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J.C. CINEL – Before My Eyes
È un album sorprendente l'esordio solista di J.C. Cinel, noto soprattutto per essere il cantante dei piacentini Wicked Minds, uno dei migliori gruppi italiani attualmente in circolazione (è sempre bene ribadirlo). Sorprende questo 'Before my eyes' perché ci si aspetterebbe qualcosa in linea con il sound della band madre (hard rock in bilico tra progressive e psichedelia), invece J.C. si abbevera alla fonte del grande rock americano, quello che parte da Bob Dylan e arriva a John Mellencamp, passando per CSN, Neil Young, Allman Brothers, Tom Petty, Eagles, Bruce Springsteen, Firefall e America. Sonorità che fanno sognare, inni alla libertà e allo spirito selvaggio, quelli che il country, il southern rock, il blues, il folk e le sonorità West Coast ci hanno insegnato ad amare.Un disco emozionante e passionale, per altro scritto e registrato in modo davvero accurato (la produzione è opera di Alberto Callegari, effettuata agli studi Elfo), con arrangiamenti da far invidia a qualsiasi uscita rock europea o statunitense. Dodici brani che spaziano dal ribollente rock confederato al rock'n'roll delle radici ("Feel the moment", "Brush my cymbals" - armonica che emoziona come non mai per la migliore canzone del lotto -, "What I see"), passando per episodi acustici (toccante "Dear old friend", "Taking chances") e improvvise impennate melodiche (la title track, "Alone in the dark"). Spicca anche un momento particolare tra jazz, soul e prog come "Sweet dream", segno di una voglia di osare e della capacità di suonare qualsiasi cosa, perché dietro c'è intelligenza, sensibilità e una band davvero valida. Se J.C. si divide tra voce, chitarre e armonica, lo accompagnano in questo viaggio coast to coast Davide Dabusti (chitarra, piano Rhodes), Marcello Minari (chitarra), Luca Balocco (basso), Marco Aimi (batteria), Paolo 'Apollo' Negri (hammond, moog, piano) e una serie di amici ed ospiti. Un senso familiare di comunità, emozioni che sgorgano vive in punta di chitarra. Questo è 'Before my eyes' e questo è J.C. Cinel: un rocker di gran classe. Alessandro Zoppo
J.C. CINEL – The Light of a New Sun
È mosso da un'ispirazione davvero genuina J.C. Cinel, meglio conosciuto come cantante dei Wicked Minds. Sembra un paradosso suonare country (hard) blues per un musicista proveniente da Piacenza. Eppure quel suono che attraversa le coste statunitensi da Est a Ovest respira possente nelle undici tracce di "The Light of a New Sun", secondo lavoro solista a quattro anni di distanza dal precedente "Before My Eyes". Nel mondo di J.C. rivivono le note vibranti di John Mellencamp e Donnie e Johnny Van Zant, il rock polveroso di Tom Petty e Southside Johnny, le delicatezze degli Eagles e dei Firefall. Non è un caso che in quattro brani compaia il tocco magico dell'Hammond di Johnny Neel, per chi non lo sapesse storico collaboratore di Allman Brothers, Gov't Mule, Dickey Betts, John Mayall e David Allan Coe (per citare i più noti).J.C. si divide tra vocals (come sempre, la sua voce è una carezza di velluto) e chitarre, mentre la band al seguito vede impegnati numerosi musicisti come Andrea Barbieri, Luca Balocco, Federico Delfini, Dario Guarino, Alex Carreri, Gianni Grecchi e Alberto Callegari. L'album scorre fluido e avventuroso, un viaggio che attraversa intensamente il rock'n'roll delle radici. Potremmo dire dalle "Nashville Nights" al "California Sunset". E sarebbe comunque riduttivo. Un brano come "Wheels of Time" azzecca il groove e la melodia giusti per entrare in testa sin dal primo ascolto; effetto provocato anche dalla torrida "White Soldier", sentori che fanno da contraltare alla malinconica soavità della bellissima title track e della delicata "Islands". "Sweet and Wild" è blues da bar fumoso, la metà oscura della commovente "Fallen Angel" e di "A Place in the Sun", congedo acustico ad un percorso che ha visto scorrere dinanzi ai nostri occhi tramonti mozzafiato e orizzonti sconfinati. Se il mondo di oggi fosse giusto, "The Light of a New Sun" sarebbe nei primi posti delle charts a stelle e strisce. E J.C. continuamente on stage in giro per gli States. La realtà dice che Germania, Olanda e Belgio sono le prime tappe del suo prossimo tour. In Italia quando ci si accorgerà del suo talento? Alessandro Zoppo
JACULA – Pre Viam
"Pre Viam" (oltre ad essere l'anagramma di Vampire) tradotto dal latino significa "Prima del cammino, del sentiero". "Pre Viam" è il nuovo album (a distanza di ben 42 anni dall'embrionale "In Cauda Semper Stat Venenum", 1969) di Jacula, il gruppo dark mistico esoterico per eccellenza della storia del nostro pianeta. "Pre Viam" è un disco il cui messaggio è bilaterale, un'opera che mette l'ascoltatore nelle condizioni di dover effettuare una scelta: da un lato appare come un ammonimento, un avvertimento a non cercare di intraprendere un cammino mistico se non si è totalmente convinti del passo che si sta per compiere; dall'altro si presenta invece come l'ideale colonna sonora per chi ha deciso di intraprendere questa filosofia di vita. Chi opterà per la prima soluzione godrà musicalmente di un disco che unisce immensa sacralità e infinita malinconia alla perfezione modale. Chi sceglierà invece la seconda opzione ne godrà anche spiritualmente, e adorerà in eterno questo lavoro, cibandosene quotidianamente come l'aria che respira.L'annunciato ed attesissimo brano costruito sulla vera storia di una ragazza posseduta (Sandra B., suicidatasi nel dicembre 2010) c'è, ed è posto alla fine, come a monito per chi volesse intraprendere sentieri pericolosi senza averne la piena convinzione, e non prestando la giusta attenzione e coraggio. Il suono, anche nelle sue porzioni più hard, è volutamente meno duro e graffiante rispetto all'Antonius Rex sound, e il recitato di Bartoccetti (che era ritornato su "Per Viam") è assente, sostituito dal canto di due voci femminili, la dolce Katia Stazio e la misteriosa Blacklady. Ad aprire l'album, introdotta da demoniache voci soprannaturali è "Jacula is Back", poggiante inizialmente su un ambient oscuro e sacrale al tempo stesso, con l'organo e le chitarre acustiche che entrano contemporaneamente nell'economia del brano. La chitarra iperprogressive si rende poi protagonista fra toni soft alternati ad altri hard, mentre l'organo e l'ingresso di un coro sacrale danno un tono monastico al tutto. "Pre Viam" si apre su rintocchi acustici e synth maestosamente oscuri e la sua melodia portante viene più volte accompagnata da un organo divino, mentre la delicata voce di Katia Stazio ripete "Oh sir, it can't be"; il cantato si fa poi ansimante e il brano va spegnendosi su archi terrificanti , ma successivamente un pianoforte che suona lontanissimo ne riprende la melodia in chiave ancora più tenebrosa. Narrata dalla particolare quanto affascinante voce dell'enigmatica Blacklady arriva "Blacklady Kiss", una triste suite dall'alto alone mistico dove la chitarra produce cascate di riff malinconici accompagnata da un moog dal suono intensamente nostalgico. La seguente "Deviens Folle" (incantevole la voce di Katia) ne prosegue lo stato umorale; la luce del suo start acustico lascia presto spazio al buio totale, con il pianoforte e la chitarra acustica che recitano un ruolo primario creando un'atmosfera di tenebrosa attesa e lasciando poi spazio ad una desolante melodia orchestrale. "In Rain" alterna una prima porzione simil liturgica (che mette in evidenza il lavoro dell'organo, del moog e un divino coro gregoriano) ad una seconda hard dove la chitarra di Antonio si produce in torrenziali e magnetici assoli (un perfetto quadro sonoro della microsceneggiatura dalla quale è nato il brano). "Godwitch" è un brano in crescendo aperto da una intro di pioggia cui subentra una sofferta melodia dove pianoforte, moog, chitarre acustiche e cori monastici costruiscono una canzone dall'andamento ipnotico, quasi come fosse sospesa nel vuoto. Un pezzo shock. Un rito esorcistico apre invece "Possaction (Azione del possesso)", musicalmente basata su una splendida melodia d'organo. Un coro religioso è contrapposto alle urla disperate di Sandra B. (quasi il primo volesse cercare di coprire le forze del male) e il contrasto crea un effetto straniante. La voce della posseduta è un documento vero. Un album che si chiude quindi nel nero più abissale e assoluto, una gemma partorita da un artista che da anni vive a stretta affinità elettiva con il mistero non temendolo, ma anzi percependone e assaporandone i lati positivi, traendone vantaggio per l'ispirazione e la realizzazione di opere come questa. Jacula is back... per rimanere in eterno. Amen. Marco Cavallini
JAG – Demo
Ho ricevuto il package degli Jag, composto da un CD contenente alcune foto e un accurato reportage del loro tour californiano datato 2005 e da una trasposizione su policarbonato della loro essenza musicale basata sulla estemporaneità dei loro concerti live. Oltre che vincitori e finalisti di alcuni concorsi distribuiti tra Paesi Bassi e Germania, sono instancabili presenziatori di eventi live e radiofonici in Austria e Lussemburgo. Fondato nel 2003, il nucleo originale è composto da un vegano trio spagnolo italo-polacco, che annovera tra le varie influenze esponenti di extreme music come Napalm Death e Carcass da una parte e eterogenee radici tratte da Doors, Simon and Garfunkel, Beatles, Sonic Youth e Nirvana, per citarne alcune.Il lavoro è frastagliato, e incorpora svariate influenze tra cui punk-pop, folk e heavy rock ma soprattutto si muove mediamente su ritmi sostenuti. Si parte con "Revolutione", di chiara matrice ledzeppeliana e che li accosta ai conterranei Beaver, ma dotata di una accelerazione hardcoreggiante e voce urlata; "Rollercoaster" è una serrata ballata folkeggiante alla Violent Femmes, con delle sliding guitars in bella mostra, che aumenta di intensità per concludersi con una sfuriata vocale, ma cantata attraverso un megafono! in "Addicted to you" troviamo una struttura heavy pshic rock sul quale aleggia un non so che di new wave, merito di alcuni leggeri rintocchi di chitarra alla Cure/Siouxsie, l'utilizzo della voce e interessanti innesti di tastiera. Di "Liver machine", che altro dire se non un trito pezzo di punk melodico di alto borgo? Beh, è davvero tutto. Date le credenziali con cui si sono presentati questi ragazzotti olandesi mi aspettavo di qualcosa di meglio. Insomma, tanta carne al fuoco, ma nessuna direzione precisa intrapresa. Cosa vogliono fare da grandi i JAG? Ah, i brani hanno una durata davvero breve, tutti sui 1,5 minuti, al massimo 2. Che siano dei samples? Gale La Gamma
JAGANNAH – Thedious
Tre simpatici buontemponi che si celano dietro i nomi di Peter Pitone (batteria), Scott Mary (chitarra, voce) e Friederich Katzenjammer (basso). Tuttavia ascoltando “Thedious” non c’è nulla di demenziale: il suono dei Jagannah è minaccioso, stratificato, buio, complesso. Per essere un esordio è un punto di partenza notevole. Considerando anche che non si tratta di una demo ma di un lavoro vero e proprio (40 minuti di durata). Gli otto brani del dischetto rivelano una band motivata e con le idee chiare, capace di mescolare le urgenze del post core (si pensa facilmente a certi Neurosis o alle ossessioni dei Tarantula Hawk) con la lentezza sudicia dello sludge doom (le devianze psicotiche di Yob e Grief).Ciò che al momento penalizza i tre è la registrazione: troppo piatta, non rende giustizia alla potenza del loro suono. Con maggiore esplosività una song come l’iniziale, ottima “Evil whale” sarebbe stata un macigno memorabile. A dimostrazione che comunque i brani ci sono e valgono: “Pripyat” si insinua subdola sotto pelle come uno spirito maligno, “Earth” è ciò che succederebbe se i Pelican iniziassero a prendere massicce dosi di lsd, “Soundsense” è una martellata che farebbe felici King Buzzo e Dale Crover. “Pyl” picchia ancora più forte con le sue inquietudini noise, mentre “Vaghina” e “Brisby the Rabid” vivono di folli pulsazioni jazz core di chiara matrice Naked City. Un altro punto a favore per questi abili manipolatori di suoni, che suggellano questa prova con “Pianura Padana”, oscuro trip psichedelico che rende l’Emilia il luogo in cui si materializza il Golem di Gustav Meyrink. I Jagannah sono l’ennesima sorpresa del panorama heavy nostrano. Corriamo nudi nella notte, il grido che ci unirà sarà ‘pyl!’. Alessandro Zoppo
JAKSZYK, FRIPP & COLLINS (A KING CRIMSON PROJEKCT) – A Scarcity of Miracles
Che il Re Cremisi non sia un gruppo musicale… Beh, questo ormai è appurato, e invero evidente. Esso è un entità, una forma musicale a se stante che prende vita non ogni 2 anni per presentarci un dischetto fatto alla meno peggio, ma solamente quando il mondo ne ha la reale ed impellente necessità. Ci delizia con dei tour mondiali e torna ad assopirsi, lasciandoci a sperare di poterlo rivedere e rivivere, in un futuro più o meno lontano, e non si sa sotto che forma, con quali personaggi e se suonando questo o quell'altro genere musicale. E chi lo segue da tanti anni e ci è entrato dentro, alla sua forma musicale, questo lo sa bene.Se il Re necessiterà di un anno o di dieci, questo lo sa solo il fato, e noi poveri sudditi lì ad attendere, riascoltandoci i vecchi (capo)lavori e i progetti solisti dei vari componenti che sempre più si accoppiano tra di loro (musicalmente parlando) che neanche nel bel mezzo di Salò o le 120 giornate di Sodoma. Poi la notizia, buttata lì sul sito della DGM, ormai vera e propria Stella Polare per gli appassionati del genere. Stavolta si rivoluziona sul serio, come da un po' di dischi non succedeva, e come è obbligatorio ogni decade, per affrontarne il tempo. C'è Jakko M. Jakszyk, l'unico (un po' più) sconosciuto alla massa, che porta comunque il suo bel curriculum fatto di parecchi anni di Level 42, 21th Century Schizoid Band e dischi solisti (e a non dire che anche questo era partito come tale, con gli altri a fare da ospiti di extra-lusso, mica poco). E porta soprattutto la sua splendida voce calda, potente, penetrante. In una sola parola: matura. C'è Mel Collins, sassofonista e flautista su in parecchi dei dischi imprescindibili della prima epoca KCrimsoniana, oltre che di decine di altri gruppo; un personaggio sempre molto caro per il gusto di affrontare brani che non si prestano di certo a sax e flauto, ma che chissà come, diventano strumenti di cui non puoi fare a meno. C'è Gavin Harrison, e la sicurezza di non aver potuto fare scelta migliore. Uno dei batteristi tecnicamente più dotati (e Steven Wilson non è mica un pirla!) oltre che di tecnica, sicuramente di gusto esecutivo, cosa che agli smanettoni dei giorni nostri spesso manca. Un drummer "moderno", distante anni luce da Mastellotto e la sua passione per la tecnologia e la sua allergia per il 4/4, ma imprescindibile. C'è Tony Levin, e non sprechiamo ulteriori parole (Anzi, spechiamone qualcuna, visto che fa una strana sensazione sentirlo suonare quasi sempre il basso e pochissimo lo stick, fatto raro ormai che venga identificato con il suo Chapman e non più col 4 corde). C'è, ovviamente, il Genio intorno a cui Tutto ruota. La chitarra di Fripp la riconosci dopo un istante, e si stenta a credere che abbia lasciato fare qualche nota a Jakko: soundscapes a valanga, chitarre acustiche, assoli così frippiani che più frippiani non si può e il suo curriculum di furberie. È un Leonardo dell'innovazione sperimentale, un Picasso della melodia, un Maradona della ricerca sonora; sono passati 40 anni ma sembra ieri.
Da cotanta grandezza risultava difficile capire cosa aspettarsi, e quello che esce fuori mescolando tutte queste teste pensanti è qualcosa di assolutamente inaspettato: non che si bramasse la durezza/freddezza chirurgica di "Power to Believe", sia chiaro, ma è indubbio che il primo ascolto spiazza e lascia qualcosa di incompleto. E questo, come ogni smaliziato fruitore di musica sa perfettamente, non può che essere un bene. Con gli ascolti si comincia a capire che l'esperienza unita agli anni dei singoli musicisti, è tutta racchiusa in queste 6 canzoni di lunga durata, senza sforare nell'autocompiacimento o nell'esasperazione dell'improvvisazione. L'atmosfera la fa da padrone, la melodia sovrasta la ritmica, l'arrangiamento vince sull'impatto. Voci doppiate, cori ogni treperdue, chitarre come le conosciamo che spesso scompaiono per fare posto ai sounscapes i più atmosferici e il sassofono e il clarinetto a rendere tutto più soft ma non meno intrigante. Inutile, in un disco omogeneo come questo, un track by track sterile e descrittivo; si dica solo che l'inizio è di quelli che sconcertano, con la title track che è una meraviglia di 7 minuti e passa che lascia senza fiato (con un cantato che non può non dare dipendenza fisica anche al musicofilo più navigato) e che la chiusura di "The Light of Day" è un nonsense musicale ostico anzichenò eppure imprescindibile nei suoi 9 minuti che quasi stentano a trascorrere. In mezzo c'è tutto ciò che 5 signori di 50 e 60 anni (a parte Harrison che si attesta sui 48) possono offrirci pescando dal loro bagaglio di esperienza finanche quarantennale e dal loro gusto innovativo; il tutto da ascoltare ripetutamente a convincersi che oggi, di sperimentatori che combinano il gusto con la tecnologia, la mamma non ne fa più. Si potrà chiamare con i loro cognomi, oppure Projekct (ad ampliare quei tanti che già ci furono donati) o come preferite: rimane sempre il nuovo disco dei King Crimson. E di questo, diciamo grazie. Claudio Scortichini
JAPANISCHE KAMPFHORSPIELE – Hardcore Aus Der Ersten Weit
Seguendo principalmente la scena stoner e psichedelica, non ho ancora capito perché sia giunto a me un Cd di questo tipo (al quale, ad essere onesto, non sono in grado di dare una valutazione), che credo possa essere catalogato come furioso e sconclusionato hardcore made in Germany.Il booklet, carino e ben curato, e farcito da un sacco di note (come anche tutti i testi) in tedesco per me intraducibili, mentre la bio allegata è fortunatamente in inglese e mi ha dato modo di capire che il gruppo teutonico ha già dato alle stampe un precedente lavoro. Riff metal-core a ritmi forsennati all'insegna di una cattiveria quanto mai selvaggia, voce growl/grind appena udibile, cambi di ritmo repentini e stacchi assurdi: praticamente tutto il necessaire per far contento il fan del hardcore più estremo. Di certo l'ascolto non è facile e ai fruitori di stoner e psichedelica può fare un pessimo effetto, ma va dato atto ai Japanische di essere alquanto precisi, tecnici e di affrontare la materia con profonda convinzione e (credo) maestria. A suo modo un bel album, ben prodotto, se non altro un'esperienza (!): sicuramente manna dal cielo per chi l'hardcore non solo lo mastica, ma lo divora 24 ore su 24! Bokal
JARAWA – Promo 2002
Strana storia quella dei romani Jarawa. Si formano agli inizi del 2000 su iniziativa di Michele, cantante e chitarrista già alle prese con altre esperienze nel panorama underground capitolino (Crunch, Mute), il quale raduna intorno a sé Massimo (batteria, ex Blueprint), Giordano (basso) e Gianluca (chitarra, anche lui ex Mute). Proprio poco prima della registrazione del demo Gianluca abbandona il gruppo e i restanti tre decidono di continuare senza alcun nuovo inserimento: la scelta si rivela vincente vista la compattezza e la validità dei sei brani proposti. Tuttavia la sfortuna non ha mai fine: quando le cose si mettono per il meglio (la band prende parte a svariati concerti e con l’interessamento di Rudy Medea viene contattata per un full lenght ufficiale dalla Vacation House/SoulCraft Recordings), a causa di strane quanto inspiegabili divergenze caratteriali, Massimo molla i Jarawa e lascia soli Michele e Giordano. Il demo del 2002 (registrato su un otto tracce digitale non senza qualche pecca, soprattutto nelle parti vocali) è la testimonianza di questa esistenza travagliata, un manifesto che lascia comunque presagire un futuro roseo. Il genere proposto è un misto di dirty rock, metal oscuro, stoner e Seattle sound, dove si possono percepire le influenze di Helmet, Kyuss, Tool, Melvins e Soundgarden. Sentimenti di rabbia ed ostilità animano le composizioni, giocate sulle chitarre aride e le vocals inacidite di Michele (coraggiosa la scelta di cantare in italiano…), sorretti dal wall of sound quadrato della sezione ritmica. Pezzi come l’iniziale “Prima kura” e “Venature” mostrano un’indole asfittica ed inquietante, sottolineata da tempi cadenzati e riff martellanti che suscitano emozioni tra la disperazione e il malessere. “Mantra (spring)” è la song più psichedelica del lotto, un flirt tra i Kyuss strafatti nel deserto e sottili venature tribali che danno un tocco magico al tutto. “La sola idea” mischia lo stoner con il noise e ciò che ne viene fuori è un trip ossessivo ma dal gran tiro, melodico ed eccitante quanto basta. Grinta da vendere è invece il nucleo di “Semi”, track furiosa e dai tratti isterici, ma indebolita in qualche punto dalle vocals, mentre la conclusiva “Ayama”, grazie anche ad un sapiente inserimento di piano, si congeda tra movenze gotiche e chitarre secche e taglienti. I Jarawa sono la dimostrazione che con volontà e passione si può arrivare ovunque. Michele e Giordano nonostante le intemperie (e con la Vacation House sempre in attesa…) stanno sondando il terreno per la ricerca di un nuovo drummer, ma non rinunciano alla propria creatività usando basi e campionamenti. Si preannuncia un ritorno imminente e nuove svolte sonore: che sia finalmente la volta buona? Alessandro Zoppo
JARBOE – MahaKali
Inserire Jarboe in uno stile definito non è possibile, dal momento che ha indossato ogni forma stilistica/maschera (con l'inizio di "13 Masks") in funzione di quella che era la crescita nel suo percorso esistenziale/spirituale. In modo analogo a quello di altri pochi artisti, dall'indole ed etica fortemente indipendente, che hanno costruito la propria carriera all'insegna di continue metamorfosi e passaggi tra i generi che più si prestavano alla loro visione, o espressione ideale del momento. La scelta di chiamare due ospiti come Attila Csihar e Phil Anselmo la dice lunga sulla natura di "MahaKali", immerso in oscure dottrine tantriche, dove vengono a confluire e sono rivisitati dalla personalità di Jarboe i suoni estremi che hanno ridisegnato e hanno portato verso lidi poco esplorati i canoni di "pesantezza", come doom, noise, drone.Retto da musicisti conoscitori della materia da trattare, al centro del quale si trova Jarboe, il disco si apre con una sbilenca litania solo per voce e percussioni nel suo stile, in cui imperfezioni come le stonature di voce e l'andare fuori tempo, in alcuni punti, non sono altro che segni di autenticità espressiva. Lo stessa tema continua brevemente in forma acustica su "And the Sky Which Once Was Filled with Light...", ma dopo questo i toni si addensano e il tribalismo che lo sostiene forma le basi per un pezzo dalle forti connotazioni noise, "The House of Void", in cui le distorsioni e i feedback saturano gli spazi mentre Jarboe è trasportata dal flusso, finendo in un cul-de-sac dove ad attenderla è la follia: al suo compimento, si rimane assolutamente ipnotizzati e tramortiti. La successiva "Transmogrification", introdotta morbosamente da una Jarboe-bambina alle prese con inconfessati segreti e da dolorosissime armonizzazioni che potrebbero rievocare le esalazioni dell'arcaico black metal norvegese (affogato qui nel noise), ha una spaventosa, pesantissima cadenza post-doom, memore dell'indelebile "Under the Surface" dei Neurosis di "Times of Grace" (non dimentichiamo lo splendido parto di entrambi in "Neurosis & Jarboe"): essa si intensifica sempre di più, fino alla conclusione dove viene raccolto tutto ciò che il suono, poco a poco, ha seminato e sviluppato nel corso della canzone. Ancora una volta Jarboe giunge alla liberazione attraverso la deriva nel delirio e il sacrificio personale (quest'ultimo era ciò che caratterizzava "Sacrificial Cake"), squarciando il velo e facendo tabula rasa di tutto ciò che è "Illusione Cosmica". L'interludio di "From Afar, Upon the Back of a Tiger" galoppa fieramente nel campo di battaglia per introdurre il primo guest, Attila Csihar - profeta della Morte Rossa (in Mayhem e sunn O))), tra i principali acts): sferzate di distorsione, le declamazioni di Csihar e l'organetto nello sfondo costituiscono il rituale di "The Soul Continues", in cui anche l'ombra di Jarboe rimbalza da un'Eone all'altro nella "Stanza del Fato". Nel mezzo di questa song e quella del prossimo ospite a nome Phil Anselmo, si trova uno spaventoso abisso drone intitolato "A Sea of Blood and Hollow Screaming", dove l'eco è quella dei sunn O))) i quali, probabilmente per questioni di analogia concettuale, hanno fatto propri gli archi che si agitano impazziti verso la fine del pezzo, ed hanno utilizzato una simile intuizione su "Aghartha" di "Monoliths and Dimensions". La sperimentazione che Jarboe ha messo in luce provoca un'effetto che fa gelare le vene. La sua esperienza in composizioni dallo stampo atmosferico la portarono, non a caso, a scrivere la soundtrack per l'horror game "The Path". "Overthrown" è un piccolo squarcio di miseria e desolazione umana, con Phil Anselmo a prestare le sue corde vocali ridotte all'osso dopo anni di abusi; nonostante ciò, il tempo gli ha dato una buonissima stagionatura, che rende la sua prova davvero sincera, autentica: è quindi naturale che il pezzo abbia un'influsso squisitamente del Sud, dove Jarboe stessa è di New Orleans. Le restanti tracce ruotano ancora sulle personalità multiple di Jarboe, con "Ascend" ripresa in forma elettrica dalla bonus track "We Are the Prophecy" di "13 Masks", e "Overthrown" ricostituita con una pseudo sezione ritmica e bizarre vocals (Jarboe goliardica). Chiudono il disco due esperimenti ambient come "Kali Lamentation III" e "Violence": il primo è un'oscurissima e poco rassicurante bolgia di rumori "umani" provenienti da un'epoca molto distante e turbolenta; il secondo è rumori acuti simili a grida che saturano i cieli. Tra i fattori che fanno amare questo lavoro ci sono sicuramente i suoni, la sezione ritmica in particolare: l'amalgama è intenso, sulfureo e viscerale (c'è da chiedersi quanta erba magica si sia appoggiata Jarboe e il gruppo per la formazione del disco). Il temporaneo cambiamento di pelle avvenuto in questa tappa, ispirato da "MahaKali", o Grande Kali dell'Induismo (potenza divina della pura creazione, simboleggiata dal fuoco, e che presuppone la distruzione come condizione necessaria) ricorda quello della "serpenta" Diamanda Galas. Jarboe è quanto mai vicina a lei in questo capitolo, dove le trasformazioni vocali si prestano a ritrarre un subconscio che si dimena incessantemente, esiliato nelle zone remote dell'animo. ...Abbandonata alla disperazione, è una Medea che si circonda col fuoco della collera divina e trova in esso l'unica salvazione restante dalla fatalità delle esperienze umane. Paolo "Neon Born"
JECANO – Monument III
Tra le varie proposte stoner rock che giungono da tutto il mondo l’Inghilterra è uno dei pochi paesi che rimane tra le seconde linee, fatta ovviamente eccezione per gruppi già affermati come Cathedral e Hangnail. A smentire quanto detto ci pensano però i Jecano, trio proveniente da Berkshire e che in questo lavoro di tre pezzi ci offre un ottimo fuzz rock elaborato e complesso. La durata dei pezzi è molto lunga (in media quasi otto minuti) e mette in evidenza l’ottima vena compositiva di Dan Danby (batteria), John Beyer (basso) e Arthur Ivers (chitarra e voce). I punti di riferimento per la band sono Fu Manchu e Atomic Bitchwax su tutti, ma la personalità a questi tre ragazzi non manca affatto. L’iniziale “Tyrewall” corre all’impazzata su sentieri heavy rock selvaggi e rabbiosi, con la voce di Arthur roca e sporcata a dovere, giusto mezzo per creare un impasto devastante con i riverberi della chitarra (davvero mastodontici nello stacco centrale) e le mazzate della sezione ritmica, prima del finale accelerato fino all’inverosimile. “Hilltop hanging” prosegue lo stesso discorso con riff vulcanici che sembrano uscire dall’ascia di Ed Mundell, ma si arricchisce di momenti più tirati al limite del metal e del thrash, senza mai dimenticare però una componente fondamentale, il groove. A conclusione del dischetto troviamo infine “The hive”: wah-wah caldi e avvolgenti, drumming ossessivo, basso pulsante, vocals modulate su frequenze melodiche e cambi di tempo spiazzanti compongono questo mosaico trascinante e coinvolgente. Validi strumentisti, discreti compositori, grandi dispensatori di groove, tutto questo sono i Jecano, una promessa destinata a crescere ed affermarsi in un panorama non molto ricco come quello britannico. Se continueranno su questa strada, magari inserendo qualche momento più dilatato e psichedelico, ne vedremo di sicuro delle belle… Alessandro Zoppo
Jesu – Conqueror
Una volta Justin Broadrik decantava in modo distruttivo le rovine dell’umanità e del suo sviluppo industriale/tecnologico; oggi sembra che il nostro voglia invece dirci che esiste un lato positivo nell’affrontare le negatività che la vita porta con sé. “Conqueror” è il nuovo capitolo dei Jesu (il secondo full lenght, per l’esattezza) e raggiunge ciò che il precedente EP “Silver” aveva lasciato intendere: la purificazione dell’animo di Justin. La sua musica oggi è drammatica, ma positiva; malinconica, ma non triste; appare un controsenso ma è la pura verità. Le scorie industriali dell’era Godflesh hanno lasciato il posto ad un suono ipnotico, catartico, dall’andamento lento, quasi statico. “Conqueror” non stordisce i sensi, al contrario li accarezza, vi entra delicatamente per poi non lasciarli più. Una sorta di heavy post rock, dove anche la voce sembra recitare più che cantare, dove tutto si muove in modo lento e pacato. Gli otto brani vanno a formare un unico blocco denso di emozioni, dove svettano la lunga “Weightless & Horizontal” e, soprattutto, lo splendido brano shoegazing “Mother Earth”, una canzone che parte come una ballata rarefatta lasciandosi poi avvolgere da un’ipnotica e delicata pesantezza. Ogni definizione stilistica sarebbe limitante per questo album, e non darebbe la giusta dimensione di quanto creato da Justin; risulta impossibile far rientrare “Conqueror” in un unico contesto musicale. Una parola per descriverlo comunque c’è: ARTE. https://www.youtube.com/watch?v=hP33bWs163I

Marco Cavallini

Jesu – Jesu / Silver
La copertina e il libretto interno con le loro immagini opache e desolate predispongono già bene all’ascolto. Jesu è il nuovo progetto formato da Justin Broadrick all’indomani dello scioglimento dei Godflesh e questo debutto omonimo giunge per rincuorare i fan rimasti orfani della seminale band inglese, ma non solo loro. Jesu ripartono dove terminava “Hymns”, ultimo capolavoro dei Godflesh, e ne amplificano la lentezza e maestosità, arrivando a confezionare un’opera che, dice bene l’adesivo posto in copertina, può definirsi visionaria. Doom, industrial e psichedelia si fondono come cemento in un calderone che avanza col passo e la leggerezza di un elefante e questo disco (otto brani per oltre 74 minuti di musica, hai detto niente!) potrà risultare un mattone indigeribile per più di un ascoltatore. Poche sono le concessioni alla melodia e fra esse spicca “We All Faulter”, una dolce nenia industriale-psichedelica che regala emozioni ad ogni nuovo ascolto. Il caratteristico muro sonoro dei Godflesh troneggia nelle slabbrate “Friends Are Evil” e “Sun Day” e la mazzata finale arriva con la conclusiva “Guardian Angel”, degno epilogo di un disco nel quale lentezza e pesantezza viaggiano a braccetto come inseparabili. Per certi versi Jesu suona come una versione industriale della scuola Sleep/Electric Wizard e potrebbe suscitare anche l’interesse degli appassionati del suono depressive, data l’opprimente sensazione di disagio che aleggia per tutto il disco. “Jesu” non è un lavoro facile, ma se riuscirete ad entrarci dentro difficilmente vorrete poi uscirne. Un disco per gli ascoltatori che amano osare e sfidarsi con sonorità “difficili” e non vogliono portarsi a casa l’ennesimo cd costruito a tavolino e fatto con lo stampo. A questo ci pensa la scena power metal, giusto? Lo stesso vale per “Silver”. L’iniziale title track è una piacevolissima sorpresa, un condensato di emozioni, l’ennesimo gioiello partorito dalla mente di Justin Broadrik. “Silver” e “Wolves” (che ricalca lo stile della prima, sembrandone in pratica una versione dilatata) aprono nuovi orizzonti nella musica di Jesu, ampliando gli impercettibili segnali presenti nel debutto omonimo. In queste due canzoni, Jesu abbraccia completamente lo stile shoegazing e le sue caratteristiche: ritmi cadenzati/ipnotici, voce sommersa dal muro chitarristico e synths che ammantano il tutto in un’aurea dal forte umore malinconico. Sembra di ascoltare gli Slowdive suonare industrial doom, e i risultati raggiunti sono semplicemente strabilianti. In “Star” i ritmi si fanno invece più frenetici e la lezione dei Godflesh si fa sentire pesantemente, quasi Justin dovesse pagare un pegno col proprio precedente artistico (ma ormai lo spirito originario è quasi svanito). È come se il nostro volesse liberarsi dei fantasmi del passato ma non vi sia ancora del tutto riuscito. La strada intrapresa da Justin è comunque coraggiosa e, visti i risultati, in discesa; col prossimo full lenght è lecito quindi attendersi un capolavoro. https://www.youtube.com/watch?v=OajN3rbgy5o

Marco Cavallini

Jesu – Lifeline
Un EP. Un mini album che nei suoi 23 minuti dice molto di più rispetto ad album dalla durata considerevole ma vuoti emotivamente. “Lifeline” è l’ennesima gemma di Jesu ovvero Justin Broadrik, artista che pare avere trovato la sua dimensione sonoro/emozionale in un limbo dove s’incontrano ed incastrano la dolcezza dello shoegaze/dreampop e la pesantezza di certo post doom rock. Dolcezza e pesantezza, due termini apparentemente in antitesi fra loro, ma non vi sono altre parole per descrivere i quadri sonori dipinti dal nostro. L’iniziale titletrack e la seguente “You Wear Their Masks” altro non sono che due meraviglie shoegaze doom, presentandosi con muri di chitarre sotterranee, andamenti ipnotici, atmosfere oniriche, voce sommersa/impastata nel tessuto sonoro ed un malinconico spleen di fondo che si vorrebbe non ci abbandonasse mai. “Storm Comin’ On” presenta come ospite Jarboe, ex vocalist degli Swans e i risultati sono grandiosi (una prima parte acustico/tribale alternata ad una seconda di feroce industrial rock), così come ottima è la conclusiva “End of the Road”, col suo perenne contrasto fra durezze chitarristiche (notevoli le splettrate acustico/arpeggiate) ed armonici synths. Un artista, Justin, che del passato Godflesh sembra non voglia, fortunatamente, liberarsi del disagio di fondo, base della musica dei Jesu, ma che il nostro ha imparato ad incanalare attraverso altre vie sonore. Se nei Godflesh l’amarezza e la malinconia erano la “scusa” per produrre un pesantissimo e negativo industrial metal, oggi queste due sensazioni servono a concepire una musica dall’altissimo impatto emotivo. Un artista, Justin, la cui abilità compositiva ed emotiva pare non avere limiti: non osiamo immaginare cosa saprà regalarci in futuro. https://www.youtube.com/watch?v=wI1F8z6I_Kw

Marco Cavallini

JESUS FRANCO & THE DROGAS – Get Free Or Die Tryin’
La Valvolare di Jesi oltre ai noise-post rockers Guinea Pig, Bhava e Lleroy, ha nel carniere anche gli scatenati Jesus Franco & The Drogas, quintetto di garage-r'n'r guidati dal cantante Refo e completato da una formazione di elementi provenienti dalla scena underground anconetana (i già citati Guinea Pig, Butcher Mind Collapse, Lush Rimbaud, Ego, Laundrette e Newlasermen). L'etichetta marchigiana sembra puntare parecchio sull'exploited-attitude dei nostri - a tratti sembra di assistere alla colonna sonora delle pellicole di Russ Meyer - e la foga contenuta in "Get Free Or Die Tryin" potrebbe in qualche maniera ripagarne gli sforzi; i nostri infatti colpiscono nel segno con la loro mistura di Beefheart, Gun Club, Sonics e Dirtbombs, alla quale si aggiungono spolverate di surf (soprattutto), southern, Cramps e rockabilly che rendono il più appetibile possibile 10 pezzi voluttuosi e schizoidi. Si tratta di revivalismo ad oltranza eseguito con gusto, a partire dalla beffarda "Honolulu Baby", un trascinante surf rock senza sbavature. Gli ispidi garagismi di "Kaifa's Scream" e "Nazi Surfers Must Die" anticipano gli episodi migliori, ossia le ingiallite allucinazioni di "Kung Fu" e soprattutto la selvaggia "Yeti", convincente brano psychosonico ad alto voltaggio, che potrebbe ricordare i tardi MC5 suonati da un gruppo punk 77.Brani come "Mompracem" e "Zombie Polka" sono nella media senza sfigurare, mentre altri come "Bagarella Colt", "Antropophagus" e "Tobor" continuano a pestare duro proponendo una variante psicotica di indiavolato pub-rock, con tutti gli annessi e connessi. Nel complesso un buon esordio che scaccia noia e sbadigli e nel quale non mancano tourbillon di scintille e trovate anticonvenzionali, anche se non tutto il disco è proprio esente da didascalismi. Nella zuppa sono ammollati B-movies, refrain sixties e massiccia energia: un pentolone di istrionismi e travolgente rock'n'roll delle origini, perciò non resta che servirvi. Roberto Mattei
JET – Shine On
Secondo album per i Jet, quartetto australiano che col debutto “Get born” aveva attirato le simpatie di critica e fan. La prima domanda che viene in mente ascoltando questo nuovo disco è “perché?”. Possiamo capire che ormai il livello della musica rock sia scaduto e quindi bisogna esaltarsi non appena esce un gruppo appena superiore alla media, ma ascoltando “Shine on” proprio non si riesce a capire come i Jet possano avere suscitato tanto clamore con l’album precedente. Va detto che mentre il debutto aveva un tiro maggiormente rock, questo nuovo album mostra il lato soft della band, intenta a prodursi in ballate rock dal tipico mood crepuscolare inglese come “Bring it on back”, “Skin and bones” e la title track.Dove i nostri mostrano la loro migliore verve è in canzoni come “Put your money where your mouth is” (scelta, infatti, come primo singolo), “Come on come on” e la seguente “Stand up”, song dotate di un’accattivante tiro rock. La conclusiva “All you have to do” diventerà la loro ballata da stadio, col suo inizio soffuso che lascia spazio ad un crescendo drammatico e dai toni quasi psichedelici, prima di evolversi in un dolce finale acustico (la somiglianza con “Champagne supernova” degli Oasis è imbarazzante). Sembra che i Jet siano come stati folgorati da un’irrefrenabile passione per i Beatles, e il quartetto finisce per diventare l’ennesima band che mostra il suo amore per i quattro di Liverpool. Molti diranno che gli Oasis lo fanno da sempre; solo che gli Oasis hanno un certo Noel Gallagher che scrive le canzoni e un certo Liam Gallagher che le canta; ci siamo capiti vero? Marco Cavallini
JET TRIO, THE – Motoro
Windsor rock city, è questo il motto dei The Jet Trio, band canadese che giunge all’esordio con “Motoro”. Il disco è stato preceduto da un mini di tre brani (due presenti sul debutto più l’inedito “On rise”) ed è prodotto dalla Sturgeon Records, label che lancia gruppi che affollano l’underground dell’Ontario. Geoff (basso, voce), Dave (chitarra) e Jeremy (batteria) sono degli inguaribili romantici che suonano per soddisfare le proprie passioni e dare sfogo al fuoco che li divora: la fiamma del rock. “Motoro” è infatti un tributo alla storia delle sonorità pesanti e distorte, dagli Aerosmith fino ai Fu Manchu, senza alcuna concessione alle tendenze plastificate del mercato discografico odierno. Qui dentro c’è di tutto: rock'n'roll, hard, heavy, boogie, psichedelia. Quattordici pezzi sono forse troppi e spesso si rischia di annoiare appiattendo oltre modo il lavoro, ma quando c’è così tanta grinta, così tanta passione allora ben vengano tali eccessi.In song come la title track, “John the Baptist” e “Shoot it!” scorre il rock'n'roll duro e selvaggio, che riprende dal passato (AC/DC) e dal presente (The Hellacopters). “Mr. Marks”, “Boddington’s day off” e “Headhunter” strizzano l’occhio allo stoner, lambendo i confini del suono partorito dai Clutch, mentre nel caso di “My friends” i tempi rallentano per far posto a tonnellate di groove. Insomma, chi è in cerca di originalità a tutti i costi stia alla lontana, anche perché il resto dei brani viaggia tutto tra l’hard rock dei 70's e tentazioni heavy psych. Un’ora abbondante di divertimento e spasso, questi sono The Jet Trio. “Motoro” potrà non piacere a molti. Se vi ritrovate a dire che siete troppo vecchi per certe stronzate (cit.) allora il rock'n'roll ha smesso di battere nel vostro cuore. Alessandro Zoppo
JEX THOTH – Blood Moon Rise
Si apre all'insegna di un notturno rituale il secondo album di Jex Thoth, band del Wisconsin capitanata dalla tenebrosa Jessica Bowen. Uscito nel 2013 per la I Hate Records, "Blood Moon Rise" si pone con il precedente omonimo (2008) in rapporto sicuramente evolutivo, portando avanti ed affinando le acide sonorità di respiro Settantiano che, fin dagli esordi, hanno caratterizzato il gruppo, facendone un caposaldo del dark rock psichedelico contemporaneo. Una distesa di suoni ribassati e distorti funge da tappeto sonoro alla splendida apertura vocale della Bowen fin dalla prima traccia, "To Bury", che prefigura già la dimensione sacrale dell'intero disco: un'esperienza da vivere, più che un insieme di composizioni da ascoltare distrattamente.
L'attacco di "The Places You Walk" non permette vie di fuga: è assolutamente indispensabile chiudere gli occhi e lasciarsi trasportare sull'altare di questo rituale pagano, all'interno di un cerchio Wicca allestito nel bel mezzo di un bosco sacro fuori dal tempo e dalla storia. Trascorre da una traccia all'altra e si intensifica progressivamente la sensazione di piacevole smarrimento, al punto che la realtà sembra davvero sparire, inghiottita dal languido impasto sonoro di chitarre effettate e soffici linee vocali. Tempi lentissimi riportano il fortunato ascoltatore ai tempi di Woodstock, e la maestria della frontwoman non può che evocare le spettacolari abilità canore di Grace Slick.
Se con "Into a Sleep" si entra – come vuole il titolo – nella dimensione di un sonno profondissimo e benefico, ricco di sogni allegorici, "Keep Your Weeds" rappresenta l'accesso diretto ad un'atmosfera surreale e da brividi. Il semplice assetto strumentale fa da sottofondo ad un cantato languido che riesce a regalare sensazioni da pelle d'oca. E se ascoltando "Ehjä" si scende nella profondità degli abissi e ci si perde in un caleidoscopio di suoni al sapore di fuzz, intercalati da soli dalle note lunghissime, trattenute fino allo stremo, è proprio il finale a fungere da sommo apice di questa intensissima esperienza auditiva. Superata infatti la sabbathiana "The Four of Us Are Dying" (contraddista da suoni lugubri e lisergici, degni della migliore produzione doom), l'intro quasi folk di "Psyar" avvolge sinesteticamente gli accordi di chitarra acustica con barlumi di luce diafana, pronta ad attraversare cautamente la morbida voce di Jessica, che qui sembra proprio dare filo da torcere non solo ai suoi antesignani Coven, ma anche agli odierni Purson. Per non parlare dello splendido solo destinato a portare a termine languidamente l'intero album, un vero e proprio orgasmo sonoro.
Insomma, lavoro eccezionale quello realizzato da Jessica Bowen che, componendo e arrangiando ogni singolo pezzo dell'album, ha dimostrato ancora una volta il suo innegabile talento. I Jex Thoth si pongono così davvero quale band di spicco nel panorama del rock psichedelico, e non solo di quello che viene comunemente – e forse impropriamente – etichettato come occult rock "al femminile". Le distinzioni di genere, alle volte, lasciano il tempo che trovano. Valeria Eufemia
JIBÓIA – Badlav
In pieno trip post Goat che ha fatto viaggiare tutti alle periferie musicali del terzo mondo, esce un interessante progetto chiamato Jibóia (nome di un boa constrictor), co-prodotto da Lovers & Lollypops e Shit Music for Shit People. Come indicano le note di presentazione, "Badlav" è un concept album sulle quattro età o ere dell'universo secondo l'Induismo. Dopo il perfetto Satya Yuga (età dell'oro) viene il Treta Yuga (età dell'argento) segnato da un declino. La terza era, il Dvapara Yuga (età del bronzo) porta un altro declino. Ed ecco l'oscuro Kali Yuga, un'età di perdizione in cui l'uomo uccide un altro uomo.
Autori di questa intrigante rappresentazione della vita, un duo: Óscar Silva che produce tutto, tra chitarre, loop, drum machine e Ana Miró che canta in perfetto stile bollywoodiano. Il risultato è ambivalente. Da un lato la musica produce un tappeto sonoro perfettamente psichedelico, teso a delineare con tratti robusti una visone sintetica alla maniera di molti one man/one loop station come Kandodoo e Plancton Wat; dall'altra la voce tende a riportare il tutto su registri etno/pop. I quattro momenti, intitolati come le quattro età dell'universo di cui sopra, si fondono tra di loro costituendo un unico flusso sonoro di una ventina minuti circa che sale tra le feste berbere di "Treta Yuga" e scende negli abissi ambientali di "Kali Yuga". Una festa per chi volesse partecipare. Eugenio Di Giacomantonio
JOE MAPLE – Amputated Dorsal Unit
Tornano dopo quattro anni di silenzio i Joe Maple con un four piece di tutto rispetto. I cambiamenti di line up hanno minato le fondamenta della band e l'abbandono di Nino, con il suo basso pulsante, ha compromesso non poco lo stato di salute psicologica e compositiva dei nostri; inoltre anche Ivan, seconda voce e ispirazione, ha salutato i compagni per strada, privandoli di quel guizzo malato e geniale che ha contraddistinto i passaggi più efficaci del precedente lavoro. Il nuovo volto dei Joe Maple si chiama "Amputated Dorsal Unit" e ne promette delle belle sin dall'iniziale "D", introduzione d'assalto che mescola con disinvoltura asprezze grunge e mid tempo prettamente stoner: sembra di sentire gli Stone Temple Pilots jammare al Rancho de la Luna, strafatti di pejote e mescalina. Sul piano stilistico emerge una notevole ridefinizone delle parti cantate unita ad un allargamento della composizione verso articolazioni fatte di stop & go, cambi di tempo ed effettistica vintage. "Magnet of 11" non fa rimpiangere lo scioglimento dei Mammoth Volume con un riff granitico di stampo robotico-sabbathiano che lascia senza fiato! All'inizio il brano si presenta con una chitarra pulita che accompagna il canto; poi il vortice della distorsione ci spinge dritti verso dei saliscendi emozionanti e coinvolgenti come solo il gruppo norvegese riusciva a creare... Tempo di lasciarsi andare, tempo spensierato, tipicamente estivo, per "Pacta Sunt Servanda", l'episidio strumentale del lotto, tra l'altro il più riuscito. La ruvidezza delle chitarre raggiunge in questo pezzo un equilibrio perfetto: nell'incalzare verso la ripetizione di una, controbatte l'altra con rifiniture veramente pregevoli, di fattura QOTSA, ma meglio degli originali! Il tutto parte, ruota, si trasforma e ritorna al punto di partenza in due minuti e quindici secondi. Il finale si accalora con umori lunari di "Nocturne" dove Giacomo, cantante e chitarrista, ci conforta con una delicatezza tale da farci dimenticare l'asprezza a cui finora abbiamo assistito: è ora di chiudere e il miglior metodo è farlo con dolcezza... Grandi Joe Maple che hanno tenuto duro e non si sono persi d'animo. Aspettare 4 anni per risentirli all'opera ne è valsa la pena, anche se alla fine rimane l'amaro: ne vogliamo ancora e poi ancora di più... Micidiale soci!   Eugenio Ex  
JOE MAPLE – Demo
Arrivano dalla provincia di Teramo e rispondono all’appello con lo pseudonimo di Joe Maple. Un manipolo di scoppiati arrapati dallo stoner rock e dalla psichedelia, ecco cosa sono. Imparata a dovere la lezione impartita dal (nuovo) Josh Homme e compagni, la proposta degli abruzzesi si afferma come una produzione piacevole da ascoltare, niente male per essere un debutto. Meno Kyuss e più QOTSA quindi (ma anche molto Mammoth Volume), ritmiche meno pachidermiche e più sciolte (anche se il groove desertico di “John the Elephant” sembra pronto a farvi ricredere), le canzoni che ci fanno più muovere la testa sono senza dubbio “Primrose Path” e “Telegraph Song”, nelle quali il lavoro del synth dona freschezza ai pezzi investendoli di una vena vagamente progressiva. La voce non è sempre convincente, spesso troppo lineare e flemmatica per riuscire a spiccare nel mix generale, come accade palesemente nella soporifera “The Lame”. Buoni i cori mutuati dagli immancabili Queens. Sempre interessanti gli inserti di synth, mentre i suoni di chitarra e della sezione ritmica appaiono discreti pur trattandosi di una produzione casalinga. Andrebbe ovviamente tutto irrobustito a dovere, trattandosi di un genere apprezzabile al crescere dei decibel e al dilatarsi delle atmosfere. I Joe Maple sono sulla buona strada, basta personalizzare la proposta e curare maggiormente i suoni; ne verrà fuori una bomba.   Davide Straccione  
JOHN GARCIA – John Garcia
John Garcia non riesce proprio a stare fermo, e così dopo il disco del progetto Visto Chino uscito nel 2013, eccolo pubblicare il suo primo lavoro solista, accompagnato comunque da personaggi che lo hanno già affiancato nel corso della carriera (a parte il solito Nick Olivieri, troviamo anche Dave Angstrom e Dandy Brown di provenienza Hermano, tra gli altri). L'album dei Vista Chino era in tutto e per tutto un tributo ai Kyuss, mentre qui John si "stacca" in parte dal modello originario, puntando sul lato dell'impatto stoner desert, tralasciando quello liquido psichedelico, e pubblicando un album che alla fine dell'anno sarà presente nelle top list di ogni fan del genere.
Complice la produzione perfetta e l'azzeccata scelta dei suoni (al contrario di quelle dei Vista Chino), il disco ha una potenza fragorosa, come si evince già a dall'opener "My Mind", perfetto anthem desert rock che da subito mette in chiaro le cose. L'album procede fra canzoni dotate di un tiro e groove pazzeschi ("Flower" e "Argleben" echeggiano certe cose dei migliori The Cult, amplificandone la potenza) ad altre midtempo caratterizzate da continue esplosioni come "Rolling Stoned", "The Blvd" e "5000 Miles". "Confusion" è polverosa quanto una strada che attraversa il deserto dopo una tempesta di sabbia, e si basa su una chitarra ultraslow che raggiunge la pesantezza e l'intensità dei mitici Sleep. "Saddleback" e "All These Walls" (versione aggiornata di "Catcus Jumper", proveniente dai polverosi archivi bootleg degli Slo Burn) sono pura dinamite sonora, e così in conclusione risulta azzeccata la scelta di un brano come "Her Bullets Energy" (ospite il mitico Robby Krieger, storico chitarrista dei Doors), delicata song psichedelica poggiante su chitarre acustiche.
Prima di concludere piace sottolineare la versione in vinile trasparente con righe/striature verdi e che rimanda alle prime releases della Meterocity Records (gli split Unida/Dozer e Nebula/Lowrider). Sono passati 15 anni ma, in questo senso, il tempo sembra, fortunatamente, essersi fermato ad allora. Marco Cavallini
JOHN HOLLAND EXPERIENCE – John Holland Experience
Viene da pensare più ai Marlene Kuntz (quegli degli anni 90, per intenderci) che ai Queens of the Stone Age inserendo nel lettore il disco dei John Holland Experience. Non tanto per il cantato o per i titoli, anche se "Festa pesta" è un gancio scoperto, quanto per il trattamento della materia sonica. Vero è che gli ascolti di certo stoner forzuto stile Clutch, Fireball Ministry, Solarized e Five Horse Johnson emerge in maniera più o meno latente, ma altrettanto vero è che la composizione dei pezzi è sostenuta da travi regolamentari come strofa/ritornello/ponte/strofa che portano appunto ad indirizzi alternative rock evidenti.
La tradizione italiana è tracciata sul solco di alcune brillanti heavy band in materia – Fluxus per primi, ma non dimentichiamo Matra, Verdena (odiatissimi!) e gli archetipi Disciplinatha – che hanno tentato di risciaquar in Arno i precetti del rock inglese ed americano. I nostri John Holland Experience da Cuneo (è un caso?) riescono ad inserirsi nel mucchio con un appeal scanzonato e perciò riuscitissimo. "Canzone d'amore", "Elicottero" e "Malvagio" mettono a segno dei punti importanti in direzione rock a presa diretta: Francesco , Simone ed Alex sanno suonare e hanno maturato il giusto feeling, ciò risulta evidente. Sul finire di "Tieni botta" arriva l'unica concessione allo stoner desertico e psichedelico con mammut riff, mentre la conclusiva "Ti piace" pare uscire dalla penna di Neil Fallon, tanto è circolare e blues addicted. Sette pezzi più intro in una mezzoretta scarsa di musica: bene così, bisogna aver anche il dono della sintesi. Eugenio Di Giacomantonio
JOHN MCBAIN – The In-Flight Feature
La chitarra dei Monster Magnet s'infiamma e prende vita da sé, in una danza strumentale di psichedelia e sonorità lisergiche. È proprio questo il fulcro di 'The In-Flight Feature', un flusso di coscienza costellato di synth, chitarre e suoni caldi, avvolgenti, frutto delle numerose esperienze di John McBain, perennemente immerso tra Desert Sessions, progetti e collaborazioni.Un album quasi vellutato, che scivola nelle nostre vene senza stridori. Un lungo viaggio tra paesaggi sconfinati e polvere, tra sole e calura. Imbocchiamo la strada con 'The Underwater Pornographer's Assistant', il signor McBain ci porta dritti dritti alla polpa del suo lavoro creando paesaggi emozionali già dal primo pezzo. L'intermezzo di 'Vimanas Over Nob Hills' vale da casello autostradale, con l'unica differenza che il paesaggio dopo di esso non è grigio e monotono, ma vivido, a tratti sussurratamente cantato ma che lascia comunque la musica e le brulicanti sonorità in primo piano, fra assoli e riff pungenti: è 'In Santiago Airspace', pezzo incalzante che rende il disco sempre più vivo, ispirato. L'approccio a 'The In-Flight Feature' non sarà quindi difficile: un po' come guidare, che una volta che ci hai preso la mano fili liscio e senza titubanze. I dieci minuti della terza traccia scorrono e preparano il terreno all'impaziente 'Centaur of the Sun', conducendo l'orecchio a sonorità di stampo pinkfloydiano. È un abbandono dei sensi, un piede sull'acceleratore e l'altro, battendo il ritmo, a riposo sul tappetino velato di polvere rossa. E poi d'un tratto scende la sera, le mani ancora sul volante, qualcosa inizia a mutare, a farsi più lento e ovattato. Vene space rock affiorano sposando suoni elettronici, 'Motherboard' segna il crepuscolo, mentre 'Hubblebubble' ci accompagna alla sera passando attraverso psicosi barrettiane, in un vortice di suoni che inseguono la coda di una spirale eccentrica. Passando per il caos di 'VS 666', John McBain trasporta le nostre emozioni ad un paesaggio nostalgico, sulla via del ritorno riassaporiamo l'andata e 'Metronomicon' fa da colonna sonora, introducendo la rumoreggiante e ronzante 'Fog Machine'. E il cerchio si richiude, splendido e lucente, lasciandoci nella mente ambienti mozzafiato, da rievocare attimo dopo attimo anche dopo la fine del disco. Annet
JOHNFISH SPARKLE – Flow
Inutile perdersi nei mille rivoli dei riferimenti musicali dinanzi ai Johnfish Sparkle, gruppo della provincia di Teramo giunto con questo "Flow" al traguardo del secondo disco. D'altronde l'ala protettiva della svedese Transubstans Records (costola hard blues retrò della Record Heaven) parla da sola. Dopo l'esordio omonimo del 2008, la band formata da Al Serra (chitarra), Dave Perilli (basso), Rob De Carlo (batteria) e Maurizio Morganti (voce) ci offre dieci tracce che spaziano con saggezza dall'hard rock classico al blues, dall'acid rock a tutte le sfumature e le derivazioni Sixties e Seventies che tra 1966 e 1972 hanno marchiato (e cambiato) la storia della musica pop."Flow" è un album che scorre liscio come l'olio, carico di sapori vintage e sapienza tecnica. Il buon gusto nelle composizioni bilancia una vibrante ispirazione nel comporre un puzzle che da vagiti proto heavy giunge sino a dinamiche e ruspanti divagazioni southern. Nonostante l'iniziale "Hard Times Goin' On" sfiori il plagio targato Black Crowes, si tratta di un hard blues torrenziale e fiammante dalle notevoli cadenze soul. Un potenziale singolo radiofonico (come fu a suo tempo "Remedy", appunto…) e come si rivela anche l'ottima "Not Alone". "Benzai-Ten", "The Traveler" e "Crazy Lady" spingono maledettamente sul groove, "Downhill Blues" è chiaro nei suoi intenti sin dal titolo (cadenze zeppeliniane comprese), mentre "Gaudì's Run" è un azzeccato bozzetto acustico. "Spiral Confusion" accentua la componente psichedelica, sempre con una certa edulcorata educazione strumentale, comunque ineccepibile. In realtà è proprio questa perfezione formale la vera pecca del disco: troppo perfetto, troppo lineare. Manca quella sporcizia necessaria a rendere infuocata l'interpretazione del genere. Detto questo, urge ulteriore professionalità nell'invio del materiale stampa (nel 2012 è inaccettabile una copia promo con CD-R e fotocopia della copertina). Limati questi difetti, i Johnfish Sparkle si potranno certamente porre come nuovi alfieri del rock nostrano. Quello vero: per gli amanti di Led Zeppelin e Free come per filologi che riesumano Toad e Black Cat Bones. Alessandro Zoppo
JOHNFISH SPARKLE – Johnfish Sparkle
Ormai diverse band della penisola stanno guadagnando favore e rispetto nei templi scandinavi, tedeschi e dell'est europa, e non si tratta di semplici infatuazioni, quanto piuttosto di un riconoscimento (oltre che di bravura) dello spessore culturale del nostro hard rock. E' un dato di fatto per esempio che gran parte del roster della Black Widow (Wicked Minds, Electric Swan, e molti altri) sia composto di formazioni pregiate, ma il panorama è ancora più vasto: giusto per rimanere in tema di brividi lungo la schiena, esce il primo disco dei Johnfish Sparkle su Transubstans Records (la divisione della Record Heaven specializzata in edizioni in CD), una perla di incontaminato hardblues psichedelico, variegato e ricco concentrato di Humble Pie, Free (soprattutto), Cream, Toad, Hard Stuff, Sir Lord Baltimore, Stray Dog, Montrose, Black Cat Bones, Mountain, Taste…E' bastato un solo demo al gruppo nato dalle ceneri dei JackieJail per catalizzare l'immediato interesse della fantastica label svedese: Dave Perilli e Rob Gasoline si uniscono al cantante/chitarrista Al Serra, dando vita ad un power trio di impostazione 1967/73, una rivelazione per tutti i cultori dell'era capitale del rock. Non aspettatevi i soliti suoni giurassici dello stoner: si tratta di un lavoro che fa perno sulle dodici battute del blues, elettricamente irrorate di psichedelia, incandescente, cristallino e classicamente caleidoscopico. La sezione ritmica di Rob e Dave è quanto di più ortodosso si possa sentire, e la voce di Al sembra estrapolata da uno dei tanti capolavori dell'heavy psych d'epoca, duttile, tagliente e progressiva. Nove brani fantastici, a partire dell' hard d'autore di "Freedom At Last" che parafrasando una delle ultime opere del gruppo di Paul Kossoff, da sola dovrebbe indurvi senza esitazioni all'acquisto dell'album della formazione abruzzese. Tanto per sciogliere ogni dubbio, i Johnfish Sparkle sono distanti anni luce da ogni revivalismo sterile: la loro è un'immersione nel rock più autentico che si possa immaginare, nella quale predomina viscerale passione per i suoni d'epoca, riattualizzati da una scintillante freschezza. "Feelin Down'", "Hey Man" e "How Many Miles" lasciano senza parole, prelibatissime pietanze speziate sia di Cactus, Zeppelin, Foghat, Budgie, Blue Cheer, che di certi episodi lysergic-blues di We e Masters of Reality, mentre "We Never Know" e "Tale of A Lonely Man" - oltre ai soliti Free (autentico spettro tutoriale dei Johnfish Sparkle) - si dirigono verso splendide sonorità da ballata folksy. "Down in Mexico" e "Mr. Window" hanno in effetti qualche striatura sudista, ma rimangono ancorate a Groundhogs, Suede e Cream piuttosto che alla psichedelia oscura di Josefus e Bloodrock, e la devozione alla sempreverde classicità è suggellata da "Dance Into The Fire". Roberto Mattei
JOHNNY JONES & THE SUFFERING HALOS – Jonny Jones and the suffering halos
Johnny Jones è un personaggio molto eclettico: artista a tutto tondo, si diletta con la poesia, la grafica e ovviamente la musica. Cantante e chitarrista, ha assemblato un gruppo, i Suffering Halos, in grado di sfondare su tutti i fronti. A partire dall’attitudine 100% rock della band e dal blasone dei suoi membri. Billy Blaze (batteria) ha suonato con gente del calibro di TSOL e Mike McCready; Greg Coatez (basso) ha fatto parte di Masters Of Reality e Low Fire; Bryan McIntyre (chitarra) ha prestato servizio nei Wonderlove.Sulla base di queste credenziali non poteva che venir fuori un disco dall’impatto stratosferico, così come si rivela il debutto dei Suffering Halos. Un calderone sempre omogeneo nel quale confluiscono la spontaneità del rock’n’roll, le possenti emanazioni dell’hard rock dei 70’s, il taglio spigoloso dello street rock, l’abrasività dello stoner, delle melodie dal piglio soul ed un tocco vellutato di psichedelia. Un sound sorprendente insomma, conseguenza di un’ottima amalgama tra i componenti del gruppo e di un songwriting sempre ispirato, mai vittima di cali di tensione. Infatti, nonostante i 50 minuti di durata, il lavoro non stanca mai, si mantiene sempre vivo e anzi, gioca le sue carte migliori proprio quando sembra che il ritmo debba scemare. Ne sono eloquente dimostrazione il riff mastodontico che apre “Jesse James”, le melodie appiccicose di “Overloaded” e “Strangleroot”, le ritmiche quadrate di “The deuce” (che ricordano tanto le derive hard southern dei Corrosion Of Conformity) o le deflagranti ondate hard di “Toad mind” (un gioiello impreziosito da un chorus travolgente e dal sapiente tappeto creato dall’organo hammond). Insomma, ce n’è per tutti i gusti, dallo stoner (“Wouldn’t mind it”, “Give me what you got”) al rock’n’roll (“Icarus wax”, dal wah wah gigantesco!), dalla ballata psichedelica (“The tastiest bite”) all’hard stadaiolo (“Hussy”) , per finire in bellezza con “Snakecharmer (Get your rocks off)”, brano spezza collo che suona come un dovuto tributo a maestri del rock come Aerosmith e AC/DC. Poche storie, The Halos rock!! Alessandro Zoppo
JOHNSON NOISE – Johnson noise
Per ogni appassionato di musica è davvero un piacere andare a riscoprire vecchi dischi che al tempo della loro uscita non meritarono le luci della ribalta o semplicemente il giusto consenso. La Nasoni Records, etichetta tedesca da sempre attenta al folto sottobosco heavy psichedelico mai emerso, segue perfettamente questa linea di pensiero e a dieci anni di distanza dall’uscita dell’album rimette sul mercato il primo full lenght omonimo dei Johnson Noise, power trio di tutto rispetto dall’altissimo gradiente onirico e lisergico. L’heavy psych dei tre berlinesi (Chris alla batteria, Florian chitarra e voce e Jurgen al basso) è infatti roccioso e vibrante, ben prodotto e suonato, incentrato sul chitarrismo sfrenato di Florian e su un eclettismo di base che consente al lavoro di mantenersi sempre vivo ed appetibile durante tutti i suoi 74 minuti di durata. Punti di riferimento fondamentali per i Johnson Noise sono gli Hawkwind (il legame di parentela con i Motorhead invita i tre ad una travolgente cover di “The watcher”, brano che porta la firma di Lemmy Kilminster) e soprattutto i Monster Magnet del primo periodo, influenza riscontrabile per un certo gusto nelle fughe astrali e per parti vocali roche e “strozzate”. Ciò è evidente in bordate come le iniziali “Motormadness” e “Bad neighborhood”, supernova che si infrangono contro un muro sonoro veramente devastante. Dove si osa di più è nei passaggi doom psych di “Waiting everywhere for anybody” (un mix micidiale di Doors e Pentagram!) o nello space rock oscuro di “Downhill” dove l’aria si fa rarefatta e si viaggia attraverso spazi siderali. Ed è proprio questo grande senso di accelerazione ed immediata sospensione la carte vincente di tutto il cd, un affogare e riemergere da un plasma ora liquido ora pesante che avvolge e respinge, che espande la mente e poi la richiude. Non a caso il miglior brano del lotto, la lunghissima “Blind” (16 minuti), è la sintesi esatta di questo meraviglioso processo, un esempio di heavy cosmic rock con sapori retrò che si perde nei meandri di chitarre trasbordanti, dialoghi strumentali serrati e languidi frammenti d’armonica. Armonica presente anche nel blues deviato di “What is a lifetime facing the existence of the earth” e che, insieme all’organo liquido di “Dead end in the evolution” (altra grandiosa mazzata!) e al sitar della strumentale “Sitarvision”, contribuisce ad elevare la ricchezza compositiva del disco. I Johnson Noise non cambieranno certo la storia del rock ma il loro esordio meritava di sicuro miglior sorte. Il piacere della jam psichedelica incarnato in un’ora e passa di grande musica. A breve ci sarà il ritorno ufficiale con un vinile edito sempre dalla Nasoni. A questo punto non vediamo l’ora di assaporarlo… Alessandro Zoppo
JOHNSON NOISE – Undine
Avevamo già avuto modo di parlare dei Johnson Noise dopo la ristampa del loro disco di debutto da parte della sempre attenta Nasoni Records. Oggi il trio tedesco torna prepotentemente in pista con un lavoro, "Undine", che si presente avvincente sin dalla copertina (bellissimo lavoro grafico di Kiryk Drewinsky). Il sound del gruppo rimane infatti avvolto da una incandescente cappa psichedelica, un fumante magma heavy psych che apre il cuore ed espande la mente verso nuovi orizzonti lisergici. Vista la totale attitudine anni '70, la scelta dell'edizione in vinile (limitata a 500 copie) fa sì che il disco stesso sia strutturato come una delle vecchie perle della musica psicotropa dei seventies. Le composizioni vertono principalmente su lunghe jam dilatate, condotte dalla voce sgraziata e dalla chitarra indemoniata di Florian Fisch Schmidt. Chris Schwartzinsky (batteria) e Jurgen Grunz (basso) costruiscono invece l'impalcatura ritmica con compattezza e visionario dinamismo. Il lato A si apre con "Soundwaves", scossone elettrico di stampo Hawkwind che lascia subito campo agli oltre dieci minuti di "Virutal reality", jam narcolettica che ci trascina su polverose strade cosmiche con i suoi cambi di tempo e le sue sterzate hard. Chiude la prima facciata un altro colosso psichedelico, "Undine's sister", liquida divagazione strumentale condita di wah-wah graffianti e ritmi percussivi che ammaliano come non mai. Il lato B prosegue sullo stesso sentiero: "Aquarius blues" è infatti un heavy blues stravolto e drogato, quasi esasperato nella sua infinita, sospesa lentezza ed estatico come una visione indotta dall'LSD. Più breve anche se non meno psichedelica è la successiva "Dark days", song il cui piglio oscuro si contrappone all'atmosfera onirica creata dalle chitarre. Come sigillo finale non poteva mancare una sorpresa: questa volta giunge da "Trouble every day", cover pescata da "Freak out!" di Frank Zappa e resa con la stessa corrosività caustica ed irriverente. "Undine" è dunque un album dall'alto gradiente acido, lontano dallo stoner nel senso canonico del termine ma molto affascinante per ogni cultore dell'heavy psych che si rispetti. Prima di arrivare fino a Berlino per vederli da vivo speriamo di goderceli al più presto qui in Italia. Alessandro Zoppo
JOLLY POWER, THE – Taste The Blood Of The Sonic Revolution
Sesta uscita ufficiale per i bergamaschi The Jolly Power che con questo “Taste The Blood Of The Sonic Revolution” dimostrano di essere piu’ vivi che mai!!!La band in questione e’ infatti attiva dal 1988 ed e’ uno dei gruppi storici del panorama glam/rock & roll nostrani a partire dai primissimi anni novanta.Formatisi,quindi,nel 1988 per volontà di Bely (voce/basso/armonica),Luky Chiva (chitarra) e Dinamite XXX (batteria),divengono una formazione stabile con l’entrata in line-up di Elia (voce) con il quale arrivano,nel 1994,alla registrazione del primo full-lenght (su cassetta) intitolato “Like An Empty Bottle”. Un sacco di date live li portano a suonare un po’ per tutta Italia e nel 1996,dopo la pubblicazione del primo cd autoprodotto (intitolato “Fashion,Milk & Smokin’ Pills”),arrivano i primi riconoscimenti:la partecipazione al Summer Drag Festival (in compagnia di bands quali Hollywood Teasze and Smelly Boggs),e quella al Psychoparty di Bologna.Ma e’ solo l’inizio,nel dicembre 1997 i The Jolly Power vengono scelti direttamete dai finlandesi 69 Eyes come band di supporto per le loro date in Italia.Alla fine del tour Elia decide di mollare la band per ragioni personali,Bely prende il suo posto alla voce e la line-up si chiude con l’aggiunta di un secondo chitarrista,Sergy Boy. Con questa formazione i nostri arrivano a questo ottimo sesto disco che ha permesso loro di aprire agli statunitensi Alabama Thunder Pussy in occasione della data dell’8 ottobre al Bloom di Mezzago (MI). Rispetto agli esordi glam rock,questo nuovo “Taste The Blood Of The Sonic Revolution” ci presenta i The Jolly Power in una veste rinnovata e decisamente piu’ fresca ed attuale.Il genere proposto dai quattro e’ un punk-rock & roll sporco,che sa di birra e benzina super,carburatori e muscle cars! Volete dei riferimenti?Hellacopters dei primi due dischi e Nashville Pussy su tutti! Si parte subito a mille con “R’n R Drug” (una delle mie preferite),ritornello che ti si stampa in testa,voce aggressiva,marcia e cori azzecatissimi che impreziosiscono questo gioiellino.La seguente “Damned Like You” parte subito con un riff degno del miglior Dregen mentre “Hurricane Baby” si apre con un’armonica in tipico stile southern,il groove generato si mantiene ad altissimi livelli ed ancora una volta sono la voce ed i cori ad impreziosire questa terza traccia. Il disco in questione non ha un attimo di pausa e fila via liscio fino alla fine senza mai avere cedimenti o indecisioni,come dimostrato da pezzi quali “No Love From A Bitch”,”I’m A Rocker” e la conclusiva “Under My Flag”. Un gran bel disco che ha la sua forza nella voce di Bely (sporca e grezza al punto giusto) davvero azzeccata per il genere proposto dai quattro bergamaschi e nei suoni delle chitarre.Unica pecca (secondo me) il suono della batteria,ed il basso che a volte non si riesce a distinguere bene dal resto.Ma e’ davvero poca roba se paragonato al resto! Da citare anche le numerose collaborazioni: Tommy dei Lady Sadness (piano in “I’m A Rocker”),Il Metius dei Thee STP (voce in “The Game Is Over”),Rudy Bolan dei Last Bandit (seconda voce in “Under My Flag”) e Steve America dei Thee STP (con la sua killef fuzz guitar nella traccia “Higway 17”). In conclusione un ottimo disco per una delle storiche band del panorama Rock & Roll italiano. I The Jolly Power,forti anche della distribuzione by Goodfellas, sono tornati e non ce n’e’ per nessuno!!! Teneteli d’occhio anche perche’ saranno in tour al centro-sud ad inizio marzo! Da non perdere. The Rawker
JOSEPH K. – Secondo
Fa sempre piacere sapere che in Italia ci sono ancora giovani gruppi con la voglia di sbattersi e produrre qualcosa di buono. I romani Joseph K. (evidente omaggio alle ossessioni kafkiane) appartengono certamente a questa schiera, anche se la loro carriera artistica li vede già in giro ormai da quasi dieci anni. “Secondo” è il loro nuovo promo, successore di un cd autoprodotto nel 1999 e di una demo fatta uscire due anni or sono.Tutto sembra filare liscio nella loro proposta: produzione eccellente, testi acuti ed intelligenti, perizia strumentale indiscutibile, sound graffiante e roccioso. Il problema piuttosto è un altro, che non dipende direttamente dai Joseph K.: cosa significa suonare oggi il cosiddetto “rock italiano”. Uscire dal mucchio è impresa ardua e per quanto i cinque ragazzi di Roma ci mettano impegno e dedizione anche la loro musica finisce per annegare nell’oceano sconfinato di uscite sin troppo simili tra loro. E’ lo “storico” dilemma del nostro rock tricolore, che a parte casi sporadici e finiti male (eloquenti gli esempi di Ritmo Tribale e Timoria) o termina nell’anonimato o rimane confinato in un pubblico di nicchia. Con questo non si vuol certo dire che le composizioni dei Joseph K. siano mal riuscite, anzi. Il loro rock sa essere spigoloso, melodico, ironico, arguto, attento a varie sfaccettature. Passa con abilità dalle cadenze ska dell’iniziale “Joseph K.” alle martellate hard rock di “LuceOmbra”, dalle atmosfere languide di “Esame di coscienza” alle derive metal di “Rimani sempre”. Senza disdegnare classici esempi di rock autoctono come “Fammi restare” e “Il Santo”, brani tosti e ben congegnati, senza alcuna sbavatura. Il dubbio si insinua quando si inquadra tale progetto nel panorama del rock attuale. Troppo saturo di uscite del genere, che per altro non hanno mai raccolto quanto seminato. Detto questo, i Joseph K. continueranno senza dubbio per la propria strada, convinti e coscienti del proprio (indiscutibile) valore. Chi ama queste sonorità apprezzerà non poco. Gli altri continueranno a cercare novità da gruppi come IV Luna e Kardia. Alessandro Zoppo
Josiah – Into the Outside
Un altro attacco vintage al nostro povero cuore nostalgico è l’essenza del nuovo disco dei Josiah, autentica sorpresa heavy groovy rock del nuovo millennio. Ci avevano stupiti con il loro album di debutto, un tributo sentito e partecipe all’hard sound dei Seventies. Oggi tornano ancora più carichi ad inondare le orecchie degli appassionati di stoner e affini con “Into the Outside”, vera delizia per tutti i cultori delle pastose sonorità psych rock. Riverberi, fuzz e wah-wah in quantità industriali, melodie azzeccate e una compattezza di fondo sono la base per un disco validissimo come questo. Il problema semmai è l’attitudine totalmente retro dei tre ragazzi inglesi: se il loro modo di comporre e suonare affascinerà più di un patito di questo genere, chi cerca innovazione, sperimentalismi o semplicemente una ventata d’aria fresca dovrà stare alla larga dal cd. Brani come la scatenata “Turn It On”, la travolgente “The Scarlatti Tilt” (con un bellissimo chorus che entra immediatamente nella mente) o l’assatanata “Sweet Time” sono la riprova di quanto detto: nessuna concessione modernista, solo tanto rock’n’roll, interpretato con feeling, passione e sudore. Quel rock che ormai più di trenta anni fa gruppi gloriosi come Led Zeppelin, Blue Cheer, Grand Funk, The James Gang e Cactus portavano ai suoi massimi livelli. Ed è proprio come un sincero omaggio a questi colossi che la musica dei Josiah suona. Ce ne rendiamo conto quando si comincia ad ondeggiare sulle vibrazioni al limite del funky di “O.B.N.”, quando parte la cascata sonica di “Bloodrock” (evidente ammirazione per la band texana dei ’70 autrice di dischi strepitosi) e quando ci si stacca un attimo dalla tormenta di fuzz per lasciare spazio alla delicata pausa acustica di “Sylvie”. Rimane comunque la certezza che i Josiah le loro carte più preziose se le giocano a botte di riff rock (“Keep on Pushin’”, “Black Country Killer”) ed escursioni psichedeliche (la conclusiva “Unwind Your Mind”). Per farla breve, “Into the Outside” è il disco ideale per gli amanti del vintage in musica. Gli altri potranno soprassedere tranquillamente. https://www.youtube.com/watch?v=DCziIWo9Phw&ab_channel=JosiahJ.-Topic

Alessandro Zoppo

Josiah – Josiah
Il ponte ideale tra passato e presente. Il perfetto anello di congiunzione tra due modi diversi ma complementari di intendere la musica. Questo e molto altro sono i Josiah, trio inglese che alla sua prima uscita ufficiale centra subito il bersaglio sfornando un disco che definire fantastico è riduttivo. Qui c'è tanta di quella passione, di quel sudore, di quella emozione che raramente si trovano in dischi recenti. Qui c'è tutto il bagaglio personale di un gruppo che ripesca dall'hard rock e dalla psichedelia degli anni '70 (su tutti Led Zeppelin, Grand Funk, Mountain e Cream) e filtra questi ritmi storici con le acidità ruvide dell'odierno stoner rock (leggi Fu Manchu, Nebula e Monster Magnet). Il songwriting non sbaglia un colpo, a partire dalla scheggia iniziale "And Time Melts Down" fino ad arrivare ai quasi nove minuti conclusivi di "Suspended Revolution Ride", cavalcata lisergica ricca di effetti vaporosi, pause e brusche ripartenze. Nel mezzo trovano posto autentiche gemme che esaltano soprattutto le prodezze del chitarrista e vocalist Mat Bethancourt, totalmente devoto al culto del feedback hendrixiano e delle fuzz guitars sputafuoco. Ma non va nemmeno dimenticato il lavoro instancabile di Chris Jones alla batteria e di Sie Beasley al basso, che formano una sezione ritmica di tutto rispetto. A dimostrazione delle qualità della band basta ascoltare dei macigni come "Change to Come" e "Black Maria", jam che alternano riff assassini di matrice Blue Cheer, vibrazioni sature prese in prestito dai Fu Manchu di "In Search of…" e innesti psichedelici liquidi come una colata di lava bollente. Tuttavia non mancano neanche episodi più diretti ed incisivi quali la veloce ed esagitata "Saturnalia", la fantastica inondazione di wah-wah di "Malpaso" (a mio giudizio miglior brano del lotto…) e la granitica "Head On". Una menzione a parte merita invece un pezzo particolare come "Gone Like Tomorrow", momento acustico che non sfigurerebbe su "Led Zeppelin III" viste le sue atmosfere folk (ravvivate da un inserto di piano elettrico da brivido) ed il richiamo a dolci paesaggi fatati. Un esordio in gran stile quello dei Josiah, non c'è che dire. Rileggere in maniera così compiuta ed autorevole le radici del proprio suono è segno di una personalità forte e già matura che in pochi dimostrano. Loro sono riusciti nell'impresa senza risultare banali o derivativi e questo è un grande merito. E' questo l'unico modo per tenere vivo e vegeto un genere troppo spesso inflazionato… avanti così! https://www.youtube.com/watch?v=i0Q0HIpvkhU&ab_channel=GOWfanEXECUTIONstyle

Alessandro Zoppo

Josiah – No Time
No Time. Non c’è tempo. Non ce n’è perché la realtà va veloce, frenetica, verso un orizzonte che ormai non ci appartiene. Mode e trend effimeri che si affermano e svaniscono in un lampo. Non c'è tempo, quanto ci circonda ci divora. È questa l'urgenza dei Josiah, cantori di un mondo che si sta dissolvendo. Il loro heavy rock psichedelico è ancorato ai vecchi tempi, quelli in cui Led Zeppelin, Black Sabbath, Incredible Hog e Captain Beyond dettavano legge. E mantiene al contempo saldi contatti con il nostro presente, perché ci dona un nuovo modello, un inizio dal quale riprendere. Terzo disco per la band inglese, che si è lasciata alle spalle l'impeto fuzz che contraddistingueva l'esordio omonimo e riprende lì dove lasciava il secondo “Into the Outside”. Passaggio d'etichetta (da Molten a Elektrohasch Records, ormai una istituzione per chi si confronta con certe sonorità) e album della maturità. A volta manca l'impeto, quella voglia giovanile di spaccare tutto e fottersene del resto, istinto che si colma con un songwriting ragionato, attento alle sfumature, capace di rendere i brani complessi, mai facili o diretti. Certo, ci sono le classiche mazzate che fanno scuotere e vibrare (il boogie assassino di “Long Time Burning”, il rock travolgente tendente allo stoner di “I Can't Seem to Find It”). Dove i tre si esprimono al meglio è nei pezzi lunghi e dall'appeal oscuro, prendere la bellissima title track e “The Dark” per rendersene conto. È evidente la voglia di mettere tutti se stessi in un progetto, in una idea che alla lunga si rivela vincente. Il groove mozzafiato di “Harvester of Lies” e la psichedelia heavy, minacciosa, esoterica di “My Bird of Prey” esaltano tale scelta e ci consegnano un gruppo ormai maturo, con una cruda urgenza espressiva, certo e consapevole delle proprie scelte. ‘No Time’ è per i Josiah il passo della crescita. Coscienti che bisogna fare in fretta, perché il tempo stringe maledettamente. https://www.youtube.com/watch?v=zjVf6DEhVmw&ab_channel=Josiah-Topic

Alessandro Zoppo

Josiah – We Lay On Cold Stone
È una mente acida quella di Mat Bethancourt. Rispolvera i suoi Josiah con questo We Lay On Cold Stone a 13 anni passati dall’ultima uscita discografica (Procession del 2009, arrivato dopo No Time, Into the Outside e l'esordio omonimo del 2002) e il tempo pare essere tornato al triennio 1969/1971. Non che sia stato del tutto fermo: dietro agli album più belli dei The Kings of Frog Island c’è il suo tocco. Così come i Cherrry Choke sono stati il suo divertissement in ambito Sixties. Si è dato sempre da fare, insomma. Ma la creatura in cui mette le migliori risorse è senza ombra di dubbio i Josiah. È un piacere riascoltare le armonizzazioni vocali che produce il nostro (sentite Saltwater per credere) e il suo modo di produrre riff è del tutto originale e con un carattere denso e deciso. Non troppo lontano dalla golden era del riff rock di Canned Heat, Leaf Hound, Cactus, Free e Taste, il nostro produce anthem dalla facile presa che faranno diventare gli occhi lucidi a più di un buon vecchio fricchettone. Ma cos’è che può far diventare attraente un sound così datato nei giorni nostri? Sicuramente la genuinità degli intenti. E la forma primigenia di ispirazione. Da qui non si scappa: o le hai dentro quelle cose o altrimenti diventi anacronistico senza redenzione. Let the Lambs See the Knife è quasi uno standard ma è talmente ben eseguita e partecipata che sembra una rock'n'roll hit del 2022. Se vogliamo l’originalità a tutti i costi dobbiamo cambiare band, ma se cerchiamo qualcosa che sembra suonato organicamente davanti ai nostri occhi We Lay On Cold Stone è quello che fa per noi. Anche perché prima o poi questi sound sintetici in cui siamo sommersi mostreranno la corda e diventeranno ancora più datati del semplice suono di una chitarra. We Lay On Cold Stone esce per Blues Funeral Recordings, che pubblica pure un bellissimo LP viola in tiratura limitata. https://www.youtube.com/watch?v=Z2j-8v3WT74&ab_channel=BluesFuneralRecordings

Eugenio Di Giacomantonio

JOY – Joy
Ascoltare il disco d'esordio degli statunitensi Joy scatena impeti d'entusiasmo. Da San Diego, i tre ci regalano otto tracce di purissimo, ribollente ed esaltante heavy psych. Quello che loro stessi definiscono super loud, psyched-out, fuzz-echo driven rock. "Joy" si rivela uno dei migliori debutti degli ultimi anni. Nulla di originale, sia chiaro. Ciò che convince è la vitalità di un sound che spara fuzz e wah-wah a raffica e poggia su dinamiche a dir poco incessanti. Blue Cheer, Jimi Hendrix, Josefus, Road, Chariot e tanti altri: sono questi i riferimenti del trio. Un universo visionario, liquido e roboante, che si ispira a quanto di più acido sia accaduto nel rock tra il 1967 ed il 1972.Blues dannato, vagiti heavy, rock drogato: i Joy battono la strada di The Heads, Earthless e Orange Sunshine, con una spontaneità da far quasi invidia a Simon Price, Isaiah Mitchell e Guy Tavares. Basta ascoltare gli otto minuti dell'iniziale "Save My Soul": abbiamo appena cominciato e l'estasi psichedelica è già garantita. Rimanere fermi è impossibile. "Help Me", "Cadillac Blues" e "I Need You" sono schegge impazzite dal corrosivo spirito boogie punk; "Lovin' Man", "Evil Woman" e "Long Time Blues" sono liberazione fisica e apoteosi dei sensi, esalazione di acidi naturali emessi da amplificatori tirati a lucido. La voce grezza di Zach fa il paio con i suoi riff slabbrati e goduriosi; il basso tonitruante di Justin ed il drumming aggressivo di Paul fanno il resto. Quando si arriva alla conclusione con "Been So Long", la sarabanda allucinogena è totalizzante. L'assalto è compiuto: il caleidoscopio di Hofmann ha toccato l'infinito, e oltre. Joy: operation mindblow completed! Alessandro Zoppo
JPT SCARE BAND – Past is prologue
Spesso è duro riscrivere il passato, rivivere ciò che il tempo ci ha negato, cercare in ogni modo di restituire a chi di dovere la gloria che lo scorrere inesorabile delle lancette e la cattiva sorte hanno estorto… Negli anni ‘70 si sono sviluppate tutte le più grandi esperienze che il rock ricordi. Tra queste va annoverata anche quella della JPT Scare Band, gruppo americano che proprio in quel periodo cominciava a muovere i primi passi nella scena hard psichedelica e che purtroppo ha racimolato poca fortuna. Ma oggi, a quasi trent’anni di distanza, questo “Past is prologue” si riprende ciò che non gli è stato mai concesso e rende giustizia ad una band dal grande potenziale: si tratta infatti di una specie di ponte che unisce le lunghe jam dei favolosi seventies con la grande volontà del presente di continuare a esprimere ciò che solo la musica può comunicare. J sta per Jeff Littrell, batterista dal tocco fatato, molto a suo agio sia nel ruolo di gregario che in quello di protagonista; P sta per Paul Grigsby, bassista propulsore di ritmiche ossessive e pulsanti; infine, T sta per Terry Swope, chitarrista e cantante, nonché vero leader del gruppo, un maestro della sei corde furioso e riflessivo al tempo stesso, degno di un posto nell’olimpo dei guitar players che la storia ricordi. Il sound del gruppo è accostabile a quello dei mostri sacri dell’hard blues, e allora parliamo di Led Zeppelin, Jimi Hendrix, Cream, Groundhogs, Ten Years After, Cactus e tanti altri. Lo dimostra “Burn in hell”, track d’apertura risalente al 1974 e risuonata per l’occasione, basata su un racconto di science fiction e in questo influenzata dai primi Rush (quindi di riflesso dagli Zep…), muovendosi agilmente tra arpeggi sognanti alla Neil Young e assoli coinvolgenti ed epici come pochi. “I’ve been waiting” (registrato nel 1993) è un vero e proprio tributo ai Black Sabbath, dove da una parte la voce di Terry si fa aspra e tagliente come l’Ozzy dei bei tempi (inoltre il testo fa riferimento a temi come l’angoscia e la paranoia, cari ai primi Sabbath…), mentre dall’altra i ritmi sincopati rimandano alle esperienze di Tony Iommi con quel mostro di bravura di Ronnie James Dio alla voce, “Heaven and hell” su tutte… Con “Wino” si esplorano territori acid folk-rock, si tratta infatti di una cover del folk singer Bob Frank resa in un formato più aggressivo, dall’appeal onirico e trascinante, con dei grandissimi soli di Terry che farebbero venire la pelle d’oca anche al più insensibile tra gli ascoltatori… Davvero una grande song! “Sleeping sickness” (1976) è il pezzo più lungo del cd, quasi quattordici minuti per una favolosa jam di hard blues psichedelico, con fantastici vocalizzi sparsi qua e là nel brano, assoli hendrixiani e al tempo stesso funkeggianti con fuzz guitars e wah-wah immensi, partiture al limite del southern alla Lynyrd Skynyrd, infiltrazioni heavy alla Sir Lord Baltimore, basso ficcante e batteria senza limiti…”Time to cry” è il massimo raggiunto dal gruppo: è la vetta, l’apice compositivo dell’album, tracciato nel lontano 1975 in tredici minuti di assoluta goduria per le orecchie, con un inizio che pare uscire proprio dalla chitarra di Hendrix grazie a un Terry in stato di grazia, indiavolato alla sei corde così come rilassato nelle vocals dal mood jazzato, mentre intanto Jeff e Paul picchiano come dannati in assoluta libertà, esprimendo il vero lato senza limiti e senza concessioni della musica, quello che ormai tutti i pupazzi mascherati di oggi sembrano aver dimenticato, se mai lo hanno conosciuto. “Titan’s sirens” (altro episodio del 1975) pigia notevolmente sull’acceleratore, incrociando sulla sua strada l’operato di acts storici come Budgie, Andromeda e Mountain in una fusione di hard rock, momenti acidamente speedy e inflessioni decisamente heavy, mentre la successiva “Jerry’s blues”, track del 1976, è un tributo a Jerry Wood, leggendario bluesman del Wichita, molto orientata sul blues tradizionale (per certi versi sembra di ascoltare un mix di John Lee Hooker, Eric Clapton e Buddy Miles…) ma contaminata da un basso al limite del funky e dall’estro chitarristico di Swope. A chiudere il disco ci pensa “It’s too late (revisited)”, song del 1977 leggermente diversa da quanto proposto nel resto dell’album in quanto si orienta su lidi di psichedelia mesmerica e allucinata, dal sentore molto rarefatto alla ultimi Beatles, dunque una chiusura perfetta per un disco del genere. Giunti al termine dell’ascolto, sembra davvero di aver fatto un tuffo nei favolosi anni settanta, ma la genialità della JPT Scare Band è proprio quella di far rivivere la storia con un occhio sul presente e per questo sono un gruppo solo da elogiare…eh già, è proprio vero, il passato è soltanto il prologo… Alessandro Zoppo
JUGGERNAUT – Facial Sacrilege | Ballads By The Fireplace
Sin dalle prime note si capisce che non si scherza. “Nailscratched” parte con un doom devastante, granitico e possente. Tutte le evoluzioni del pezzo sono perfette, ora ricami chitarristici dal sapore gothic, ora il post hardcore della migliore scuola con eccezionali parti cadenzate, e via discorrendo.Un delizioso arpeggio di chitarra ci spalanca le porte per “Fistful Of Thorns”, pezzo atmosferico ed opprimente, sempre in bilico tra atmosfere rarefatte e maestose, per poi concludersi con un finale di scuola Mastodon. “Slumber” conclude questo breve ma intenso platter con estrema classe. Song percussiva e massiccia nel suo incedere, che prosegue con riff obliqui per poi lasciare spazio alle solite zone di respiro - fatte di arpeggi e delay - tipiche di questo genere. Il finale torna ad essere martellante e, senza deludere le aspettative, un breve feedback ci avvisa che il cd è terminato. Peccato, mi stava proprio piacendo. Ai Juggernaut piacciono gli Isis, i Cult Of Luna, i Burst, i Mastodon, forse anche qualcosa dei Paradise Lost. Tutto è al posto giusto, sia musicalmente che strumentalmente, con una voce che spazia magnificamente dal growl profondo allo screaming acuto, per uno dei migliori urlatori della scena estrema italiana. La band romana è attualmente alla ricerca di un batterista, utilizzo quindi questa recensione anche come bacheca annunci, questa band ha bisogno di proseguire nella strada intrapresa perchè ha tanto potenziale e le carte in regola per spaccare tutto. Davide Straccione
JUGGERNAUT – Trama!
Un'ipotetica e deviata colonna sonora per un film di Elio Petri. È questo che si potrebbe pensare di "Trama!", secondo lavoro in studio per i romani Juggernaut, che tra graniticità sludge, derive post-hardcore e spigolosità math danno vita a un concept album ispirato all'Italia degli anni 70. Il quartetto capitolino (Andrea Carletti alla chitarra, Roberto Cippitelli al basso e synth, Matteo D'Amicis alla batteria e percussioni e Luigi Farina alla chitarra e synth) racconta la storia di un giornalista che viene a contatto con un società segreta dalle mire complottistiche e resta ammaliato dalla brama di potere e dal lusso, salvo poi presa di coscienza finale.
Nel calderone musicale dei Juggernaut si trova veramente di tutto, dall'onnipresente math alla Don Caballero e Rodan ("Ballo Excelsior", "Egregoro e Crapula"), allo stoner tout court ("Pietra Grezza" e il finale di "V.I.T.R.I.O.L." e "Tenet"), ai suoni retrò e jazzati del grandissimo Piero Umiliani ("V.I.T.R.I.O.L." e "Tenet"). Tante atmosfere e influenze che risultano sapientemente miscelate e danno alla luce un lavoro solido e fluente ma che ogni tanto pecca di prolissità ("Egregoro" in particolare) e di alcune lacune a livello di carisma. Nonostante i cali di tensione che a volte pesano, ci sono tutte le premesse per fare ancora meglio: attendiamo gli Juggernaut al varco. Giuseppe Aversano
JuJu – Maps & Territory
JuJu è l'incarnazione che Gioele Valenti, musicista siciliano già protagonista del progetto Herself e con Nicola Giunta della creatura Lay Llamas, ha scelto per raccontare i suoi luoghi: il cuore del Mediterraneo. Maps & Territory è la terza tappa di questo viaggio, iniziato con l'esordio omonimo del 2016 (nel quale ha affrontato l'esodo africano contemporaneo attraverso il filtro della magia ctonia e del neo-paganesimo) e proseguito nel 2017 con Our Mother Was a Plant, "un tributo lisergico e panteistico alla cultura arcaica e alla discendenza metaforica dell'Uomo dalle piante". Il trip sonoro di Gioele prosegue approfondendo attraverso la musica acida il legame che unisce gli uomini all'ambiente naturale, il suo sfruttamento e la ridefinizione dei confini nell'epoca in cui gli esseri umani guardano alla natura per la massimizzazione dei loro profitti. Lo spiega bene Valenti nelle note del disco – "Maps & Territory esce al tempo dell'America di Trump, della Gran Bretagna del Brexit, dell'Italia disobbediente, dell'Ungheria cinta da mura e della Francia dei gilets jaunes, riflettendo sul continuo processo di contrazione ed espansione della realtà territoriale, contrapposta alla sua rappresentazione fisica e ideologica sulla mappa" – e lo conferma l'artwork di Marco Baldassarri (Sonic Jesus), dove il blu delle acque si schianta sul giallo della terra.

JuJu, in viaggio tra Maps & Territory

Reduce dalle recenti collaborazioni con Jonathan Donahue dei Mercury Rev e con i Goat, Gioele affida a JuJu l'esplorazione di questi temi concedendosi un lavoro che spazia a 360 gradi tra psichedelia, fuzz rock, elettronica e jazz. C'è di tutto in queste sei canzoni, dal mix di blues nomade e visionario kraut rock dell'iniziale Master and Servants all'ethio-jazz soffuso mischiato all'elettronica della conclusiva, bellissima Archontes Take Control, realizzata in collaborazione con la compositrice Amy Denio. In mezzo, scorre lo scatenato afrobeat di I'm in Trance (c'è il buon Goatman ospite della traccia), un brano che mette in musica tutto lo sradicamento dei tempi moderni, l'ansia di "civilizzare il capitalismo" e la liquidità diffusa che ha condotto al libero sfruttamento dell'ambiente, della terra, dei mari e dell'aria. Sorprende anche la versatilità di una traccia come Motherfucker Core, che parte ipnotica e suadente e si conclude con un forsennato e ribelle beat disco-psych. La varietà di toni è così cercata e marcata (e per alcuni potrà apparire il vero limite di Maps & Territory) che If You Will Fall va oltre ogni confine psichico e fisico tra sonorità sincopate e voci manipolate, mentre God Is a Rover riassume perfettamente le influenze stilistiche di Gioele: stravolgere un impianto melodico pop e farne specchio psichedelico distorto di questo nuovo Millennio. In tempi caotici e difficili da comprendere come quelli che stiamo vivendo, caratterizzati dall'ipocrisia europeista e sovranista (nei fatti, due facce della stessa medaglia), la musica di JuJu si conferma decisiva ed essenziale. https://www.youtube.com/watch?v=dVHvQHxa8po
JUMBO’S KILLCRANE – The slow decay
Questo è il quarto album degli estremi Jumbo's Killcrane, doom-prog band proveniente dal Kansas: non ho avuto modo di sentire i precedenti lavori ma quello che posso sicuramente dire è che questo è veramente un macigno pesantissimo! Cinque lunghi pezzi più un breve intro caratterizzati da riff oscuri e lentissimi, pesanti e apocalittici, e dalla voce urlata di Erick Jarvis che celebra la decadenza del genere umano.Estremo e poco confortevole questo lento heavy rock/metal sembra studiato a tavolino per distruggere la mente e gettare l'ascoltatore nel più profondo degli abissi: non un momento di relax, non un momento per prender fiato la marcia oppressiva di queste tracce è semplicemente devastante" Per la pesantezza del suono e la complicatezza con cui si articolano le composizioni sicuramente non siamo di fronte ad un lavoro molto accessibile e probabilmente solo gli aficionados del doom più estremo potranno coglierne ed assaporare tutte le sfumature, ma posso dire senza alcun dubbio che si tratta di un buon lavoro. Bokal
JUPITER JEFFERSON – West
I Jupiter Jefferson sono un duo proveniente da Buffalo. Il progetto è animato da Aaron Armstrong (voce, chitarra, moog, organo) e Michael Farry (batteria, percussioni), due appassionati del sound psichedelico in tutte le sue forme. “West” è il loro primo lavoro e rispecchia la voglia del gruppo di ampliare/destrutturare forme e modi dell’acid rock. Guardano alla grande tradizione degli anni ’60 e ’70 i Jupiter Jefferson, con l’intenzione di osare e un occhio costante rivolto alle evoluzioni sonore degli ultimi venti anni (da una parte l’ondata neo psichedelica di Loop, Chrome e Spacemen 3, dall’altra il nuovo movimento psych trainato da folletti lisergici come Dead Meadow, Black Angels e Dark Fog).I sei brani che compongono l’album sono un ottimo biglietto da visita, considerando soprattutto che stiamo parlando di un esordio assoluto. I riff scarni e coinvolgenti di “Sunshine” e “Ice house” poggiano su melodie languide e atmosfere sognanti, ci introducono in una dimensione melliflua dove il corpo perde peso e vola alto nel cielo. “Never” e “Afterglow” sono lunghe fughe psichedeliche verso un altrove ignoto, dei morbidi affreschi che con la loro forza ammaliante producono un incredibile stato di trance. La title track e “Zero” puntano invece sul versante acustico, rimandando spesso e volentieri al cantautorato di Nick Drake, Tim Buckley e Neil Young. “West” è scaricabile gratuitamente dal sito della band, altro motivo per non farsi scappare questa piccola, sorprendente rivelazione. Jupiter Jefferson, music from the left side of the garage. Alessandro Zoppo

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