre limiti di stile a tale caleidoscopio. Rispetto al debutto ciò che si nota subito è la novità di due brani cantati. Si tratta dello stoner roccioso dell’iniziale “On the Run” e della psichedelia heavy dai sapori esotici di “Erdlicht”, con testi in persiano (!). A prestare la propria voce a queste tracce l’ottimo singer Behrang Atavi. Spezie orientali insomma, che arricchiscono il piatto offerto dai Rotor anche altrove, nelle splendide divagazioni della magica “Kraftfeld”. Ma non ci sono soltanto sguardi rivolti ad est. In “2” resta forte l’heavy psych, il groove assassino che poggia su costruzione ardite, decisamente jazzate e progressive, nel senso più ampio del termine (“Auf fer lauer”, “Hellway” e la sua intro acustica “Zeitstau”). Permane la chiara vera psichedelica, quella vibrazione lisergica che rende “Supernovo” e “Ruhig Blut” dei veri e propri trip da assaporare ad occhi chiusi, in un mondo onirico e surreale come quello raffigurato nella copertina del disco. Volano alto i Rotor, salire sul loro tappeto alato è un’esperienza da assaporare assolutamente. https://www.youtube.com/watch?v=o94Fx10KBPM Alessandro Zoppo
Rotor – 3
Prosegue a pieno ritmo l'esplorazione interplanetaria dei Rotor, magico power trio di Berlino che si è rivelato nel 2001 con un sorprendente disco d'esordio e passando per '2' (fino ad ora il miglior esito della loro produzione) giunge a '3', fatidica prova del terzo album. Se il secondo lavoro esplorava sentieri interessanti (l'esperimento di due tracce con voce, gli influssi orientali che permeavano il solito tessuto compositivo della band), questa nuova uscita ritorna ai lidi 'classici' del debutto. Un heavy rock influenzato certo dallo stoner (non solo Karma To Burn e 35007 per via della natura strumentale, anche Kyuss, Colour Haze e Fatso Jetson), imbevuto dello spirito libertario e creativo dei '70s, tra labirinti kraut rock e tentazioni progressive. Un flusso infinito di varianti che spiazza ai primi ascolti e ammalia non appena se ne penetra la spessa coltre. D'altronde bastano lo stoner duro e stratificato di "Auf's Maul?" e "Kaltstart" per farsi convincere. Oppure le derive hard psych delle bellissime "Klar Schiff" e "Transporter", brani free rock da pelle d'oca. "Hart Am Wind" parte invece con un giro acustico per poi sciogliersi nei meandri di un heavy jazz da infarto. È su questi ritmi che il gruppo si esprime al meglio, in questi territori di confine dove generi e definizioni si (con)fondono. Come nella title track (pioggia acida che fa girare la testa) o in "Umkehrschub", dove si fa notare la presenza di spicco degli amici Hypnos 69. La varietà del secondo disco si è persa. Poco importa, i Rotor si confermano una creatura tentacolare che rapisce i sensi con una musica senza tempo. https://www.youtube.com/watch?v=9IlkydYIHOI Alessandro Zoppo
RUDHEN – Imago Octopus
Cinque pezzi di rude rock'n'roll fangoso e stonato per venti minuti circa. Si parla di Imago Octopus, secondo EP dei Rudhen, provenienti da Crespano del Grappa, zona di sconvolgimento ad alto tasso alcolico. Sarà la produzione lercia o sarà che nottetempo hanno fatto un maleficio, ma il cantante Alessandro Groppo è riuscito a rubare l'ugola al vetriolo di Cronos dei Venom. A questo si aggiunga un aspetto in pieno stile Time Travelling Blues e sarete vicini a capire la quintessenza della band: fast and furious, ma non come quelle checche del film, piuttosto come un'accolita di biker strafatti. Prendiamo i Satan's Satyrs di oggi e mettiamoci al posto di Jus Oborn l'ubriacone del bar di paese; al posto degli Stooges mettiamoci i Black Sabbath e al posto della Virginia piazziamoci l'Italia: avrete il quadro della situazione in alta definizione. Inutile citare i pezzi ed altre influenze di quella o quell'altra band: Imago Octopus è un chupito da ingollare tutto di un fiato. Salute!   Eugenio Di Giacomantonio  
Rudhen – Di(o)scuro
Tirano in ballo il mito di Castore e Polluce (eroi gemelli concepiti nella stessa sera da Leda, prima con Zeus – dall’unione Polluce l’immortale – dopo con Tindaro – il mortale Castore) i trevigiani Rudhen. Con Di(o)scuro i quattro si ripropongono dopo due EP, il primo omonimo e Imago Octopus del 2016. Nome omen, il gruppo è rude e arcigno come ce lo ricordavamo. Macinano riff robusti e schiacciasassi all'insegna del buon vecchio stoner rock. La voce di Alessandro è tesa alla ricerca dell’ululato del coyote John Garcia e il resto della band lo sostiene egregiamente con un sound robusto e carico. Nonostante tutto, il risultato sembra epico, fragile e disperato allo stesso tempo (prendere Fragile Moon ad esempio), segno che in un genere definito come lo stoner possono coesistere altri linguaggi. Devono essere innamorati della storia, dato che citano la presa della Bastiglia nel pezzo 14/07/1789 (dove nel finale una spiazzante marcia di pianoforte, archi e tamburi offre una buona occasione per ribadire che libertà, uguaglianza e fraternità devono essere i segni distintivi della condizione umana) e Carthago delenda est, anche se poi un titolo come My Girls Are Like Hallucinogenic Frogs merita da solo il prezzo del biglietto. Amanti di Roachpowder, Acrimony, Iron Monkey, Karma to Burn, qui c’è un disco che fa per voi. https://youtu.be/MdD9f5cObzY Eugenio Di Giacomantonio  
RUMPELSTILTSKIN / JUMBO’S KILLCRANE – Split 7”
Il sottotitolo di questa nuova uscita in casa Red Candle Records è “Philly thrash meets Kansas sludge”. Intuizione azzeccata visto quanto fatto ascoltare dalle due band che in questo 7” (edizione limitata a 500 copie, dunque chi è interessato si affretti…) si affrontano a colpi di estremismi sonori. Dal pacifico match escono senza dubbio vincitori i Jumbo’s Killcrane mentre per gli impronunciabili Rumpelstiltskin resta la seconda piazza (che in una competizione a due non è granché…) e una certa ammirazione per la loro simpatia. Ma andiamo con ordine. La prima facciata la occupano i suddetti Rumpelstiltskin, band di Philadelphia che vede nella sue fila ex membri di Divine Rapture e Evil Divine e che si dedica ad una forma molto estrema di thrash metal. Il loro sguardo non è però rivolto alla Bay Area bensì alle glaciali lande scandinave, ecco quindi spiegati i continui inserti death (specie nella voce e nelle ritmiche secche e tritaossa) e una certa freddezza d’esecuzione. Il brano proposto, “Equipment crusher”, non brilla certo per originalità: chitarre affilate, vocalizzi da convulsione, basso e batteria a velocità supersonica, tutto nei canoni del genere insomma. Se in più ci si mette una produzione che in parte rovina la festa, i Rumpelstiltskin guadagnano a stento una striminzita sufficienza. Alla fine carini ma assolutamente da migliorare in futuro. Ben altro spessore hanno invece i Jumbo’s Killcrane. La loro “Brown slight return” è una lezione sludge doom da impartire alle future generazioni: inizio lento e sepolcrale, un paio di break dal sapore epico, riff convulsivi, vocals strazianti e una struttura ritmica complessa, quasi progressiva, che sembra lanciare il pezzo oltre ogni confine ma in realtà lo fa contrarre su se stesso come un animale ferito… Grande band i Jumbo’s Killcrane, si consiglia dunque l’ascolto del loro ep “Carnaval de carne”: se le premesse sono queste ne vedrete delle belle! Alessandro Zoppo
RWAKE – Rest
Rwake, sestetto dell'Arkansas con già tre album all'attivo, ritornano per raccontarci nuovamente che non esiste destino al di là della nevrosi. Chi ancora non ha dimestichezza con la band, sappia che siamo di fronte ad uno dei migliori esempi di come la materia sludge doom possa essere sottoposta a trattamenti post rock psichedelici al pari di gruppi quali Minsk e i sottovalutati Lesbian. "Rest", quarto parto del gruppo, non fa che confermare la regola ed è ancora una volta opera della Relapse occuparsi di questa uscita che consta di quattro lunghissimi brani (più due brevi intermezzi) per una durata di oltre cinquanta minuti di musica. In cabina di regia l'immancabile Sanford Parker.Dopo l'introduzione "Soul of the Sky", un bozzetto bucolico accompagnato da una soave voce femminile, ci si inoltra nella sconvolgente "It Was Beautiful But Now It's Sour", brano che spalanca le porte dell'inferno. All'inizio pare di sentire una versione deformata dei Pink Floyd che si appropria via via di elementi mastodoniani della prima ora. Quasi dodici minuti di un'intensità emotiva incredibile tra cambi di tempo, accelerazioni improvvise ed un cantato delirante. Il quadro non cambia con la successiva "An Invisibile Thread", che anzi risulta il brano più raggelante dell'intera opera. Qui ci si avvicina davvero ai già citati Lesbian: la furia death core viene in parte mitigata da inusuali partiture progressive. Chissà, se i King Crimson fossero nati quarant'anni più tardi forse avrebbero suonato proprio così. Completano l'album due brani come "The Culling" e "Was Only a Dream" dove sperimentazione e violenza metal core si intersecano in un connubio vincente. Significativo anche l'artwork che raffigura un albero spoglio sotto un sole cocente come a rappresentare il clima di desolazione, tristezza e impotenza che si respira un po' ovunque nei solchi di questo lavoro. Rwake, ovvero sofferenza, inquietudine, sconforto, smarrimento. In una parola: esemplari. Cristiano Roversi

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