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T.H.U.M.B. – Lunar Flight
L'uscita di questo "Lunar flight" da parte dei T.H.U.M.B. rappresenta senza dubbio un nuovo colpo per il panorama stoner tricolore. Innanzitutto perché vede materializzarsi un sodalizio tra la band trevigiana e la Wuck Records, etichetta di Fabrizio dei Black Hole Of Hulejira. Poi perché produzione, realizzazione ed esecuzione di questo ep sono stati fatti in maniera veramente professionale. Quattro brani che ampliano le coordinate sonore del gruppo e grazie all'introduzione di synth analogici spingono verso nuove lande tutte da esplorare. Rispetto alle uscite precedenti (ricordiamo l'ultimo ep "Overloaded rock'n'roll") il songwiriting si è arricchito di fumose vibrazioni psych, matasse avvolgenti che opprimono con le loro derive astrali e futuristiche. Un tuffo nello space rock insomma, condito con i soliti riverberi fuzz tipici dello stoner ed un impatto radicale preso in prestito direttamente dal punk. E' proprio il brano iniziale, "Lunar flight", a segnare un nuovo punto di partenza per i T.H.U.M.B.: nove splendidi minuti di heavy psych espresso ai suoi massimi livelli, ricco di ondate sconquassanti e vocalizzi quasi innaturali. Insomma, una spaventosa cavalcata verso il cosmo: senza mezzi termini il miglior brano mai composto dai tre. La successiva "Wasted words" ha invece un andamento ipnotico degno dei compianti That's All Folks!, incentrato su un riff grasso e su ritmiche paralizzanti. I rumori strampalati di "Kobal, the eggman from Venus" preludono al gran finale di "Magic drug", stoner con piglio punk, dopato al punto giusto per chiudere in bellezza un dischetto da far paura. Chi criticava i T.H.U.M.B. o ne snobbava le qualità ora dovrà ricredersi. Peccato si tratti di soli quattro pezzi... In attesa di un full lenght godiamoci i frutti acidi di Bokal e compagni. Alessandro Zoppo
T.H.U.M.B. – Overloaded rock ‘n’ roll
La provincia di Treviso si presenta ricca e in pieno fermento su tutti i fronti del genere rock. I T.H.U.M.B. si affacciano nell'ambito dello stoner più crudo nel 1999 arrivando a pubblicare il loro primo promo CD nel 2000. Un secondo demo è stato pubblicato nel 2002, mentre l'EP che abbiamo tra le mani risale alla primevara di quest'anno. Attualmente il trio è impegnato nella realizzazione del loro primo album. "Overloaded rock 'n' roll" si presenta duro, compatto, un muro invalicabile di fuzz guitar che scuote l'ascoltatore e lo lascia senza fiato. Suoni rudi, registrazione priva di alti, un tappeto di suoni bassi e distorti che avvolgono. "Devil woman" è lo specchio di quanto detto. Un grasso riff che viene portato avanti su un fondale scuro e opprimente. Il groove che ne scaturisce ci avvicina a quanto espesso dai Nebula. "Echoes & Daemons" aggiunge un tocco psych che si dilata nel finale decisamente acido. Liz, batterista senza scrupoli, pesta con decisione le pelli, mentre la chitarra di Luca enfatizza l'animo stoner con feedback di tutto rispetto. "Sickin'" si muove su ritmi più accelerati con cambi di tempo che raggiungono l'apice nella parte finale del brano. "Desire (crazy enough)" mette in mostra una buona sezione ritmica, sostenuta dal basso ruvido di Bokal. Song marcatamente venata di un certo hardcore. La conclusiva "Loosing your way" è il quinto pugno allo stomaco. Ritmo serrato e finale dilatato da uno psych stoner accompagnato dalle tastiere di Matt Bordin, chitarrista degli OJM (altra ottima formazione trevigiana). I T.H.U.M.B. si presentano decisi e sicuri. Le qualità ci sono e lo sforzo per sviscerare queste sonorità in un contesto difficile come il nostro Paese è solo da premiare. Se la parte vocale riuscirà ad elevarsi su canoni più originali e meno filtrati, i T.H.U.M.B. potranno dire la loro in maniera più incisiva. Attendiamoli al varco del full lenght. Peppe Perkele
T.H.U.M.B. – Primordial Echoes for Modern Bigfoots
Il super stoner torna all'assalto con "Primordial Echoes for Modern Bigfoots", atteso ritorno dei trevigiani T.H.U.M.B. a ben sei anni dallo scioglimento. Una reunion insperata per il power trio che in passato ci aveva deliziato con album drogati e irsuti come "Overloaded Rock'n'Roll" e "Lunar Flight". Paolo 'Bokal' (basso, voce), Luca 'The Zmudah' (chitarra, voce) e Lisa (batteria) sono sempre gli stessi, fautori di uno stoner granitico, imbastito a dovere con infiltrazioni space, cannonate rock'n'roll e vibrazioni Seventies. La registrazione è sporca e garage, tuttavia non si dà molto peso a quest'aspetto: qui contano le canzoni, che restano polverose, monolotiche, allucinatorie.Bordate stoner rock che fanno gelare il sangue nelle vene ("Inconsistence", la bellissima "Superlover", "Pietrosaurus"), arditi e melodici passaggi boogie ("Road Song"), intermezzi acustici da sbronza al bar ("Lived Narrow"), bizzarre zuffe western stoner ("East Clintwood"). Tutto ciò erano e sono i T.H.U.M.B., propulsori incontenibili della psichedelia heavy. Passaggi lavici di marca sabbathiana ("Monstergods") e aperture lisergiche ossessive ("Into the Deepest Green") conducono fino alla commovente cover di "Wear It Out ", dal colosso "Dope Deal" dei mai troppo compianti 500 Ft of Pipe: pura archeologia heavy psych. Il finale epico ("Reaching the Afterglow") e dopato ("Stonebridge Deluxe") congeda con la grazia di un mammut da questo universo monolitico e cavernoso. Se il moderno uomo bigfoot è alla spasmodica ricerca di viaggi stoner psych, ecco la ricetta ideale per soddisfarne gli umori. Alessandro Zoppo
TALISMAN STONE – FactoCrux II
Giovane duo (Dead Channel voce, basso e synth) e Luce (batteria) dedito ad uno spigolosissimo dark/noise dai richiami shoegaze e goth rock, i Talisman Stone piazzano sul loro secondo Ep tre brani di media durata nei quali ci spiattellano tutti i loro incubi industrial-analogici, ricorrendo alle evenienze del caso: giri di basso discretamente avvolgenti, estenuante utilizzo del feedback, vocals demoniche e camaleontiche, ritmica scarna, variazioni di velocità, synth intrecciati e quant'altro. Una versione neolitica di Swans, Godflesh, Jesu, ma molto spostata filosoficamente verso la wave '80 e il post punk, di cui si ravvisa in qualche maniera il malessere esistenziale. In "Internal Dictatorship" il basso sporco e le vocals crudelmente ribassate, assieme ai criptismi centrali e ad un finale vagamente doom/dark sono le cose meglio riuscite. Stesso discorso per "Event Horizon", nella quale è la voce di Dead Channel che sorregge un po' il tutto, mentre "Troll's Truth" propone il miglior riff di basso dell'intero EP e stop'n'go (sempre molto sporchi e noise) della scuola goth coi relativi marzialismi, che uniti a un discreto lavoro synth/distorsori raggiungono il loro effetto da sinfonia del terrore post-dark. Le idee ci sono e gli sprazzi creativi raggiungono il loro livello di interesse, ma ancora non bastano a convincere, anche se l'ansia straniante e il continuo sforzo di variare i brani al proprio interno, potrebbero essere le frecce migliori nell'arco dei Talisman Stone. Roberto Mattei
TALISMAN STONE – Lovecraftopolis
Un fiore appuntito ed aguzzo colore dell'oro. Immagine ispida ed avvolgente allo stesso tempo. Visioni lugubri e decadenti addolcite da aromi speziati e da una sensibilità squisitamente femminile. Al secondo full lenght i Talisman Stone ci offrono la lettura più candidamente sperimentale della propria metà oscura. Double bass, drums and sitar. Voce maschile più voce femminile. La chitarra non conta. Non serve. Se pensate che il muro di suono così prodotto non è sufficiente a stordirvi da capo a piedi, beh, terminate qui la vostra lettura e inserite un disco di Yngwie Malmsteen. Se invece avete bisogno di pura malvagità Burning Witch, corroborata dal lento passo Sleep, allora procuratevi questo "Lovecraftopolis" e buon viaggio all'inferno."By the Sun of the Light Keeper" è il biglietto d'ingresso: pure doom from other space. La voce di Erica ammalia con cantilene da maga circe e la distorsione che creano i due bassi viene stemperata da dolci passaggi di "pattern" ambientali. Qualcosa che va in direzione shoegaze ma senza insistere sui stilemi del genere. "Internal Dictatorship" insiste sull'argomento con generosi innesti di flauto e tabla (suonate da Lucia) ma è un'istante, perchè Andrea, degno sacerdote del rito growl, riporta tutto su coordinate nere come la pece. Uno/due iniziale niente male, considerano che siamo già oltre i quindici minuti di esperienza lisergica. Il centro del disco propone due capitoli fondamentali e profondamente legati: "Power Is a Splendid Shroud" e "Lovecraftopolis (Part I)". La prima spalanca le porte sul gange, fiume sacro che proietta i propri demoni interiori all'esterno. Un lungo e ispirato intro con sitar addolcisce l'orizzonte, ma, come ogni elemento in questo disco, è solo la controparte del maligno. Oltre dieci minuti di saliscendi emotivo e siamo pronti per la chiusura con la title track, una versione sciamanica di come avrebbero potuto suonare gli OM se fossero nati nella generosa terra romagnola. Nell'intermezzo la musica tace per un secondo ed Erica offre i suoi lamenti all'infinito che ha di fronte. Pura esperienza mistica. Poi, lentamente, i due bassi continuano a rullare e tutto, delicatamente, si spegne. Originalità e voglia di sperimentare: questo è quello che ci piace nella nutrita schiera di gruppi italiani che si sta nutrendo di doom, occult rock, alchimie segrete e droghe sconosciute. Hail to magicians! Eugenio Di Giacomantonio
Tame Impala – Innerspeaker
I Tame Impala sono una nuova "sensazione" nel mondo dell'alternative rock proveniente da Perth. Dopo l'EP di esordio del 2009, i tre giovani australiani hanno compiuto notevoli passi da gigante sia per quanto riguarda la produzione, che per la scrittura ed ovviamente la personalità, fattore non di poco conto ai giorni nostri. Se nel precedente disco i paragoni con Cream, Pink Fairies e Pretty Things erano piuttosto ingombranti, il gruppo, pur mantenendo certe reminiscenze hard blues, si è spostato verso una forma di psichedelia di stampo britannico, abbracciando lo spazio temporale che va dai primissimi anni Novanta (e forse anche qualcosa prima) fino al nostro decennio. Ecco allora plasmarsi questo "Innerspeaker", un lavoro di tutto rispetto che sa essere delicato ma anche intenso, deviato ma altresì ispirato e non di meno coinvolgente. Gli undici brani che lo compongono (più la bonus track "Island Walking") non sfuggono però alla tradizione dei Beatles (impressionante la timbrica vocale di Kevin Parker che rammenta John Lennon) e Pink Floyd (soprattutto nella sperimentale "Runaway, Houses, City, Clouds"). Ma c'è dell'altro, tanto altro a rendere il tutto così variopinto ed eterogeneo: si ascoltino ad esempio i rimandi shoegaze in classico stile Ride di "It Is Not Meant to Be" o la contagiosa "Solitude Is Bliss", dove la melodia beatlesiana si scontra con la moderna rilettura psichedelica di gruppi quali Stone Roses e Charlatans. Ovviamente non mancano i chitarroni di chiara matrice hard ("The Bold Arrow of Time", debitrice di Blue Cheer e The Stooges) mentre la trascinante "I Don’t Really Mind" - quasi un tributo al rock dei Kinks - declina la conclusione dell'album in maniera davvero convincente. Che sia proprio questa la psichedelia del nuovo millennio? https://www.youtube.com/watch?v=-F2e9fmYL7Y Cristiano Roversi
TANDOORIS, THE – Walking blind
Dopo l'exploit degli ultimi splendidi lavori di On Trial, Baby Woodrose e Gallery Of Mites la ripresa di suoni garage non sembra voler finire, anzi, si arricchisce di raffinatezze e sfumature. Questa volta ad essere protagonista è l'Argentina, paese di provenienza dei Tandooris, trio giunto all'esordio su No Fun Records dopo aver preso parte a varie compilation garage rock sud americane. L'esplosione di colori psichedelici che emana questo "Walking blind" riporta alla luce un genere che ormai tutti credevano sepolto: ma se le peculiarità del garage sono i suoni ruvidi e pastosi, i Tandooris affinano maggiormente la loro proposta grazie ad arrangiamenti curati, una produzione pulita (fin troppo…) e un'abilità compositiva che abbraccia il beat ed evoca fantasmi beatlesiani. Una dozzina di canzoni eseguite alla perfezione da Darìo Georges (chitarra, voce), Juan Bordòn (basso) e David Gutierrez (batteria e percussioni), i quali impreziosiscono il tutto anche grazie all'utilizzo del photosizer, particolare sintetizzatore fotosensibile usato per la prima volta nella realizzazione di questo disco. Ecco allora sbucare fuori matasse garage psych dal bagliore accecante come "You complain to much", "I see pixelations" e "Two bells", piccole pepite (il richiamo ai "Nuggets" è più che evidente…) dove emerge il gusto dei tre per fuzz guitars, melodie zuccherose e sapori sixties. Ma i Tandooris non sono solo questo: l'ottima vena che li contraddistingue viene allo scoperto attraverso l'irruenza punk di "Head held high", gli inserti di armonica di "Can't be undone" e le focose partiture d'organo di "Tell me if you love me". Insomma, un amalgama che affascina per la sua freschezza e il suo gusto retrò. Nessun amante di sonorità vintage deve farsi scappare questo "Walking blind", soltanto un capolavoro come "Sweeter & higher" ne vale l'acquisto… Alessandro Zoppo
TARAS BUL’BA – Incisione
Davvero un gruppo strano i milanesi Taras Bul'Ba, a partire dal nome (personaggio di un romanzo classico di Gogol). È un complimento, ovvio, perché di band simili ce ne sono davvero poche. Nati nel 1996 e già con diverse uscite alle spalle (due cd autoprodotti tra il 2000 e il 2002), è stata la Wallace Records a spianare loro la strada del full lenght ufficiale dando alle stampe "Incisione". Otto brani completamente strumentali da assaporare tutto d'un fiato, senza far tanto caso a titoli o riferimenti. Già, perché i Taras (Roberto - batteria -, Andrea - chitarra - e Roberto - basso -) amano trascinarsi (e trascinarci) in un gorgo oscuro grazie ad un sound d'impatto, nervoso, isterico, a tratti angosciante.Vengono percorsi i sentieri battuti in passato da gruppi come Shellac, Don Caballero, Scorn o Jesus Lizard. Prevalgono ritmiche sincopate, riff notturni, atmosfere liquide ed altrettanto rabbiose. Basta dosare in parti uguali il noise, le asprezze progressive e la franchezza dell'hardcore (o anche la complessità del post core, o anche quello che vi pare). L'importante è sottolineare come ciò che risulta sia un muro sonoro teso e vibrante, tutto scossoni, momentanee stasi ed inquiete ripartenze. Si perde un pizzico di immediatezza ed incisività di songwriting nel fluire dei suoni (nel senso che spesso si fatica a distinguere tra un brano e l'altro), ma crediamo sia una precisa intenzione dei tre. La volontà di coprirci, di avvolgerci con un suono denso e corposo, articolato ed ipnotico. Tanto astratto da risultare maledettamente psichedelico. In questo i Taras Bul'Ba ci riescono in pieno e ci colpiscono dritti nel cuore. Da seguire con grande attenzione. Alessandro Zoppo
TARSVS – IV
Echi di pianure ghiacciate, silenzio della meditazione, bordate di ultrasuoni come monsoni: ecco ‘IV’, disco d’esordio dei Tarsvs di Roma, una piacevole sorpresa. I ragazzi provengono da formazioni capitoline come The Hands of Orlac e Snake Cult, ma in questo nuovo progetto sono riusciti a dare una nuova sintesi alla loro visione musicale.Si parte con "Long Time No See" e si rispolverano i vecchi Pink Floyd, quelli che ci piacciono di più: dilatati, riverberati, con voci lontanissime ad urlare dietro una coltre di effetti. Tuttavia è un attimo: un accelerazione improvvisa travolge tutto e noi volentieri ci facciamo trasportare in questa rete di scontri sonori. Un riff à la Stooges con wah wah ci introduce a "Children of the Sun", dove nel bel mezzo la voce solitaria di Marcello invoca i figli del sole con una nenia ipnotica: le coordinate per scoprire il pezzo ruotano tutte attorno alla migliore tradizione prog italica e nord europea ed è proprio un bel sentire! "Goin' Mordor" rallenta i giri per far si che anche i più restii a farsi catturare inizino a scapocciare dietro un groove sexy e malato dove una chitarra fuzz viene tramortita, nel mezzo, da un assolo di basso caldo come un liquido pesante! Uscito allo scoperto, è proprio il basso ad introdurre il mefitico giro di "Like Leaves Whispering" che insozza di materia doom una epica tipica dei primissimi Iron Maiden, ma i riferimenti per i Tarsvs sono esclusivamente un gioco dove rincorrere le proprie espressioni, senza mai macchiarsi di plagio e con il gusto tipico di sa riappropriarsi delle radici. I ritmi calano ulteriormente e i battiti rallentano: è l'ora del commiato di "Galactus", una visione del cosmo dove lento e veloce creano le contraddizioni giuste per rimanere spaesati di fronte al viaggio solitario nell'universo; echi infiniti ci congedano dallo stupore che abbiamo attraversato... Simile nelle intenzioni e nello sviluppo al disco omonimo degli Astra, questo dei Tarsvs potrebbe piacere a chi, come Lee Dorian, è alla ricerca di un nuovo sapore della musica prog, senza stereotipie, con la mente aperta a melodie gradevoli, senza mai scadere nel puro gusto accademico di autocompiacimento. Andate a vederli dal vivo e se potete brindate con loro: lunga vita ai Tarsvs! Eugenio Ex
TAURA – Mil silencios
Il bianco e nero che caratterizza il bellissimo artwork di "Mil silencios", disco d'esordio degli argentini Taura, è anche l'anima di un'intera nazione. Delusa, in ginocchio, ma sempre forte, vitale, subito pronta a rialzarsi. I Taura mettono in musica sentimenti profondi, colmi di una malinconia che esplode in riff possenti e dolci melodie.Vengono in mente i Kyuss più riflessivi e le vibranti emozioni tipicamente latine che band come Los Natas e Poseidotica ci hanno fatto scoprire. Stoner rock insomma, ma con un gusto particolare, unico e riconoscibile. Alejo (batteria), Chaimon (voce), Leo (basso) e Santiago (chitarra) costruiscono canzoni sentite, piene di pathos, che colpiscono dritto al cuore. L'album è composto da quattordici brani e a tratti l'intensità ne risente, tuttavia l'alchimia che si crea tra vocals delicate (complici i testi in spagnolo), chitarre furiose e ritmiche piene è davvero preziosa. L'avvio affidato a "Miramar" e "Correcaminos" è eloquente: stoner sì tirato ma bilanciato da un passionale senso melodico. L'hard kyussiano viene fuori soprattutto in "Jenizaro" e nella stupenda "Muelle", senza però che il deja vù sia presente. Anche perché un brano come "Aconcagua" (ballad dai sapori grunge) è segno di doti compositive mature, confermate da altri episodi ("Halo de luz", la title track) dove la psichedelia più dilatata prende il sopravvento. La formula dunque funziona, e ci fa comprendere molto sulla vita di un paese, molto più di quanto non facciano immagini televisive o opportuni commenti giornalistici. Soy el fin del mundo, soy el fin del color. Alessandro Zoppo
TAURA – Promo 2002
Ancora stoner rock e ancora una volta dall’Argentina: dopo il successo colto dai precursori Los Natas e l’ondata capitanata da band come Buffalo, Santoro, Gonzalez e Cruevo, è la volta dei Taura, recensiti (purtroppo…) con notevole ritardo rispetto alla data di uscita di questo promo (il 2002). Quanto fatto ascoltare da Alejo (batteria), Chaimon (voce), Leo (basso) e Santiago (chitarra) conferma l’ottima vena che ispira i gruppi argentini: stoner rock diretto, carico di riff possenti ma mai banale, imperniato su melodie efficaci e testi cantati in lingua madre. Anche la registrazione e l’artwork sono validi ed altamente professionali, nessuna sbavatura quindi, a dimostrazione di uno stato di forma che da diversi anni ormai contraddistingue la scena heavy psych del paese sud americano. L’inizio affidato a “Correcaminos” mette subito in chiaro di quale pasta siano fatti i quattro: stoner fuzz rock sparato a mille, drumming forsennato e la voce di Chaimon ad emergere per versatilità e potenza. “Jenìzaro” si indirizza invece su binari più strambi e contorti, come a voler assimilare la lezione che i padrini del nuovo rock sghembo e deviato (leggi Queens Of The Stone Age) stanno impartendo a generazioni di musicisti. A chiudere il dischetto (oltre una stranissima ghost song techno…) troviamo “Muelle”, il pezzo più psichedelico del lotto: sostenuto dal groove delle ritmiche e dai wah wah di Santiago, è l’episodio migliore di tutto il lavoro per varietà stilistica, capacità strumentale e ricerca melodica. Altra grossa sorpresa questi Taura, che l’Argentina abbia davvero sorpassato la Svezia come nuovo Eldorado dello stoner? Alessandro Zoppo
TEARS AND RAGE – Welcome Inside
Davvero una lieta scoperta i Tears and Rage. Si formano nel 2002 da un'idea di Joe Santelli (voce, chitarre), accompagnato in questa avventura da Paolo Chiaia (tastiere, armonica), Marco Verteramo (basso) e Salvatore Greco (batteria). La voglia dei quattro è di riportare a galla lo spirito seventies che ha reso immortale il rock duro di quegli anni. Ecco dunque questo 'Welcome Inside', primo lavoro composto da otto tracce che si dividono tra hard, blues, southern e psichedelia. Numi tutelari Led Zeppelin, Cream, Free, Jimi Hendrix, Allman Brothers, con un occhio al revival odierno operato da altri cultori della materia come Black Crowes, Firebird e i nostrani Wicked Minds.Le canzoni del disco suonano toste e genuine, non certo originali. Il songwriting è infatti mosso da una sana passione e la registrazione, per quanto possa apparire calda (il disco è stato registrato quasi tutto in diretta), risulta accurata fin nei minimi dettagli. L'opener "Revolution in my head" è un biglietto da visita inequivocabile: hard southern con un chorus che leva subito il fiato. "I've looked for your eyes", "Never" e "Ride the wind" proseguono sulla stessa marcia, piegandosi ad un bollente e vigoroso mood bluesy. "Empty glass" e la title track sono invece episodi dal tocco (sin troppo) pop imbevuti però di invitanti dilatazioni psichedeliche. Mentre "Lyn" e la seconda parte di "Empty glass" piazzano il colpo strumentale, percorso che i Tears and Rage affrontano scatenando i propri istinti, tra chitarre aggressive, ritmiche pulsanti e un hammond infuocato. 'Welcome Inside' è un disco affascinante e fresco, per quanto suoni 'fuori dal tempo'. Vecchi sapori che non passano mai di moda. Alessandro Zoppo
TEARS|BEFORE – Reversal
Da Belluno con furore. “Reversal” è il debutto dei Tears|Before, notevole quintetto che si candida ad entrare di diritto nei cuori di chi ascolta “hardcore evoluto”. Si sono messi in quattro per far uscire questo lavoro infuocato e corposo: Cynic Lab, Weirdo, The Left Hand e Swarm of Nails. Applausi per queste realtà indipendenti che operano per portare qualità, professionalità e marciume ai nostri padiglioni auricolari.Chi si ciba di Converge, Botch, Coalesce, Knut e Meshuggah non può farsi scappare questo dischetto di cinque pezzi. Compatte e rabbiose le ritmiche di basso e batteria, coriacee e graffianti le due chitarre, nervosa e schizzata al punto giusto la voce di Alessandro. A partire dall’introduttiva “Zero” passando per le bordate di “Thounsand Dog Days” e della bellissima “Portland” si assapora il gusto per uno stile tutto riff ossessivi e trame intricate, che poco spazio lascia a tecnicismi o esasperazioni formali. Sorprende il taglio drammatico di “From Vegas”, così come le impalcature progressive della conclusiva “Naked Lunch”. Una band con un futuro radioso i Tears|Before, specie se con il prossimo lavoro sapranno uscire dalle sacche - spesso derivative e stantie - del cosiddetto postcore. Lo auguriamo vivamente, a loro e a noi stessi. Alessandro Zoppo
TEARWAVE – Tearwave
Letteralmente il nome del gruppo significa “ondata di lacrime”, sarebbe opportuno aggiungere “di nostalgia”. Già, perché ascoltando questo disco il sentimento predominante è la nostalgia, il sapore dolce amaro che accompagna questa sensazione ogni qualvolta essa si presenta. Siamo in campo shoegaze/dreampop, la musica nostalgica per eccellenza; la musica dove le note nascondono delicatamente una malinconia vellutata, appena accennata ma percettibile agli orecchi degli ascoltatori più sensibili.Tearwave incarnano il lato più dolce del genere, e le loro canzono appaiono come specchi dove si riflettono Lush, Cranes e Cocteau Twins. Musica psichedelica sussurrata, non priva di slanci elettrici che comunque non disturbano l’ascolto, musica che fa da sfondo ad una splendida voce femminile che lascia ammaliati al suo sentire. Il trittico iniziale è pura magia dream pop con tre canzoni (“Lotus flower”, “Emotional coccon”, “Trial by fire”) una più bella dell’altra; “Dream bliss” è il matrimonio fra Lush e Cranes e la conclusiva “Nightingale” è una ballata shoegaze da ascoltare all’infinito, immaginando orizzonti infiniti e non perdendo mai la speranza. Marco Cavallini
Teeth of the Sea – Wraith
La stampa di settore lo definisce avant-gard art rock. Sarà, ma il sound dei Teeth of the Sea è materia tutta a sé. La loro storia comincia dieci anni fa, quando Jimmy Martin incontra Sam Barton e Mike Bourne in un negozio di dischi a Oxford Street, Londra. Dall'esordio del 2009, Orphaned by the Ocean, ai bellissimi Highly Deadly Black Tarantula (2015), Master (2013) e Your Mercury (2010), passando per la colonna sonora di A Field in England di Ben Wheatley, ne è passata di acqua sotto i ponti. Quando li abbiamo visti all'Eindhoven Psych Lab 2015,  è stato uno spettacolo unico e incredibile. Wraith è il loro quinto album ufficiale e non fa altro che ribadire quanto andiamo sostenendo da anni qui a bottega: i Teeth of the Sea sono uno dei migliori gruppi attualmente in circolazione. Elettronica, jazz, psichedelia, kraut, post rock. C'è di tutto nel loro brillante amalgama sonoro, che in questo lavoro cita Tetsuo di Shinya Tsukamoto, i demoni di Judee Sill, il minimalismo di Steve Reich, le chitarre acide di Helios Creed e Acid Rock di Rhythm Device (la creatura del produttore belga Frank De Wulfe: un cult della techno old school). Wraith è stato registrato al Lightship 95, un particolare studio costruito nelle viscere di una nave di 75 anni fa e pesante 500 tonnellate, attraccata sulle rive del Tamigi, in una delle zone più oscure e selvagge di East London. Una location insolita ma adatta ad evocare lo spettro che dà il titolo all'album, una sorta di incubo ad occhi aperti che attraversa i nove brani di questo disco. Un'antologia del contemporaneo che poggia su uno dei brani più belli scritti dal trio: Visitor. Otto minuti nei quali gli avvolgenti sintetizzatori, la tromba glaciale (un elemento ormai tipico del gruppo) e le chitarre aggressive si fondono in un viaggio ai limiti dello spettro sonoro (appunto). Visitor ospita la percussionista Valentina Magaletti (Tomaga, Raime, Vanishing Twin), tra i numerosi guest del disco: il DJ e produttore londinese Erol Alkan (nell'iniziale I'd Rather, Jack i suoi beat forsennati travolgono dal primo ascolto), Chlöe Herington (Chrome Hoof, Knifeworld, Valve) e Katharine Gifford (The Wargs, Snowpony, Stereolab). Hiraeth (parola che in gallese indica la nostalgia di casa) è una composizione cinematica e morriconiana, Fortean Steed abbraccia l'ambient e si apre a soavi voci femminili, Her Wraith fa invidia a buona parte degli sterili gruppi dark e prog di oggi, la conclusiva Gladiators Ready suona come un'esperienza sonora che immagina il passato ma lo declina al presente in una liminale e superba riflessione sul tempo che scorre. Insomma, ce n'è davvero per tutti i gusti. Teeth of the Sea, ovvero come continuare ad aspettarsi l'inaspettato. https://www.youtube.com/watch?v=fiQqjOrbA-8 Alessandro Zoppo
TELSTAR SOUND DRONE – Comedown
Strana storia quella dei Telstar Sound Drone. Nascono nel 2007 per volontà di Hans Beck (batterista dei Baby Woodrose), il quale coinvolge l'amico Mads Saaby nel collettivo transmediale Les Aprés l'Amour Sonnes: il progetto è sonorizzare vecchi film educativi. Curioso. Con l'arrivo di Sean Jardenbæk la formazione si trasforma in Telstar Sound Drone, ma dopo un EP e l'esibizione al festival di Roskilde problemi personali mandano in frantumi la band. Beck resta solo e grazie all'interesse della Bad Afro registra comunque il 7" "Mirror Pieces". È il 2011 e il buon Hans si ritrova nella creatura di Lorenzo con il vecchio sodale Mads, il primo alla batteria e il secondo alla chitarra. Con il ritorno di Sean il gruppo si riassesta e ci regala questo "Comedown", compendio di psichedelia liquida e acidità paralizzanti. Rispetto ai Baby Woodrose i Telstar Sound Drone tralasciano le componenti garage e flower power, focalizzando l'attenzione su un lysergic rock espanso e mellifluo. Il risultato è a dir poco sorprendente: le sette canzoni proposte scorrono trascinanti e solari, tra fughe sognanti, reiterate ritmiche circolari, vocals aggraziate e chitarre graffianti. Collaborano al tutto il misterioso Hobbitten (Spids Nøgenhat), Christian Norup (Highway Child) e Kåre Joensen (Baby Woodrose). Per la serie: alla Bad Afro le cose si fanno per bene. Apre le danze "Through the Back of Your Head", potenziale hit da raduno hippie. "Satellited" ha un approccio space gentile e vaporoso, "Feels Like a Ride" è un rito che rinnova lo spirito dei Velvet Underground in chiave Black Angels e Dead Meadow. E la personalità nella rilettura non manca affatto, anzi. L'iniziezione acustica di "Now See How" ne è fulgido esempio. Tra Loop e Sun Dial, "Evaporation" pigia sull'acceleratore per poi aprirsi in un vortice da autentico sballo; "Lost Our Love" sembra la colonna sonora di un musical che porta il paganesimo a Hollywood; la conclusiva "Cabin Fever" segna il definitivo abbandono del corpo nell'estasi totale del rock psichedelico. Abbiamo aspettato sei anni per ascoltare "Comedown" ma ne è valsa veramente la pena. Con questo disco i Telstar Sound Drone entrano in grande stile nel cuore di chi l'acid rock lo ama sul serio. Alessandro Zoppo
TELSTAR SOUND DRONE – Magical Solutions to Everyday Struggles
Ascoltare "Magical Solutions to Everyday Struggles" è come camminare su una nuvola. Dopo l'illuminante esordio "Comedown", il secondo lavoro dei Telstar Sound Drone conferma tutte le qualità della band danese. Un sound capace di passare con disinvoltura da atmosfere liquide, soffici ed eteree a sgroppate tese, selvagge e altamente psicotrope. È ormai un marchio di fabbrica in casa Bad Afro: prendere la psichedelia e maneggiarla con cura certosina, sempre un passo prima di cadere nella maniera. Sembra facile, eppure non è cosa da poco.
I Telstar Sound Drone sono dispensatori di cure per un mondo migliore. Hanno registrato questo disco nell'arco di quattro mesi, isolati all'interno di un piccolo e buio rifugio antiaereo risalente ai tempi della Seconda guerra mondiale. Giorni e notti passati a scrivere e incidere, in uno spazio-tempo tutto loro, che dribbla la claustrofobia paranoide del contesto e trasforma il loro psychedelic rock in un incrocio di shoegaze e drone. I feedback regnano sovrani, complici le presenze di ospiti speciali come Hobbitten (Spids Nøgenhat, ex On Trial) alla chitarra, Christian Norup (Bite the Bullet) al basso e Kåre Joensen (Baby Woodrose) tra basso e synth, che si sono affiancati al nucleo della band composto da Sean Jardenbæk (voce), Hans Beck (batteria) e Mads Saaby (chitarra).
Dalle movenze sinuose di "Drugs Help" (mai titolo fu più eloquente) e "Something I Can't Place" ai soundscapes dipinti in punta di electro beat da "Your Finger Stirs the Liquid Moon", "Magical Solutions to Everyday Struggles" è un susseguirsi ininterrotto di emozioni profonde, che culminano nell'estasi di "Dark Kashmir", il miglior brano del lotto nonché una delle più sublimi composizioni psych ascoltate negli ultimi tempi. È così che "Closer Again" e "Strange Apples" incrociano asperità space e delicatezze pop, "Mad Seeds" e "Dead Spaces" martellano con riff sospesi nel vuoto, dilatazioni cosmiche e armonie da apocalisse. Un pianeta che ci sembra quasi migliore quando arriva la conclusiva "Lean Down on White", nenia che ci culla dolcemente verso la fine e un nuovo inizio. Incredibile come i Telstar Sound Drone siano assenti dalle line-up dei più importanti festival internazionali dedicati al genere. Le loro soluzioni magiche per battaglie quotidiane sono manna dal cielo per le nostre sinapsi. Alessandro Zoppo
TEMNEE – Dialectics
I Temnee sono una band russa attiva dal 2014. I quattro ragazzi di Tver suonano stoner pesante, ma non solo. Alexander Bogomolov spara dei riff metal, dal sapore vagamente slayeriano; Evgenii al basso e Alexey alla batteria costruiscono una base ritmica degna della melma sludge core. Sono strumentali ed erigono pezzi articolati alla maniera dei Karma to Burn, nei quali la bellezza sta nello scontro/incontro tra pattern diversi. Non c'è spazio per fughe astratte o lungaggini art rock: qui ci troviamo di fronte a brani densi come lava non infastiditi dalla presenza di lyrics. "Dialectics" segue di due anni l'EP d'esordio "Revenge" e come dice indicativamente il titolo, è un album che esprime il proprio linguaggio musicale, forgiato condensando anni di ascolti di band americane, tra gli Ottanta e i Duemila.
Da questo lavoro esce prepotentemente l'infatuazione dei nostri verso la forza bruta e la produzione spaccasassi, con un occhio in più in sala di registrazione dove sono riusciti ad ottenere un sound perfetto. Come detto, i Temnee si esprimono in maniera esemplare nel solco tracciato da KTB, Acrimony, Red Fang e compagnia sferragliante, come dimostrato in "Voron" e "Doom. To Do Doom" (!!!), anche se nel corpo centrale del disco i toni si rilassano e qualche effetto liquido tende ad entrare nella scrittura ("Gravity and Heartbeat (Last 7 Minutes in Space", "Steps to Infinity"). I sette minuti conclusivi di "Revenge" vedono un leggero spostamento di focus verso il desert sound con la bella presenza dell'armonica a bocca, di sabbatthiana memoria. Da band come questa si evince che la passione per la buona musica alimenta i ragazzi di tutto il mondo: è realmente un vettore trasversale che valica i monti e rompe le barriere socio-culturali. Stoner Psych is our dialectics! Eugenio Di Giacomantonio
TEMPLE OF DEIMOS – Damage
Tra i numerosi gruppi degni di nota dell’alternative/stoner rock figurano i Temple of Deimos, power trio nato nel 2006 per opera di Fabio Speranza (chitarra/voce, ex-White Ash), Federico Olia (basso, Percent90, Christopher Walken) e Marco Chiesa (batteria, già con Meganoidi, Limina, FunQ), totalmente immerso nel lascito che gli album di Josh Homme hanno generato da alcuni anni a questa parte. Il primo EP “Damage” ha un buon tiro, e la devozione ai Qotsa dei primi tre album (decisamente esplicita) emerge con la dovuta freschezza, senza inventare nulla di nuovo o di particolarmente trascendentale sia chiaro, però troviamo sei brani ben suonati e strutturati, con il feeling giusto per fare breccia negli appassionati del genere. Le canzoni sono tutte piuttosto melodiche e legate indissolubilmente alle sonorità robot/trance rock, perciò seguono il tipico canovaccio fatto di iterativo rifferama psichedelico e vocals impostate su tonalità narcotiche, break ritimici e innesti acustici per rendere più succoso l’ascolto.I primi due brani “And Say Goodbay” e “Sweet Ignorance” sono quelli che pagano maggiormente dazio ad album come “Lullabies To Paralyze”, ammiccanti e solari quanto basta, capaci di far viaggiare la mente su strade arse dalla canicola. Da “Oh Hellen” è tratto anche un video diretto da Enrico Olia, ed è in effetti un brano memorizzabile dotato di buoni riff debitamente strozzati dalla chitarra di Fabio. “Senor Bang” è la canzone più dura e ‘spaced-out’: l’ombra dei Qotsa rimane ingombrante, ma l’approssimarsi ad altre esperienze psych come We e Motorpsycho la fanno fluttuare sugli alti strati dell’atmosfera, rendendola l’episodio migliore. “Spanish” si segnala per il mood introverso e i riusciti inserti di tastiere, e “Dr. House” per discostarsi un po’ dal resto, visto che è un blues sporco riletto in chiave fuzz, con una spruzzata di Doors e Masters Of Reality. “Damage” è una buona raccolta di sensazioni e puntiglioso rock, e anche i Temple Of Deimos possono guardare con ottimismo al futuro in vista delle prossime release. Roberto Mattei
TEMPLE OF DEIMOS – Work to Be Done
È una sera come le altre, sono al computer che youtubeggio quando percepisco una luce: la vista periferica mi attira verso la finestra, la luce si fa più intensa, non riesco a guardare, ho le vertigini. Ad un tratto vedo tre sagome delinearsi, va bene che amo la psichedelia ma qui si sta un po' esagerando... mentre si avvicinano le figure sembrano più chiare, tre uomini, guardo meglio ed ecco la sorpresa: sono tre alieni. Entrano con passo da hovercraft se i avvicinano allo stereo, infilano qualcosa e spariscono di colpo. È buio. L'unica fonte di luce è lo stereo stesso, emette un rumore: sta andando da solo.
Quando parte "Work to Be Done" capiamo subito che i riferimenti dei Temple of Deimos sono ben delineati: i nostri eroi genovesi hanno nelle vene i primi due album dei Queens of the Stone Age ma sono abbastanza furbi da rimanere quasi sempre lontani dal "già sentito", dando un'iniezione di energia personale e sincera. Il disco si apre con "Excuses and Lies", una bomba su cui vi sfido a non scuotere la testa. Poi arrivano il singolo "Lady Squirt Cadillac" e una "Sun Will Gulf Us" con il riffing ancora sugli scudi. Nella titletrack le atmosfere si rilassano e ci portano in un bar sperduto da qualche parte nel deserto, da questa e la successiva "Remoras and Ghost" comincia una piacevole varietà di ritmi ed atmosfere che ci accomapgna fino alla fine del disco, con pezzi granitici sapientemente alternati a momenti più riflessivi. "For a Sweet Death" è il punto in cui il legame con i QOTSA si fa più stretto e la voce più efebica, ma poi arriva l'altro singolo "Questi cazzi di vespone" che merita un premio solo per il titolo. "Waiting For" è una colonna sonora perfetta per un'adduzione aliena, "Lonewolf" e "Better Take the Bike" ci riportano dolcemente sulla terra.
Avrete capito che mi piace molto l'artwork a tema sci-fi e la produzione è riuscitissima: questo non è un disco solo per nostalgici, è un bel disco e basta. Luca "Fraz" Frazzoni
TEMPLE OF PAIN – Lord of the Undead Knights
Il latino, si sa, col doom è sempre andato d'accordo. Ricorda una certa sacralità visto l'impiego che ne fece la Chiesa di Roma sia dai suoi albori, ricorda anche i tempi atavici e bui del declino dell'Impero e l'avvento della barbarie (accezione negativa con la quale non sempre ci si sente di concordare) e di epoche per consuetudine definite buie e ignoranti. Se dovesse esistere una locuzione latina adatta a rappresentare il doom classico, e di conseguenza questo lavoro, è sicuramente «Memento Mori». A parte le reminescenze della premiata coppia Benigni-Troisi, “ricordati che devi morire” aveva un significato profondo e spiritualmente superiore. La morte è una costante nella vita dell'uomo e l'uomo deve sempre riflettere sulla sua immensità e sulla sua necessaria esistenza come legittimazione della vita. Se non vi fosse la morte, diceva Eraclito, non esisterebbe neanche la vita e nulla avrebbe senso. L'esordio dei Temple Of Pain mette al centro di tutto, dai testi al titolo e alle musiche, l'imago mortis e la sua inesorabile presenza al fianco dell'umanità.'Lord of the Undead Knights' è l'avventura solista di Fabio "Thunder" Bellan, leader e chitarrista dei bergamaschi Thunderstorm: si tratta di un progetto parallelo alla band madre, attiva dal 92 ed apprezzata da fan e critica a livello internazionale. Iniziamo subito col dire che rispetto alla sua band madre, il suono dei Temple of Pain - chimera interamente nata dalla mente di mr. T - si distacca pur restando nell'ambito del doom metal. Nel nostro caso è un doom di matrice classica, europea, epic true come direbbero gli amanti delle etichette musicali, con i Candlemass come punto di riferimento. La scelta di alternare i musicisti presenti nei cinque brani (tranne Dario Fava, costantemente alla batteria) ha premiato il lavoro, risultando gradevole senza ricadere negli stereotipi stilistici del genere. Dopo l'intro sepolcrale e abbandonato tra le nebbie del tempo, emerge con regale e spettrale maestà il monarca defunto, accompagnato dalla sua coorte di spettri in armatura. Tra granitici riff di scuola metal, il brano si snoda con incedere marziale ma senza risparmiarsi momenti melodici ed orecchiabili, come nella title-track (miglior brano del lotto). Uno dei punti di forza del disco è sicuramente la capacità di bilanciare passaggi cupi, sofferenti e funerei con ottimi ritornelli e virate verso una melodia accattivante. Questo non indica un ammorbidimento del suono in favore del riff catchy, perché lo scenario lugubre e ultraterreno non cambia di un istante. "When Death Loses Control" e "Witchmaster" sono le armi con cui l'armata dei dannati avanza e conquista: chitarre evocative e possenti, prestazioni vocali teatrali e marziali che dipingono scene apocalittiche e degne dei quadri di Hieronymous Bosch. L'evocazione della mortalità e della flebile esperienza terrena è racchiusa nella profondità dei toni, gravi e sordi, che risuonano per tutto il disco. Scommessa vinta, per adesso non ci resta che attendere e vedere se questo disco farà parlare di sé come si spera. Gabriele Sgabrioz Mureddu
TERRA TENEBROSA – The Purging
Dalle fredde lande scandinave ritornano i Terra Tenebrosa con "The Purging", che segue a due anni di distanza il buon album d'esordio, "The Tunnels". Le atmosfere sono quelle del primo disco, a tratti esoteriche a tratti opprimenti, mefitiche, miasmatiche. Muovendosi in bilico tra sludge, post-metal, noise, industrial e più propriamente sperimentazione, il trio di Stoccolma riesce a comporre un affresco tanto bello quanto inquietante e sinistro. La partenza vera e propria del disco è "The Compression Chamber", un post-metal angosciante debitore degli onnipresenti Isis. "Black Pearl in a Crystalline Shell" continua su questo stesso solco, rincarando la dose atmosferica, rendendo il tutto più apocalittico."House of Flesh" con i suoi toni marziali e voci maligne incute terrore e mette in mostra una delle venature migliori dei Terra Tenebrosa. "The Nucleus Turbine" potrebbe benissimo far da colonna sonora a un paesaggio urbano devastato, si lascia andare in una lunga divagazione industrial. Lo stesso che in linea di massima succede nella title track, dove alle pulsioni industrial si accodano quelle noise, rendendo il pezzo stridente e astratto. "Terra Tenebrosa", il vertice del disco, è sorretta lungo tutta la sua durata da un prezioso quanto melanconico arpeggio di chitarra, che entra in contrasto con le voci demoniache degne di una sinfonia del terrore più puro. "At the Foot of the Tree" è un intermezzo dark ambient che prelude a "Disintegration", pezzo più adrenalinico di "The Purging", e forse anche per questo il più anonimo. La chiusura è affidata al drone maligno di "The Reave". Un'altra prova valida per i Terra Tenebrosa che mantengono buono il livello qualitativo della loro produzione. Giuseppe Aversano
TERRAPLANE – …into the unknown
Storia travagliata quella dei Terraplane. Nascono in Germania nel 2000 per rendere omaggio al sound che li ha stregati dal sempre (Led Zeppelin, Black Sabbath, Rolling Stones, Hawkwind, la Experience di Jimi Hendrix) e dopo vari assestamenti di formazione raggiungono una stabilità soltanto nel 2006 grazie alla pubblicazione di “…into the unknown” (al seguito del quale c’è anche stato un cambio di nome in Green Monkey, salvo poi repentino ripensamento). Oggi il gruppo si è stabilizzato attorno alle figure di Christian Oelke (voce), Christian Peters (chitarra), Florian Furtner (basso) e Edward Bernatek (batteria). Un nuovo inizio che ha fruttato l’interesse della Nasoni Records, subito pronta a ri-editare il loro secondo full lenght (l’esordio era stato del 2005 con “Psychedelic wonderland”).Quanto contenuto in questo dischetto farà di sicuro la gioia di tutti gli amanti del classico hard psichedelico dei ‘70s e di chi mangia pane e stoner: i Terraplane sono molto abili nel mischiare bordate fuzz rock (le terrificanti “Orange salvation” e “Once I was you”) e lunghe, dilatate, melliflue, spaziali cavalcate acide (l’onirica “Moonflower blues part. II”, la meditativa “Mantra”). Una felice alternanza che riesce grazie alla compattezza delle ritmiche, alla voce vellutata di Christian e alle chitarre ora rocciose ora ‘angeliche’ di Chris. Un complesso eterogeneo insomma, capace di citare Blue Cheer e Grand Funk filtrandoli attraverso l’indole ‘moderna’, debordante di Orange Sunshine e Causa Sui (“Lower”). Se “Black mystery” aggiunge un pausa acustica di stampo blues, la conclusiva title track (allungata ancora oltre dalla hidden track “Dancing in the fire”) pone il sigillo finale all’album con 15 minuti di puro kraut space rock psichedelico, un trip che ci trascina davvero in pieno cosmo, in luoghi oscuri ed inesplorati. Un vero viaggio verso zone sconosciute, fuori e dentro di noi. Alessandro Zoppo
Terremoto / Drone of the Dragonfly – Split LP
Uno split album separato, quasi si trattasse di due EP totalmente distinti tra loro e invece segretamente accomunati, oltre che da musicisti condivisi (come i cantanti Bo Morthen Petersen e Morten Kjersgaard Nielsen) dal fluire di un'identica energia: quella dell'atavico passato delle popolazioni indigene. TerreMoto e Drone of the Dragonfly sono i protagonisti di questo viaggio a ritroso, due significative band della scena alternative danese. Del resto, il lavoro è esplicitamente dedicato alle popolazioni indigene del Nord, del Centro e del Sud America, e questo intento è perfettamente percepibile dall'impianto sonoro, tanto curato quanto intriso di rimandi arcaici, che strizzano l'occhio ad epoche ormai estinte. Il lato veramente oscuro di questa "faccenda" è sicuramente dato dai suoni al ribasso dei TerreMoto, che fanno vibrare l'aria ad alte magnitudo. Uno stoner rock granitico, desertificato e corroborato da elementi di stampo acid rock che non si fa mancare nulla, nemmeno qualche flebile sentore di elettronica. Le quattro tracce rappresentano un crescendo di suoni granitici e riff al vetriolo, un amalgama che funziona, anche se non spicca per innovazione. A celarsi dietro il significativo nome della band è Alioscha Brito-Egaña (President Fetch, Java Skull ed ex C.A.P.S.). È lui a suonare tutti gli strumenti con l'ausilio di tre cantanti ospiti: Bo Morthen Petersen (Black Seagull), Morten Kjersgaard Nielsen (President Fetch) e Henrik Busacker. Nel complesso un piacevole impasto fonico al gusto di rock psichedelico alla QOTSA. [caption id="attachment_5995" align="aligncenter" width="640"] TerreMoto[/caption] Più originale il lavoro dei Drone of the Dragonfly, con tre tracce intense supportate da interessanti accorgimenti strumentali. Un intro esotico, quasi esoterico, condensato di bordoni e fluttuanti suoni prolungati da un delay che rende al meglio l'idea di un'epoca lontana, evanescente. Tra gli strumenti musicali, infatti, non è difficile rintracciare il sitar, vero e proprio piedistallo della musica classica indiana che, col suo timbro inconfondibile, conferisce al disco la giusta impronta etnica. Un inno all'era tribale che soddisfa pienamente l'ascoltatore anche per l'accuratezza della registrazione in studio. [caption id="attachment_5996" align="aligncenter" width="640"] Drone of the Dragonfly[/caption]   Valeria Eufemia  
TETTOMANI / SUNBURN – Ritorno alla durezza / Demo
Bologna si conferma città madre della goliardia e i Tettomani non fanno eccezione. Gruppo che ruota attorno all’asse creativa messa in piedi da Fraz (voce, dallo smaccato accento emiliano…) e Doc (chitarra dal riff facile), all’attivo da diversi anni, tornati poi a calcare le scene (o i porno shop, come preferite…) sotto le spoglie dei Sunburn.“Ritorno alla durezza” è una enciclopedia di porno demenzialità applicata al sound hard & heavy. Porno metal dunque. Ma di pregevolissima fattura. Non a caso una persona entrata in camera del sottoscritto mentre ascoltava l’iniziale “Succhia il katzo” ha esclamato: “Chi sono questi? Chi?? I Tettomani?? La musica è ottima, se solo non fossero così stupidi…”. In realtà l’essenza del progetto è proprio questa: base di solidi riff e ritmiche compresse su cui adagiare i deliri zozzi del Fraz. Un misto di Pantera, Metallica, Corrosion Of Conformity e chitarre gigantesche in stile Zakk Wylde (periodo Pride & Glory, primi episodi Black Label Society). Da questa fusione ne escono episodi come la doomy “Vibratore”, le sfuriate di “Toro da monta”, la decadenza dark di “Cagna da sbattere” e gli stop’n’go libidinosi di “Cazzi di pane”, vero e proprio hit generazionale. Se solo fossero arrivati prima di Alice In Chains e Korn… Il tutto prodotto a livello amatoriale ma suonato con grande perizia. E soprattutto impreziosito da intermezzi di piacere di cui potete intuire la provenienza… Nel caso dei Sunburn invece la matrice porno viene messa da parte (ahinoi…) ed incanalata in forme più ortodosse. Diciamo pure che la nuova incarnazione della band predilige maggiore serietà ed elabora le proprie origini in modo convenzionale. Lo dimostrano brani ben congegnati come l’oscura “Space totem” (migliore song del lotto, senza dubbio), la cadenzata “When hell freezes over” (rielaborazione della precedente “Vibratore”) e l’assalto groovy thrash di “Back under”. Curiosa e ben riuscita la cover di “Love me two times” dei Doors, mentre “To the end” e “Love 666” (altra riproposizione, in questo caso di “Cagna da sbattere”) possiedono una notevole carica evocativa. Chiude il lavoro “Anymore”, auto citazione di “Toro da monta”, resa con la stessa alternanza di arpeggi plumbei e riff ciccioni. Se volete divertirvi e ascoltare ottima musica, allora scegliete i Sunburn. Se invece avete perso ogni freno inibitore e conoscete ogni particolare della vita di Jenna Jameson allora i Tettomani diventeranno ben presto i vostri idoli. Alessandro Zoppo
Teverts – De-Tuned
Agguerrito stoner rock dal Sannio con i Teverts. Giovane gruppo proveniente dalla provincia di Benevento, la band è al suo esordio e con questo "De-Tuned" ci sputa addosso nove tracce che prendono da ambiti diversi. C'è il classico sound heavy fuzz psichedelico di Kyuss, Queens of the Stone Age e Fu Manchu. C'è la sporcizia di certi Melvins, così come l'alone indie grunge generato da Nirvana e Dinosaur Jr. Intenzioni ottime, premiate da alcune buone canzoni ma frustrate da una registrazione non all'altezza della situazione. Suonare stoner significa avere un sound corposo, ribollente, magmatico. In questo caso ne risentono le composizioni, che perdono di vigore ed intensità. In particolare il basso è molle e poco adatto a questo stile, a differenza delle chitarre. Anche la voce è da mettere a fuoco, perché le parti melodiche vanno studiate meglio e ben integrate alla fase ruvida. Detto questo, a convincere sono soprattutto la coda super psichedelica di "Kill Your-Self", il refrain accattivante di "717" e l'avvolgente melodia di "Tsunami", che a tratti ricorda i mai troppo compianti Celestial Season. Da segnalare anche i fermenti doomy di "Little Rock Star Boy", il riff cavernoso di "Bloody Work" (attenzione al plagio kyussiano però) e la sperimentazione acida di "Sabbath Desert Blues Jam". Vanno dunque premiati questi cinque ragazzi poiché vista l'età (la media è molto bassa) e la recente formazione hanno davanti un futuro di sicuro radioso. Alessandro Zoppo
Teverts – Thin Line Between Love & Hate
La scena italiana stoner doom si è mossa molto velocemente. In dieci anni è cresciuta in termini di scrittura e di qualità di registrazioni e il microcosmo campano, con TomBosley, Lost Moon e Teverts, sta dimostrando di avere una forte personalità ben riconoscibile. I Teverts, in particolare, hanno dispiegato notevoli energie per l'album "Thin Line Between Love & Hate", registrato presso gli Endorphoin Studios di Napoli, prodotto da Julian Ogerman e masterizzato da UE Nastasi agli Sterling Sounds di New York. La sottile linea che passa tra amore e odio è la lieve differenza che distanzia una natura heavy psych orientata verso il guitar sound, da una sensibilità post tardi Novanta: come dire i Tool che scrivono un album appena usciti da una lunga jam in compagnia dei Grateful Dead. Le danze macabre si aprono con "Doom", didascalica quanto attinente al sound dell'intero concept, una lenta introduzione che cita i padri fondatori Black Sabbath, nella rielaborazione Cathedral. "Nebula 7" fa il paio con "Scorn": la lezione NWOBHM degli albori, Judas Priest e Diamond Head, velocità e grande feeling. Il nocciolo centrale che passa dalla title track a "Kill Yourself" si fa più progressive con riti devoti al culto Maynard James Keenan e tempi strutturati a modo del teorema di Fibonacci. È piacevole passare dal cuore alla mente, dal sentire al ragionare; all'ascolto è prendere a piene mani la dualità che sottende qualsiasi forma di vita. "Slowly" scivola su rallentamenti Candelmass e Phil, voce e chitarra, evoca processioni funeree al chiaro di luna capeggiate da becchini dal fascino metallico ("The Gravedigger"), stemperato nel finale arioso da grande opera che ritroviamo nella seconda parte di "Last Moon", con synth e sezioni archi da grandeur barocca. La conclusiva "Goddess", diretta e senza fronzoli, ricorda che si può andare molto lontano, ma si torna sempre al primo grande, vero amore. Il linguaggio dei Teverts è il vostro linguaggio: la sottile linea che separa l'amore dall'odio è la sintesi perfetta della vostra mappa di ascolti. https://www.youtube.com/watch?v=HduPSC_hqSM Eugenio Di Giacomantonio
Teverts – Towards the Red Skies
Dal riff roccioso che introduce "Control", primo pezzo del nuovo album "Towards the Red Skies", si intuisce che i Teverts hanno fatto un bel passo avanti rispetto all'esordio del 2012 "Thin Line Between Love & Hate". I ragazzi hanno suonato molto dal vivo e l'affiatamento è migliorato; inoltre il songwriting di Phil (voce e chitarra) pesca a piene mani da tutte le band che lo hanno influenzato, non solo in campo stoner, ed il risultato è una scrittura fresca ed efficace. "Control" apre le danze e si rifà a Dozer e ai primi Orange Goblin con Wino alla voce e chitarra, per poi scendere negli abissi infernali con finale rallentato e fangoso. La title track propone materia desertica nello stile reso immortale dagli Unida, dove i solos di wah-wah lanciano la sfida alle voci su chi possa produrre più acid trips. "Charles Dexter Ward" rappresenta la prima sorpresa in termini doom: Saint Vitus, Trouble e tutta la schiera delle prime band che riesumarono il verbo sabbathiano negli Ottanta, vengono chiamate in causa sia nella scelta estetica (certi suoni hanno un marchio di fabbrica) che in quella esecutiva. "Two Coins on the Eyes" (titolo stupendo!) riprende il filo di "Control" con i suoi tre minuti scarsi ed è una lezione di cattiveria su come debba essere un pezzo high energy stoner 'n roll. "Shine" offre il gancio a contaminazioni tooliane, con la parte centrale di voci sussurrate, bassi protagonisti e ritmi tribali delle percussioni: un gradito intermezzo prima della conclusiva "The Sancuary", dove la chitarra torna leader con un rifferama e un ritornello che richiamano i Cathedral a cavallo tra rinascita supernaturale e carovane della redenzione. La personalissima via intrapresa dai Teverts offre buoni spunti su cosa sia la musica pesante, heavy e psichedelica nel secondo decennio degli anni Duemila: non ortodossia tout cort, bensì materia vulnerabile alle contaminazioni. https://www.youtube.com/watch?v=kbiYCxX_zOc Eugenio Di Giacomantonio
Teverts | El Rojo – Southern Crossroads
Bella idea questa della Karma Conspiracy Records di Benevento di presentare due band in un unico split, un brano a testa. L’operazione rivendica una socialità del rock che “sta diventando sempre più qualcosa di individuale, da vivere da soli o addirittura in band virtuali”. Il primo pezzo tocca ai Teverts, noti per aver pubblicato tre album: “De-Tuned” del 2007, “Thin Line Between Love & Hate” del 2012 e l’ultimo “Towards the Red Skies” del 2016. La loro “Road to Awakeness” è un bel pezzo lungo oltre sette minuti e parte con una sinuosità simile a certe cose acid psych di Causa Sui, Vibravoid e Sula Bassana, arpeggi desertici riverberati e suoni come stelle comete. Ma è solo un mood: l’altro è un roccioso riff-e-rama con voce ululante e belluina, che interviene per contrasto come certi giocatori a gamba tesa degli ottanta. Il pezzo degli El Rojo, da Morano Calabro, è una cosa lercia scaldata al sole messicano. Scordiamo la feroce ma dignitosa rozzezza dei Los Natas, qui siamo più vicini a dei Telekrimen rallentati e sborni. Non si sa esattamente perché ma hanno qualcosa di fortemente sudamericano: qualcosa che parte dagli Aeroblus, Color Humano e Almendra e arriva fino a noi. Forse la voglia di farcela, che caratterizza entrambe le band di questo split. Eugenio Di Giacomantonio
THANK YOU – Mother’s Nose
Asimmetrie, incongruenze, devianze. Acidi percorsi post e dissonanze math. Il sette pollici licenziato dalla Thrill Jokey a nome Thanks You (attivi dal 2006 per merito del batterista/fondatore Elke Wardlaw) profuma di Karate, Don Caballero, Calla e soprattutto di Liars e Oneida.Due pezzi prossimi nel minutaggio (si aggirano intorno ai 3 minuti e mezzo) ma diversissimi nella sostanza. "Mother's Nose" presenta asprezze tipiche da chitarrista deviato che mescola ridondanze Sonic Youth a tonalità immobili su se stesse: immaginiamo gli Uzeda che, nel golfo di Napoli, suonano le canzoni folkloristiche assimilate nell'infanzia. "The Whale" è un cortocircuito kraut alla maniera di "Rated O" con languidezze tipiche di un Robert Smith epoca "Disintegration". Sette minuti di viaggio incatato e indecifrabile. Sette minuti di osservazione del naso della madre. Così vicino, così lontano. Eugenio Di Giacomantonio
That’s All Folks! – Psyche As One of the Fine Arts
Take ONLY as directed. Così recita l'indicazione che i Laboratori TAF danno sul retro del booklet di questa nuova forma di droga: non più erbette né pastiglie colorate, basta un semplice lettore CD e un dischetto del genere e il risultato sarà semplice: l'esplosione della nostra fantasia! Il secondo disco dei pugliesi That's All Folks! (dopo l'ottimo esordio "Soma… Third Way to Zion") è la cura giusta per chi soffre di stress e ipertensione. Ascoltare del materiale così visionario ed incandescente placa l'animosità feroce della società di oggi, riporta indietro negli anni, riesce a mutare la direzione dei pensieri. Il gruppo barese ha saputo creare in un'ora scarsa una vera e propria avventura psicotropa da esplosione neuronale. L'impasto è il solito: psichedelia e heavy rock in grandi quantità, dosate con maestria e saggia padronanza di mezzi e capacità, con una vena ancora più lisergica a farla da padrona. Peccato soltanto per la produzione, davvero scadente. "Psyche As One of the Fine Arts" si apre con la strumentale "Firesphere", un antipasto a base di chitarre circolari e feedback acidissimi che fanno da trampolino di lancio per "Jumboo", dove la struttura si fa ipnotica e fumosa, la voce e il lavoro di chitarra di C.C. (i dottori del Laboratorio hanno scelto l'inizialismo, questioni di riservatezza?) insieme a quello di L.S. si alternano tra sfuriate e sontuosi ricami colorati, mentre la sezione ritmica (N.M. alla batteria, preciso e possente, e M.R. al basso, tellurico come pochi) detta i tempi in modo regolare e costante. "The Plasma" è un'avventura nel corpo della materia, Claudio urla come un indemoniato e le infiltrazioni di tastiera riescono a rendere il brano ancora più estraniante, con un appeal melodico nel chorus e nell'assolo di chitarra sul finire davvero emozionanti. La stessa strategia è adottata in "Always Radiant and Fucked", luogo di contemplazione introdotto da samples lugubri e da un lavoro di batteria furioso, che si evolve lungo trame care al doom da un lato e all'heavy psych più canonico dall'altro, ma con una componente sempre ben in vista: dare al tutto quel tocco ossessivamente statico e percettivamente coinvolgente dell'introspezione psichedelica. I ritmi salgono vertiginosamente grazie a "Real Last Night", l'aria diventa satura di elettricità, così le chitarre impazziscono in fuzz e wah-wah assolutamente deliranti (vengono in mente i Nebula, ovviamente) che trasportano direttamente verso una doppietta di pezzi micidiali. La strumentale "I'm Half-Sick of You" condensa in pochissimo tempo l'essenza dell'intero album, tra una melodia soffocante, la rabbia dilaniante e l'acidità mentale (ascoltare il finale assurdo per credere), mentre "Soul.vent" è pura psichedelia, espansione del corpo e dello spirito a 360 gradi verso lidi mesmerici e melliflui, dove le vocals sono rilassate, entra un piano magico a donarci emozioni vibranti, fino all'esplosione delle chitarre, fragorose e liquide come un fiume in piena, ricco di detriti che sporcano e feriscono ma fresco e incessante, proprio come il fluido che scorre nella nostra anima. "Motormouse & Autocat" è invece un episodio più diretto, dall'appeal garage, trascinante e flippante quanto basta, così come la successiva "Dany", che indurisce ancora di più il sound con linee vocali aggressive e uno stacco sognante da viaggio intorno al cosmo. Ciò che segue è un piccolo capolavoro che già conosciamo, ossia la mitica "March of Chameleons 2K", presente sull'ormai storico "Cookery Course" e qui riproposta per l'occasione nella sua consueta forma intensa e ficcante, ricca di chitarre granitiche (l'assolo finale è immenso) e caratterizzata dal suo incedere maestoso. A chiudere l'album ci pensano gli oltre sette minuti di "Psyche", cavalcata che si dipana tra un caleidoscopio di atmosfere diverse, da quelle tipicamente lisergiche e catatoniche (l'incipit onirico e tenebroso) ad altre marcatamente heavy dal groove pazzesco, la giusta conclusione per un disco davvero vario in quanto al modo di intendere ed elaborare l'elaborata materia stoner rock. A parte la ghost track orrorifica, non rimane altro che consigliare (obbligare?) l'ascolto di questo disco, testimonianza di come in Italia le acque si stiano muovendo (o meglio, si sono già mosse) e nel migliore dei modi possibili. https://www.youtube.com/watch?v=3YeGk55YSDU&ab_channel=DoomStonerUnit

Alessandro Zoppo

THE :EGOCENTRICS – Love Fear Choices and Astronauts – Center of the Cyclone
Tanti italiani hanno una concezione distorta di ciò che proviene dalla Romania. Purtroppo. In realtà non si finisce mai di imparare. Come per il cinema (la new wave rumena ci ha fanno conoscere autori eccezionali come Christian Mungiu, Radu Muntean, Cristi Puiu, Florin Serban, Corneliu Poromboiu, per fare qualche nome), anche la musica ha tanto da insegnarci. È il caso di The :Egocentrics, giovane trio giunto alla ribalta negli ultimi due anni. Contratto con la tedesca Nasoni Records (un must quando si parla di sonorità heavy psych) ed ecco arrivare a noi due album che faranno la gioia di chi ama stoner rock e psichedelia da trip interstellare.Brenn (chitarra), Jess (basso) e Hera (batteria) hanno registrato il primo lavoro "Love Fear Choices and Astronauts" dal vivo nell'arco di 12 ore. Il tutto ispirandosi ai guru della cultura acida Aldous Huxley e Terence McKenna e agli studiosi di fisica e religioni Max Planck e Joseph Campbell. Il risultato sono quattro lunghe tracce strumentali che garantiscono un viaggio nei sentimenti profondi dell'animo umano. Ad amore, paura, libertà, si aggiunge la figura di copertina dell'astronauta neonato il cui cordone ombelicale è un attacco jack. Qualcosa di più esplicativo non esiste. La produzione dell'album non è il massimo, tuttavia premia la spontaneità di questi tre ragazzi che in brani come "20 12" (il migliore del lotto) e "Mystic Initiation" si tuffano nella migliore tradizione della psichedelia roboante. Quel solco che da Motorpsycho e Liquid Sound Company arriva a Colour Haze e Earthless. Le tre parti in cui si struttura "Spacewulf" e la dilatata "Bright Dawn of the Soul" sono gli altri due tasselli di un album per certi versi ancora acerbo, tuttavia concreto e promettente. Il 2011 vede The :Egocentrics alle prese con "Center of the Cyclone", nuovo disco edito sempre da Nasoni Records. Sette pezzi stavolta, dalla durata variegata, in cui si passa dalle jam space e fuzzy di "A Road Less Travelled", "Off the Center" (che cavalca riff ciccioni su una inaspettata linea melodico malinconica) e "The Unknown Sings" a composizioni più dirette quali "Blissful Idiot" e "Lost and Found", dove il classico stoner strumentale emerge in tutto il suo splendore. "Sink or Swim" ha addirittura un approccio drammatico nelle linee di chitarra di Brenn che riporta alla mente i paesaggi sconfinati descritti in musica da Los Natas. "Intuition and Coincidence" predilige frequenze liquide e oniriche, in un percorso di conoscenza che conferma le maggiori ambizioni del gruppo di Timisoara in questa opera. Perché The :Egocentrics con "Center of the Cyclone" confermano di avere le idee chiare e precise: la psichedelia è qui e adesso. Alessandro Zoppo
THE BLACK – Refugium Peccatorum
Ristampa per la prima volta in CD dell'album "Refugium Peccatorum" di The Black, uscito precedentemente in versione vinile ed edizione limitata di 668 copie nel 1995 sempre su Black Widow Records. Ristampa che vede l'aggiunta di 3 bonus tracks ed una rinnovata veste grafica. L'analisi del lavoro in questione deve partire inevitabilmente con una prefazione necessaria. The Black è la creatura di Mario "The Black" Di Donato, personaggio che potremmo tranquillamente definire leggendario in seno alla storia della musica heavy tricolore, attivo sulla scena già dagli albori, dapprima con esperienze minori, poi con progetti sempre più significativi, sino ai primi Anni 80 quando diede il la ad interessanti gruppi che hanno lasciato un'eredità ed un'influenza fondamentale in tutto il metal italiano. Apprezzato e conosciuto anche oltreconfine, tra le sue creature vanno ricordate i Respiro di cane, UT (in seguito Unreal Terror), Requiem e appunto The Black. Mario è chitarrista, voce e compositore del progetto; completano la line up Elio Nicolini al basso, Emilio Chella alla batteria (ormai un ex) e Sasha Bontempo guest alle tastiere.Peculiarità del sound di The Black è il cantato in latino, scelta riconducibile all'idea mistico-spirituale che Di Donato intende proporre. Come egli stesso definisce la sua arte, parliamo di "metal mentis". Con tale etichetta Mario elabora la sua musica come momento riflessivo e mentale, musica della mente e dell'anima. Da compositore quanto da pittore. Musicalmente, The Black è heavy doom con forti influenze prog e NWOBHM, occasionalmente gotico, specie per gli intermezzi strumentali. Immaginate Jacula che incontra gli Angel Witch. Prendete il Franco Battiato dei tempi che furono e aggiungeteci Witchfynde, Witchfynder General, Goblin, Black Sabbath ed in qualche frangente il chitarrismo di Jimmy Page. Così avrete il sound di The Black. È proprio la chitarra di Mario a dare un'impronta decisiva al disco, mentre non sempre risulta efficace l'uso della voce, sorta di Battiato metallizzato. La ristampa di "Refugium Peccatorum" giunge dopo l'ultima fatica ufficiale di The Black, "Gorgoni", datato 2010. Tra le 3 nuove tracce presenti come bonus track, risalta una cover dei Saint Vitus: il brano "Hallow's Victim", rivisto e riarrangiato secondo i stilemi The Black e testo riadattato in latino. Non una delle migliori opere del gruppo pescarese, certamente in grado di soddisfare i fan della band. Antonio Fazio
The Black Angels – Passover
“Illness, insanity, and death are the black angels that kept watch over my cradle and accompanied me all my life”. Sono queste parole di Edvard Munch ad aver ispirato The Black Angels, sei angeli neri che con "Passover", il loro disco d’esordio, ci trascinano nel bel mezzo di un vortice sonoro da brividi. Puro rock psichedelico, venato di folk e virato in colori acidi. Sorprende il fatto che il gruppo (Christian Bland, Alex Maas, Stephanie Bailey, Jennifer Raines, Nate Ryan, Kyle Hunt) provenga da Austin, Texas, patria di southern, country e blues. Anche se a pensarci bene è proprio lì che 13th Floor Elevators e Red Crayola hanno coltivato i loro sogni lisergici e si svolge ogni anno il South By Southwest, uno dei più grandi festival indie. I Black Angels saranno venuti fuori in queste circostanze, forse ibernati per una quarantina d’anni. L’ascolto di “Passover” ci riporta infatti in pieni anni ’60, quando Elevators, Velvet Underground, Pink Floyd, The Doors e Neil Young riscrivevano le coordinate del rock. Ritmiche paralizzanti, vocals straniate, chitarre piene di fuzz e riverberi, drones avvolgenti. Riff secchi che saturano l’aria, un senso di smarrimento per una musica che colpisce dritto al cuore. Canzoni come “Young Men Dead”, “Black Grease” ed “Empire” sono emblematiche. “The Sniper at the Gates of Heaven” e “The Prodigal Sun” rendono omaggio al diamante pazzo Syd Barrett, “The First Vietnamese War” ha una melodia che rapisce sin dal primo ascolto, “Better Off Alone” e “Bloodhounds on My Trail” sono gioielli di blues distorto e deviato. La spiritualità di cui è imbevuta “Manipulation” fa il paio con la conclusiva “Call to Arms”, la “I’m Waiting for the Man” dei nostri tempi. Insieme a Dead Meadow, Dark Fog e Moccasin i Black Angels sono quanto di meglio ci sia da assaporare in ambito acid rock al giorno d’oggi.

Alessandro Zoppo

THE BLACKTONES – Distorted Reality
Giunti all'esordio discografico con l'EP autoprodotto "Distorted Reality" pubblicato nel giugno 2012, i cagliaritani The Blacktones nascono come progetto strumentale nel marzo 2011. In breve tempo la formazione vede l'entrata nei ranghi di Maurizio Mura alla batteria e Simone Uteri alla voce, che vanno ad affiancare il nucleo originario di Sergio Boi (chitarra) e Gianni Farci (basso). Il primo parto del combo sardo, frutto di una gestazione durata una manciata di mesi, presenta una band determinata e competente, che trae influenze dal rock alternativo anni '90, combinandole con l'esperienza stoner e riversandovi sopra una colata di piombo fuso. La copertina a tinte fosche, riflessione sulla dualità della realtà distorta, ben suggerisce il contenuto della proposta musicale, articolata in cinque pezzi oscillanti tra riff rocciosi conditi da partiture poliritmiche di derivazione Tool e melodie vocali sofferte che lasciano sul palato un certo retrogusto grunge. Dall'iniziale "The Last Time", cupa e rancorosa, si passa a "Walking Dead", che strizza l'occhio a Kyuss e Orange Goblin ma aggiungendovi una pesantezza tutta metal. Il sound sterza verso il doom in "The Phoenix", i cui giri di chitarra complessi e oscuri possono ricordare certi Obsessed o persino gli OverSoul di Dennis Cornelius. Nel brano più conciso, "Ashes", sono ancora le influenze tooliane a farla da padrone, mentre a chiudere il cerchio è la decadente "Our God". Per tirare le somme, i Blacktones sfornano un prodotto valido, maturo dal punto di vista strumentale, che però rivela i suoi punti deboli nel cantato non ancora abbastanza personale e in un songwriting non del tutto messo a fuoco. Ad ogni modo si può parlare di un debutto incoraggiante, e la band ha di certo del potenziale da sviluppare. Attualmente presi dalla registrazione del primo full length, i quattro sardi sono una realtà da tenere d'occhio in particolare per chi apprezza la commistione di stoner, grunge e rock alternativo dalle venature progressive. Davide Trovò
The Blacktones – The Day We Shut Down the Sun
Si apre all’insegna della più tetra oscurità il nuovo disco dei The Blacktones, la band sarda che, dopo il primo EP Distorted Reality pubblicato nel giugno 2012 e il disco omonimo del 2015 è gloriosamente giunta al suo terzo album. E se l’innovazione non è di certo il marchio di fabbrica di The Day We Shut Down the Sun (edito da Sliptrick Records), di certo risulterà impossibile non parlare di originalità e ingegno. Un intro che scava nella profondità della terra apre il sipario alla scarica di riff violentissimi del pezzo di apertura The Pope, che strizza l’occhio al melodic death metal di stampo scandinavo senza dimenticare influssi sludge e prepotentemente groove. I restanti 13 brani seguono la medesima dinamica strumentale, presentandosi come finestre sonore affacciate su una landa disperata, destinata a condurre l’umanità al suo grado zero. Le tracce di The Day We Shut Down the Sun sono infatti intercalate da misteriose intro apocalittiche, i cui titoli rimandano alle figure dei tarocchi, restituendone musicalmente la carica profetica. È così che il disco, partendo dall’arcano numero 5 (il Papa), compie un viaggio à rebours verso l’energia originaria del caos, ovvero la follia, rappresentata idealmente dall’arcano numero numero zero (il Matto). Una sorta di concept album disumanizzante che viaggia su onde ad altissima frequenza, seguendo un impasto fonico assolutamente coerente e condito da linee vocali ora acide, ora furiosamente gutturali, tra ferocissimi growl e stralci di cantato pulito che non si sottraggono dal trasmettere una medesima carica distruttiva. Eppure questo gioco al massacro dell’umana sembianza pare condurre a una sorta di rinascita infernale, come se l’uomo, spogliandosi della sua civiltà, potesse risvegliarsi nel buio degli inferi, dominati dal caos originario. Non a caso le due tracce di chiusura del disco, The Magician e The Fool, ispirate alle rispettive figure dei tarocchi, non sono altro che una dissoluzione dell’impianto sonoro fino a quel momento costruito. Una destrutturazione sonora che coincide, infine, con l’azzeramento di tutto, nel giorno in cui il sole verrà spento. [caption id="attachment_6103" align="alignnone" width="640"]The Blacktones The Day We Shut Down the Sun The Blacktones[/caption]   Valeria Eufemia  
THE BLUES AGAINST YOUTH – The Blues Against Youth
Cinque pezzi per riportare il rock alle radici, quando il blues era il mezzo per raccontare storie maledette di diavoli, bevute e amori andati in pezzi. Nel progetto The Blues Against Youth, Gianni, già cantante degli Orange Man Theory, si presenta come one man band, accompagnato dalla sua chitarra rasoio, un set di batteria sporco fatto di cassa e charleston, e dalla sua voce rantolante pronta a raccontare delle parabole in musica con una semplicità disarmante.Si parte dalla dolce crudezza di "Become the Whiskey" dove un lento giro in dodicesima battuta di blues rispolvera il fantasma di Howlin Wolf e delle bettole del delta del Mississippi. Ma non tutto è retro. Il lavoro della doppia voce fa intuire un tentativo, peraltro riuscito, di riattualizzare la tradizione, non quello di seguire pedissequamente il lavoro di altri. E questa sensazione rimane, fortunatamente, per tutto il lavoro proposto nel dischetto. Il ritmo accelera nella successiva "Livin' in a Lie (But Dreamin')", un rock'n'blues tirato che fa davvero muovere il culo: immaginate Jon Spencer costretto a suonare negli anni 50 con la chitarra acustica! "Standing Barman Stomp" presenta sfumature quasi country e un ritornello contagioso, quasi che la lezione dei Mojomatics fosse trasmutata in un contesto ancora più roots e radicale. La strumentale "Tevere Delta Blues" (titolo grandioso!) ci traghetta verso una ballata folk dal sapore Denveriano, "Lost Highway". Viene voglia di togliersi le scarpe, mettere una spiga in bocca e viaggiare, come il famoso giramondo dell'epoca hippie che dandoci le spalle si avvia verso il tramonto, verso un cammino infinito tra bellezze naturali incontaminate... Poche chiacchiere: se volete sentire una musica genuina tuffatevi in questi 15 minuti di pura tradizione rock and blues. Blues against youth, uh yeah! Eugenio Ex
THE BLUES AGAINST YOUTH – Trapped in the Country
Ascoltare un disco di Gianni aka The Blues Against Youth è sempre un'esperienza divertente. Si ha la sensazione di andare a bere con un amico. Uno che ti racconta che la vita è uno schifo. Che le ragazze ti lasciano e il datore di lavoro ti paga poco e ti sfrutta. Ma davanti all'ultimo bicchiere ti ghigna in faccia che è meglio sfanculare tutti e bersi un altro goccio di bourbon. Dopo tutto, la vita ha sempre un modo per riconciliarsi con te. Per esempio, con la musica. Fedele e genuina come un cane in montagna. "Trapped in the Country" oltre ad essere fedele e genuino è pure ruspante. Il titolo vuole alludere, forse, alla condizione che vivono tutti i ragazzi della provincia. Quell'idea strisciante che il paese è una chiavica. Di là, oltre, c'è la città di Gaberiana memoria. Mille luci, mille colori. Si parte! Ma poi la casa è qua. E c'è sempre qualcosa di dolce che attira. Come la tromba di "Gone with the Grill", dal sapore Waitsiano, che ammalia e cattura come una bella mangiata nei giorni di festa. O il kazoo di "It's Been a Long Time, Mama" che fa scontrare frontalmente il country americano con quel buontempone di Joe Sarnataro. C'è il tempo anche di ripercorrere le vie dei padri, con un pezzo di David Allan Coe "Honey Don't", datato 1979, vera e propria cowboy song con tanto di fischio e solo di banjo al fulmicotone a cura di Joost Dijkema. Altri ospiti compaiono di tanto in tanto ad arricchire un piatto già carico di sapori: Andrea "Merendina" Cruciani (ex The Orange Man Theory) che con la sua harp illumina "Light Bearer Song" e Guglielmo Nodali, lapsteel nella conclusiva e rassicurante "Out of 2012". Ma il focus dell'album ce l'ha in testa solo il nostro Gianni, vera e propria sound machine armata simultaneamente di chitarra, bassdrum, hi-hat, kazoo e l'invisibile Iron Snare 2.0. È lui che fa virare i pezzi verso la tensione, la calma di un sogno ("I Dreamt of My Dog Last Night") o il blues scarno e ultra virile di "Three Headed Demon". È a lui che va il merito di aver coltivato e sviluppato un progetto meraviglioso come The Blues Against Youth. Salute a te, vecchio brigante! Eugenio Di Giacomantonio
THE BLUES AGAINST YOUTH – You Said I Praise the Devil?
Gianni è un fenomeno. È una personalità. Quando lo vedi in concerto (è facile, basta girare nei peggiori bar d'Italia e d'Europa, che non sono quelli di plastica della pubblicità ma veri e propri luoghi di incontri/scontri ad alto tasso alchoolico), ti fa stare bene. Suona tutto contemporaneamente e con una facilità che riappacifica con il mondo. È un amico di bevute insomma. Uno a cui puoi confidare che la tua donna ti ha fatto incazzare e che il tuo datore di lavoro è uno stronzo. A quel punto lui ti presenterà un rimedio efficace: il blues. E parlando del diavolo, usciranno corna, coda e forcone. Come nell'ultimo EP targato The Blues Against Youth, "You Said I Praise the Devil?". In quattro pezzi (tre originali ed una cover di Merle Haggar, 1968, non una roba per bambini), Gianni ti snocciola la sua visione della vita e della musica.Hai detto che canto le lodi al diavolo? Vero. Ma il diavolo è l'amico sfortunato, il povero diavolo, appunto, che non veste dandy e non inganna più nessuno, ma un compagno di strada del profondo sud americano. Come è un povero diavolo il tizio di "Die with the Rat in Your Mouth" che finisce la sua festa non come re della notte ma come re della fogna. Profuma di tabacco da masticare e sedie a dondolo all'imbrunire "Mama Tried", che affaccia la testa sugli stessi incroci visitati da Robert Johnson e si riallaccia alla conclusiva e un po' presa per il culo dei comportamenti individuali sui social network "Would You Pleae Click You Like Me?", che con il suo basso profilo voce e chitarra sembra uscire dalle radioline Anni 60. Dal passto prossimo al futuro retrò, tutto torna, come il diavolo, che non è poi così brutto come lo si dipinge. Eugenio Di Giacomantonio
THE BODY – I Shall Die Here
Instancabili The Body, duo americano composto da Lee Buford alla batteria e Chip King alla chitarra e voce. Dopo l'ottimo "Christ, Redeemers" del 2013, ritornano con un nuovo full-lenght intitolato "I Shall Die Here". Frutto di una collaborazione con Bobby Krilc, producer di musica elettronica, più noto con il moniker di The Haxan Cloak, autore di una delle migliori release dell'anno passato, "Excavation". L'album non è di quelli facili da digerire, come le precedenti uscite di entrambi gli artisti, e sembra anche avere un filo conduttore con i precedenti lavori, la fortissima componente cinica e misantropica, un suono da fine dell'umanità. "To Carry the Seeds of Death Whitin Me" parte subito all'assalto con tonnellate di campionamenti frantuma timpani che lasciano appena filtrare uno screaming allucinato. "Alone All the Way" è un affresco inquietante, scandito da una batteria marziale e dalle urla imperterrite, con un finale che calzerebbe a pennello in un rituale orgiastico. In "Hail to Thee, Everlasting Pain" predomina la componente elettronica, con un basso deciso e pulsante e dei synth sinistri che con l'immancabile screaming tombale danno vita a quello che sembra la colonna sonora di un esorcismo. "Our Souls Were Clean" si tiene sempre su questo sentiero rincarando la dose. Chiude "Darkness Surrounds Us", che comincia con un violino fantasmatico e sbilenco la cui atmosfera viene squarciata da rumori ambientali fino all'esplodere di un riff di chitarra gargantuesco e della catarsi finale, una summa di quello che abbiamo sentito lungo i quaranta minuti scarsi di "I Shall Die Here". Un disco che più che musica sembra un manifesto dell'orrore e delle aberrazioni che ci circondano, che non da un attimo di tregua e raggiunge lo scopo di "torturare" l'ascoltatore. Uno delle uscite più agghiaccianti di questo 2014. Giuseppe Aversano
THE BRAIN WASHING MACHINE – Connections
The Brain Washing Machine è un motore ad alta velocità che viaggia sulle ali di un robusto rock ad alto tasso vitaminico. Con il nuovo lavoro "Connections", il gruppo di Padova giunge al secondo album dopo essersi fatti le ossa in giro per la Germania e la grande madre Russia in compagnia di band come OJM, The Quill e Karma to Burn. Il precedente "Seven Years Later" li aveva fatti conoscere come una band di rilievo e ha ottenuto riconoscimenti trasversali: da Metal Hammer e Metal Maniac a Grind on the Road e Press Music Magazine. Anche la loro musica si presenta trasversale e lambisce generi diversi.
Partendo dalla canzone d'apertura che porta il nome della band stessa, si ha un impatto stoner tra Unida, Hermano e compagnia bella, per scendere poi tra i robotismi à la Queens of the Stone Age di "Are You Happy?" e il modern metal della title track. La produzione è solida e i ragazzi – Baldo alla voce, Muten alla chitarra, Berto al basso e Sidd alla batteria – hanno cura di fare le cose per bene. Il cuore del disco viaggia tre le stesse coordinate e c'è la voglia di spingere al massimo sull'acceleratore, senza dimenticare la melodia a presa rapida e un'elaborazione originale nella scrittura dei brani. I Brain Washing Machine hanno le idee chiare su come debba essere scritto un buon album di moderno rock tout cout. E a noi non rimane altro che goderne. Eugenio Di Giacomantonio
The C. Zek Band – Set You Free
The C. Zek Band è il progetto di Christian Zecchin, chitarrista lungocrinito dalla mente libera. In questa band, Christian ha voluto sintetizzare il suo concetto di musica ad incastro perfetto: soul, hard, blues e psichedelia al servizio della creatività. Il risultato è Set You Free, un album di nove brani che scorre liscio come una tequila giù nel gargarozzo. Merito anche di Matteo, all'hammond, moderno Brian Auger o, per rimanere sul suolo italico, Sam Paglia. Proprio lui ingaggia con Christian una battaglia di riff che dona ai pezzi un appeal soulful proprio di gente che ama divertire e divertirsi. Segue e rimpolpa il concetto la brava Roberta che con il suo timbro caldo e malinconico, da perfetta erede delle signore in jazz, riesce a colorare il sound dolcemente (Kissed Love, una poesia in odore di ballata). Quando prende in mano il microfono il chitarrista, il mood si inclina leggermente verso la grande tradizione del classic rock americano (Set You Free e la finale Drink with Me), anche se non manca il riuscito omaggio al rock inglese con una rallentata e bluesy Gimme Shelter dei Rolling Stone (l'influenza di Jagger/Richards spunta anche nell'originale It Doesn’t Work Like This). Insomma, quando i musicisti sono dei grandi conoscitori dello strumento, il risultato non può non essere di alto livello. "Staccarsi dal senso del tempo, farsi trasportare dalla corrente, sentire che viviamo una dimensione ben precisa e che in qualche modo tutto volge verso un incastro perfetto... per me e per te": ecco nelle parole di Christian cosa vi aspetta in Set You Free. https://www.youtube.com/watch?v=Fjufp486IOU   Eugenio Di Giacomantonio  
The C. Zek Band – Samsara
Vive imbevuto della più antica cultura musicale americana il nostro Christian Zecchini. I suoi riff portano da un treno merci del sud del Texas ai festival californiani di fine anni Sessanta. Creedence Clearwater Revival, Grand Funk Railroad, Cream, Cactus, Iron Butterfly, Allman Brothers Band (molto!) ma anche modernità come Black Crowes e Gov't Mule. The C. Zek Band è rock classico nel senso più alto del termine. Rock che ti coinvolge con un tocco di soul e che ti fa dimenticare le amarezze della vita, come dimostra This Is the Right Day to Cry. Rispetto al precedente Set You Free, uscito nel 2017 sempre per Andromeda Relix, si notano alcune differenze. Siamo passati da un hard rock con tinte heavy ad una musica tout court. Esempio è la riuscita prima parte di Samsara, dove la band raggiunge i lidi ombrosi dei Massive Attack. Certo, non stiamo parlano di trip-hop dei Novanta ma il salto in avanti, per abbracciare altri stili di musica, è stato fatto. Altra notevole considerazione è da fare sul cantato. Nel primo album il ruggito apparteneva quasi esclusivamente alla brava Roberta Dalla Valle, degna epigone di Elin Larsson dei Blues Pills, al quale il gruppo si rifletteva come un cigno in un lago. Ora è Christian a cantare, ma spesso si lascia andare la musica a spasso senza briglie, strumentale, libera di esplorare qualunque territorio. Ecco quindi apparire anche il jazz rock, il funk e il rhythm and blues. Tutto co-pilotato dalla maestria ritmica e melodica di Christian alla chitarra che serra uno dopo l'altro fraseggi, bridge e solos alla maniera di un Allen Collins. Samsara non è certamente adatto a chi sbava per Electric Wizard e Reverend Bizzarre, eppure è un bel disco di sano rock che si farà amare da chi vuole ricevere energie positive. https://www.youtube.com/watch?v=Cy-_a4e9_DY

Eugenio Di Giacomantonio

THE COSMIC DEAD – The Exalted King
«Disteso sul letto al buio, vigile ma stanco e sfiduciato, vorrei esser lontano, non pensare... Allora metto su una cassetta, sì proprio la anacronistica cassetta color viola sulla scrivania, quella con impressa l'immagine di un demone greco dagli occhi di fuoco... Parte la registrazione, chiudo gli occhi e ascolto, attento. Inizia il viaggio, un onirico notturno viaggio cosmico... Non so dove mi trovo, non so dove sto andando, ma sto bene».Scozzesi di Glasgow, i prolifici Cosmic Dead escono nell'estate 2012 con "The Exalted King", pubblicato in cassetta dalla Dub Pitch Picnic, album costituito da tre sole e lunghe tracce per complessivi settanta minuti di pura Kosmische Musik; sì, avete capito bene, siamo di fronte ad un disco di puro kraut rock, e di quello più dilatato, disteso, spaziale, come se i nostri bravi scozzesi avessero voluto reinterpretare l'omonimo album d'esordio dei mitici Ash Ra Tempel di Manuel Gottsching e Klaus Schulze (ve le ricordate "Amboss" e "Traummaschine"?). Non c'è più spazio per influssi stoner o anche solo per architetture sonore definite, qui è pura improvvisazione, jam session intrise di oscura psichedelia alla Hawkwind, drone e progressioni degne dei migliori "Cosmic Couriers" di krautrockiana memoria, appunto. I 34 minuti della title track sono una folgorante cavalcata nello spazio interstellare, un autentico trip sensoriale in continuo crescendo; segue "Anatta", un viaggio ancora più oscuro e claustrofobico, prima della conclusiva "Anaphora", in forza della quale possiamo finalmente dire "sì, ci siamo persi nel vuoto cosmico e sì, non vogliamo uscirne". Un disco del genere nel 2012 è quanto meno sorprendente e molto difficile all'ascolto, ma rispettoso degli stilemi e delle sonorità che furono propri del kraut rock cui si ispira. Chi ha amato quella musica, non potrà non apprezzare "The Exalted King". Alessandro Mattonai
THE DALLAZ – Dirt Dealer
Dopo la bella prova al Perkele Fest Vol.II al Sidro Club di Svignano sul Rubicone i The Dallaz tornano in scena con "Dirt Dealer", un concentrato di riff assassini e grandi melodie. A partire dalla copertina in stile american comics del grande Kabuto, i nostri hanno dedicato grande impegno alla realizzazione del progetto e questo risulta chiaro in ogni sfumatura: registrazione live in studio per preservare il feelin' good, produzione compatta e soprattutto una scrittura compositiva che abbraccia quella che comodamente è stata definita First Wave of Italian Stoner Rock. I riferimenti alle band americane ci sono e non sono celati anche se il tutto viene masticato e risputato da perfetti spacciatori di roba buona! Qualche vecchia conoscenza del primo EP "Ozium Idol" rispunta fuori con una veste nuova, come la fumanchana "FurGone", strepitosa nel titolo e nello sbatterti in faccia tre minuti e mezzo di sintesi hard Seventies, e la conclusiva "Losers", post blues alla Roachpowder con tanto di chorus da corna al cielo. Nel mezzo troviamo riuscite evaporazioni del verbo Daredevil con "I Do Nothig", "Octopussy" e "Ridin' in My Mind" e ruspanti anthem carne e patate come "I Want Speed", "Eye of the Wolf" e "Bringing Back the Dead", dove risulta meglio allestita la nuova line-up della band e l'alternanza di voci tra un pezzo e l'altro funziona alla grande. Non solo. Ad accompagnare i nostri ci sono ospiti graditi e featuring speciali, come l'armonica più slide guitar nella southern cult "Travellin' Blend" e i samples vocali presi da film Sixties che danno uno bella patina di polvere al tutto. Di fronte a lavori di questo calibro viene da chiedersi perché una band come i Dallaz non sia nel rooster di etichette come Small Stone, Tee Pee o Meteorcity, gente che ha speso più di una decade a pubblicare un suono heavy american roots con band come Atomic Bitchwax, Nebula, Karma to Burn e Unida. Ma noi, dalla bassa, ce ne fottiamo e facciamo nostro il motto di Mr. Frazzy: "Più rinfrescante del Tea Lipton, più indurente di una confezione famiglia di Viagra… The Dallaz!!". Uh yeah! Eugenio Di Giacomantonio
The Decline Effect – The Decline Effect
Una interessantissima unione di feeling blues, spirito hardcore e cuore stoner è il primo disco omonimo di The Decline Effect, nuovissima band di Dirty Dave dei Glasspack in combutta con i fratelli Abromavage agli strumenti a corda e con Jae Brown alla batteria e percussioni. Sin dalle prime note si intuisce che saranno letteralmente mazzate sui denti. Niente fronzoli, niente ellissi psichedeliche, niente ripensamenti. Solo duro e crudo rock'n'roll. Avevamo lasciato il vecchio Dirty Dave in compagnia di Jim Beam and Good Green, ma stavolta il dolce sciacquabudella è in proporzioni raddoppiate. Tanta è la rabbia e l'energia sparata fuori dalle casse che per tensione e spirito antagonista vengono in mente Sick of It All, Black Flag e Suicidal Tendecies, tutto filtrato attraverso un cottura southern al sole di Louisville. Inoltre, emerge quella cura nel trattare la materia rock con pesanti addizioni blues che fa pensare a band come Five Horse Johnson, Clucth e Dixie Witch. L'uno/due iniziale di "Swine" e "Divide & Conquer" ricorda l'esordio degli Off!, altro gruppo che vede nella formazione menti psichedeliche virate alla straight opposition. "Serpent to Stay" e "I.N.S." (quest'ultima va a cercare gli Iron Maiden di Paul di Anno) flirtano con un riff metal così come lo si poteva forgiare a metà anni Settanta. Vengono chiamati in causa anche i padri fondatori di tutta la musica heavy da 40 anni a questa parte, i Black Sabbath, con "Sleeping Giant" ma è solo un accenno poiché l'album è talmente compatto e ricco di suggestioni che i tributi devono durare il battito di una canzone. 30 minuti di musica per 9 canzoni determinano una sintesi perfetta. Onore alla neonata 28:48 Records di Tom Haile che ha avuto il merito di pubblicare un disco bello e radicale investendo in produzione e distribuzione. DIY is the law! https://www.youtube.com/watch?v=blGr6mHJpqQ Eugenio Di Giacomantonio
THE DISGRAZIA LEGEND – Redundance
Ed ecco finalmente arrivare "Redundance", il debutto alla lunga distanza per il sestetto milanese dal particolare monicker The Disgrazia Legend. Formatisi nel 2003, esordiscono soltanto ora con un disco compatto e ben suonato che sembra uscire dritto dai '90 viste le forti influenze post hardcore e noise. Si parte subito mostrando (sterilmente) i muscoli con l'accoppiata "Men Beside Men" e "Set Me Free, Burst Me to Flame", per poi sciorinare momenti mathcore con "The Death of Alida Valli". "Give Me Your Palm" è quella che più di tutte ci riporta indietro nei 90: echi di mostri sacri come Drive Like Jehu, Unwound e Hoover si sentono lungo tutti i 7 minuti e passa del brano. Cosa che fa in parte anche "The Locked Rooms" in chiusura, seppur con un piglio più epico e melodico. Tra gli unidici brani del disco risalta anche "Words - C'est l'amour Fol", con il suo farsi più rarefatta, assumere toni malinconici e onirici assenti in tutto il resto dell'album. Un unico arpeggio sonnolento e aggraziato che si ripete stancamente fino a perdersi in un leggero feedback. Per una manciata di canzoni valide, la maggior parte tendono purtroppo a restare nell'anonimato, facendo sì che nonostante si intravedano delle ottime capacità compositive "Redundance" risulti spesso troppo derivativo e privo di personalità. Fiducia, attendiamo il secondo capitolo. Giuseppe Aversano
THE DOLLY ROCKER MOVEMENT – Our Days Mind the Tyme
Uno dei migliori dischi di inizio 2010 arriva dalla premiata ditta Bad Afro Records, sempre un passo avanti quando si parla di rock psichedelico. Dopo due ottimi album usciti nel 2006 (l’esordio ‘Electric Sunshine’ e ‘A Purple Journey into the Mod Machine’), l’etichetta danese mette sotto contratto gli australiani The Dolly Rocker Movement, autentica folgorazione per chi ama tutto ciò che va dal rock'n'roll classico al garage degli anni 60, passando per l’acid rock, sussulti freakbeat e delicate impennate folk versante West Coast. Immaginate il suono dei 13th Floor Elevators fuso con le fatate melodie di Simon & Garfunkel; la psichedelia barocca dei Love e le derive folli dei Brian Jonestown Massacre; le pennellate acustiche di Donovan e quelle inacidite di Syd Barrett; i Nuggets ed il Paisley Underground. Questo è ‘Our Days Mind the Tyme’ e questi sono i Dolly Rocker Movement, cinque persone fuori dal tempo, per questo così ammalianti e coinvolgenti.Brani quali “The Only One” e “Coffin Love” sono delizia per le orecchie, caratterizzati come sono dalle ritmiche frizzanti di basso e batteria, dall’effetto straniante prodotto dalle tastiere, dalle chitarre semplici e graffianti e soprattutto dall’ugola magica di Dandy Lyon, uno di quei cantanti che per voce e capacità di scrittura (bellissimi i suoi testi) fa davvero la differenza. “A Sound for Two” ricorda gli Stranglers di “Golden Brown”, mentre “Sold for Sinners” riecheggia i primi On Trial e “My Heavenly Way” sembra un omaggio diretto ai Baby Woodrose. Attenzione però: non è puro calligrafismo. È una passione vera, sincera. Che si traduce in una composizione fluida e cristallina, dalle cavalcata garage di “Borne with Gills” e “Memory Layne” ai passaggi acustici di “Enjoy a Paranoia” e a quelli psicotropi di “Our Brave New World”. “The Ecstacy Once Told” chiude il lavoro con un classico tema ‘morriconiano’ declinato in salsa psych. Davvero estatico come risultato. Come a dire: welcome back home from the sun. Alessandro Zoppo
THE FLYING EYES + GOLDEN ANIMALS – European Tour Split 7
Un sette pollici speciale, uscito per la H42 Records, ha accompagnato The Flying Eyes (formazione statunitense accorata e sporca) durante il loro tour europeo. Due pezzi, uno split che i nostri eroi hanno condiviso con i Golden Animals (anche loro proveniente dall'America del Nord) creando un circolo di calore blues, fuso con un gusto un po' retrò, che tanto si addice all'ondata psichedelica in atto tra gli amanti del rock'n'roll. Attitudine e sensualità accompagnano chi ascolta questo breve compendio dell'heavy sexy dirty blues di nuova generazione."Raise Hell" è il brano che propongono i Flying Eyes, di chiara impronta "americana" con influenze di fine anni Sessanta. Distorsioni potenti ma controllate, schitarrate sporche compenetrano la vocalità vintage e selvaggia che riesce a restare pulita in un quadro complessivo positivamente fangoso. I Golden Animals invece si giocano una carta più sensuale, camminando sul filo immaginario che unisce Doors e Led Zeppelin in un'amalgama meno potente di quella dei compaesani volanti, ma ben predisposta. Ci troviamo di fronte a uno split minimale, senza iperboli emozionali certo, ma ben fatto. Un discreto assaggio di quello che questi ragazzi sanno fare, senza prendere in giro nessuno. S.H. Palmer
THE FLYING MADONNAS – Demo_N.
Progetto che vede mescolare in una nuovissima line up vecchie facce romane (all'interno ci sono membri di Soul of the Cave, Dedalo In Fuga, Raskolnikov), The Flying Madonnas portano avanti il buon proposito della New Sonic Records di pubblicare album deviati, sperimentali e dirompenti. Questo "Demo_N.", EP di 5 pezzi, è influenzato in egual misura e in ordine sparso da Fugazi, Hot Snake, Karate, Man or Astro-Man? e respira la stessa aria che alimenta un plotone di band italiane poco conosciute ma molto interessanti come Layser Gayser, Dispositivo per il lancio obliquo di una sferetta, Bebe Rebozo e Antares. Un incontro/scontro di strutture dissonanti che cercano il loro equilibrio precario in forme armoniche particolari.In venti minuti strumentali assistiamo ad una forma di tensione nervosa alla Blonde Redhead di "Nonna Alien" e "Cristo Rave" (in questa si aspetta da un momento all'altro la voce di Kazu Makino), ad una giocosa e gioiosa verve che punta alla spensieratezza di "Diciannovenni nei '90", al cortocircuito noise di "Bruxismo" e alla bellezza di una cavalcata poggiata sul fraseggio dei tasti d'avorio di "La chanson du petit clergé batard". Alla fine, a dispetto di chi intravede in una moltitudine di influenze una discontinuità stilistica, il disco suona compatto e coerente. Segno che i nostri sanno tirare fuori la propria personalità al momento giusto. Eugenio Di Giacomantonio
The Freeks – Shattered
Orfano di sua immensità Eddie "wah-wah" Glass, Ruben Romano ha tirato i remi in barca e ha chiamato attorno a sé un bel gruppo di amici, mettendo in piedi il progetto The Freeks. Nel primo album la all-stars band comprendeva calibri pesanti come Lorenzo Woodrose (Baby Woodrose), Scott Reeder (Kyuss), John McBain (Monster Magnet), Isaiah Mitchell (Earthless) e il producer Jack Endino, prime mover sul finire degli Ottanta della scena grunge. Come a dimostrare che la reputazione di Mr. Romano poteva permettere di scomodare personaggi importanti, sia per le qualità intrinseche del musicista, sia per la personalità disponibile e umile dimostrata, in antitesi al carattere dominante dell'ex compagno Eddie. Nel nuovo disco "Shattered", la band si è organizzata intorno ad una line-up più stabile, composta da Ruben alla chitarra e voce, Jonathan Hall alla chitarra, Tom Davies (altro rifugiato dei Nebula) al basso, Esteban Chavez alle tastiere e Bob Lee alla batteria. Meno nomi eccellenti ma più compattezza tra prove, studio e concerti. Il risultato è una band matura che si diverte a scavalcare i generi con scioltezza e divertimento. Ovviamente lo stile dei Nebula emerge massiccio in più di un pezzo, come nell'opener "Tiny Pieces", dove sembra di tornare all'ultimo "Apollo", nella perla "Strange Mind" e in "The Space Bar" (titolo stupendo!) dove lo stile chitarristico di Ruben rasenta il tocco di classe di Eddie, andando a parare tra le derive della cocktail music. Altre volte il tiro si fa più punk e motorheadiano come nel caso di "Uncle Jack's Truck", brano nel quale il rombo delle dune buggy inietta veleno supersonico nelle vene dei nostri. Interessante la ricorrenza di nomi femminili nei titoli: "Sylvia" è una cavalcata hard space non troppo dolce, "Ivana" è un boogie rock da riff e solos irresistibili, come a pennellare diversi caratteri alle donne cui si riferiscono. Il resto viaggia su altissimi binari tra dilatazioni da assunzioni di LSD come "Fast Forward" e "Blow Time Away" e i piccoli sipari ambientali di "There's No Turning Back Now". Ancora, genuinità e umiltà sono le caratteristiche migliori per far emergere il talento dei musicisti. Avanti così Ruben, per altri cento album! https://www.youtube.com/watch?v=Y533hqk8E28   Eugenio Di Giacomantonio  
The Freeks – Crazy World
Citando il bellissimo album del 1968 del guru psichedelico inglese Arthur Brown, torna il libero collettivo freak dei Freeks. Quarto album di una discografia iniziata nel 2008, il nuovo Crazy World segue le orme del predecessore Shattered e si fonda su una line-up solida, che ruota intorno non solo al talentuoso Ruben Romano (già batterista di Nebula e Fu Manchu, qui alla chitarra) ma vede compartecipi alla scrittura Jonathan Hall (Angry Samoans, voce, chitarra e basso), Esteban Chavez (tastiere e synth), Ray Piller (basso) e Bob Lee (batteria). Come si intuisce, il gruppo è libero di spaziare tra i generi e sottogeneri del rock psichedelico ma non solo. Prendiamo l’interludio Take 9: puro acid rock from the West con un sapore moderno che ride beato alla musica lounge così come potrebbero suonarla i divertenti Combustible Edison. American Lightning e Easy Way Out sono rock and roll nudi e crudi che stanno disegnando a poco a poco lo stile riconoscibile della band, fatto di piano furioso e riff anfetaminici, così come Hypnotize My Heart è totalmente desert session e riporta alla mente il primo omonimo disco, dove si innestavano interventi di cosmonauti del calibro di John McBain e Mario Rubacalca. Anche stavolta i featuring sono tanti e preziosi: Ray Hanson (Thee Hypnotics), Glenn Slater (The Walkabouts e Wellwater Conspiracy) e Sara Loera, modella e cantante, qui ai controcanti. C’è una conoscenza e coscienza di tutto il miglior desert rock degli ultimi vent’anni: Mothership to Mother Earth riporta alla mente l’Orquesta del Desierto, dove gli arrangiamenti sono scritti prevalentemente con strumenti acustici (ad oggi sembra che proseguano l’intuizione solo El Festival de los Viajes) e c’è spazio per un omaggio a PJ Harvey con This is Love, ruvida, irrobustita e leggermente straniante, per il fatto di sentir cantare quel testo a Ruben... Otto pezzi belli e incandescenti: spazio ai Freeks, la normalità è noiosa!   Eugenio Di Giacomantonio  
THE FULL TREBLE – Play the Funk
I Full Treble sono tre giovanotti lombardi innamorati dei party. Ma non come vengono intesi dalla maggior parte dei giovani d'oggi. Per loro festeggiare significa portare 10 fusti di birra sulla spiaggia con una grossa selezione di dischi punk, funk & rock. La loro musica viene dritta dritta da lì e riporta alla mente i primi Anni 90 quando gente come Red Hot Chili Peppers, Faith No More e Jane's Addiction trovavano una sintesi alla loro proposta musicale proprio nell'unione dei generi citati. Dalla loro i Full Treble hanno un'età che permette di guardare a quei tempi con dovuta ammirazione d'anagrafe e proporre oggi quel tipo di crossover assume lo stesso significato di proporre il sound Anni 70 per gente dall'età più avanzata. Quindi avanti!È sempre la stessa storia: prendiamo le chitarre e suoniamo quello che ci piace! Così la mezzoretta abbondante di "Play the Funk" scorre via piacevole, tra qualche declinazione Green Day/Offspring/NOFX ("Endless Routine", "Ballad of the Borough", "Boss of My Time"), puro pop punk californiano di terza generazione, qualche approfondimento genuinamente power funk (la title track, "The Ruins of Jede" e "Louise Market") e qualche sorpresa puramente rock blues ("Downtown"), segno che i giovanotti stanno proseguendo il discorso verso l'origine del male, le dodici battute che hanno influenzato la storia del rock da 60 anni a questa parte. Poco altro da aggiungere: mettete "Play the Funk" nello stereo, chiamate gli amici (e soprattutto le amiche), riempite il frigorifero d'alcol e scapocciate duro. I problemi spariranno. Eugenio Di Giacomantonio
THE GATES OF SLUMBER – Stormcrow
Gradito ritorno quello dei The Gates of Slumber. Il trio di Indianapolis, attivo da ormai più di un decennio, è tra gli alfieri dell'old school traditional doom. Fieri e fedeli alla musica del destino, licenziano "Stormcow", EP che va ad aggiungersi ad una già vasta discografia che comprende cinque album, quattro EP e alcuni split. Una band in costante crescita, che lavoro dopo lavoro ha saputo ritagliarsi il proprio spazio all'interno della scena doom ed heavy. Dopo un inizio un po' stentato la formazione statunitense ha saputo mettere a punto il proprio songwriting finendo con l'essere oggi tra le più fulgide realtà del sound sabbathiano.Quanto proposto chiaramente non presenta grandi novità: i Gates of Slumber hanno fatto questa scelta a suo tempo e propongono dell'onesto doom tradizionale, senza fronzoli o compromessi. La cosa al trio riesce piuttosto bene: la formula è canonica heavy riff rallentati, improvvise sterzate e di nuovo tempi slow. Ad arrichire lo spettro sonoro ci pensa poi il timbro di Karl Simon, che vocalmente appare un ibrido tra Wino, Robert Lowe e Victor Griffin. Quest'ultimo sembra essere un vero mentore anche sul piano chitarristico: il gruppo, che inizialmente esibiva connotati e riferimenti al mondo epic, ha in parte modificato questa formula arrivando ad un graduale rallentamento delle composizioni, seppur ancora presente nell'immaginifico dei testi. "Stormcrow" suona true classic doom. Le già citate influenze epiche si sono notevolmente attenuate e i cinque pezzi sono ben suonati e strutturati. Questo EP nulla aggiunge alla storia della band e del genere. Si notano influenze che vanno dai Place of Skulls ai Candlemass, giù sino ai Trouble e ai Saint Vitus. Nella più classica tradizione del doom stelle e strisce, The Gates of Slumber ci consegnano un lavoro che, pur non facendo gridare al miracolo ed un gradino inferiore all'ottimo precedente "The Wretch", sarà comunque una lieta nuova per tutti i true'n' pure fan del doom. Antonio Fazio
The Glasspack – Bridgeburner
Una vita ai limiti, dominata dalla nevrosi e dalle abitudini dislettiche, che sbeffeggia l'ipocrita linearità del quotidiano, permettendoci di osservare azioni in accelerato stop-motion, in un ribaltamento sfocato dei principali sistemi di riferimento: questo è in sintesi il nuovo album dei Glasspack, tra i migliori rockers radicali attualmente in circolazione. Detta così si potrebbe pensare alla solita orgia di feedback, riff minimali e cavernosi, alternanza di tempi pachidermici ad altri esasperati, il tutto appositamente concepito per vomitare alienata frustrazione; piuttosto, questi elementi sono sicuramente contenuti nei brani degli invasati americani, ma il tasso creativo è molto alto, a tratti stupefacente, e unito alla loro drogata foga rende questo disco imperdibile. Le chitarre sono sanguinosamente metropolitane, fissate da una ritmica dalla notevole potenza, fantasia e precisione, su cui si agita una parte vocale che riecheggia sia il primissimo Wyndorf di "Snake Dance" che i Ministry di "Psalm 69", e l'album si sviluppa tra sonorità fangose e ultra-psichedeliche, una specie di bel ceffone da accusare inebriati. "Twenty Five Cents" è un regolamento di conti, il dazio da pagare per uscire vittoriosamente martoriati dopo aver devastato mezzo quartiere, così come "Barn Party" sfiora il parossismo con quella tachicardica chitarra noise. "Oil Pan" sembra nata dalla fusione degli hard-rockers di trenta anni fa con gli Oneida, e irresistibile è la dissacrata formula rock di "Gimme Shelter", che dimostra di come i Glasspack ci sappiano fare anche lo stoner urbano. Dopo "Hydroplane", uno strumentale di due minuti in bilico tra hardcore e metal, viene "Hairsoup", che partendo da un incedere iniziale Sleep/Church of Misery lascia spazio a spettacolari progressioni space-noise acidissime, con l'iterazione mega-ipnotica della voce effettata, per poi tornare al circolare giro di basso su cui continua il loop delle chitarre: fottutamente grande. Da far invidia agli Shellac più sperimentali, ma sempre radicalmente stoner, è invece "Lil’ Birdie", e dobbiamo piegarci alla vorticosa "Bridgeburner", una specie di boogie-rock futuristico in cui, più che la destrutturazione tanto cara al post-rock, sembra trionfare una forma psycho-rumorista straripante. La conclusione viene con un altro strumentale, "Peepshow", ed è un arco trionfale heavy-psych, di quelli che erigevano gruppi fantastici e ignobilmente sottovalutati come Core e Red Giant. https://www.youtube.com/watch?v=pGyjC1vX0mc Roberto Mattei
The Gluts – Ungrateful Heart
Pazzeschi The Gluts. Nel periodo più buio di sempre per la musica live, riescono a concentrare nei 43 minuti scarsi di Ungrateful Heart, il loro quarto album, tutta la furia selvaggia e iconoclasta che sprigionano sul palco. Perché è una fortuna quando si ha l'occasione di vederli dal vivo in un club. Poco importa che sia un festival come il Fuzz Club di Eindhoven o un locale che si trasforma subito in un budello puzzolente. Dieci canzoni, la produzione di Bob de Wit (già al lavoro con Sonics e Mudhoney, Gnod, White Hills e Radar Men from the Moon: non certo i primi arrivati), un piede sexy infilato in una scarpa nera con tacco e poggiato su divano rosso in pelle che campeggia allegramente sulla copertina. Ungrateful Heart è come José Altafini, il campione che a Napoli divenne core 'ngrato: un golazzo che non si dimentica, anche se fa male. La formula The Gluts è semplice: prendi il punk e l'hardcore americano, lo mischi con lo stoner, il noise e la psichedelia. Il gioco è fatto. Più o meno. Perché poi subentra la capacità di scrivere canzoni che rimangono, e in questo i quattro sono eccezionali. È il caso dell'iniziale Mashilla – un missile terra-aria che sarebbe piaciuto a Rob Tyner e Fred Sonic Smith – o dell'oscura Ciotola di Satana, che merita pure la palma di miglior titolo dell'anno. Si viaggia tra canzoni di sballo e d'amore come Love Me Do Again, la notturna e malinconica Black Widow (non prima di un finale a dir poco fuori di testa), la hit smaccatamente punk Bye Bye Boy (se non fosse per quei wah-wah che tolgono il fiato), l'intermezzo shoegaze di Leyla, Lazy Girl from the Moon che fa da ponte per la melodia malsana e appiccicosa di Something Surreal. Le ritmiche sono un treno in corsa, un trattore cingolato mai gommato. La cottura a fuoco lento di Breath ricorda i tempi gloriosi degli sferraglianti 500 Ft. of Pipe e dei grandiosi E.X.P., alfieri dell'acid rock made in Italy. Nicolò urla come un forsennato e sbraita dietro al microfono, Marco spara fuzz e wah-wah micidiali. La band milanese si esalta sul tappeto stoner'n'roll di FYBBD – per spazzare via ogni neofascismo – e chiude i giochi prendendoci alla gola con Eat Acid See God, finale iper-lisergico, distorto all'estremo e mostruosamente narcotico. Non perdete The Gluts per nessuna ragione al mondo quando saranno nuovamente in tour in Europa. Se possibile in un club piccolo, caldo e accogliente: sarà la definitiva riconciliazione con la musica dal vivo. Altro che Måneskin. https://www.youtube.com/watch?v=1fRahhTrFdE

Alessandro Zoppo

THE GOLDEN GRASS + KILLER BOOGIE + WILD EYES + BANQUET – 4 Way Split #2
Four of a kind. Un bel poker d'assi per l'heavy psych. Gabriele Fiori, deux ex machina della Heavy Psych Sounds Records, ha pensato bene di dare un'occhiata nel continente americano per scoprire quali nuovi gruppi stessero masticando il verbo e ha riunito tre band, tutte edite con album veri e propri dalla stessa etichetta ad eccezione dei Golden Grass, sotto un bel double album a cui ci ha aggiunto i suoi Killer Boogie.
Il piatto si apre con la prima facciata dedicata ai Golden Grass, formazione che vede dietro le pelli Adam Otracina ed è tutto un fiorire di hard/glam rock come non se ne sentiva da tempo. Vengono alla mente Gran Funk Railroad, Kiss, Budgie e tutta una pletora di fenomeni pronti a divertirsi all night long sentendo quegli uh-uh-uh! nei coretti e quei riff secchi come rossetti marci. Ottimi e scanzonati: menzione speciale per l'ultima canzone del tris, "Hot Smoke & Sasafrass", in cui spunta fuori un'azzeccatissimo flauto. Girando il lato ecco i Killer Boogie, power trio molto più diretto dell'altra band di Gabriele, i Black Rainbows, a cui sono stati sottratte le oscillazioni space a favore di un'iniezione proteinica di Seventies hard. I pezzi risultano più concentrati e tirati: lo stile chitarristico emerge con prepotenza, soprattutto nei solos, acidi e fuzzati. La band ha macinato tanti concerti e i tre brani sembrano proprio come un bootleg dei Blue Cheer, quando ancora si calavano l'acido.
Con i Wild Eyes siamo di fronte ad un totem. La band più bella, riuscita e ruspante di blues psych rock che possiate trovare oggi in circolazione, al pari dei compagni europei Blues Pills. Ma qui c'è una foga maggiore. "Long Time No See", "Gator Shaker" e "Hot Sand" sono tre gemme che ridefiniscono il genere dalle fondamenta, rendendolo attuale. Sarà per la potente voce di Janiece Gonzalez che carica i pezzi di fuoco, sarà per la chitarra di Chris Corona, semplice eppur geniale, o per la sezione ritmica che vede presente un certo Carson Binks, principe delle migliori band heavy blues da un decennio a questa parte (Dzjenghis Khan e Parchman Farm), ma il quartetto non sbaglia un pezzo. Recuperate gli album: è un ordine! Gli ultimi del poker sono i giovani Banquet, da San Francisco, California. Loro si giocano la carta della cafonaggine (ci piace!) e i loro tre pezzi sono irrobustiti da chitarre metal. Non ovviamente quello dei Sepultura o dei Manowar, bensì certo primissimo heavy metal dei Settanta di band come Judas Priest, Saxon e UFO, dove l'hard si andava ispessendo, le chitarre si sdoppiavano e le voci iniziavano a tendere verso l'alto. I primi due brani superano i cinque minuti e vivono di movimenti complessi seppur godibilissimi; la finale "Runnin by Baby Huey", invece, allenta la corsa e si stampa nella memoria con un giro di puro hard americano.
Per chi conosce i quattro gruppi in questione, questo split si presenta come un gradito e importante approfondimento, anche perché i pezzi sono tutti inediti. Per gli altri, risulta essere una deliziosa introduzione sullo stato attuale dell'heavy psych a cavallo tra i due continenti. Eugenio Di Giacomantonio
THE GRAND ASTORIA – Punkadelia Supreme
"Punkadelia Supreme" è proprio un bel disco. Prova del fuoco della band sovietica The Grand Astoria (da San Pietroburgo, con rumore), l'album è una mistura ben pensata di folk, rock e psichedelia. Il lavoro è composto da 13 tracce –ascoltabili sul profilo Bandcamp della formazione. Le chitarre. Sono le chitarre a fare la differenza in questo lavoro, dal retrogusto anni Novanta (la voce, le atmosfere). Il suono distorto si alterna in due sfumature principali vigorose. Convinte. Il taglio risente (passatemi il termine) degli influssi del rock e del metal classico, ma possiamo passarci sopra, in quanto il tutto è rielaborato con stile e stomaco. Un paio di idee ricordano piacevolmente i Butthole Surfers di "Independent Worm Saloon": niente di particolamente diretto, solo la voglia di risentire questo disco dopo un paio di canzoni di "Punkadelia Supreme". La title track (traccia numero quattro del lavoro) è completa e ciclica. Una canzone uroboro. I richiami sono vasti e il movimento del pezzo riassume l'andamento generale dell'album. Anche qui, le chitarre sono protagoniste indiscusse della scena. Quando mi riferisco ai Novanta che sento nei Gran Astoria, intendo quelli meno sulla cresta dell'onda... Helmet e Heatmiser. Perché no. L'overture psichedelica, però, culmina in "Space Orchid vs Massive Drumkit": quello che riescono a fare questi ragazzi, è concentrare le proprie influenze e capacità, fondere il punto di vista progressivo con la distorsione basilare, lasciando ben impresso una sorta di marchio di fabbrica sonoro, di approccio (comunque) fondamentalmente moderno.
Brano consigliato: "Slave of Two Masters". Brano mistico: "Space Orchid vs Massive Drumkit". Brano orecchiabile: "Dropping Aitches". In fede, S.H. Palmer
THE HAUNTING GREEN – The Haunting Green
Debuttano con un EP omonimo di cinque brani i The Haunting Green. Gruppo proveniente da Udine e composto da Chantal Fresco alla batteria e voce, e Cristiano Perin alla chitarra, voce ed elettronica e che definiscono la loro proposta doom sperimentale. Del tutto autoprodotto, il loro esordio parte forte con "The Mournful Sons", e con quei synth cosi darkwave all'inzio sembra quasi di sentire i Lycia di "A Day in the Stark Corner", salvo poi andare ad inoltrarsi in uno sludge a tinte esoteriche squarciato da uno screaming tombale. "Our Days in Silence" si mantiene su binari più strettamente post-metal, con tanto di break noise e chiusura atmosferica. "Eradicate" cerca di scombinare gli elementi proponendo una struttura del brano più contorta quasi di matrice math. Dopo il breve intermezzo rumorista di "IIII", chiude il lavoro "V" che con il suo tono tra il magniloquente e il melanconico risulta uno dei pezzi più incisivi del gruppo friulano. A conti fatti ci si trova di fronte a un prodotto che manca della profondità e della complessità di suono e di struttura necessarie per emergere del tutto, in un universo che si popola di band che spostano sempre più in alto l'asticella della sperimentazione. Diverse idee sono valide ma rimane poco in un marasma sonoro spesso confusionario e derivativo. Giuseppe Aversano
THE HEALTHY BOY & THE BADASS MOTHERFUCKERS – Carne Farce Camisole
Nuovo progetto per Benjamin Nerot, cantautore francese per l'occasione accompagnato dalla sua band sotto lo pseudonimo bizzarro di The Healthy Boy & The Badass Motherfuckers. Scelta che siamo certi precluderà frequenti passaggi radiofonici: è chiaro l'intento dei cinque di creare situazioni a dir poco dissacranti. Musicalmente il progetto muove la propria arte in sentieri dark. Lo stile è oscuro, dark inteso non come il sound che fece epoca negli Anni 80, quanto nell'essenza e nello spirito. Il gruppo definisce la propria proposta folk kythibong blues indie. E in effetti gli elementi sono folk, indie, blues, sapori psych e vaghi accenni psychobilly. Esibito il riferimento ad artisti quali Tom Waits e Nick Cave, Benjamin Nerot fa un uso ghiaioso della voce; ciò gli permette di mantenere un alone di mistero unitamente ad un lirismo piuttosto sinistro. Aggiungeteci il caratteristico accento francese che dona quel tocco in più e l'album si trasforma in un insieme di momenti emotivi ed atmosferici, fino a divenire un lavoro davvero intimista.In alcuni momenti il nostro Benjamin sembra cantare sotto l'effetto di alcolici, tuttavia distante dalla concezione artistica di un Fred Buscaglione – seppure in qualche frangente sembri ricordarlo. La musica che lo accompagna fa da sfondo ad un mondo di perdenti e miserabili, quegli antieroi tanto amati in Francia. Siamo forse al cospetto di un Aznavour psych rock? "Carne Farce Camisole" è un lavoro di notevole intensità con momenti acustici da ballata folk e altri più elettrici ben amalgamati tra loro. Un disco destinato a rimanere misconosciuto per vari motivi e quindi per pochi intimi. Consigli per l'ascolto: seduti in poltrona, luce soffusa e un bicchiere di buon vino. Antonio Fazio
THE HOUNDS OF HASSELVANDER – Ancient Rocks
Lo conosciamo Joe Hasselvander: infaticabile, imperterrito, granitico. Una montagna d'uomo, in fatto di stazza e in fatto di esperienza musicale. Classe 1956, dagli anni '70 non ha mai dato segni di cedimento, continuando a suonare nelle situazioni più disparate, ma sempre con piglio incisivo e risoluto. Dai progetti heavy metal più sotterranei (Devil Childe, Phantom Lord, Overlord) ai Raven dei fratelli Gallagher (no, gli Oasis non c'entrano un fico secco), passando ovviamente per i Death Row/Pentagram, Joe ha sempre dato un'impronta caratteristicamente energica all'economia del gruppo in cui di volta in volta si trovava a suonare. La stessa energia anima il suo progetto personale, The Hounds of Hasselvander, giunti con "Ancient Rocks" al quarto full-length.
Un album un po' speciale, in verità. Una volta approntata l'ultima fatica degli Hounds, "The Ninth Hour" (2011), la Black Widow offrì gentilmente all'iperattivo capobanda di realizzare un sogno nel cassetto: l'opportunità di ridare lustro alle glorie del passato che avevano formato la sua coscienza musicale. Accettato di buon gaudio l'invito, Hasselvander decise di farsi accompagnare nel divertissement da una rosa di musicisti di tutto rispetto, tra cui spiccano Martin Swaney (anch'egli un tempo sodale di Liebling nei Death Row/Pentagram) e T.C. Tolliver (ex-Plasmatics) alla batteria. Frequenti e pregevoli anche gli apporti alla tastiera di Paolo 'Apollo' Negri, in prestito dai nostrani Wicked Minds.
Le cover di "Ancient Rocks", sciolte in magma dalla SG del monumentale front man, vengono successivamente raffreddate in macigni spigolosi e, per qualche arcano processo fisico-chimico, ciò che ne risulta assume un peso specifico elevatissimo. Le linee originali sono preservate, ma rese più minacciose, buie, opprimenti: ascoltate la resa di "Strange Movies" dei Troggs per capire cosa intendiamo. Insomma, una vera delizia per gli estimatori tanto dell'heavy rock primordiale quanto dell'heavy psych di oggidì, un omaggio schietto, divertito ma serio, un ottimo album di ottime cover, costellato di cowbell, vocals sguaiate e wah wah. Pare che Joe ventili l'idea di un secondo capitolo in cui dare nuova voce a tutte quelle perle che qui non ha avuto modo di rispolverare. E noi che gli diciamo? Keep 'em coming! Davide Trovò
The Incredulous Eyes – Here’s the Tempo
Chi ricorda i Bebe Rebozo? Autori di uno dei più conturbanti ed affascinanti album di inizio millennio, "Voglio essere un ninja e vivere nell'ombra", sono stati, insieme ai Six Minute War Madness e a poche altre realtà del rock italiano di quegli anni, gli unici a prendere la via impervia del rock 'n' roll. Da quell'esperienza emergono The Incredulous Eyes che vedono Danilo e Claudio De Nicola alle rispettive posizioni (voce, chitarra e sax il primo, dietro le pelli il secondo) coadiuvati da Andrea Stazi che prende il posto di Francesco Polcini al basso. A differenza della matematica, pur cambiando minimamente gli addendi, il risultato cambia, e non di poco. Rimane la stessa voglia di sperimentazione che (ormai ne siamo certi) abita nelle menti dei nostri ("Not Moving", "Oddity", "I Saw My Hero", "D-Collapse Day") ma qui assistiamo ad una germogliazione dei semi sparsi in lunghi anni di sala prove, palchi e jammate insieme agli amici. L'infatuazione per un disco capolavoro come "Terraform" degli Shellac è rimasta, ma stavolta viene contaminata con un approccio più classic/roots ("The Fisherman", il bellissimo primo singolo estratto, con relativo video di Giustino Di Gregorio, "Time Wheel", "The Edge of the Shore", "Cold Muddy Waters") che non nasconde la propria vocazione a diventare maturo e, per certi versi, definitivo. C'è un sapore noir alla Morphine dietro a pezzi come "Blinding Reaction" e viene sparso qua e là un odore di Blonde Redhead prima maniera a sintetizzare la contaminazione post rock con l'onda lunga del pop più ricercato. Il tutto recintato da due pezzi incantevoli nella loro stessa composizione acustica come "Dream On" e "Still Dreaming", a rinforzare l'idea che la bellezza della vita è sempre nell'escapismo dei sogni. Non sappiamo dove porteranno le prossime peregrinazioni musicali di Danilo Di Nicola e compagnia, ma siamo sicuri che, se continueranno con la stessa genuinità e ricercatezza che li distinguono da oltre dieci anni a questa parte, ne sentiremo delle belle. https://www.youtube.com/watch?v=L2BiOkCS8BY

Eugenio Di Giacomantonio

The Incredulous Eyes – Red Shot
Ha la statura del classico "Red Shot", nuovo disco degli abruzzesi The Incredulous Eyes e prima uscita della Stoic Front Records, nata dalle ceneri della Nova Feedback Records. Ispirato (d)al colore rosso, è un album sanguigno, guidato – come recitano le note di copertina – dalla passione, dal feeling, dal sangue e dall'ego. Lo dimostrano i primi tre pezzi: "Red Army", "Cherry Brandy" e "Scarlett Wall". Dan Sartain è dietro l'angolo e, non arrivando ai due minuti, rappresentano rispettivamente la dolcezza, l'incazzatura e la bellezza. Emerge immediatamente il focus delle intuizioni di Danilo Di Nicola alla chitarra, continuamente al lavoro su trame delicate e rumorose, a contrasto, come derive tra continenti. La sezione ritmica del fratello Claudio alla batteria e del metallico (!!!) Andrea al basso garantiscono una tensione emotiva precisa e puntuale, dove la bellezza è data dall'intenzione dei nostri, prima ancora delle qualità specificatamente tecniche. Da "I Will" in avanti, il minutaggio dei pezzi diventa canonico e la band si immerge direttamente nell'humus che nutre l'album, fatto di influenze beatamente buckleyane ("Can't Cry" fa piangere a dispetto del titolo, la dolcissima "Son of the Sun" nel finale), riff post rock al vetriolo ("Red Situation", "Thick Grey", "Crimson") e veri e propri piccoli gioielli retrò come "I'm Not Your Knight Anymore", dove gli Incredulous Eyes mostrano le carte per diventare, come si diceva in apertura, dei classici del ventunesimo secolo. C'è lo spazio anche per piccole sorprese come la trasversale "Unrest" (seppur breve deragliamento dai binari, risulta del tutto coerente) e "Bushido", che à la Man or Astro-man? surfa le onde del mare di Roseto degli Abruzzi dopo un'indigestione di porchetta. We need a red shoot to push these things to a definitive influence on your life. Chi non ne ha bisogno? https://www.youtube.com/watch?v=C_R_lRCSuyo&list=PLS6DAqIPzY6lnUpFVgJSCAB_S2k4RYg90

Eugenio Di Giacomantonio

The Incredulous Eyes – Mad Journey
Parte da un presupposto molto articolato Mad Journey, il nuovo album del gruppo abruzzese The Incredulous Eyes. Un biologo molecolare di nome Ken, nel tentativo di trovare una cura per il cancro, si imbatte in visioni allucinate che lo porteranno a conoscere l'alieno Kaef. Suicidi collettivi, anime in pena e ricerca interiore ci accompagnano nel viaggio di questo strano concept album. Musicalmente il quarto album della band (qui a bottega li seguiamo dai tempi di Here's the Tempo e Red Shot) è nel solco della scrittura matura di Danilo Di Nicola, voce e chitarra, che compone in una combinazione riuscita prima intuizione "di pancia" e poi ripulisce e media attraverso le sintesi successive, sfinendo il prodotto finale. La sua Jaguar è sempre tagliente e riesce a costruirsi percorsi diagonali ed imprevedibili. Si hanno accenti Sonic Youth in Kaef – dove l'extraterreste si presenta in prima persona – e si sente l'odore di Lee Ranaldo in Deeper Inside, che con i suoi saliscendi rappresenta il pezzo più riuscito del lotto. Vision of Halet è un'eccezionale traccia space rock (primo pezzo in tale direzione, pare di ricordare) che lascia la briglia sciolta ai musicisti, così come la title track serra i ranghi dentro una schizofrenia post, vero marchio di fabbrica dei nostri. La destrutturazione sembra disgregare in particelle finissime nei casi di Insane Holograms e Nobody Must Die (una deliziosa citazione di Frank Sinatra come intro!), che sembrano da un momento all'altro perdersi in un vapore sonoro impalpabile. La fantasia ludica aliena dei Man or Astro-man? torna a farci visita in Dalik's Aggression - Guilty e mirabile risulta il cantautorato moderno di So Long, June e dell'opener Cells. Finale dolcissimo che ti abbraccia e ti avvolge con il dittico Goodbye My Friend (Dan Sartain è qui, inaspettatamente) e Brother John. Siamo umani, rimaniamo umani: siamo frangibili ed imperfetti. https://www.youtube.com/watch?v=8-cN1GuYqtA

Eugenio Di Giacomantonio

THE JANITORS – Evil Doings of an Evil Kind
The Janitors sono una band atipica per il catalogo Bad Afro. Abituati alla loro uscite flower power (su tutti i grandissimi Baby Woodrose, ma non bisogna dimenticare eccellenze come On Trial, Dolly Rocker Movement, The Setting Son e tante altre), il suono che propone questo quintetto svedese è fuori dall'idea peace and love. Incandescente, ipnotico, pesante. Se dovessimo pensare a degli Spaceman III o a dei Loop di oggi, A.D. 2014, penseremmo proprio a loro. Qualcosa ricorda la psichedelia texana di band come The Black Angels ("Black Wheel") ma in loro non c'è consolazione. Come moderni Anton Newcombe, sono dei born losers. E in più aleggia lo spettro dark di Ian Curtis nel canto. Capiamo che una cosa così non è propriamente "splendente". Le chitarre straziano in "Here They Come" e i tamburi richiamano il voodoo come potevano fare i Cure degli anni d'oro di "The Handing Garden". Prossimi, ma non proprio vicini, i compagni di etichetta Telstar Sound Drone. Ecco: il drone è la parola d'ordine per i Janitors. Con questo EP di quattro tracce emerge il monolitico fragore del sound ipnotico. Per palati fini. E tossici, of course. Eugenio Di Giacomantonio
THE LONE CROWS – Dark Clouds
Le nuvole nere evocate dal titolo del secondo album dei The Lone Crows sono fuorvianti. Qui splende il sole. Un sole southern classic rock. O forse il titolo si riferisce alla musica nera, soul & funk, che spesso viene a sporcare il cielo hard dipinto soprattutto dalla limpida chitarra di Julian Manzara. Prendiamo "Anger": se vi dicessero che è un outtakes di Santana del periodo "Abraxas" ci credereste. E "Out of Time" è squisito Steppenwolf sound portato nel Rio Grande a bagnarsi tra quei barbuti degli ZZ Top. Non è puro citazionismo. I quattro di Minneapolis hanno fatto un semplice ragionamento: "Se dobbiamo fare rock, facciamolo al meglio". E da quarant'anni a questa parte riconosciamo le perle che questa musica ha generato. Indiscutibilmente. I Lone Crows vogliono continuare la tradizione. Scrivere belle canzoni che facciano da colonna sonora a ragazze che si spogliano ("On That Day"), per dondolarsi sopra un'amaca con le budella piene di tacos e cerveza ("Dark Clouds"), per premere il pedale dell'acceleratore come se non ci fosse un domani ("Next Thing I Know"). Seguono la scia di entità moderne come The Muggs, bravissimi ed esemplari nel preservare la tradizione arricchendola, e Natural Child che prendono le infatuazioni rollistoniane del blues e ne fanno cosa propria. Nel triangolo il vertice più cool & dirty lo riempiono proprio i Lone Crows con i ritmi più densi, più lenti, più legati ad Isaac Hayes che una band rock possa mutuare. Nell'estate che verrà non mancate di farvi un paio di cannoni con questo disco. Le nuvole nere se ne andranno. Eugenio Di Giacomantonio
THE LONE CROWS – The Lone Crows
Una bella botta adrenalinica è il primo disco omonimo dei The Lone Crows. Sembra di ascoltare una heavy psych band colorata nello sleazy listening nordeuropeo di Hellacopters, Turbonegro e Free Fall. Un approccio che si nutre di antico e moderno risultando fuori dal tempo. Il concept è quello di una jam band fine Sessanta: heavy, soul, funk e hard mescolato insieme in una pozione che ricorda quella bevuta da Santana, Cactus, Humble Pie e Led Zeppelin. Come dire, hard applicato alla voglia di divertirsi. La World in Sound è andata a scovare dall'altra parte del pianeta una band che soddisfacesse in pieno la voglia di ruspante rock'n'roll e sembra aver trovato quello che cercava in questi ragazzi del Minnesota. L'iniziale omonimo pezzo è la presentazione del combo: roccioso stoner rock che sembra uscito dritto dritto da "Daredevil" dei Fu Manchu. L'attimo dopo è subito una quieta declinazione blues che si accompagna alla seguente "Heard You Call", momento riflessivo che mette in luce il tocco melodico del chitarrista Julian Manzara. La dolcezza può essere il momento giusto per far risaltare l'aggressività. Infatti il brano successivo, "You Get Nothing", si nutre delle stesse ambizioni del giovane Jimmy Page infatuato del delta blues fine 50. Da "The Ghost" in poi sembra di assistere a Woodstock: improvvisazione, partecipazione, ritmi lenti e caldi come sieri velenosi. Ed anche un finale da 12 battute piene piene di "Runnin' Through My Head" che riporta tutta a casa del blues elettrico alla Cream, Steppenwolf e Groundhogs: gente che ha stuprato la musica del diavolo con quintali di watt. C'è una serie di band che in un modo o nell'altro risultano classici e moderni allo stesso tempo, come The Muggs, Blues Pills e Radio Moscow. Finchè ci saranno loro, c'è speranza. Eugenio Di Giacomantonio
The Lu Silver String Band – Rock ‘n’ Roll Is Here to Stay
C'erano Thee Hairy Fairies e Small Jackets dietro a Lu Silver. Ora c'è la String Band, ma fondamentalmente le cose non sono cambiate: glam rock unto e zozzone come piace a noi. Lo stile americano è ben riconoscibile nel nostro: sembra una miscela di tutte quelle band di fine Settanta che hanno dato le basi su cui si è poggiato tutto il successo dell'Hollywood rock dei primi Ottanta. It's Difficult in realtà ci dice che è facilissimo fare del rock 'n' roll, basta avere una tazza di caffè, una sigaretta e l'attitudine giusta. Non si capisce bene perché ma Hard Road riporta alla mente i Cinderella di Long Cold Winter, forse a causa della voce di Luca o forse perché c'è la stessa modalità del trattamento in chiave blues. Come Miss Sugar tratta la famosa Brown Sugar degli Stones in chiave moderna: sfidiamo chiunque a non battere il piedino sul ritornello, il sudore da cold turkey di Mr. Richards dei Settanta è qui e adesso. We Are Monkeys prosegue il tiro stonesiano mentre I Got You è una riuscita ballata semi acustica come ne abbiamo trovate negli anni in ogni album che ci ha fatto battere il cuore. No More Time è un bel boogie'n'roll dall'odore southern con una spruzzatina d'inglese Dogs D'Amour, così come Radio Star naviga in odore Guns 'n Roses per carica, rhythm & solo guitars. In a Broken Dream è l'altra ballata del lotto, questa volta più grezza e acida, meno disincantata, in una parola più epica (sentite il finale). Reputation tira in ballo l'eleganza e le movenze del dirigibile più famoso al mondo e la finale The Sky Turns Blue ci lascia a trastullarci nel fiume sereno degli Stones, tra accordi di chitarra acustici e spighe di grano in bocca. Organizzate una festa, fatevi un goccio di whisky e mettete sul piatto Rock 'n' Roll Is Here to Stay: le pischelle si scioglieranno arranchiate dentro il vostro chiodo. https://www.youtube.com/watch?v=yvbDjooiVho

Eugenio Di Giacomantonio

THE MACHINE & SUNGRAZER – Split
Lo split album diviso tra The Machine e Sungrazer presenta diversi punti di contatto. Le due band condividono la stessa label, seppure diverse siano le affinità stilistiche. Uguale è il luogo di provenienza, l'Olanda, paese tradizionalmente sensibile ai colori e ai suoni psych stoner e che vanta un consistente numero di gruppi oltre ad un davvero cospicuo seguito per i citati generi. Le formazioni sono insieme in tour per promuovere questo lavoro.Partiamo dai The Machine, band attiva dal 2007 e con all'attivo tre album che guardano all'heavy stoner psych fuzz oriented, che segue la grande tradizione di Jimi Hendrix, Blue Cheer, Pink Floyd, Kyuss, Sleep e Colour Haze. "Awe" ci mostra quanto "Blues for the Red Sun" e "Holy Mountain" siano stati importanti per il combo olandes, canzone che vive di fuzz, si nutre di heavy riff con la voce in sottofondo ed una produzione cruda, con tanto di abbondante minuto finale di feedback. "Not Only" è una fast stoner rock song dove è ancora lo spirito dei Kyuss ad aleggiare. Il finale è affidato a "Slipface", composizione nella quale il trio scioglie le briglia: sono ancora i Kyuss a rivivere con rimandi ai Colour Haze, ma è probabilmente questo il miglior momento della proposta targata The Machine, grazie a tribal drums, wah wah solos ed una bella chiusura sommessa. Con i Sungrazer si cambia parzialmente registro ed anche in termini qualitativi si fa un passo avanti. Band nata nel 2009 e con due full lenght all'attivo. Con loro si va verso lidi psych più sognanti rispetto ai The Machine. "Dopo" è introdotta da un roccioso riff ma prosegue su strutture space psichedeliche dalla notevole atmosfera, alla maniera di Sun Dial, Loop e Bevis Frond. Con "Yo La Tengo" si entra in territori di psichedelia pura: la vena sognante si accentua e ne scaturisce una song che ti lascia sospeso a mezz'aria. Grandiosa. "Flow Through a Good Story" chiude lo split con una bordata heavy psychstoner rock e rimandi ancora alla psichedelia Anni 90, meno atmosferica e più pesante. Questo split si rivela un buon disco ma la sensazione è che le due band hanno saputo fare di meglio con "Calmer Than You Are" e "Mirador". Antonio Fazio
The Men – New York City
Sin dalla copertina sappiamo di che pasta sono fatti i The Men. Una batteria scarna, con le bacchette incastrate sulla cassa e delle pedane tonde a supportare l’equilibrio precario del tutto. Dietro, quattro foto in bianco e nero che ci mostrano la band di Brooklyn: dei speedfreak barbuti e lungocriniti che rispondono ai nomi di Nick Chiericozzi, Mark Perro, Kevin Falkner e Rich Samis, attivi dal 2008. Sullo sfondo, una New York post punk, libidinosa e perversa. Hard Livin’ e Peace of Mind sono l’uno-due iniziale che sparano ad alto voltaggio, tra Dead Boys, Johnny Thunders e quella sporcizia che circondava il CBGB degli anni d’oro. Tutta roba buona che pian piano è filtrata nei canali di scolo, dritta nella fogna di Bare Wires, Apache e compagnia bella. Un rock and roll selvaggio, triturato alla grossa e ridato in pasto alle nuove generazioni. D’altra parte cosa ci vuole per fare un bel pezzo rock? Un ritornello orecchiabile (“I want to be freeeee” in Eternal Recurrence e Matthew Melton è dietro l’angolo) che non ti molla più e la giusta storia da raccontare, magari la tua, così risulti ancora più spontaneo e sincero. Come in God Bless the USA, una stilettata punk (scelta anche come singolo di lancio) che dichiara un’appartenenza, un modo di vivere e di approcciarsi alla musica, senza freni, senza rimorsi. Girato il lato del vinile, i The Men si rasserenano: i tempi si fanno più cadenzati e il groove riprende il comando. Con Round the Corner tornano in mente quei talentuosi hippie di Dzjenghis Khan, Parchman Farm e Wild Eyes, gente che è stata sul solco heavy psych rinnovandolo dall’interno, scongiurando il passatismo. C’è spazio anche per una ballata in preziosissimo stile americano, Anyway I Find You, e il disco si chiude con un’altra perla Sixties a nome River Flows, una canzone che non avrebbe sfigurato nella colonna sonora di Easy Rider. Il suono di New York City resiste sulle sue radici e questo album ne è una dichiarazione d’amore. Disponibile in CD, LP gatefold e vinile bianco sul sito di Fuzz Club Records. https://youtu.be/m1bYJSomkqU

Eugenio Di Giacomantonio

THE PROPHECY – Salvation
I The Prophecy sono una band inglese attiva da inizio secolo e con "Salvation" giungono al loro quarto lavoro. Il gruppo è dedito ad un sound malinconico figlio di quell'ondata gothic e death doom che esplose proprio nella terra d'Albione nei primi Anni 90 e rese celebri acts quali Anathema, Paradise Lost e My Dying Bride (cui si aggiunsero poi – in altri paesi – i vari Type O Negative, Celestial Season, Winter, Katatonia, The 3rd and the Mortal, The Gathering e molti altri). "Salvation" denota un'attitudine per certi versi progressive poiché la band mostra la voglia di esplorare e staccarsi dagli abituali canoni del genere. Questo aspetto porta i quattro a ridurre notevolmente l'elemento death, presente solo sporadicamente in alcuni riff ed in accenni growl, avvicinando il sound in certi frangenti ad una sorta di psichedelia intimista – seppur quest'ultima appaia non essere un'influenza primaria nella loro scrittura.I Prophecy sono capaci di creare brani articolati dove mostrano un ottimo background ed una certa attenzione al songwriting. Operazione parzialmente riuscita perché la band si ostina spesso e volentieri nel dilungarsi troppo, rischiando di apparire ripetitiva. Ne scaturisce un full lenght di 5 brani di lunga durata e come suggeriscono i nomi delle stesse canzoni, un lavoro malinconico, intimistico e riflessivo. Lo spettro sonoro sembra riportare ai Pink Floyd, al sognante sound di Canterbury, agli Anathema, ai My Dying Bride e anche a certi Opeth più sommessi. La vena doom è dunque presente a tratti rispetto ai loro lavori precedenti. "Salvation" è un album riuscito a metà: grandi potenzialità e ottime idee, ma un forte senso di incompiutezza. Merita comunque l'ascolto, soprattutto per gli appassionati di questo tipo di sound. Antonio Fazio
THE QUARTET OF WOAH! – Ultrabomb
Per la serie: l'album che non ti aspetti. I Quartet of Woah! sono una gradevolissima sorpresa. Giungono da Lisbona dove si formano 2 anni fa e sul finire dello scorso anno licenziano "Ultrabomb", disco d'esordio e vero e proprio melting pot sonoro. Il sound del quartetto risulta essere ricco e vario: si potrebbe inserirli nel calderone stoner rock ma risulterebbe riduttivo, perché le moltitudini di influenze si incrociano e danno vita ad un interessantissimo collage dove il fuzz è onnipresente, ma fa da contorno a molto altro. Il background della band parte evidentemente da certa psichedelia Anni 60, passa dai Beatles, dai primi Queen (in particolare nei momenti cui il gruppo ha un approccio più magniloquente), accarezza accenni di progressive e chiaramente vira allo stoner rock, quello di Clutch, Dead Meadow, Radio Moscow e Truckfighters. Il tutto è arricchitto dall'organo freakout, che li avvicina quindi ad altre realtà quali Royal Thunder, Orchus Chylde e Blood Ceremony, con un appeal meno occult rispetto a questi ultimi. Talvolta semmai riafforano echi di The Doors e Vanilla Fudge."Ultrabomb" è un viaggio a ritroso che parte dagli Anni 60 ed arriva ad oggi attraversando tutte le ere, tra garage fuzz rock, psych pop, certo progressive, fino allo stoner odierno. Un lavoro di buonissima fattura che pone la band tra le più interessanti rivelazioni di questi ultimi mesi. La formula è di non semplicissima lettura e citare un brano o un altro cambierebbe poco, poiché ogni song ha una sua connotazione. Particolare menzione va comunque alla finale "U Turn", che chiude degnamente l'album ed è tra i maggiori highlight dello stesso. Infine, il disco è un concept ispirato dall'omonimo libro per ragazzi "La ultrabomba", scritto dagli autori spagnoli Mario Lodi e I.Sedazzari nel 1974, storia che si basa su una critica politico-sociale in un contesto immaginario. Insomma, un lavoro consigliatissimo! Antonio Fazio
THE RED COIL – Slough Off
Ep d'esordio per i lombardi The Red Coil che come biglietto da visita ci offrono tre pezzi di matrice hard rock con influenze tanto stoner quanto southern. I tre pezzi si assestano ben oltre la sufficienza e mostrano aspetti diversi del sound della band. Partiamo con "Burning Shores", il pezzo più desertico del lotto: molto bello il giro di basso che caratterizza bene il pezzo e che dona sostanza e pesantezza alla struttura generale. Interessante e vincente anche il suono di chitarra liquido e che rimane sospeso, quasi leggero rispetto alla pesantezza che invece pervade il pezzo."Traces Inside" riscalda l'atmosfera. Siamo in territori southern e la parte conclusiva, con un rallentamento bollente e la seguente esplosione in piena distorsione finale, fa eleggere questo brano come migliore del dischetto. Si conclude con "Breakfast Blues with Lucifer", un solido pezzo hard rock che ci fa scuotere decisamente il capoccione. Tutti i Red Coil si dimostrano all'altezza, particolare nota di merito al singer Marco che si rivela cantante versatile sia sul pulito che nelle parti più aggresive. Come lavoro d'esordio non c'è male, tre brani convincenti e discretamente personali. Nota di merito per la produzione calda e affilata e per la cura posta nell'artwork, entrambi aspetti che per un lavoro d'esordio e per giunta autoprodotto non sono da sottovalutare. Davide Perletti
The Roozalepres – The Roozalepres
Una mezz'oretta abbondante di high energy rock'n roll contiene questo disco omonimo dei Roozalepres da San Giovanni Valdarno. La Go Down Records ci ha abituati alla pubblicazione di band che esplorano l'universo stoner psych, così come quelle che esprimono un rock più diretto e selvaggio, vedi il recente Rock 'N' Roll Is Here to Stay della Lu Silver String Band. Il singolo Come and Go esprime perfettamente gli intenti dei Roozalepres: velocità, sesso, depravazione e sudore. Siamo dalle parti di Apocalyptic Dudes dei Turbonegro che i nostri, immaginiamo, debbano aver amato parecchio. Ma siamo anche immersi nel sound degli Hellacopters, soprattutto nel rifframa di Decomposed Sam e Toty, che dimostrano di aver avuto molti buoni ascolti. D'altra parte Valdarno è sempre stato un territorio d'elezione per il rock, basti ricordare, un esempio su tutti, i R'n'R Terrorists (che fine hanno fatto?) con il loro blues infetto. I pezzi di questo album non superano quasi mai i tre minuti tre e si rimane incantati nella perfezione estetica di Alien Televison Show che mescola punk, street rock anni Ottanta e garage primitivo. Quest'ultimo emerge prepotente nella seguente Black Magic Killer, che tira per la giacchetta il cadavere di Rudi Protrudi (ma è ancora vivo?), mentre Riding Cosmos potrebbe piacere a quel pazzo di Nick Olivieri nella fase tossica Mondo Generator. Allo stesso modo, Tiger Fangs pare scritta per Hank von Hell. Si presentano così i Roozalepres: "just another stupid and worthless punk rock band that nobody wants to listen". Non dategli retta: mettete il disco nel lettore, stappatevi una birra e passate una buona mezz'oretta con del robusto rock 'n roll. https://www.youtube.com/watch?v=bV5nFUo9KmQ

Eugenio Di Giacomantonio

The Sade – III: The Grave
Mi sono sempre piaciuti gli elementi scostanti di una band. Gente che per perseguire il proprio sogno è deciso a non scendere a compromessi. Uno di questi è Andrew Pozzy, al tempo bassista dei proto rockers/MC5 style band/revolt is the law! OJM. Andrew, insieme a Mark e Matt, ha messo su i The Sade, una formazione diametralmente opposta alla casa madre trevigiana, ed è andato a scavare nel lato oscuro della psiche. Il progetto giunge con "III: The Grave" al terzo album in totale scioltezza. I pezzi, stranamente rispetto alla scelta stilistica, suonano freschi e asciutti come un sorso di buon bourbon. "The Raven" potrebbe ammiccare al pubblico dark e finire nelle radio, come un tempo erano diffusi nell'etere i Sisters of Mercy, i Mission e i Cure meno stantii. Il cuore dei nostri è sì scuro, ma anche metallico e duro. "Seek Seek Seek" è 100% Danzig con una cafonaggine Hellacopteriana ("Burnt" sembra uscita dritta dritta dalle mani del compianto Robert Dahlqvist), "Graveyard" e "Prayer" sono quasi vergine di ferro e fanno scapocciare duro con goliardia metal. Ma non viene dimenticata neanche l'origine della specie: "Coachman" è puro black country come solo Johnny Cash era capace di fare e "Black Leather" esce direttamente dall'albero della vita, il blues. Sipario finale su acustica spagnoleggiante di "Charlie Charlie". Cos'altro aggiungere? La mente è il cuore sono così aperti che impossibile rimanere indifferenti davanti a certa classe. [caption id="attachment_6001" align="aligncenter" width="640"]The Sade The Sade[/caption]   Eugenio Di Giacomantonio  
THE SETTING SON – Before I Eat My Eyes & Ears
La Bad Afro è garanzia di qualità. Dopo averci deliziato con "Third Eye Surgery", nuova emissione psicotropa griffata Baby Woodrose, tocca ora a The Setting Son, progetto guidato dal compositore e polistrumentista Sebastian T. Winther. Giunto al traguardo del terzo disco dopo l'esordio omonimo del 2007 e "Spring of Hate" del 2009, il buon Sebastian muta ancora pelle. La materia è sempre la stessa – acid garage pop che guarda con un occhio ai Sessanta e con l'altro pure –, cambiano la formazione e l'abilità compositiva. Stavolta ad accompagnare il menestrello danese ci sono Adam Olsson (chitarra), Heinzz (organo e Rhodes), Emma Acs (voce), Tobias Winberg (basso) e Adam Winberg (batteria). E se nelle precedenti uscite il risultato era più che buono ma spesso frammentario, ora ci ritroviamo un disco ricco di canzoni secche e dirette, scritte con gran classe e concentrate con la leggerezza e l'impegno dei grandi musicisti.La psichedelia zuccherosa, visionaria eppur docile di "Eat My Fear", "Above the Rest" e "All That Candy" (soave come sempre la voce di Emma Acs) fa il paio con episodi smaccatamente pop quali "Are You the One", "Death Breath" e "Throwaway". Brani che denotano il gusto raffinato e la grande abilità compositiva di Sebastian T. Winther, un autore con la "A" maiuscola. Il beat garage psych esplode in "Terrible Town" (che Hammond assassino!) e "Butterface", mentre sul finale il buon Sebastian piazza un potenziale singolo spacca classifiche come "Best of Me": fossimo nel 1966 o semplicemente in un'epoca degna di essere vissuta, una canzone del genere riceverebbe onori e glorie. "La luna" congeda dal trip come una carezza, una mano di velluto che ti fa spingere il tasto "play" ancora, ancora, ancora… The Setting Son è l'antidoto alle crisi economiche e morali dei nostri giorni. Lasciatevi cullare nella parte migliore di voi stessi. Alessandro Zoppo
The Spyrals – Same Old Line
Sono stati tirati su a pane, Creedence Clearwater Revival e Neil Young i The Spyrals, agguerrito trio californiano che ha esordito nel 2009 con un EP omonimo di quattro pezzi. Dopo il debut album del 2012 e i successivi Out of Sight e The Curse, sempre a base di garage rock dalle tinte acide, li ritroviamo accasati presso Fuzz Club Records con questo Same Old Line. La band, passata da San Francisco a Los Angeles, ha tirato fuori un disco che più classico non si può sin dal primo singolo There's a Feeling, custode di un suono tra lo Young periodo Crazy Horse e la cavernosità di 13th Floor Elevators e The Stooges. Le otto tracce di Same Old Line sono cavalcate elettriche ricamate su chitarre distorte, ritmiche quadrate, vocalizzi dolci e al tempo stesso ruvidi e slabbrati, atmosfere pacatamente lisergiche che si alternano a quelle country e western più spiccate. The Spyrals si erano ripromessi di registrare "qualcosa di nuovo con un'anima vecchia". La missione è riuscita, come dimostrano l'antica novità della title track o l'armonica a bocca che sferza Goodbye. Jeff Lewis, armato di chitarre riverberate e fuzz, comanda le danze con la rinnovata formazione, completata dal bassista Michael McDougal e dal batterista Dash Barinstein. Lewis e soci hanno registrato questo lavoro in un paio di giorni nel garage di Dash con un Tascam che restituisce quella dimensione meravigliosamente sgraziata e imprecisa. L'ossessione di Jeff è stata quella di assemblare la visione West Coast dei "vecchi" Spyrals al sound di Nashville e del Delta del Mississippi. Il canone blues elettrico e la radice Americana sono preponderanti e la presenza sbuffante del vecchio Neil è evidente. D'altronde Lewis l'ha ammesso senza problemi: ha ascoltato e riascoltato la discografia di Young durante il trasloco verso L.A. e con la band è persino andato ad un concerto dei Crazy Horse a Bakersfield (uno degli ultimi pre-pandemia) durante i giorni delle registrazioni. Non è un caso se le uniche aperture alla tenerezza assoluta le concedono In Your Room e Sympathy, due carezze semi-acustiche dall'universo neilyounghiano che stappano il cuore. Quando si arriva alla fine con Bleed, ci si trova davanti una canzone seducente che si impone quasi per inerzia, sintesi estrema di questo percorso mesmerico, suadente e melanconico. Questo strano e dannato 2020 ci restituisce The Spyrals con due anime: quella elettrica e pastorale, da folk blues del bayou, e quella acustica e intima, da terrigni loners. L'equilibrio tra sporcizia rassicurante e lirismo tumultuoso è raggiunto in pieno. https://www.youtube.com/watch?v=qZIPeT7GAFE

Alessandro Zoppo

The Telescopes – Experimental Health
La mutazione dei The Telescopes continua inarrestabile con Experimental Health. Dopo la fase feedback, distorsioni e oscillazioni statiche di Exploding Head Syndrome e i passaggi introspettivi di Songs of Love and Revolution e Absence Presence, la creatura di Stephen Lawrie (ormai una one-man band a tutti gli effetti) spalanca un'altra porta della percezione. L'album del menestrello neo-psichedelico inglese è il numero 14 (e terzo per l'etichetta tedesca Weisskalt) di una incredibile carriera cominciata nel lontano 1987 e arrivata intatta ai nostri giorni. Lawrie descrive Experimental Health come “musica folk fatta con giocattoli rotti e sintetizzatori a buon mercato, per lo più Pocket Operator e mini synth”. Tutto vero: in queste otto canzoni non c'è traccia di chitarra, basso o batteria, si ascoltano soltanto suoni elettronici di vario tipo, drum machine e il canto trascinato, quasi una nenia, di Stephen. La maggior parte della strumentazione usata costa sulle 50 sterline, anche meno. “La complessità del suono è data dalla semplicità della composizione e dagli arrangiamenti”, ammette Lawrie. Come non essere d'accordo: Experimental Health è pienamente The Telescopes, ma in una forma ancor più minimalista ed emozionante. Concepito e scritto durante i lockdown, registrato in un isolato cottage del West Yorkshire tra gennaio e maggio 2022, il disco usa la psichedelia in chiave elettronica per raccontare il riflesso sulla nostra psiche di quello che succede nel mondo frenetico e schizofrenico di oggi. Un lavoro sulla salute mentale, il disagio, i disturbi depressivi e l'anoressia sociale. Il singolo The Turns (ovvero i riposizionamenti a cui è sottoposto un paziente allettato per evitare le piaghe da decubito) riprende l'incredibile storia del senzatetto EdwardDiogenesMcKenzie, l'ex pugile diventato homeless che il geniale pittore Robert Lenkiewicz aveva ritratto e conservato in un armadio: dopo la morte di Diogenes, Lenkiewicz aveva mantenuto il corpo imbalsamato dell'amico, immerso in un memento mori, per onorare la promessa di tenerlo con sé come “fermacarte umano”.

The Telescopes, Experimental Health è l'esplorazione di nuove dimensioni

45e, il brano più toccante e contagioso dell'intero album, fa riferimento al Public Health (Control of Disease) Act 1984, la legge inglese sul controllo delle malattie e le misure restrittive per isolare le persone infette. La 45e è la clausola che protegge dal TSO (il trattamento sanitario obbligatorio) e che il governo britannico sta cercando di modificare. “Drugs so awesome they have to force them”, canta Lawrie alludendo allo scaring caring, allo spettro degli abusi e delle violenze psichiatriche, alle zone d'ombra di una misura che è spesso diventata un sequestro di persona. Non siamo così distanti dall'accuratamente programmata distruzione del sistema sanitario pubblico in Italia. When I Hear the Sound è forte di un crescendo di incredibile intensità. Come la sirena di un'ambulanza che si avvicina minacciosa, il sound elettro-psichedelico si allontana sempre più dalle sonorità che gli stessi Telescopes hanno contribuito a reinventare alla fine degli anni Ottanta. Leave Nobody Behind accende una luce di speranza tra manipolazioni minacciose e ansiogene. C'è persino qualcosa di ballabile e canticchiabile tra orribili traumi, paranoie e frustrazioni per la mancanza di empatia dei nostri anni degradati. Molto più cupa e claustrofobica è Wrong Dimension, un grido d'allarme sullo stato disastroso dell'educazione e della cultura e sulla pseudo-scienza che sforna oscurantisti e conformisti. Repetitive Brain Injury è il suo spietato complemento, una soave cantilena ispirata a Lawrie da una conversazione sulla demenza con la moglie Andrea, che lavora nel campo dell'assistenza sanitaria. “Lascialo vagabondare, tanto qualcuno lo porterà a casa”, canta Stephen raccontando la storia di una persona delusa da un sistema che avrebbe dovuto aiutarla. The Turns Again è la chiusura del cerchio: una inquietante outro che fa ricominciare l'esperienza d'ascolto. Perché di Experimental Health ne vorremmo ancora e ancora. Tra ballate allucinatorie e melodie trascendenti, rumori metallici, ronzii lo-fidelity e gioiosi tocchi psicotici, questo lavoro è uno scrigno di beni davvero preziosi. Malconcio soltanto in apparenza, inclassificabile eppure accessibile ad un pubblico ampio, Experimental Health è la fotografia di una realtà distorta e proprio per questo un album dolcemente e diabolicamente catartico. L'anno non è ancora finito, ma è già di diritto tra i migliori dischi del 2023. https://www.youtube.com/watch?v=legiRLcIJBE&ab_channel=WEISSKALT

Alessandro Zoppo

The Telescopes – Exploding Head Syndrome
The Telescopes, dal 1987 beyond the realm of natural vision. Exploding Head Syndrome, undicesimo album in studio della creatura psichedelica di Stephen Lawrie (il terzo per la tedesca Tapete Records), è stato registrato in perfetta e contemplativa solitudine nelle campagne del West Yorkshire. Gli otto brani che lo compongono, tutti diversi tra loro eppure così amalgamati l'uno all'altro, descrivono la cosiddetta sindrome della testa che esplode, un disturbo del sonno teorizzato nel 1920 da Robert Armstrong-Jones e caratterizzato dalla percezione di rumori improvvisi appena ci si sveglia o quando si è sul punto di addormentarsi. Ne sono colpiti un giovane americano su cinque, secondo un recente studio della Washington State University di Pullman. Le cose strane che succedono mentre dormiamo e quelle sensazioni da "sogno o son desto?" hanno ispirato Lawrie, scaltro indagatore della mente umana, che le ha messe in musica noncurante di tendenze e mode dominanti. Suonano lontani i tempi acidissimi di Taste e Third Wave: in questo caso siamo immobilizzati da composizioni lente e cadenzate, dolci e avvolgenti, una trance sonora che sbalordisce per equilibrio e compostezza. Malinconico e allucinatorio, melodico e destabilizzante, questo lavoro dei Telescopes è come uno strano campo magnetico che mette in discussione ciò che crediamo di sapere sul concetto di rock psichedelico. Ci sono il minimalismo e la "forma canzone rock" da una parte, i feedback asfissianti, i loop, i drone e le (apparenti) dissonanze dall'altra. Ma la verità è che Exploding Head Syndrome esprime una soavità fuori dal comune, come quella piacevole sensazione di spossatezza che si vive dopo aver raggiunto un obiettivo importante. Lo raccontano la gravità che ci schiaccia in All the Way Around (Tout est dans le moment) e Don't Place Your Happiness in the Hands of Another (un monito significativo nel mondo farabutto di oggi: occhio al video diretto da Little Lens Videos su YouTube), la bellezza ammaliante di Everything Turns Into You (dai sapori East meets West) e Until the End. Nothing Was Held è addirittura una delle canzoni più belle mai scritte da Stephen Lawrie, che sta vivendo un periodo davvero prolifico (nel 2017 sono usciti As Light Return e Stone Tape), segno che la scelta di accantonare la freakiness estrema per un approccio più emozionale paga sempre in termini di qualità. Exploding Head Syndrome è la conferma di quanto di buono visto all'Eindhoven Psych Lab 2015 e di ciò che gusteremo nel tour europeo che ci aspetta con quattro date in Italia: il 10 marzo al WoPa Temporary di Parma, l'11 al Fanfulla di Roma, il 12 al Titty Twister di Firenze e il 13 Sound di Teramo. https://www.youtube.com/watch?v=nzIGCebzw04 Alessandro Zoppo
THE ULTRA ELECTRIC MEGA GALACTIC – The Ultra Electric Mega Galactic
The Ultra Electric Mega Galactic è un power trio dietro al cui nome si cela una sorta di supergruppo. Troviamo infatti alla chitarra l'Atomic Bitchwax ed ex Monster Magnet Ed Mundell, Rik Ferrante dei Sasquatch alla batteria e al basso Collyn McCoy (Trash Titan, Otep). L'idea sembra essere quella di un progetto free, ideale per dare sfogo ad interminabili jam, tradotte poi in brani separati. La proposta è hard rocking 70's inspired stoner rock, che cita Jimi Hendrix e gli Hawkwind quali maggiori ispiratori. "Rockets Aren't Cheap Enough" apre l'album con un riff insistito che riecheggia Rush e AC/DC macchiati di stoner, una song strumentale come l'intero album, eccezzion fatta per la successiva "Unassigned Agent X-27", dove compare lo scrittore Harlan Ellison voce fuori campo. Un brano questo che fa da space intro a "Exploration Team", sterzata stoner dove dare sfogo agli strumenti, compresi gli effetti pedals zeppi di feedback, wah wah e fuzz overdrive. Guest stavolta è Keith Gibbs, chitarra dei Sasquatch, a contribuire nei solos."Get Off My Word" è un omaggio a Hendrix, caratterizzato da wah wah e groove a tonnellate. Tutti i brani del disco sorreggono l'espressività di Mundell e la sua backwards guitar. "7000 Years Through Time" è ancora stoner heavy psych jam in cui si libera la chitarra di Ed; con "The Third Eye" la band vola verso lidi space rock ed è l'influenza Hawkwind a spuntar fuori. Si materializza anche il passato di Mundell nei Monster Magnet: la canzone infatti è strutturata, lunga e più "controllata", vivendo sul ventoso riff di chitarra. Momento cosmico che passa il testimone all'orientaleggiante "The Man with a Thousand Names", dove il sitar ci conduce in un immaginifico mondo spirituale: non può che venir in mente il compianto Ravi Shankar. Dopo l'esperienza mistica ci si ributta nell'heavy sound con "Hello to Oblivion", avvolgente stoner track che mette in mostra il lato progressive soul del gruppo e l'innegabile qualità tecnica di Ed, che qui mostra tutto il suo amore per Tommy Bolin. L'album si chiude con "In the Atmosphere Factory": introdotta da emanazioni space, è un oscuro viaggio nei meandri dell'ignoto, altra grande prova dei tre. Il disco d'esordio degli Ultra Electric Mega Galactic è un lavoro più che discreto. Se cercate un prodotto space jam psychedelic stoner rock strumentale, allora sedetevi, allacciate la cintura e partite. Destinazione: ignota. Antonio Fazio
THE WANDERING MIDGET – The Serpent Coven
Dopo l’ottimo “I Am the Gate”, tornano i finlandesi The Wandering Midget con un lavoro nuovo di zecca intitolato “The Serpent Coven”, contenente solo sei brani ma della durata di 54 minuti. Il gruppo, che prende il nome da una canzone dei Reverend Bizarre, si candida come uno dei più promettenti della nuova scena doom ed è influenzato tanto da certa psichedelia quanto dal progressive rock degli anni Settanta.Un pezzo come “The Thing from the Black Reef” dimostra chiaramente che la band è affascinata da scrittori di tematiche horror quali Edgar Allan Poe e H.P. Lovercraft. Se si ascolta un brano come “Taynia” ci si accorge dello stile molto personale che il trio riesce a sviluppare con grande naturalezza; ancora meglio “Family Curse” che parte inizialmente con un’atmosfera tetra e drammatica per poi evolversi in alcuni fraseggi epic che ricordano i migliori Manowar. Da segnalare anche la title track, molto interessante, con ammiccamenti quasi stoner tali da sembrare una versione medievale degli Electric Wizard. Veramente bravi. Non mancano riferimenti all’heavy classico, ai già citati Reverend Bizarre, a certi Cathedral ed anche ai Witchcraft (soprattutto nel cantato). I Wandering Midget si rivelano un gruppo capace di piacere anche a coloro non molto avvezzi a questo genere: la loro formula è un doom vario, fresco, a tratti melodico, decisamente coinvolgente. Insomma, una proposta piuttosto eterogenea. Da seguire senza alcun dubbio. Cristiano Roversi
The Whirlings – Beyond the Eyelids
Al di là delle palpebre troviamo quattro ragazzi in gamba. Andrea, Mattia, Diego e Giulio sono partiti da una città controversa come L'Aquila, per storia e fortuna, e sono arrivati nelle orecchie di appassionati heavy psych di tutto i mondo. La musica di The Whirlings riflette in pieno l'orizzonte della terra da cui provengono, un kò de mondo interiore più che una linea al di qua del mare. Un centro della terra per tanti versi. Con il secondo lavoro "Beyond the Eyelids" sono riusciti a mettere a fuoco maggiormente quello che nel precedente omonimo EP viveva di equilibri precari. L'accostamento di certo post rock evoluto e riff gonfi di seventies pathos ora non sono più solamente uno accanto all'altro ma si contaminano di reciproci caratteri. Anche all'interno di uno stesso pezzo. Anche nello sviluppo coerente dell'intero lavoro. Iniziamo subito con qualche novità: la slide guitar assassina di "Calaca". Ansiogena e ammaliante come veleno. Si mette di traverso in un pattern di chitarre di natura perfettamente desert ad accaldare maggiormente l'idea motorik del pezzo. A ruota l'omaggio pinkfloydiano di "Lagrange Points" ammorbidisce con tocchi delicatissimi (tramortiti sul finale da un basso fetente) che introducono il seguito dolcissimo di "Rosebud". Qui succede qualcosa. Alcuni indizi ce lo avevano fatto presumere. Ora è evidente: i nostri stanno lavorando sui pieni e sui vuoti, sugli stop & go e sui contrasti. Fanno lo stesso campionato del Sig. Gian Spalluto (nome dietro al quale si cela il progetto Australasia, recensito qui in altri tempi) ma cambiano le sorti del gioco. Dove là regna un'idea ambient/post, qui c'è uno sviluppo hard/psichedelico. Ambedue progetti con un appeal fortemente cinematografico. Ambedue strumentali (tranne che per qualche episodio di Australasia). Affascinante come le migliori espressioni della musica italiana underground di oggi passino attraverso l'assenza di lyrics. Come a voler dimostrare che se c'è voglia di esprimersi, la lingua può non essere propedeutica. Ce lo dimostra in pieno la conclusiva "The Bees Are Dying", sorta di introspezione al miele, per accoratezza e profondità, e riflessione sui possibili scenari che ci attendono. Tutto solo con l'aiuto della sola musica, of course. https://www.youtube.com/watch?v=vseUOCc0luw

Eugenio Di Giacomantonio

THE WISDOOM – The Wisdoom
Venite, miei stregoni elettrici... Roma si conferma capitale del doom e sforna l'ennesima band meritevole di segnalazione, The Wisdoom. Quartetto che nasce nel settembre del 2010 per giungere all'esordio con questo EP omonimo, registrato presso lo Snakes Studio di Roma, completamente autoprodotto e distribuito dalla Phonosphera Records. Tre tracce per quasi 40 minuti di durata, un composto di heavy psych e doom che soddisferà i palati di ascoltatori esigenti e teste calde in cerca di figliocci dei Black Sabbath.Dario Iocca (chitarra), Francesco Pucci (chitarra, voce), Fabrizio Fraja (basso) e Alessandro Commisso (batteria) compongono un affresco che bilancia in giuste dosi pesantezza e carica lisergica, coinvolgimento emotivo e piacere psicofisico. L'iniziale "The Wisdoom" è una bordata strumentale notevole: incipit dal riff groovy di marca Down, pausa minacciosa e nuovo riff lento e soffocante come il sole a mezzogiorno in un'afosa giornata d'agosto. L'apogeo del doom nelle sue infinite sfaccettature: per dirla con Sergio Martino, tutti i colori del buio. "Katabasis: I. The Fall II. Orphic Song III. Eternal Rise" è una maratona corsa a passo di mammut, undici minuti che devono molto agli Electric Wizard e ai Goatsnake e fanno emergere un gruppo compatto, capace di variare sulla canonica struttura psych doom e di azzeccare un chorus che resta in testa sin dai primi ascolti. La conclusiva "Cross of the Seven Jewels (L'Uomo Lupo contro la Camorra)" è un degenerato tributo a Jus Oborn, sin troppo eccessivo nel suo andamento da witchcult today. Fortuna che idea ed esecuzione non si rivelano così stantii e provocano una piacevole assuefazione. Fossimo nel Dorset, i Wisdoom avrebbero già schiere di adepti pronti a sacrificarsi al loro sabba. Alessandro Zoppo
The Worst Horse – The Worst Horse EP
The Worst Horse è un cavallo zombie impazzito e trucido. È il moniker dietro al quale si celano quattro brutti ceffi di Milano che hanno fatto dell'orgoglio redneck il loro punto di comando (nella musica, perché a vederli David, Francesco, Pietro e Omar sembrano quattro modern dandy). Il sound che esce fuori dalle casse è quanto di più sozzo ha transitato nelle vostre orecchie: Generous Maria, Sourvein, Fireball Ministrry, Orange Goblin, Loudmouth e qualcosa di classico come AC/DC e The Cult ("Grimorium" sembra una outtake di "Sonic Temple"). Come dire, la palude della Louisiana con un'ottica Seventies rock. Troppo poco cinque pezzi per avere un visione completa e a lungo termine del progetto, ma questi venti minuti ci dimostrano che i ragazzi sono intenzionati a lasciare una traccia, non solo nel mondo stoner o giù di lì ("Dawn" appare inaspettatamente fruibile in senso alternative rock a maglie larghe, come la conclusiva "Mount") e la band non sfigura davanti a nomi quali Isaak e Oak's Mary (a proposito, che fine hanno fatto?) nel modo di intendere il rock in maniera sostanziosa, ipervitaminica e senza compromessi. Ampli a manetta e chitarre maltrattate: this is the law. https://www.youtube.com/watch?v=_KijSqxsg6M Eugenio Di Giacomantonio
The Worst Horse – The Illusionist
Una potenza hard stoner si sprigiona dalle casse appena mettiamo su The Illusionist, il nuovo lavoro dei The Worst Horse, band milanese edita dalla Karma Conspiracy di Benevento. David Podestá alla voce è il vero mattatore della scena: come un Gassman prestato alla musica, David è un fantasista che poggia su basi atletiche. Riesce a dare espressione viscerale a tutte le composizioni imbastite da Omar e Francesco che non sono da meno in merito ad originalità e brillantezza. Il concept di questa opera prima (appena prossima al primo EP omonimo del 2015) è mutuato dall'immaginario fumettistico bonelliano, come rivela la suggestiva copertina di Alessandro Iannizzotto, ma la musica è figlia della meglio gioventù americana. Un bel mix bastardo tra Clutch, Fu Manchu, Fireball Ministry, Wo Fat è il cocktail servito a caldo. Emerge anche una lettura non compiacente di certi amori adolescenziali metallici (impossibile non pensare che il nostro David non abbia amato una band come i Metallica, o meglio, James Hetfield), ma il risultato è filtrato attraverso la New Wave of American Stoner Rock degli anni Duemila, che immaginiamo sia il vero fulcro su cui si posa la scrittura di Omar. C'è una buona quantità di riff che tengono insieme tutta l'impalcatura dei pezzi, altre volte il mood si fa più rilassato (XIII, Circles e Blind Halley) ed esce fuori un'idea di canzone espansa, non compressa nell'ortodossia stoner, anche se ovviamente sempre di heavy psych si sta parlando. Il sapore in bocca che ci rimane alla fine del disco è quello di una band grassa e fumante: come certe portate della tradizione culinaria italiana che piacciono tanto agli stranieri. https://www.youtube.com/watch?v=xDun6vP-KLg Eugenio Di Giacomantonio
THEE ELEPHANT – Thee Elephant
Barba e capelli signori. Non è l'incipit di un coiffeur, ma l'elemento principale dei Thee Elephant. Tanta barba e tanti capelli. Tanta West Coast e tanta erba da fumare. Il loro violent surf è più Beach Boys sound mescolato ad aromi prettamente British, che Phantom Surfers. I Blur con metanfetamina in corpo, per capirci. Bomba Dischi pubblica questo esordio che conferma i propositi dell'etichetta: puntare dritto verso un rock para-mainstream e paraculo. Senza perdere un'oncia di qualità. I nostri hanno ascolti ad ampio raggio. Si sentono echi di Beatles nella coda di "Orpheus" (bella l'idea di stratificazione delle voci) e accenni New Wave da confine americano nella seguente "Hole in the Road". Sono bravi e sanno maneggiare la materia. E dimostrano una cura per gli arrangiamenti molto particolare. Quando la battuta scende e il bicchiere si riempie ("I'm a Loser", "Here for You", "Summerwind") non diventano stucchevoli. Anzi. L'ambiente si riscalda maggiormente e le donne ve la mostreranno. L'importante è colpire prima che il ritmo torni violent come nel riff kravitziano di "In Love Again" o sinuoso come serpe tra l'erba alta di "Go to Spain", Sixties e benefica. Facciamo come da loro consiglio: abbandoniamo l'amore, abbandoniamo l'innocenza e la purezza, abbandoniamo la semplicità. E lasciamoci cullare in questo mare. Eugenio Di Giacomantonio
THEE JONES BONES – Stones of Revolution
Thee Jones Bones: ovvero come imparai ad amare il rock and roll ripartendo dal blues e dalla chitarra acustica. Giunti al quarto album in studio (più una demo autoprodotta), il gruppo bresciano muove verso i Sessanta e i Settanta. Non sono affatto ingannevoli gli archi beatlesiani che sorreggono le frasi di chitarra nell'iniziale "Free" (nomen omen, tra l'altro): il linguaggio di questo disco è quanto di più "classic" si possa ascoltare nell'anno domini 2012. Rolling Stones, Led Zeppelin, Cactus, ZZ Top, New York Dolls e chi sa quanti altri gruppi costituiscono il background di Screaming Luke Duke (chitarre, voce), Brian Mec Lee (batteria), Frederick Micheli (chitarre, voci) e Paul Gheeza (basso, voci). Seppure siano sprazzi stoogesiani di chiara fama "Alright for You" (i Turbonegro sono sulle vostre tracce: vogliono questo pezzo!) e iridescenze glam "Out of Sync".Lo stesso percorso lo hanno intrapreso di recente dagli emiliani Small Jackets, ma i nostri puntano più definitamente verso il songwriting ottenendo migliori risultati e più efficacia nel rompere la bolla del retronuevo. Qualcosa che fa ritornare in mente i ruspanti Black Keys, ma senza quel debosciato di Danger Mouse. "All for the Money" vede Keith Richards strimpellare e Mick Jagger zompettare; "Help Me", per contro, ha un'aria Lennoniana sporcata nei cieli del southern rock, con tanto di sezione fiati, e la causa persa di "Lost Cause" è quella che cerca di vincere da sempre il nostro caro Jon Spencer con la sua Blues Explosion. Barbe ispide e chitarre slide alla ZZ Top rompono la monotonia della città di provincia ("Leave This City") e c'è anche il tempo per innamorarsi in una Penny Lane di una Londra mai stata così solare ("Everything"). Tutto procede per il meglio quando la tua esperienza ti ha portato a sentire tanta bella musica: ti senti sicuro delle tue armi e te ne pavoneggi fieramente. Come quando si aprono dei singing together da paura in "Thinking About" insieme a female vocals che stuzzicano i vizi pruriginosi di noi maschietti: molto bene. La conclusiva "Woody's Walk" ci ricorda che il rock'n'roll party non è finito e mai finirà. "I Wanna Rock", come diceva qualcuno una trentina di anni fa. E l'eco di quella richiesta non si è ancora spento. Meno male. Eugenio Di Giacomantonio
THEE PLAGUE OF GENTLEMEN – Primula Pestis
Lenti e claustrofobici! I Thee Plaghe Of Gentlemen ti prendono alla gola con il loro doom estremo e urlato seppellendo qualsiasi barlume di luce sotto pesanti e reiterati riff ossianici, intervallati solo di tanto in tanto da qualche improvvisa accelerazione dagli effetti devastanti. Questo può essere l'identikit che emerge fin dal primo ascolto degli autori del debutto Primula Pestis: d'altronde, essi stessi pongono tra le loro influenze Saint Vitus, Celtic Frost e Melvins… che cos'altro vi aspettereste da un connubio tanto spaventoso se non una album tanto devastante quanto intrigante? Ovviamente la proposta del gruppo è indirizzata a quanti fanno del lato più duro ed estremo del doom-metal il loro vessillo mentre per tutti gli altri alcune spigolosità potrebbero sembrano alquanto ostiche da digerire. Il lento incedere di pezzi come Greek Fire o Pressure And Time rappresenta l'oscura devozione al doom dei Nostri, mentre in altri pezzi come The Oceans Has No Sides la band si lascia andare a qualcosa di più vicino a certo metal estremo; quando poi fanno capolino gli spaventosi dieci minuti dell'opprimente incubo intitolato As Cold As They Come il complesso cerchio di influenze si chiude in modo alquanto devastante.Da segnalare la presenza di un paio di video molto buoni in formato MP4 tratti da un concerto dal vivo: The Oceans Has No Sides, inclusa in questo album, e Blackwood Cabinet che, per qunato ne so, dovrebbe essere un pezzo indetto. L'artwork, inquietante e blasfemo, è ovviamente a tema… The Bokal
THERE – We are
Dopo sei anni di carriera che li hanno visti protagonisti di una vasta attività live, due ep e tre full length autoprodotti distribuiti in tutto il mondo, tornano in pista i There, band guidata da Jake Hamilton, che oltre ad essere basso e voce della band è anche produttore affermato e direttore della What’s Next Records. Il nuovo capitolo della saga There giunge a distanza di due anni da “III” e raggruppa in un unico dischetto dodici tracce che spaziano tra inediti, versioni live di brani del passato e cover di gruppi storici come Black Sabbath e Deep Purple. Ed è proprio da questi colossi che hanno scritto pagine fondamentali del rock duro che i tre traggono ispirazione: il loro è un hard rock vecchia maniera, ricco di sfumature heavy e condito da montagne di groove e svisate bluesy. Nessuna pretesa di essere originali a tutti i costi, ci troviamo di fronte a delle persone coerenti e sincere, devote ad un genere musicale portato avanti con passione e spontaneità. Tutto ciò viene dimostrato a partire dalle suddette cover: “Electric funeral”, “Snowblind” e “Into the fire” vengono eseguite con forza e vigore, come si addice ad una band il cui scopo è quello di riportare in auge lo spirito del vero rock, quello degli anni ’70. Il lavoro al basso di Hamilton è davvero apprezzabile, così come le sue linee vocali calde e passionali; allo stesso tempo sorprende l’amalgama creato con il drummer Vic Dobson mentre gli assoli “zeppeliniani” e i riff corposi di Andrew Shadrawy si confermano una certezza. Tra tutti i pezzi inediti della band emergono le vibrazioni indemoniate di “My head”, le atmosfere hendrixiane di “All over you”, le variazioni psichedeliche delle lunghe “The flow” e “Ghod nose wat” e la carica propulsiva della conclusiva “Can you picture that”. Chi dice che il rock è morto ascoltando i There dovrà certamente ricredersi: la fiamma del rock’n’roll brucia ancora alta e forte! Alessandro Zoppo
THERE WILL BE BLOOD – Without
Heavy Liquid. Sudore. Soprattutto sangue. E sperma. Liquidi come il whisky e heavy come una versione strong dei Black Keys. I There Will Be Blood confermano quanto di buono espresso con il precedente "Wherever You Go" e si autosorpassano in termini di ispirazione. Dal blues senza compromessi hanno abbracciato una varietà di stili ad ampio spettro. La musica del Diavolo rimane la quintessenza del sound ma spesso viene contaminata con sfumature freakbeat, hard Seventies e classic rock. Per chi ancora non lo sapesse il moniker scelto dai tre si riferisce al film omonimo di Paul Thomas Anderson datato 2007, tradotto in Italia come "Il Petroliere" e dai testi di Davide si scopre che i riferimenti cinematografici e letterari, soprattutto americani, sono dietro l'angolo – d'altronde l'ispirazione di base è Upton Sinclair. Il nuovo disco, "Without", vede la partecipazione del ragno Favero in sede di masterizzazione e si sente. "Truck" è schiacciasassi come se i Clutch avessero flirtato con i Five Horse Johnson. Il frutto dell'incesto è un genuino road/desert/blues basico ad alto dosaggio di watts. "Twister" contorce un riff dei Doors e lo riporta nel grembo della madre. Il noir appartiene ad un pezzo come "My Face Carved in Stone", dove l'ansia aumenta mano a mano che l'armonia viene asciugata. Ma i nostri, a parte i dovuti riferimenti, risultano originali nel momento in cui diventano ruspanti. "Souls Cart", "Swamp" e "Back No More" fanno battere mani e piedi come una festa di paese dove l'ubriaco che balla sei proprio tu. "Last March" apre a escursioni kraut mischiate con strani riti da santeria (passati in rassegna in "Voodoo") senza che il connubio si allontani troppo dai baffetti appuntiti di Mr. Devil. Come riescano a dare senso a tutto ciò, lo sanno solo loro. Il consiglio è andare a vedere i There Will Be Blood dal vivo. Vi faranno partecipi del proprio fantastico e trascinante baccanale. E potreste essere incuriositi dagli strani aggeggi che si sono costruiti. Primo tra tutti il diddley bow. Andate a scoprire cos'è.   Eugenio Di Giacomantonio  
THIRD STONE FROM THE SUN – Morphos
Nuovo disco autoprodotto per i bolognesi Third Stone From The Sun, gruppo che già al secondo colpo riesce a centrare il bersaglio. I nove pezzi che compongono "Morphos" sono infatti tra le cose migliori sentite ultimamente nel giro underground italiano. Un rock spigoloso e melodico che pesca da diverse influenze e proprio per questo suo approccio multiforme risulta fresco ed originale. E' come se le diverse personalità dei ragazzi della band contribuissero allo sviluppo di un songwriting tanto eterogeneo quanto compatto e brillante. La voce di Franz è molto variegata: sa essere isterica e pacata, violenta e suadente, frizzante e rilassata. Le ritmiche (Andrea al basso e Stefano alla batteria) reggono bene l'impatto delle composizioni, enfatizzato dalla chitarra di Matteo (sempre preciso e molto personale) e dalle tastiere di Giovanni, il cui tocco diviso tra organo e keys fa da fondamentale collante tra i vari suoni e stili del gruppo. Diversità nell'approccio e nell'esecuzione dicevamo. Punti evidenti sin dai primi brani del cd: "Let me in" è un'apertura indie noise spigolosa ma pur sempre melodica. La successiva "Alì" si piazza subito tra gli episodi più riusciti del disco, con un hammond liquido che entra immediatamente nel cervello e l'andamento lisergico delle ritmiche che crea una piacevole senso di stasi psichedelica. Molto coinvolgenti risultano i momenti più rock'n'roll (la quasi garage "Alicia" e l'eccitante "People like you"), mentre trovano finalmente spazio anche testi cantati in italiano. "Pillole" ha uno splendido taglio ironico (oltre che un approccio post rock languido e destrutturato); "Uno" e "Niente" hanno il sapore amaro della disillusione e la struttura romantica della ballad; "L'occasione del momento" strizza l'occhio all'alternative degli Afterhours; "Spara!" ha un testo bellissimo condito da sonorità nervose e al tempo stesso oniriche. Insomma, un condensato di stile e grazia che attraversa svariati generi senza fossilizzarsi su uno di essi. Spesso questo processo può provocare imbarazzanti limitazioni. Nel caso dei Third Stone From The Sun ciò non accade, i ragazzi hanno classe da vendere. Da tenere strettamente sott'occhio! Alessandro Zoppo
THIRD STONE FROM THE SUN – Where we all come from
I Third Stone From The Sun sono una band attiva dal 2001 e proveniente da Bologna. “Where we all come from” è il loro primo demo registrato nell’Aprile dello scorso anno e a dispetto del loro nome le cinque tracce che compongono questo dischetto non si dirigono verso fumose sonorità stoner ma su una forma molto elaborata di punk noise psichedelico. La registrazione non è male, le capacità esecutive non mancano e le intuizioni in sede di songwriting nemmeno: insomma, siamo di fronte ad un gruppo già maturo e pronto a dire la sua nel panorama musicale italiano. Quanto fatto ascoltare da Matteo (chitarra), Franz (voce), Andrea (basso) e Stefano (batteria) pesca da diverse esperienze sonore: lo si intuisce subito quando dall’iniziale punk di “Think” si passa alla destrutturazione noise di “Man+woman”, episodio roboante che fa venire in mente Sonic Youth e Jesus Lizard. “My music” riprende il discorso punk assaporato in avvio, mentre “Way out” è una sorta di post rock onirico che stacca con la velocità precedente per viaggiare su trame pulsanti ma sempre eteree e rilassate. A chiudere il cd troviamo invece una stravolta cover di “Back door man”, classico di Willie Dixon (portato al successo dai Doors) interpretato con una vena garage psych sbilenca ed aggressiva. Le carte in regola ci sono tutte per i Third Stone From The Sun, l’unico consiglio è quello di lavorare maggiormente sulle trame psichedeliche e ossessive perché quando pigiano su quest’acceleratore ci sanno davvero fare… Alessandro Zoppo
THIS DEVASTATED FAN – Victoria’s Waiting
I This Devastated Fan sono balzati agli onori delle cronache rock inglesi grazie al boom radiofonico di "Elementary Girl", singolo del disco d'esordio "Victoria's Waiting". Di loro si parla molto perché il leader del gruppo è Robbie 'Smile Baby' Cavanagh, diciottenne dalla voce delicata (stile Brian Molko), coadiuvato in questa avventura dal fratello Jamie (batteria) e da Dean Nickson (basso) e Ian Taylor (chitarra). Un album non male questo debutto, se non fosse per l'eccessiva attenzione che i media gli hanno attribuito.I quattro si muovono tra rock classico (i genitori devono averli cresciuti a pane e Led Zeppelin), indie, new wave (se non fosse per la ricerca ostentata di una melodia che alla fine risulta solo lagnosa "Blow Out Stars" parrebbe ispirarsi in pieno ai Joy Division), post grunge e nuove tendenze di massa come Placebo e Muse. Piacciono alcuni suoni sporchi di chitarra (quelli dell'iniziale "Black Elevator" o della title track) e delle armonie molto malinconiche ("Circus" e "Crash" su tutte); non convincono affatto le aperture pop che catapultano la band nel limbo dei 'gruppi qualunque' in cerca d'affermazione. E considerando che l'ago della bilancia pende soprattutto in tale direzione, si può ben capire quanto diventi arduo l'ascolto di questo lavoro. Per emergere magari basta, per convincere e proseguire sulla lunga distanza ai This Devastated Fan occorre ben altro spessore. Alessandro Zoppo
THIS IS GHOST! COUNTRY – This Is Ghost! Country
Con una copertina degna di nota per la sua bruttezza, la tedesca Electric Magic presenta al mondo This is Ghost! Country, combo votato al verbo crossover tout court. Nelle intenzioni di Chris (responsabile dell'etichetta, nonché bassista nei superlativi Samara Blues Experiment e Heat) emerge la volontà di dare voce a tutto il ventaglio della scena underground pesante, si tratti di viaggiatori spaziali come i Buddah Sentenza, di shoegazer dal piglio new wave come i Suns of Thyme o di tiratori scelti come i The Lone Crows. In questo caso siamo dalle parti del metal Anselmiano della metà degli Anni 90, quando i primi rallentamenti di tempo si univano ai ribassamenti delle corde, creando quel mostro che di lì a poco sarebbe diventato new metal.Certo, un timbro sonoro alla Unida non manca mai (la desertica "Tekken" con la relativa coda "Black Trekker" e la conclusiva "Bootes") ma in generale il disco suona bene per chi ama la rocciosità di un Henry Rollins ("Big Fat Killing", "Dumbfucker", "The God Replacement") o la velocità punk rock dei Motorhead ("Ztupe - Red Area"), posizionandosi perfettamente in quel limbo in cui si trovano i dischi piacevoli da ascoltare ma che non lasciano nulla del loro passaggio. D'altra parte il rock non è fatto per essere sempre innovativo, anzi. A volte basta che ci faccia passare una bella mezz'oretta spensierata, per farci sgomberare la testa da ogni problema. Eugenio Di Giacomantonio
THRANGH – Il castigo esemplare
C'è un interesse crescente intorno a questo gruppo romano, ragione per cui ospitiamo la recensione anche se non c'è traccia di doom, stoner, fuzz o di Gibson SG tra questi solchi. Ma del resto i confini di Perkele sono labili, aperti, e la buona musica non va mai sprecata.Su Thrangh verrebbe d'istinto da pensare al termine jazzcore, se non fosse che il termine non ci comunica nulla e che non basta un sax nell'organico per fare jazz (cosi come non basterebbe una chitarra elettrica per fare rock). Diciamo piuttosto che i Thrangh fanno parte di quella schiera di persone interessate a mescolare jazz, rock, funk, fusion, senza confini - come prime movers quali Iceburn (qualcuno ricorda "Poetry of Fire"?) e Minutemen hanno saputo fare tra '80 e '90. Ma immaginiamo che i loro ideali riferimenti affondino ben più indietro nel tempo e nello spazio, probabilmente a quelle "Direzioni in Musica" dettate tra '69 e '75 dallo Sciamano Elettrico Davis. Comunque sia, "Il castigo esemplare" è un disco sorprendente. Il gruppo è preparato, e probabilmente i pezzi sono frutto di una lunga gestazione. Registrato in una seduta dal vivo, il lavoro è un piccolo magma sonoro in 8/9 movimenti. Le tracce sono divise in realtà solo per convenzione, perché il percorso è unico. Difficile quindi mettere in evidenza singoli passaggi, si può piuttosto provare a tracciare qualche impressione. Basso e batteria descrivono una robustissima sezione ritmica, scandiscono tempi pari e dispari (più i secondi che i primi!), incessantemente. Sopra di essi si elevano chitarra e sax, utilizzati con controllo e intelligenza notevole. La prima è quanto mai versatile, passa da riff metal ad accordi funky, tracce di guitar-synth, settime aumentate (e diminuite). Il sax riempie gli spazi melodici tra i brani, assicurando continuità ed un timbro più personale al gruppo. In particolare menzioniamo la traccia 4/5, dove ad una intro arpeggiata seguono sax e guitar synth che disegnano una figura di ampio respiro: vero funky futuribile. La qualità della registrazione è ottima, agevolata peraltro dal tecnica non indifferente dei membri del gruppo. Ma i Thrangh sanno andare al di là della tecnica pura e, merito ben maggiore, sanno fondersi in un unicum senza solismi disperati. Feeling e disciplina sono quello che contano, soprattutto. Le loro direttrici musicali? Diciamo un quadrilatero ai cui lati ritroviamo Coltrane, Zorn, Area e Mahavishnu Orchestra. Con le dovute proporzioni, sia chiaro. Il castigo esemplare, peraltro, è solo un punto d'inizio. E Thrangh una nuova realtà destinata a crescere (i consensi stanno arrivando, la rassegna MArteLive li ha già premiati). Menzione speciale per la citazione di Lautréamont in retrocopertina. Da questi, forse, i Thrangh hanno imparato l'arte della metamorfosi. Sergio Aureliano Pizarro
THREE EYES LEFT – Demo 2006
Bologna rock city. Non solo punk o post rock (per fortuna…) ma anche heavy psych tosto e cazzuto. È il caso dei Three Eyes Left, insieme dal 2005 e dopo varie esperienze personali giunti al traguardo della prima demo. Traguardo che lascia presagire grandi soddisfazioni per i quattro. Il loro rock prende in parte dallo stoner, per altri versi dall'hard & heavy dei '70, ma sa anche essere ben costruito ed orchestrato. Segno di una certa maturità tanto compositiva quanto tecnica, evidente a partire dall'impatto delle ritmiche (Andrea - basso -, Stefano - batteria -) e dalle variazioni che apporta la chitarra (sempre ottimo Matteo). E poi c'è la voce di Mike, profonda, espressiva, forte. I richiami a Demetrio Stratos si sprecano, ma sarebbe un errore porre una sorta di gabbia al suo spettro vocale, davvero ampio e che per questo può ancora migliorare.Intanto, "Fuckin' slaves" e "Bad acid" sono due bolidi che corrono all'impazzata: veloci, aggressivi, schizzati fino all'inverosimile. Stoner rock roccioso, che tira fuori i muscoli quando è il momento di picchiare giù duro e sa cullare nelle sue atmosfere oniriche quando giunge l'ora di andarci piano (la coda di "Bad acid", il ritorno dal trip tanto celebrato dai padrini Electric Wizard). "Two sides" sposta invece il proprio baricentro verso suoni ragionati, lavorando meno d'impulso e più di cervello. Non che non lo facciano anche gli altri tre brani, ma in questo caso si valicano i confini di genere e ci si butta su un rock sì sanguigno ma anche molto personale. Tanto che la melodia, le ritmiche, il gioco delle chitarre hanno odore acre e sapore speziato. E quando compaiono chitarra acustica, percussioni e un tagliente inserto di flauto non si può far altro che chiudere gli occhi e sognare… Ma il meglio è anche altrove, è nella roboante "Steve McQueen" (titolo celebrazione di un idolo), perfetto compendio di heavy psichedelia, quella che apre la mente e scuote il corpo. Attenzione gente, i tre occhi rimasti vi scrutano. Lasciatevi osservare… Alessandro Zoppo
THREE EYES LEFT – La Danse Macabre
Dopo ben nove anni passati nel più totale underground e una manciata di lavori autoprodotti, i bolognesi Three Eyes Left approdano al contratto con la nostrana Go Down Records per la pubblicazione dell'album "La Danse Macabre". Seguendo il progresso del trio, si può notare come il suono si sia evoluto negli anni, smarcandosi poco a poco dall'approccio più rockeggiante degli esordi per avventurarsi in territori decisamente più fangosi. L'album in questione declina la psichedelia pesante verso lo sludge, evitando di sprofondare nelle paludi nichiliste degli Eyehategod, e richiamando piuttosto i nipponici Church of Misery, senza però seguire la lezione sabbathiana con la stessa ostinazione del combo del Sol Levante. I cinque brani proposti da Maic (voce/chitarra), Andrea (basso) e Stern (batteria), piuttosto lunghi ad eccezione dell'opener "Vestibulum Diaboli", forniscono una robusta dose di riff granitici, inni alla memoria di Sleep e Blood Farmers, cadenzati secondo ritmiche rocciose, insistenti e poco propense alle accelerazioni. Fra gli accumuli pietrosi di fuzz trovano spazio alcune brevi aperture di aliena placidità, che fungono da contrappunto ideale allo scroscio delle chitarre distorte, e donano a pezzi quali "Lord of Underworld" e "The Devil Walks with Him" un sufficiente grado di dinamismo. L'essenza dell'album però rimane nell'accatastarsi di giri di chitarra costruiti su pentatoniche che pesano come macigni e puntano a radere al suolo ogni ostacolo, riff dopo riff dopo riff, preservando tuttavia una certa orecchiabilità, come dimostra a dovere la title-track che va a chiudere il lavoro. "La Danse Macabre" è un disco che corona gli sforzi di una band che, impegnatasi per ormai un decennio, ha trovato la maturità nella proposta di un sound di indubbia pesantezza ma non eccessivamente incline all'asfissia, e che costituisce un buon compromesso tra stoner, sludge e il verbo del Sabba Nero. Quello che i Three Eyes Left hanno da offrire, in definitiva, è una buona dose di passione per l'heavy psych, nella quale s'incontrano le influenze di Sleep, Electric Wizard o Church of Misery. Sviluppando una maggiore personalità, non potranno che crescere; perciò, oh voi adoratori del Riff, lasciatevi trasportare nella danza macabra e non perdete d'occhio questa concreta realtà nostrana. Davide Trovò
THREE MONKS – The Legend of the Holy Circle
Con i Three Monks ci inoltriamo nella cosiddetta "musica colta" e non è certo una provocazione: con la proposta dei toscani siamo distanti dal fervore rock'n'roll e dalle emanazioni lisergiche cui i lettori di Perkele sono avvezzi. Appendice doverosa per meglio introdurre il progetto, nato nel 2009 quando l'organista e compositore classico Paolo Lazzeri propone al bassista e discografico Maurizio Bozzi di comporre un album di toccate neogotiche per organo solo. Bozzi accetta l'idea e aggiunge di sperimentare il tutto con basso e batteria. Il risultato è "Neoghotic Progressive Toccatas", edito dalla Drycastle Records con la collaborazione dell'attenta Black Widow. Roberto Bichi e Claudio Cuseri sono i due batteristi che si alternano nei brani. L'idea alla base dei Three Monks è quella di costituire un trio in grado di combinare sotto forma di progressive rock l'amore per la musica classica, lo stile neo-gothic ed il romanticismo germanico del diciannovesimo secolo. La band torna ora in studio per confezionare il secondo album, intitolato "The Legend of the Holy Circle". A differenza dell'esordio – in cui a dominare era l'organo e i contenuti classici lo rendevano un'interessante opera prima di prog rock sinfonico – in questo caso allo strumento a canne si affiancano i synth e iconografia e ambientazioni abbracciano neoprog e venature dark. Questo secondo atto vede la formazione fedele alle forme barocche ma amplia l'attitudine magniloquente con lievi sapori dark dal gusto gothic spiritual, avvicinandosi anche a composizioni cinematiche grazie all'utilizzo perpetrato dei sintetizzatori. Tra i riferimenti si può percepire l'influenza della grandeur di ELP, Van Der Graaf Generator, Goblin, Areknames, King Crimson ed il compositore Julius Reubke, di cui Lazzeri è stato studioso. Oltre che una riuscitissima sequela di progressive rock sinfonico strumentale dal gusto gotico, "The Legend of the Holy Circle" è anche un concept basato sull'eterna lotta tra Bene e Male. I monaci vengono spesso dipinti come personaggi sinistri o avvolti da un alone di mistero: Three Monks fu anche un film d'animazione di produzione cinese post rivoluzione culturale, realizzato a seguito della caduta politica della famigerata Gang of Four. Dubitiamo però vi siano attinenze tra i toscani ed il lungometraggio che narrava la storia dei tre monaci buddisti. In questo caso c'è buona musica per quelli che la vivono senza confini e barriere. Antonio Fazio
THREE STEPS TO THE OCEAN – EP
Un gruppo che riflette al meglio le caratteristiche della flottiglia dei nuovi post-rockers psichedelici italiani risponde al nome di Three Steps To The Ocean, giovane band milanese già acclamata per le sue esibizioni live e per questo omonimo EP d’esordio, che a meno di un anno dalla sua uscita sta’ già rivelandosi un piccolo cult.Lo stile del quartetto è in effetti piuttosto maturo, e congiunge lungo un tragitto ellittico il rock di Tortoise, Silver Mt. Zion, Mogway e Godspeed You Black Emperor! alle attuali evoluzioni psichedeliche - pesanti e immaginifiche – dei nuovi signori Asva, Pelican e Red Sparowes, lambendo per brevi tratti pure i domini riservati ai 35007 di “Liquid” e agli ultimi Cult Of Luna. Pur non oltrepassando la soglia della sperimentazione, la musica dei TSTTO presenta un notevole appeal progressivo, ben equilibrato tra le compassate chitarre, la decisa e malleabile presenza della sezione ritmica, e un’effettistica elettro-analogica mai preponderante, che comunque non sommerge l’aspetto prettamente rock delle soluzioni compositive, anche quelle di lunga durata. “Oceanside” è l’immersione negli abissi marini a seguito degli ultimi comandi impartiti da una centrale scientifica (sottolineata dagli arpeggi adagiati sulle onde), e si ingrossa solo dopo diversi minuti, generando un tipico post core atmosferico sospeso sulle creste dell’alta marea. Ipoteticamente sovrapposta a delle scintille scaturite dalla superficie terraquea pare “Last Breath of Air (Oceanside pt.2)”, dove i break sono affidati ad un elettronico riff di synth che intrappola un evoluto brano elettroacustico dotato di buon eclettismo, che la dice lunga sulle possibilità di esplorazione future. “Submerged Universe” è infine il pilastro di questo primo ottimo EP: riff post-doom - privati però di recrudescenza metallica - spostati verso una psichedelia visionaria, accompagnati da un soffio elettronico mai gelido e generatore di algoritmi musicali tra frattalismi acustici e tempestosi sommovimenti dello spirito. Il sussurro delle chitarre in questo brano è piuttosto raffinato e ben si coniuga ai dialoghi con le tastiere space-prog, rendendolo l’episodio di qualità superiore. Una germinazione notevole quindi, non ci resta che attendere le prossime mosse: le coordinate musicali su cui si muove il genere dei TSTTO è vasto e pluridimensionale per sua stessa natura, e se da un lato paiono inevitabili i riferimenti (non calligrafici) ai maggiori nomi internazionali, dall’altro la forza espressiva scaturita da questi tre pezzi non lascia certo indifferente. Roberto Mattei
THRONE – Avoid the Light
New Orleans o Parma? Ambedue nel caso dei Throne, band parmense che più che dalla ridente Emilia sembra arrivare dalle torbidi paludi della Louisiana. Magma sonoro di chiara matrice stoner/sludge a tinte southern, è questo il biglietto da visita di questi ragazzi. L'assalto all'arma bianca comincia subito e non si ferma fino all'ultima traccia , esprimendo una furia redneck grande debitrice di gruppi come Down, Crowbar, Eyehategod, Superjoint Ritual e chi più ne ha più ne metta.Chitarre sature, riff taglienti e groove trascinanti di basso sono gli elementi che caratterizzano il sound dei Throne. I momenti in cui più spicca la loro attitudine sludge/groove sono le atmosfere plumbee dell'opener, "Prefer to Die", di "Black Crow" e di "Red Sun of the South", sicuramente i vertici del disco. La freschezza un po' si perde in alcune cavalcate che pagano dazio alla banalità e alla troppa reverenza verso i modelli di riferimento, limitando la personalità del quintetto emiliano. Ci troviamo comunque di fronte a una band che sa il fatto suo, a un prodotto ben registrato e ben suonato, c'è quindi la speranza che i ragazzi si spoglino della reverenza verso le band sopracitate e seguano un percorso di ricerca del suono volto a migliorarsi. Giuseppe Aversano
THROTTLEROD – Hell and high water
Vengono dalla Virginia, hanno debuttato nel 2000 con “Eastbound and down” (disco uscito per Underdogma) e propongono un classico sound southern stoner grasso, sudato e passionale. Si tratta dei Throttlerod, band che si accoda a quanto propostoci da gruppi ormai rinomati come Alabama Thunder Pussy, Dixie Witch e Halfway To Gone offrendoci un’ora scarsa di musica il cui ascolto ideale sarebbe immersi nelle lande paludose riprodotte nelle immagini di copertina. C’è subito da dire però che Matt Whitehead (voce), Bo Leslie (chitarra), Kevin White (batteria) e Chris Sundstrom (basso) non brillano certo per originalità, le atmosfere calde e avvolgenti create dai quattro ricalcano tutti gli stilemi del genere: voce roca e possente, ritmiche quadrate e chitarre lerce e compatte. Con questo non si vuol certo dire che “Hell and high water” sia un disco da buttare, anzi, pezzi travolgenti come l’iniziale “Marigold” (dal refrain che vi si stamperà immediatamente nel cervello!) o la cazzuta “Snake into angel” mostrano impatto e melodia in un mix intelligente e mai fine a se stesso. L’assalto assestato da bordate del calibro di “Sucker punch”, “Tomorrow and a loaded gun” e “No damn fool” viene placato solo da “Been wrong”, ballad acustica dal sapore malinconico che scioglierà il cuore anche del più brutale uomo del Sud…da qui in poi il disco perde un po’ di mordente, affievolendosi su composizioni cariche di rabbia, afose, compatte fino all’eccesso, che trovano pochi break (la melodia di “In the flood”, la dimensione che potremmo definire “dixie metal” di “On the mountain”) e rari guizzi. Manca un maggiore carattere, pecca che in ogni caso non inficia la qualità complessiva del disco. “Hell and high water” si dimostra dunque un lavoro onesto e verace, grezzo e ancora da rifinire ma che si attesta ben oltre la sufficienza. Insomma, un altro colpo di pistola sparato dal cuore del Sud… Alessandro Zoppo
Throw Down Bones – Three
I Throw Down Bones rinascono con Three, titolo tautologico del loro terzo album e della rinnovata formazione, da duo a trio. Inutile spiegare quanto sia stato difficile per Francesco Vanni realizzare questo lavoro dopo Two e tutto quello che è successo. Oltre al supporto costante di Fuzz Club Records e dell'amico e produttore James Aparicio, Francesco ha trovato nella bassista Marion Andrau e nel batterista Raphael Mura la forza e l'alchimia giusta per far fronte alle avversità ed elaborare l'addio a Davide. È la forza dell'arte, c'è poco da girarci attorno. Naturalmente il risultato, come di consueto strumentale per “interrogare l'ascoltatore” e metterlo nelle condizioni di “trovare una risposta dentro di sé in base alle sue esperienze e alla sua sensibilità”, è più oscuro dei precedenti capitoli. La mistura di psichedelia, elettronica heavy, industrial, kraut rock, noise e dark ambient è sporca e infernale. Sono pochi i momenti di luce: la speranza pulsante di The Holy Mountain Still Shines, la dolcezza contemplativa di Breathe Memories. Per il resto, dall'iniziale Half Life alla conclusiva The Guidance passando per i riottosi singoli Optichrome e Loma, Three è un disco di buio e rumore, fondato sul contrasto perfetto tra il bianco ed il nero. Da una parte il dolore, la notte, l'inafferrabile; dall'altra il rinnovamento, il giorno, il concreto. Insieme si totalizzano e fanno andare avanti Three verso un accordo forte e attraente.

Throw Down Bones, Three per ricominciare

Lo stile dei Throw Down Bones è diventato duro, ruvido e a tratti violento. I suoni sono metallici, a volte più acidi (nelle aperture celesti di M.F. Heaven) e altre più storti e spezzati, come nel caso della soffocante Signal to Noise. In questo disco sembra essersi persa la componente techno di Two, che riappare in forme parecchio diverse tra loro, rendendo il tutto molto vario e naturale. Altro che resilienza, odioso e abusato termine preso in prestito dal mondo della fisica per trasformare le persone in materiali (ovvero consumatori) capaci di assorbire qualsiasi colpo sferrato da chi vuole uccidere ogni identità. Three dei Throw Down Bones ribadisce qualcosa di così scontato e naturale da apparire sconvolgente nel mondo globale di oggi: siamo esseri umani, capaci di affrontare la vita, i suoi urti e avvenimenti traumatici. Non lasciatevi incantare dal suo portato di naturale rabbia e ostilità. Nonostante un esito tanto distorto e stratificato, dentro questi nove brani c'è un grido melodioso che merita di essere ascoltato. L'edizione speciale in vinile (300 copie numerate a mano) è disponibile come al solito sul sito di Fuzz Club. https://www.youtube.com/watch?v=kGEgc2498N8&ab_channel=FuzzClub

Alessandro Zoppo

Throw Down Bones – Two
I Throw Down Bones hanno impiegato tre anni per realizzare il loro secondo album, intitolato semplicemente Two. Tre anni spesi bene, perché la coldwave super psichedelica del loro disco d'esordio è diventata un frullato strumentale industrial four-to-the-floor techno (come scrive Fuzz Club Records, che pubblica il lavoro). Francesco Vanni e Dave Gali hanno messo a punto una macchina micidiale. Cresciuti tra eccessi in una cittadina in mezzo alle Alpi, hanno trovato nei club londinesi la loro tana perfetta per sviluppare un concetto di musica ipnotica e godereccia. Dall'iniziale First Follower alla conclusiva Zero Day Exploit, le otto tracce di questo disco si posizionano in una strana linea di confine tra The Orb, Cabaret Voltaire e Fuck Buttons. Meri riferimenti, sia chiaro, perché Frankie e Dave strapazzano EBM e noise superando i concetti stessi di experimental underground e psichedelia. L'ascolto di Two è tanto un party acid-house da sballo quanto una seduta psicanalitica per comprendere fino in fondo la vita italiana di provincia. Ce lo avevano già raccontato nell'intervista che abbiamo fatto loro prima dell'esibizione schiacciasassi all'Eindhoven Psych Lab 2016. Quando li abbiamo visti al Fuzz Club Eindhoven 2018, il loro trance rock liquido e aggressivo si era già trasformato in performance kosmische electronic tutta loop e droni. Oltre psych e trance rock, i Throw Down Bones sono oggi una creatura differente. Un essere notturno e sinuoso che ammalia e seduce con le sue movenze sexy e colpisce quando meno te l'aspetti. È ancora centrale la produzione affidata a James Aparicio, uno che ai suoi Mute Records Studio ha registrato, tanto per fare qualche nome, Spiritualized, Liars, Nick Cave, Depeche Mode e Mogwai. Francesco spinge su pedali, amplificatori e synth analogici (che crea con la sua Noise Militia), Dave lo asseconda e colpisce dritto al cuore (del dancefloor). In un mondo più giusto, Slow Violence e Golovkin (occhio al video al ritmo di Berger: potrebbe suscitare attacchi epilettici) sarebbero già singoli da classifica. Il trip ossessivo di Is This Us lascia senza fiato, quando arriva Known Unknown è davvero impossibile stare fermi. We Are Drugs ha un titolo che è tutto un programma (e lo ripete ossessivamente). Tutto funziona alla perfezione in Two, un lavoro che conferma i Throw Down Bones come uno dei migliori gruppi italiani in circolazione. Se passano per un live dalle vostre parti, non perdeteli per nessuna ragione al mondo: have no doubt, this is dance music. https://www.youtube.com/watch?v=NwfoUqdM0kE   Alessandro Zoppo  
THULSA DOOM – Keyboard, oh Lord! Why don’t we?
Che sorpresa il nuovo disco dei Thulsa Doom! Insieme a “Smugglers” dei WE, “Gravity X” dei Truckfighters e a “The Search” degli El Caco potrebbe essere letto come uno dei dischi chiave per capire da quale parte sta andando l’evoluzione dello stoner sound scandinavo. I tempi di “The seats are soft but the helmet is way too tight” sono lontanissimi, i Thulsa Doom si discostano da quel suono heavy rock che aveva dato loro consensi ed un certo successo commerciale per osare e provare a dire qualcosa di nuovo in un panorama ormai saturato come quello odierno.La chiave per intraprendere questo nuovo percorso è una varietà di stili e sfaccettature che rende il disco un’avventura continua. Lo stoner scompare quasi del tutto, ne rimangono i brandelli (le linee di fuzz che costeggiano la stupenda “Raisins and grapes”) e qualche accenno al mondo distorto e robotico dei Queens Of The Stone Age (le ritmiche strampalate di “In the deep of a city”). Il resto gioca le sue carte andando a pescare dall’hard rock dei ’70 (“Be forewarned”, “Mr. Slow”), dalle calde sonorità East Coast americane (“Need the air”), dal pop articolato e intelligente (“Stay O.K.”, “Tears in the morning”), condendo il tutto con un lavoro sulle melodie di chiaro stampo soul. Davvero una sorpresa se si pensa alla band che cavalcava stoner rock e punk in occasione di “...And then take you to a place where jars are kept”. “Papa was” sembra addirittura una versione sgraziata e travolgente dei King’s X, con quelle armonie vocali pulite, piene e marcate. Un suono che entra nel profondo, tocca cuore e mente, fa vibrare il corpo scaldandolo con emozioni fitte quali quelle beatlesiane di “The ballad of me and fast wins” o quelle che animano la title track, bizzarro miscuglio che parte come un missile heavy psych e si chiude con una coda che unisce metal e progressive. Davvero un disco inaspettato “Keyboard, oh Lord! Why don’t we?”, soprattutto per chi non si attendeva tale svolta da un gruppo come i Thulsa Doom. Thumbs up! Alessandro Zoppo
THUNDERSTORM – As we die alone
Quarto, atteso, album per i Thunderstorm: avevamo letto e sentito dire che “As we die alone” avrebbe rappresentato una svolta per il gruppo, un disco che avrebbe apportato modifiche al sound della band, definita da molti la migliore del doom nazionale. In realtà già dal secondo “Witchunter tales”, il trio bergamasco aveva fatto intendere di non voler adagiarsi esclusivamente sulla monoliticità del doom metal, ma aveva apportato alcune incursioni stilistiche di altri generi, rendendo meno soffocante l’atmosfera tipicamente nera della musica del fato.“As we die alone” non apporta stravolgimenti nei Thunderstorm (anzi…), casomai accentua ancora di più le coordinate rock già presenti nei precedenti album, poggiando su un groove per certi versi atipico per il doom metal. “Death rides on the highway” ha un tiro notevole, e pare un inedito dei primi (quelli più veri e meno ‘tamarri’) Black Label Society, così come la conclusiva “The mad monk”, una trascinante cavalcata doom rock (il riff/refrain è molto simile a quello di “Black night”, brano del precedente album “Faithless soul”). Chitarre ‘goticheggianti’ di memoria Paradise Lost (epoca “Icon”/”Draconian times”) echeggiano in “We diw as we dream (alone)”, mentre “I wait” ha un effetto psichedelico dato dal giro chitarristico a vortice e da una strofa ripetuta di continuo. I brani tipicamente doom ci sono, come “Hypnowheel of life” e, soprattutto, l’ottima “S.L.O.W.”, una lenta e nera litania dal notevole effetto dark (il brano migliore del disco), che presenta un bellissimo assolo di chitarra finale. Un album che ogni fan del gruppo stava aspettando, e chissà che, spinto dal suo groove, il trio non possa raggiungere anche altri affezionati. Marco Cavallini
THUNDERSTORM – Faithless soul
Attesissimo ritorno quello dei Thunderstorm, paladini nostrani del doom più epico ed incontaminato. La band guidata dal carismatico Fabio “Thunder” Bellan (voce e chitarre) si ripresenta sulle scene dopo il successo underground e l’approvazione oltre i confini di ottimi dischi quali “Sad symphony” e “Witchunter tales”.Proprio rispetto ai capitoli precedenti il nuovo “Faithless soul” si presenta come un’opera più completa, maggiormente strutturata dal punto di vista tecnico e compositivo. Non ci sono mutamenti sostanziali nel suono, siamo sempre al cospetto di un doom metal dai tratti lirici e cadenzati, che riprende soprattutto da mostri sacri come Candlemass, Trouble e Solitude Aeternus. Ciò che aggiunge punti alla qualità complessiva è una ricerca melodica più accentuata e un certo variare registro, andando a pescare nell’ampio universo metal dal quale la band stessa proviene. Se infatti brani come “Black light” e la bellissima “In my house of misery” sono pilastri doom caratterizzati da ritmiche corpose (valido e scorrevole è il lavoro di Omar Roncalli al basso e Attilio Coldani alla batteria) e melodie decadenti ma orecchiabili, l’iniziale “Templars of doom” vira sull’epic metal e “Forbidden gates” innesta sugli oscuri sentieri del doom una ricercatezza che chiama in causa la NWOBHM. Ancora meglio quando partono le note cupe di “In a gadda da vida”, cover degli storici Iron Butterfly, revisione compatta e azzeccata di un classico della psichedelia dark americana. Nella parte finale del disco la voglia di osare viene un po’ meno ma non per questo il ritmo cala, anzi. “Hidden face” è il classico monolite doom targato Thunderstorm, “Final curtain” è travolgente come non mai, specie nei complessi intrecci delle chitarre, “Narrow is the road” l’epitaffio duro ed emozionate che chiude in bellezza un disco ricco sotto tutti i punti di vista. I Thunderstorm si riconfermano gruppo di eccellente qualità. Finalmente anche nel campo del doom l’Italia ha un valido prodotto da esportazione. Let there be doom! Alessandro Zoppo
Tia Carrera – Cosmic Priestess
C'è chi pensa a Relic Hunter, chi a discinte pornodive. La realtà è che nella testa di chi ascolta buona musica il nome Tia Carrera si associa a tre pazzi texani che suonano con il santino di Jimi Hendrix appiccicato a montagne di amplificatori. "Cosmic Priestess" è il secondo disco uscito su Small Stone dopo "The Quintessence" (2009). Erik Conn (batteria), Jamey Simms (basso) e Jason Morales (chitarra) fanno le cose per bene e ci gettano addosso quattro psycho jam 'monstre' per la durata complessiva di un'ora. Niente da fare, chi pensa che la modernità abbia preso possesso anche della musica lasci stare questo disco. Chi invece crede che il meglio del pop e del rock si sia espresso tra il 1966 ed il 1973 assapori questo album dalla prima all'ultima nota. Jam strumentali si diceva. È necessario specificare che oltre ad essere tali sono furiose e cosmiche. I riff e i soli assatanati di chitarra scorrono via che è un piacere, le trame di basso dialogano a meraviglia con un drumming preciso ed estroso. C'è il piacere dell'improvvisazione e la gioia di lasciarsi andare. Per un trip senza ritorno. Grandissimi Tia Carrera, capaci di accendere la miccia con la corrosiva "Slave Cylinder", apoteosi di wah wah e scappatoie sorprendenti, tra Earthless e Atomic Bitchwax. Intelligenti quando con "Sand, Stone and Pearl" aggiungono un piano Fender Rhodes liquido per tratteggiare magiche atmosfere lisergiche; estremi in tutto e per tutto quando si tratta di pestare sull'acceleratore e vengono fuori i 33 minuti del colosso heavy psych "Saturn Missile Battery". Goduriosi infine con "A Wolf in Wolf's Clothing", ritmo danzereccio e groove sudato che scuoterebbe anche il peggiore degli zombie. Riuscire a racchiudere l'esperienza improvvisa e mutevole della jam tra i solchi di un disco è spesso impresa titanica. In pochi al giorno d'oggi ci riescono con la dovuta grazia. I Tia Carrera sono senza ombra di dubbio tra questi. https://www.youtube.com/watch?v=cLfJt_jESGU Alessandro Zoppo
TIGERBEAT – No.1
Il nuovo trend del rock'n'roll portato al successo da White Stripes e Yeah Yeah Yeahs sembra espandersi a macchia d'olio, ecco così provenire dalla Germania una new sensation in questo affollato panorama a nome Tigerbeat. In verità con il loro "No.1" siamo ben lontani da quanto proposto dalle band suddette: il sound del gruppo si estende verso orizzonti personali e mai derivativi, inglobando influenze disparate rielaborate con cura e grande intelligenza. I ragazzi stessi lo definiscono "sex rock", a scanso di equivoci dobbiamo dire che si tratta di un garage rock'n'roll frizzante e genuino sapientemente miscelato ad influssi soul, rhythm'n'blues ed elettronici. Da questo maelstrom pazzo e scanzonato ne vengono fuori undici tracce ruspanti e spensierate, che mai annoiano né stancano, anzi, la brevità delle composizioni e la freschezza del songwriting convincono in pieno circa la bravura di questi simpatici tipi. Gioca a favore di tale eclettismo l'utilizzo di una strumentazione rigorosamente vintage, fatti oltre che di una solida base rock (International Frehn voce e chitarra, The Rev.D chitarra e basso , Angry S.E. batteria) anche di un armamentario composto da fender rhodes, roland sh2000 e sintetizzatori vari, ai quali si cimentano lo stesso Rev, la bella Kitty e Kat D.D. Rock, senza dimenticare l'apporto di Hannibal ancora alle chitarre. Un line up allargata, dunque, ideale per conferire carica e stravaganza a pezzi dal gran tiro, sintetici nell'esecuzione quanto brillanti e fracassoni. E' davvero difficile resistere all'impeto sprigionato da song come l'iniziale "Get down children" e la successiva "Troubled man", pezzo che per la sua dinamicità garage può tranquillamente essere eletto come hit dell'estate. La fusione di queste sonorità calde e pastose con un certo gusto electropop smaccatamente anni '80 avviene in piccole schegge come "Ain't diggin your scene", "Good lovin'" e "Tongue kung fu", episodi che dimostrano appeal, feeling notturno e sorprendenti intuizioni melodiche. Momenti come "Plastic" e "Gimmie a break" sprigionano invece un'attitudine rock'n'roll dura e pura, fatta di riff travolgenti uniti a tastiere calde, ritmiche avvolgenti e vocals ammalianti, mentre "Sweet love" e "Mailmaster" si tingono di tentazioni soul e r'n'b, dipinte su arrangiamenti dalla grazia che suadente è dir poco… "No.1" è un susseguirsi di emozioni e vibrazioni che lasciano senza scampo, non a caso il finale è affidato al soul blues stravolto di "Same ol'thang", dove chitarre acustiche e una sensibilità pop si incontrano per formare un incrocio perfetto ed altamente personale. Altro che The Strokes, i Tigerbeat non scherzano affatto: se cercate qualcosa che soddisfi la vostra vena godereccia fanno proprio al caso vostro… Alessandro Zoppo
TIKAL – Demo 2005
E’ una gradita sorpresa questo demo a nome Tikal. Soprattutto se si legge la bio della formazione romana e si scopre che è composta da Max (chitarra), ex membro degli Opium, Sergio (chitarra), Gianluca (batteria) e Alessandro (voce), tutti con passate esperienze sulle spalle tra cui quella degli Xkayp.Il nome Tikal è preso in prestito da una delle città simbolo dell’impero Maya e rimanda dunque ad un universo simbolico che vuole costruire qualcosa di nuovo, di vivo, di pulsante senza dimenticare le radici, la tradizione. E i quattro ragazzi di Roma ci riescono benissimo in questo demo d’esordio, combinando vari spettri sonori per un risultato che stupisce e lascia ben sperare per il loro futuro. C’è forte un’impronta psichedelica, dettata da ampie pause strumentali che dettano tempi lisergici, agili passeggiate nel vuoto (l’intro di “Oblium”). Ma c’è anche la potenza e la forza del rock, quello più vigoroso e tonante. Il tutto costruito su impalcature abbastanza complesse, soprattutto grazie al prezioso lavoro svolto dalle ritmiche. Un termine di paragone può essere fatto con il sound dei Tool (specie nelle ottime fasi vocali di Alessandro), mentre dal punto di vista esecutivo viene spesso in mente l’eclettismo dei Mars Volta. Insomma, gli ingredienti ci sono e la preparazione è adeguata, tanto che un brano come “Clochard” spinge e rallenta i tempi con intelligenza enorme. Di altissimo livello sono anche “Non grafic tautology” e “Oblium”, la prima caratterizzata una melodia azzeccata e da crude esplosioni elettriche, la seconda sospesa in un’atmosfera oscura e scossa dai riff acidi delle due chitarre (valide anche in fase solista). Il primo passo è fatto. L’attività concertistica procede bene. I Tikal si candidano senza ombra di dubbio ad occupare un osto di rilievo nel panorama heavy psych italiano. Sostenerli è un vostro dovere. Alessandro Zoppo
Tiresia Raptus – Tiresia Raptus
Meditazione e trascendenza, è questa l'essenza della ricerca che si cela dietro il progetto Tiresia Raptus. Idea nata da componenti di Doomraiser, Black Land, Foreshadowing e Der Noir, il collettivo mira alla sperimentazione sonora, concettuale ed esoterica. Carlo Gagliardi (basso), Nicola Rossi (voce, synth), Willer Donadoni (chitarre), Manuele Frau (chitarre), Luciano Lamanna (tastiere), Jonah Padella (batteria) e Marta Neri (voce) imbastiscono un trip che attraverso suoni e immagini «va a carpire la profondità delle dimensioni, per un'esperienza che proietta verso il Tutto». Dark rock per sviluppare i sensi sopiti, potremmo dire. È davvero sorprendente quanto si ritrova in questo album d'esordio, pubblicato dalla sempre attenta BloodRock Records. Dopo la breve introduzione di "Whales", "Memorie dal sottosuolo" (doveroso tributo a Fëdor Dostoevskij) affonda subito nella nera pece, nel buio di un'anima lacerata. Funziona alla perfezione il connubio di dark wave e occult psych rock, capace di scavare nella mente, portarne a galla le increspature nascoste. "Dal Limbo" si pone nella tradizione tricolore di (primi) Litfiba, Neon e Gaznevada, e in quella anglofona che da Joy Division e Suicide arrivò sino a Sisters of Mercy e alle derive di Psychic TV e Throbbing Gristle. Chitarre sottili e penetranti, drumming secco e marziale fino al fastidio fisico, vocals solenni ed evocative. "Viracocha" profuma chiaramente di dark sound d'antan, si assaporano le visioni erotico demoniache di Atomic Rooster e Agony Bag, mentre "Raptus" poggia su chitarre taglienti come lame e avvolgenti inserti di synth. "Guardiano della soglia" è la summa perfetta del sound griffato Tiresia Raptus: su un tappeto oscuro e ammaliante, si sviluppa una coda lisergica che emana un fascino sinistro. Come precipitare in una spirale e non vedere l'ora di sapere cosa c'è nel fondo. Punto di approdo ideale per il finale affidato a "Jesod", misterioso ed inquietante ritorno alla purezza. Finalmente l'Albero della vita è pronto ad accoglierci. I figli del sole sono giunti, aspettando la luce di una nuova alba. Dalla terra della quiete senza pace, arriva uno dei migliori dischi italiani del 2011. https://www.youtube.com/watch?v=3k_t49BVI50   Alessandro Zoppo  
TO REPEL GHOSTS – To Repel Ghosts
Deve essere uno che crede molto in questa faccenda del rock, il nostro Vincenzo, dato che si spende tanto nella provincia di Varese a creare situazioni, luoghi e personaggi per mantenere vivo l'interesse sulla materia. La Viva Records!, nomen omen, ci dice che c'è vita in provincia e licenzia come prima uscita la sua band, To Repel Ghosts, un gruppo dove si mescolano, a volte bene, altre volte con meno successo, una molteplicità di influenze che denotano una curiosità musicale piuttosto viva. E c'è anche una simpatica cover dei Flipper, "Way of the World", dalle tinte New Wave, che, per chi non li ricordasse piu, furono dei prime movers in California a mischiare punk e noise in maniera del tutto impensabile a quei tempi. E proprio da qui si può iniziare a capire le influenze della band per partire in un viaggio tra stoner, psichedelia soft, indie rock nazionale e una spolverata di zucchero post. Il dolce è servito."Stoned Slave Song" a dispetto del titolo grattuggia una chitarra noise della Figa di Marlene dentro un ritornello QOTSA: un buon inizio. "Feel" è il pezzo che piace di più: un rituale circolare per decantare la magia del sentire. Bello il lavoro delle due chitarre che elaborano riff molto incisivi e poi si lasciano andare nella successiva "Nowhere", quasi un anthem punk rock per ribadire una certa ferocia d'intenti. Altro piccolo gioiello è "To Repel Ghost" che fa venire in mente un gruppo da amare incondizionatamente, i Blonde Redhead. Si sente quel sapore arty della band, con in sottofondo una New York intellettuale e cervelloide che urla sul finire del secolo scorso la propria decadenza. Bisogna essere onesti: raramente capita di sentire qualcosa di così intimamente vicino a quei primi Blonde Redhead. La cosa commuove. Proprio qui la band potrà cercare più sapientemente la propria identità e lasciare fuori tutte le altre stronzate superflue. Chi vivrà vedrà. "Fitzcarraldo" è una piacevole parentesi con voce campionata che si diluisce nel pezzo dei Flipper e converge nel finale di "F* Eyes", una goduria motorpsycho che guarda verso la West Coast, e "Lenny", stessa natura entertainment di "Fitzcarraldo". From Est to West, il viaggio è compiuto. Abbiamo visto di tutto: scenari desertici e traffici metropolitani. Furia industriale e bellezze paesaggistiche. Ora, da qui, si può rimanere ad osservare la famme fatale in copertina che scivola dentro l'azzurro del mare e buttarcisi dentro con lei, oppure fare il percorso indietro. A voi la scelta. Eugenio Di Giacomantonio
TOADLIQUOR – The hortator’s lament
Dopo aver riportato alla luce i tesori nascosti dei Grief in "Turbulent times", la Southern Lord continua nella sua opera di filologia sludge doom dando alle stampe "The hortator's lament", unico album esistente dei Toadliquor risalente al 1994, arricchito di tracce rare mai edite prima e selezionate dai componenti stessi dalle band. C'è subito da dire che se già l'ascolto dei Grief presentava numerose difficoltà per la non facile accessibilità della proposta, con i Toadliquor il discorso è ancora più complesso: pur senza mettere in dubbio la natura di precursori di questo tipo di sonorità, digerire gli oltre 70 minuti di questo dischetto è un'impresa di non poco conto…i dodici brani qui presenti mostrano una vena oscura, ossessiva, slabbrata, portata fino all'eccesso da variazioni ritmiche praticamente inesistenti e da vocals filtrate tra l'urlato ed il parlato che infondono un ulteriore senso di soffocamento. Le chitarre sono pastose e insieme alla sezione ritmica ergono un muro sonico imponente ed impenetrabile. Tra l'assoluta mancanza di melodia e la lunghezza dei pezzi portata all'eccesso gli unici attimi dinamici sono dati da alcune accelerazioni poste qua e là (ad esempio in "Tenderloin" e nella parte centrale di "Nails", tra le migliori cose fatte sentire) e dal sapore melanconico e solenne donato all'album nella parte finale, complici l'ottima rielaborazione di "Also sprach Zarathustra" e l'atmosfera epica di "Tatterdemalion: the gladiators' debasement before cain". Per il resto non fanno altro che susseguirsi monoliti dalle cadenze ritmiche statiche e fuori dal tempo, a partire dallo sfinimento di "Charred" per giungere alle bizzarre ambientazioni della conclusiva title track. Dunque, ennesimo rispolvero di materiale introvabile da parte della Southern Lord. Questa volta però l'ascolto è consigliato esclusivamente a chi sbava sentendo Grief, Eyehategod e Earth, gli altri ne rimangano lontani… Alessandro Zoppo
TOMBOSLEY – TomBosley
Un distributore di benzina abbandonato nel bel mezzo del deserto. È questa l’immagine che ci introduce all’ascolto del disco di debutto dei TomBosley, formazione avellinese attiva ormai da tanti anni nell’underground nostrano. E fa davvero piacere che sia proprio la Beard of Stars di Savona ad averli messi sotto contratto: gruppo emergente ma esperto ed agguerrita etichetta indipendente non possono che creare ottimi risultati. Non a caso i nove brani che compongono questo dischetto scorrono via che è un piacere: i TomBosley sono artefici di uno stoner rock classico, ricco di fuzz e sfumature garage psych, che rimanda soprattutto all’operato di Fu Manchu, Nebula e Dead Meadow.Per chi conosce la band, non sorprenderà la presenza di “vecchi classici” come la travolgente “Volcano’s Speach”, il fuzz debordante e pachidermico di “Arnold’s March”, le fitte trame dal sapore Kyuss di “Bloodsucker in Love”, la trascinante “Washbrain”. Angelo (voce, chitarra), Fonzo (chitarra), Bruno (batteria) e Vittorio (basso) ci mettono grinta e passione, creando pezzi “di genere”, efficaci al cento per cento. Li penalizza leggermente la produzione, che avrebbe potuto essere più corposa. Tuttavia è un dettaglio, perché le canzoni ci sono, e spingono forte. “Mind Game” ingabbia con i riff e la melodia contagiosa; “At the Garage” e “Mister Lightman” hanno un succoso retrogusto sixties che sa di Stooges; “Leopard’s Lodge” e “Waylife Train” sono dissonanti marce dall’incedere ipnotico e lisergico. Richie e Howard Cunningham saranno sicuramente felici dei loro Heavy Psychedelic Days. Alessandro Zoppo
TOMBSTONE HIGHWAY – Ruralizer
Album d'esordio per i Tombstone Highway, band attiva da diverso tempo che si è formata nel 1999 come Leaf Death Season, salvo sciogliersi e ripresentarsi nel 2006 con l'attuale nome, ispirato da un classico brano degli Obsessed di Wino Weinrich. Il duo è formato da HM Outlaw (chitarra, banjo, vocals, meglio noto per essere Herr Morbid nei Forgotten Tomb) e Emilio S.O.B Sobacchi (batteria, ex Hungry Heart), cui si sono in seguito aggiunti Simone Feroci (basso) e Daniele Zoncheddu (chitarra) provienenti dai Kalevala (band folk metal di Parma). Dopo un EP del 2007 arriva finalmente il full length con una proposta che è un'interessante fusione di suoni, dal southern rock al blues fortemente influenzato dallo stoner sludge metal. Seppure i sapori inducono verso la ruvidezza del tipico sound degli stati confederati americani, in qualche frangente il gruppo sembra inglobare anche elementi tipici della scuola doom tradizionale, senza che quest'ultima influenza risulti dominante.A dare maggiore spessore a "Ruralizer" è la presenza di guest quali Marco Percudani (chitarra) e Luca Negri (tastiere). In particolare l'aggiunta di Negri nel brano "At the Bitter End" porta i nostri a confrontarsi col 70's hard rock di scuola Deep Purple. Insomma, l'esordio dei Tombstone Highway è un lavoro di buona fattura che brilla in quanto vigoroso ed essenziale, non lasciando spazio ad inutili fronzoli. Viceversa non altrettanto si può dire dell'originalità della proposta, che tuttavia non ne intacca la qualità. Il combo nato tra Piacenza e la Liguria trasforma la pianura padana nelle atmosfere paludose del profondo sud degli USA ma anche il polveroso sud della California. Ricordiamo inoltre l'uso del banjo in qualche song a riportarci in mente anche la Louisiana, tra Lynyrd Skynyrd, ZZ Top ed Outlaws fino a Black Label Society, Corrosion of Conformity e Down, ma anche Leadfoot, Spiritual Beggars, Orange Goblin e – sul versante doom – i compianti Thunderstorm, specie per il portentoso riffing alla Fabio Thunder. E le colt ripresero a sparare... Antonio Fazio
TOMORROW – Tomorrow with Keith West
I Tomorrow vanno considerati come una delle formazioni storiche e fondamentali non solo del rock psichedelico inglese, ma della psichedelia tutta. Con il loro unico album hanno disegnato una delle pagine più variopinte ed eccitanti dei tardi anni ’60 e possono essere accostati senza esagerazione ai Pink Floyd di The Piper At The Gates Of Dawn sia per importanza che per contenuti musicali: basti pensare alla presenza del leggendario Twink dietro ai tamburi, una sorta di eccentrico personaggio freak che ritroveremo qualche anno più tardi in una all star band con Syd Barret (!). A completare la formazione il vocalist Keith West, Steve Howe alla chitarra e Junior al basso. L’album è aperto da un classico dell’epoca, la bellissima "My White Bicycle", impreziosita dagli acidi colori del phaser della chitarra di Howe. Si passa poi per episodi ad alto contenuto lisergico come la contorta struttura di "Revolution" o l’incalzante "Real Life Permanent Vacation" ornata di mistici sitar. Un titolo come "Hallucinations" è probabilmente più che esplicativo, anche se va segnalata la sua contagiosa melodia. Fanno capolino anche episodi squisitamente hippie e sognanti come "Colonel Brown", con echi dei migliori Beatles, o la dolce melodia di "Shy Boy". "Auntie Mary’s Dress Shop" e "Three Jolly Little Dwarfs" sono coloratissime storie che farebbero felice qualunque fan dei primi Floyd (quelli con Barret) e va segnalata infine una cover a dir poco esaltante di quello che ritengo il più bel pezzo dei Beatles: "Strawberry Fields Forever", resa qui con una maggiore enfasi visionaria e psichedelica, priva degli arrangiamenti ricercati e della patinata ultra-produzione della versione originale dei quattro di Liverpool, ma dal fascino irresistibile: un capolavoro! A quanto detto va aggiunto che la ristampa oggi disponibile su CD è stata a dir poco impreziosita da alcuni inediti come "Claramount Lake" e "Why", nonché versioni mono e alternative di "Real Life Permanent Dream" e "Revolution". Seguono poi in coda l’unico visionario singolo edito dagli The Aquarian Age (un progetto di Twink e Junior), anch’esso impreziosito dall’aggiunta di un inedito: "Why". A chiudere il tutto un paio di singoli dal sapore più melodico editi dal front man Keith West, per il quale la casa discografica aveva pianificato una carriera da solista. Concludendo, questo album è un vero e proprio Capolavoro (sì, con la “C” maiuscola!) di quella che io definisco “prima era psichedelica”, forse meno conosciuto di altri classici, ma sicuramente fondamentale e per certi versi inarrivabile. Bokal
TOMYDEEPESTEGO – Odyssea
Errare in paesaggi sereni e pregni di ricordi, in cui il silenzio immobile e la vastità della natura regalano emozioni singolari. Questo è, concedendoci una licenza poetica, la musica dei Tomydeepestego.Note gentili e assenza di parole, lunghe litanie strumentali e soluzioni che richiamano fortemente il post rock e il post core più ambientale e crepuscolare (non a caso l'ottima traccia conclusiva prende il nome di 'Crepuscolo', appunto), territori in cui la band capitolina sa muoversi elegantemente. L'alternanza quiet/loud gioca un ruolo fondamentale nell'economia dei brani e, a tal proposito, funzionano alla perfezione 'Euskadia' e 'Mizar', poste sapientemente in apertura. La carica emotiva di 'Liver' è senza dubbio uno dei picchi dell'album, grazie anche alla viola del maestro Leonardo Li Vecchi, che riesce a dare quel tocco di malinconia in più. Aria di casa nostra con 'Mediterraneo', difficile dover descrivere con dei suoni un luogo, un modo di essere, ma i Tomydeepestego con questo brano riescono ad esprimere pace ed armonia. Un lavoro ben curato, dalla composizione al sound, dall'artwork al packaging, in tutto e per tutto minimale e suggestivo. Tanto i Pelican quanto i Mogwai si sentiranno chiamati in causa più volte, probabilmente risiede proprio in questa derivatività e prevedibilità (talvolta anche prolissità) il vero limite di 'Odyssea', a volte i ragazzi sembrano seguire un copione di cui già si conosce il finale. In definitiva, per chi non è alla ricerca di strambe innovazioni e/o divagazioni pseudo-sperimentali, rimane un disco da apprezzare nella sua semplicità e godibilità. Davide Straccione
TONER LOW – Toner Low
'Play loud for full effect'. Eseguiamo subito. Ecco che il disco inizia. Prima però abbiamo notato sei brani dai titoli strani, sembrano parti di un unico 'viaggio'. Artwork dannatamente psichedelico eh… ma pensiamo alla musica. Accidenti, questi tre ragazzi olandesi promettono bene, "Evil machinery on the rise" è quanto di meglio in fatto di stoner doom si potesse chiedere da un paio d'anni a questa parte, roba da far girare la testa persino agli Sleep. Sembra un brano minimalista ma il voltaggio ipnotico è davvero alto. Quanta foga nel lavoro di Daan alle chitarre, come pompa il basso di Deef con i suoi volumi disumani, per non parlare del gran dinamismo di Jack alla batteria.Se prosegue così siamo freschi… "Devilbots designed to assimilate" forse è un miraggio. No, è realtà, anche se coperta da fumo denso e sussurri diabolici. Sembra di vedere gli High On Fire di "The art of self defense" che giocano con i suoni degli Electric Wizard di "Dopethrone". Intrigante eh. "Through endless fields of waving grass we battle" è una pausa dovuta, arpeggio delicato che si schianta su una fitta serie di drones. Inquietante preludio alla meravigliosa "Praying for the Murphy's law to arise": quando su un tappeto heavy psych doom a dir poco possente entra la voce melodica, sofferta, intensa di Deef (fino a prima cupo e mefistofelico cerimoniere) siamo in pieno trip. I suoni marci e pompati delle chitarre sono qualcosa di incredibile, un delirio di fuzz e wah che si poggiano sulla tempestosa eruzione ritmica di basso e batteria. Gli aggettivi positivi si sprecano. "Into the sunn of Nymrod" è un'invocazione a sunn, dio del drone doom. Roba da Teeth Of Lions Rule The Divine, mica patatine. Giusta cornice a "We will conquer", dimostrazione di forza da parte di chi sa maneggiare (con somma cura) tutto l'armamentario stoner doom. Il cerchio si apre e si chiude con una liquida base psych rock (viene in mente un sorprendente misto di 35007 e primi Queens Of The Stone Age), nel mezzo esplodono riff stoner da capogiro, una fuga space di stampo Hawkwind e mille effetti che fanno materializzare l'inferno. Ecco, questo è drug rock. Crediamo sia inutile aggiungere altro. I Toner Low confezionano il dizionario stoner psych doom 2005. Ad un pelo dal capolavoro (giusto per non montarci e non montar loro la testa). L'obbligo all'acquisto è ovviamente sottinteso. Alessandro Zoppo
TONS – Musineé Doom Session Vol. 1
La creatura Tons si plasma dalle ceneri di vari gruppi della scena hardcore torinese. I primi gemiti risalenti all'ottobre del 2009, porteranno alla produzione di una demo di quattro songs che ritroverete nello stesso "Musineé Doom Session Vol. 1" arricchito di due brani inediti: "Ketama Gold" e "At War with Yog-Sothoth". Il progetto è fortemente radicato nella cultura e nella geografia dello stesso territorio torinese. Infatti, teatro di miti locali di ogni tipo, il monte Musiné è stato grande fonte d'ispirazione. Esoterismo, avvistamenti ufo, particolari campi magnetici e quant'altro stanno alla base di queste leggende e della concettualità richiamata dai nostri. La dichiarata passione della band per un grande scrittore come H.P. Lovecraft (fonte d'ispirazione in vari ambiti artistici) completa il quadro.L'impianto sonoro dei Tons, fatto di sludge, doom, stoner e condito di voce "luciferina", non si fossilizza in lunghe cavalcate doom (come ci si potrebbe aspettare) ma si mantiene in costante evoluzione, schivando la ripetitività "oppressiva" tipica del genere. Riff monolitici e drumming incalzante fanno da filo conduttore, si fondono e si contrastano. Creano composizioni lunghe che evidenziano un approccio apertamente "jam" dove, in maniera altrettanto aperta, si alternano le varie influenze. Saint Vitus, Black Sabbath, Eletric Wizard, Kyuss, Melvins, Bongzilla, Corrosion of Conformity rappresentano alcune delle influenze che probabilmente fanno parte del bagaglio musicale del trio. Per tutta la durata non si registrano segni di cedimento, la soglia d'attenzione non ne risente. Onore al merito! Inutile dire che il disco (produzione numero cinquanta dell'etichetta Escape From Today in collaborazione con Heavy Psych Sounds, acquistabile in tiratura limitata sia in vinile sia in cd cartonati con stampa serigrafica) è consigliato ad un pubblico appassionato, che non rimarrà deluso dal debutto targato Tons. Teneteli d'occhio. Enrico Caselli
TONY TEARS – All my black
Artista sconosciuto ai più, Tony Tears lavora nell’ombra da anni nell’underground dark italiano, avendo portando il suo apporto nei dischi di band come Helden Rune, Zess, Runes Order, Malombra ed altri ancora. “All my black” è un minicd di due canzoni, entrambe cantate in italiano, dove un dark rock di stampo seventies (per suoni e registrazione) s’incontra con melodie dal fascino arcano; un nome di riferimento possono essere L’Impero Delle Ombre, ma “All my black” è in grado di affascinare chiunque ami il polveroso ed originario suono dark.
TOO MERA B. – Into the drink…
Stoner, rock’n’roll, z-music, ecco gli ingredienti che compongono l’esplosiva miscela dei Too Mera B., nuovo mostro heavy psych prodotto dalla nostra penisola. Ad essere precisi, il loro luogo di provenienza è Reggio Calabria, Sud, terra calda e dimenticata, luogo magico e dunque terreno fertile per esprimere in musica rabbia, coraggio, potenza e voglia di divertirsi, pur sempre con un certo impegno. Tutto nasce nel giugno del 2003, quando dall’unione di due chitarre (Peppe e Antonio), un basso (Domenico), una voce (Francesco, un passato negli ottimi Hozpital) e una batteria (Max) prende forma la creatura Toomerosa, frutto dell’astrazione che illumina bevute e cene dall’alto tasso alcolico. Qualche punto negativo c’è e purtroppo si sente: sono la registrazione ed il mixaggio a penalizzare il tutto, il basso livello di cui godono affloscia non poco le composizioni e le priva di quello slancio di cui invece dovrebbero godere. I sei brani di “Into the drink…” infatti sono ben strutturati, diretti e ficcanti, ma la scarsa lucidità produttiva fa perdere non pochi punti. Tuttavia si tratta di un punto su cui si può soprassedere (perché rimediabile) tanta è l’energia che trasuda da questo dischetto. “…Do the fish” ne è la prova lampante con la sua melodia a presa rapida (anche se la voce di Francesco può ancora migliorare molto…) e le sue ritmiche al fulmicotone che ricordano tanto Unida e Mushroom River Band. “Medicine, man” è un’altra bella sassata tirata senza preoccuparsi di nascondere la mano, dirty rock che prende alla gola e si fa piacere anche grazie all’idea di inserire stralci di testo in dialetto calabrese. “Two-head motor mouth” è un episodio piuttosto minore, sparato ma poco incisivo, lo prendiamo come un passaggio verso la tosta “White sirtaki for cannibals vampires nazi zombies”, estasi psichedelica da b-movie con deliziosi contrappunti tribali e vorticosi wah-wah kyussiani. Altro bel calcio nelle parti basse è “Dragon on drug”, vocalizzi profondi e fuzz asfissianti si uniscono in un perfetto compendio stoner, bagliore accecante prima della conclusiva “Pourquoi pas?”, acerba ma ruspante punk song che dal vivo coinvolgerà di sicuro in uno sfrenato pogo. Alla fine dei conti qualche ombra e molte luci per la prima emissione di questi cinque folli ragazzi calabresi. Tempo ed esperienza faranno il loro corso, intanto si invitano grandi e piccini ad immergersi in questo caliente drink toomeroso…   Alessandro Zoppo  
TORQUEMADA – Tales From The Bottle
I bergamaschi tORQUEMADA nascono all’incirca verso la fine del 2003, ai tempi la band era composta dal duo “guitar & drum” costituito da Alfonso Surace e Luciano“Ciano” Finazzi e portava il nome di “NoiseMachineBand”.Solo dopo l’incontro (in studio di registrazione) con il produttore Davide Perucchini la band cambia nome optando per il più accattivante tORQUEMADA che segna anche l’ingresso di Perucchini come terzo elemento, al basso.Le registrazioni di questo debut album risalgono addirittura al 2004 ma il terzetto orobico riesce a pubblicarlo solo ora, grazie all’interessamento della label nostrana Insecta Records.In questi 3 anni la band non è stata di certo ferma a guardare…anzi…tanti concerti alle spalle (supportando bands del calibro di Gea, Ojm, Cut e Verdena) e tanto sudore hanno preceduto l’uscita di questo interessantissimo “Tales From The Bottle”. La musica dei tORQUEMADA è un’irriverentissima mazzata in faccia e chi ha avuto il piacere di assistere ad un loro live lo sa bene!!!Il disco è prodotto eccelsamene tanto da riuscire a trasmettere all’ascoltatore tutto l’impatto che i tre hanno dal vivo. La proposta musicale del terzetto bergamasco oscilla tra un garage riff-rock ed il math-noise rock alla Steve Albini (le influenze del produttore statunitense sono massicce come quelle di bands quali Shellac, Big Black e Rapeman) il tutto miscelato con altissime dosi di rabbia. Era da un sacco di tempo che non mi capitava di ascoltare un disco così incazzato ed urlato (forse troppo…tanto da poter forse risultare un pò ostico alle orecchie più delicate e “fighette”). Come accennato in precedenza, il riferimento agli Shellac è decisamente lampante…ma c’è di più. I tORQUEMADA, pur mantenendo un comune denominatore in tutte le 9 tracce dell’album, riescono a miscelare varie influenze…dai Rage Against The Machine di “WHO?” alle atmosfere “nirvaniane” di “Me & My Cat” infarcendo il tutto con riff talmente potenti ed impattanti in grado di abbattere qualsiasi cosa. Non mancano neppure i “momenti” melodici e pacati, pochissimi e brevissimi a dire il vero ma sapientemente piazzati qua e la (“It’s Going”,“Figure It Out”, “Superrodeo Frog”) prima di tornare a devastare i timpani dell’ascoltatore!!! Una band che è stata capace di sfornare un debut album di altissimo livello nel quale spiccano le eccelse doti compositive di Alfonso Surace (voce e chitarra) e le deliziosissime trame vocali di Luciano“Ciano”Finazzi (voce e batteria). “Tales From The Bottle” è un album che vi conquisterà sin dai primissimi ascolti ed anche se ai più potrebbe risultare un disco derivativo consiglio a tutti di seguire questa ennesima band dell’attivissimo vivaio bergamasco.D'altronde si tratta sempre di un debut album ed è quindi normale che possa risultare “già sentito”. I tORQUEMADA hanno classe da vendere (basta assistere ad uno dei loro esplosivissimi live show) e sono certo che con il passare del tempo sapranno distinguersi dalla massa riuscendo a creare un proprio ed unico sound…le premesse ci sono tutte!!! L’unico appunto che vorrei fare alla band è quello di levare la definizione “stoner” dalle descrizioni della loro musica.Questo termine non vi si addice affatto, i tORQUEMADA non sono una band “stoner”…posso capire che ormai “faccia figo” definirsi una “stoner-rock” band, ma questo termine è ormai inflazionato ed usato, a volte, a sproposito. Non avete bisogno di questi “mezzucci” per conquistare il pubblico, bastano la vostra musica ed i concerti esplosivi che siete in grado di fare per risultare vincenti!!! Avanti così!!! The Rawker
TOTIMOSHI – ?Mysterioso?
L'inquietante Float apre le danze con le note sinistre fornite dalla chitarra di Antonio Aguilar, Screwed segue a ruota introdotta dalle pulsazioni del basso di Meg Castellanos, mentre John Zamora si preoccupa di martellarci a dovere con il suo drumming insistente. Si apre così il lavoro dei Totimoshi, piacevole sorpresa per la quale non è sbagliato utilizzare il termine stoner, abbinandolo però a qualcosa che suoni come Alternative Metal, o giù di lì. Cellophane potrebbe infatti far pensare al nu-metal per la sua struttura, ma in suoni non sono quelli, Dirty Farmer è uno strumentale a cavallo tra il metal e l'indie rock e The Bleed rimane nel bel mezzo di quel crocevia dove le sfumature dei generi sopra citati si incontrano. Oblivian è forse il pezzo che con la sua imponenza ci porta con una certa convinzione a parlare di stoner-doom, prima dell'ipnotica e massacrante Horselaugh che chiude degnamente il lavoro lascinado i Totimoshi al di fuori delle definizioni più scontate e l'ascoltatore di fronte a qualcosa che forse non ha ancora inquadrato al 100% ma che profuma di qualità lontano un miglio. Ecco, non si può parlare di capolavoro, ma non si può nemmeno trascurarlo questo disco… credo proprio che i Totimoshi siano grandi!Dimenticavo: il CD contiene anche una sezione CD ROM enanched che giro su PC o Su Mac, con un simpatico video di Cellophane (infarcito di scheletri ed inquietanti sequenze alquanto sinistre) e un documentario sulla band in tour (molto on the road…). The Bokal
TOTIMOSHI – Monoli
Arrivano da Oakland e sono alla loro terza uscita, questa volta su This Dark Reign/Devil Doll, dopo il convincente “?Mysterioso?”, edito da Berserker lo scorso anno. Si tratta dei Totimoshi, band che definire strana è un complimento: già dall’artwork e dai titoli dei pezzi si intuisce che c’è qualcosa di contorto nella loro musica… L’ascolto infatti affascinerà di sicuro quelle frange estreme cresciute a pane e Melvins: il rock dei Totimoshi è oscuro, criptico, rumoroso, proprio come King Buzzo vuole…i nove brani (più una malatissima ghost track fatta solo di chitarra acustica e bisbigli vari) in cui “Monoli” si snoda viaggiano su velocità folli di stampo noisecore, rallentate solo in occasione di passaggi melodici e divagazioni strumentali che assumono deviate coloriture psichedeliche. A partire dall’iniziale “Vader” è un susseguirsi di ritmiche isteriche e chitarre graffianti, vocals rabbiose, brusche accelerazioni e break schizoidi. Saranno in molti a storcere il naso di fronte a pezzi malati come “The pigs are schemin’” e “Possum”, ma il valore di Antonio Aguilar (voce, chitarra), Meg Castellanos (basso, voce) e Don Newenhouse (batteria) è fuori discussione. Rispetto al precedente disco inoltre il songwriting risulta molto più dinamico e variegato: tra una mazzata e l’altra si inseriscono infatti momenti di ampio respiro come la psichedelia roboante e decostruita di “Light lay frowning”, le zuccherose melodie tra Flaming Lips, Nirvana e Queens Of The Stone Age di “Make your day” e “You know” e la stravaganza strumentale di “The hero released from fright”. Un disco strambo e fuori da ogni schema questo “Monoli”, quasi quanto l’immagine dei Totimoshi riprodotta nel retro copertina: inoffensivi e simpaticoni fuori, aggressivi e altamente tossici dentro… Alessandro Zoppo
TRANS AM – Volume X
I Trans Am sono un gruppo sospeso. Tra aggressività e dolcezze. Tra sussurra e grida. Tra avantgarde synth e chitarroni letali. Un gruppo libero lo sono sempre stato, ma quando il finale di "Reevalutations" ti traghetta in spazialità prog alla PFM di "Night Shift" pensi che la canzone dopo potrebbe essere hip hop. O un tango. O black metal. Oddio, "Blacklash" è proprio metal, con tanto di twin guitar in assolo. Fanno della perdita di riferimenti, il loro riferimento. E se i Daft Punk ci hanno martellato gli zebedei con i vocoder, vedete che fine gli fanno fare i nostri in "K Street" e "I'll Never". Roba da far impallidire Giorgio Moroder stesso. Stessa sorte tocca ai synth analogici che non sono proprio come le campane tubolari di Mike Oldfield, ma sono zozzi, sanguigni, sempre sporcate da un accidente casuale. Ma tra tante casualità "Volume X" è un disco che suona puro. Compatto. Si sporca con scelte estetiche di pessimo gusto ma la musica serve per divertire, o no? Presumibilmente anche chi la fa e non solo chi la ascolta. Qui l'ago della bilancia è spostato verso di loro. A voi la scelta e per il momento, mentre decidiamo se ci stanno prendendo per il culo o meno, rilassiamoci nella conclusiva, strumentale e pinkfloydiana "Insufficiently Breathless" (parodia del titolo del secondo disco dei favolosi Captain Beyond, cult band hard psych dei Settanta), a dimostrazione che c'è un cuore roots in ogni testa stravagante. Eugenio Di Giacomantonio
TRAVELING CIRCLE – Escape from Black Cloud
Alfieri della psichedelia, unitevi! Da New York i Traveling Circle sono pronti a farci esultare con il loro rock acido e sognante. Dylan (voce, chitarra), Josh (batteria) e Charlie (basso) mettono in musica la Terra, l'Acqua, l'Aria, il Fuoco, le nuvole, lo spazio profondo, le polveri stellari. "Escape from Black Cloud" è il loro secondo lavoro, edito da Nasoni Records dopo il già eccitante debutto omonimo del 2010. Dieci tracce per 40 minuti scarsi di psychedelic rock con i fiocchi, scritto in maniera sapiente ed eseguito con grande perizia. Si viaggia nel vero senso del termine con i Traveling Circle, trio capace di coniugare le asprezze del fuzz sound e la delicatezza del pop, oscure trame vocali e passaggi distorti e drogati, brusche fughe celestiali e dolci approdi nei meandri della psiche umana."Higher", "Closer" e la dopatissima "The Willow Tree Fair" sono trazioni ipnotiche e avvolgenti, mantra che elevano la mente a rinnovati orizzonti. "The Candlelight Sways" e "Rock This Feeling" hanno uno spirito pop che seduce e ammalia, come dei Queens of the Stone Age che si improvvisano seguaci di Twink, Love e Moby Grape. "Newborn Shadow" è uno degli episodi più stranianti dell'album, capace di fare il paio con la meravigliosa strumentale "Green Spider" e con le bellezze psicotrope di "Fountain of Time". In chiusura "Conduit Is Closing" ci riserva una girandola di fuzz ora tosti, ora delicati, che preparano al gran finale di "Tears from the Soul", summa di un intero universo sonoro, che poggia su riff reiterati, ritmiche paralizzanti, melodie a presa rapida ed un falsetto che pare provenire da una dimensione altra. La scena di Brooklyn è sempre più ricca ed eccitante. Se Weird Owl, Bad Liquor Pond, Strange Haze, Heavy Hands, The Runaway Suns e compagnia underground sono il vostro pane quotidiano, provate i Traveling Circle: saranno la prossima droga per lunghi trip interstellari. Alessandro Zoppo
TREPHINE MD – Trephine
Di solito non mi piace stroncare i lavori di nessuna band, ma devo ammettere che i pur bravissimi Trephine, a parte qualche singolo episodio, mi hanno abbastanza annoiato durante tutta la lunghezza del loro omonimo lavoro. Già di per sé il metal violento e ipertecnico proposto, condito da innumerevoli cambi di tempo e variazioni di riff, risulta essere di base un po' freddino, se poi ci aggiungete che tutte le tracce sono strumentali forse converrete con me che non siamo di fronte a un lavoro molto coinvolgente. In alcune parti mi hanno ricordato alcune band come i The Mass, da me recensiti poco tempo fa, ma qui manca l'elemento sorpresa in grado di dare un po' di personalità al tutto.Sicuramente questo lavoro farà la felicità di chi è alla ricerca di continui cambi di tempo, suoni taglienti e riff "chirurgici" (credo sia il termine più corretto, sia per la precisione con cui vengono eseguiti sia per l'apprezzamento della band per la chirurgia in sé, visto che l'artwork è completamente dedicato alla materia in questione) in continua evoluzione. Nonostante l' abilità dei musicisti e la buona produzione, per me il gioco vale per un pezzo o due, poi il tutto comincia ad essere un po' ripetitivo e, come ho già sottolineato, freddino; belle le parti più sperimentali con suoni abbastanza strani ma nel complesso difficili da digerire: a voi la scelta. The Bokal
Trip Hill – Raining Metallic Mushroom
Fabrizio Cecchi è grande e Trip Hill è il suo profeta. Fiero e indipendente, Trip Hill è il grado zero della psichedelia. "Raining Metallic Mushroom" è la sua ultima creazione, edita dalla fantomatica Rinfresko Elettriko Records: otto tracce per poco più di 40 minuti di pura magia sonora. Per chi non lo sapesse, Fabrizio suona e produce tutto in casa, nello studio di Calenzano, alle porte di Firenze: dalla fine degli anni 90, i tempi di "Shoestring" (1998) e "Takes from Oblivion" (2000), fino ai più recenti "Space Trip Passport" (2005) e "Yesterday Sun of Tomorrow" (2006), il suo è un viaggio acido che ha portato a nuova vita la psichedelia, anticipando la "terza giovinezza" che il genere ha conosciuto negli ultimi anni. Il lavoro è filologico, appassionato e meritorio. Ma soprattutto è salvifico, perché in tempi come quelli odierni, una musica e uno spirito del genere rendono questo gramo pianeta un posto migliore. Anima ruvida e garage, sensazioni psych luminose e sapori d'Oriente sono la ricetta di "Raining Metallic Mushroom". L'opener "Bright Spring" è un'esplosione di vibrazioni kosmische che ammantano il nostro percorso di redenzione. L'andamento ondivago e fluttuante di "Watertight" – un mantra per teste calde cresciute a pane e (primi) Pink Floyd – fa il paio con la dilatazione totale di "Head'shop", sorta di schianto tra Ravi Shankar e i Popol Vuh. "I Need Someone" gioca con un brillante gusto pop al quale è impossibile resistere (come alla chitarra super acida che la trascina), Barrettiane iniezioni acustiche pennellano la terra di nessuno occupata da "Tonight", dalla title track e dalla gemma "Songrilla". "Fokkerhammer" chiude il cerchio cavalcando un violino all'acido lisergico che stordisce e ammansisce. Davvero ottimi questi funghi metallici cucinati da Trip Hill: "Raining Metallic Mushroom" è il trattato di chimica teorica e pratica che aspettavamo da tempo. https://www.youtube.com/watch?v=MsbLJcaWGyM

Alessandro Zoppo

 
TROUBLED HORSE – Step Inside
Era ora che qualcuno si accorgesse di loro. E lo ha fatto niente meno che il sommo vate Lee Dorrian, mente della rinomata Rise Above oltrechè, ricordiamolo, ex componente e leader di band storiche quali Napalm Death e Cathedral. Quindi si va sul sicuro. Il debutto degli svedesi Troubled Horse (manco a dirlo, pure loro provenienti da Orebro) è finalmente arrivato anche se con un po' di ritardo. Ma tant'è, meglio tardi che mai.Il gruppo è in giro dal 2007 e dopo varie vicissitudini tra etichette minori (la non trascurabile Crusher Records) e presenze di spalla a nomi più titolati, si presentano al pubblico in grande stile. Senza tergiversare e dilungarsi più del dovuto, perché chi conosce la scena di Orebro sa perfettamente la materia trattata dai nostri. Roba vintage s'intende, ma fatta in modo tale da lasciare l'acquolina in bocca a tutti coloro che hanno goduto della magnifica aura che si respirava nei Seventies e, in taluni casi, pure nei Sixties. Perché oltre all'heavy garage blues tenebroso dei Pentagram, o se preferite dei Witchcraft, troviamo anche una psichedelia velata debitrice sia dei 13th Floor Elevators, sia della magia poetica di certi Doors. E in più l'ingrediente segreto: un'insospettata e trascinante vena sudista che ne rafforza il contenuto. A questo punto molti si aspettano una discussione sui brani (alcuni dei quali già ascoltati nei precedenti bootleg e singoli vari), ma noi non affronteremo l'argomento poiché vi invitiamo a scoprire l'involucro come una succosa sorpresa natalizia in un clima di festa. Dopotutto non sono queste le cose più belle della vita? Cristiano Roversi
TRUCKFIGHTERS – Gravity X
Dopo la pubblicazione di due demo ("Heading For God's Warehouse" & "Desert Cruiser") e dello split con i compagni di scuderia Firestone ("Truckfighters VS Firestone - Fuzzsplit Of The Century") pubblicato nel 2004 dalla Fuzzorama Records, gli svedesi Truckfighters arrivano finalmente al tanto atteso primo full-lenght album."Gravity X" (questo il titolo del disco) è senza ombra di dubbio uno degli albums "fuzz rock" più belli che mi sia capitato di ascoltare di recente.Questo gioiellino racchiude tutti i canoni del genere senza mai risultare noioso, stancante o "troppo simile" alle numerose influenze della band. Tanto di cappello, quindi, ai quattro ragazzi di Örebro che sono stati in grado di sfornare un prodotto davvero fresco ed intenso riuscendo a miscelare le classiche influenze "stoner rock" con alcuni nuovi elementi molto interessanti per il genere (chitarre acustiche, fiati, samples vocali ed alcuni effetti, utilizzati in fase di mixaggio, davvero niente male). La peculiarità di "Gravity X" è la sua durata: 67 minuti e 18 secondi che scorrono via in un attimo.Come consigliato dalla band stessa all'interno del booklet del cd: "This album is appreciated to the fullest when listened to in a comfortable environment, in its full lenght and without any distractions". Ascoltare per credere! "Gravity X" è un'album equilibratissimo, completo, potente, melodico, psichedelico, capace di sprigionare (in alcuni episodi) un heavy-groove pazzesco. Impossibile non rimanere colpiti da pezzi come "Desert Cruiser" (song che, nel corso dei suoi oltre 7 minuti, si sviluppa alternando momenti di melodia pura a sfuriate da headbanging mantenendo una fortissima matrice psichedelica), "Gargarismo" (riffs pesanti come macigni ed una sezione ritmica impeccabile), "Momentum" (un pezzo spettacolare, forse il più intenso del disco, davvero pieno di pathos e sentimento…una canzone dolcissima e senza dubbio alcuno, uno dei migliori episodi di questo "Gravity X"), "Freewheelin'" (il pezzo più "alternativo" di questo full-lenght). I pezzi successivi contribuiscono all'evoluzione del disco che, col passare dei secondi, diventa sempre più dilatato.Episodi come "Subfloor" (dove troviamo addirittura la presenza dei fiati presi in prestito dagli Square, altra band della famiglia Fuzzorama) dimostrano la raffinatezza compositiva di Ozo, Mr.Dango, Paco e Fredo, capaci di tessere melodie stupefacenti. La successiva "Gweedo Weedo" (dedicata al batterista degli amici El-Thule e ricordo della bellissima esperienza italiana dell'ottobre scorso) serve a spezzare la cortina psichedelica creata precedentemente, tramortendo l'ascoltatore con un'overdose di fuzz : impossibile restare fermi!!! L'album si conclude con "A.Zapruder" (song che ospita, come special guest, Anders Jakobson, batterista dei Nasum) e con la suite psichedelica "Altared State", pezzo strumentale che vi farà viaggiare fino ai deserti di neve svedesi… Questo disco odora di Kyuss, Fu-Manchu, polvere e QOTSA!!!Ma attenzione: i Truckfighters non sono un gruppo clone!!!Si tratta di una band che è stata capace di catturare la pesantezza dei riffs delle bands sopra citate, miscelando il tutto con una massiccia dose di melodia, aggiungendo un songwriting superbo ed avvolgendo il tutto in una spessa coltre di psichedelia. "Gravity X" è un lavoro eccelso, i suoni sono caldissimi e perfettamente equilibrati (è stato registrato e mixato dalla band stessa), le chitarre si intrecciano per creare melodie sopraffine mentre la sezione ritmica supporta il tutto ottimamente (eccezionale il suono di basso che gonfia a dovere tutte le songs) e senza esagerazioni. Un lavoro maturo (e che vi catturerà poco a poco…solo come i grandi albums sono in grado di fare) che dimostra come il "fuzz rock" scandinavo si stia evolvendo e che ci consegna una band, i Truckfighters, che faranno di certo parlare di se in futuro! In bocca al lupo!!! PS: I Truckfighters torneranno in Italia per la presentazione ufficiale del disco a maggio.Nelle cinque date in programma saranno supportati dagli amici El-Thule (14/05 @ Bunker - Bolzano; 19/05 @ Lochness Pub - Riva Del Garda; 20/05 @ C.S.A. Officina Sociale Rebelde - Jesi; 21/05 @ Stone Age Night c/o Villa Serena - Bologna; 22/5 @ Magic World - Zanica). The Rawker
TRUCKFIGHTERS / FIRESTONE – Fuzzsplit of the century
Prima uscita in casa Fuzzorama Records, nuova ed entusiasmante etichetta svedese (di Orebro per la precisione) dedita a sonorità stoner e psych. Come debutto non poteva mancare all’appello il classico split cd, in questo caso 10 brani divisi tra due promettenti realtà del panorama stoner svedese, i Truckfighters e i Firestone. Sono i Truckfighters ad aprire le danze: si tratta di una band in giro da ormai tre anni, con all’attivo due demo, uno del 2001 (“Desert cruiser”) e uno del 2003 (“In search of the”). Il loro è un classico stoner fuzz rock di matrice kyussiana, influenzato dalla corrente svedese che fa capo a gruppi del calibro di Dozer, Demon Cleaner e The Awesome Machine. Brani come “Nitro”, “Helium 28” e “New woman” sono ricchi di fuzz e wah-wah, hanno melodie accattivanti e una carica che vi farà sobbalzare dalla poltrona sin dal primo ascolto. Pezzi diretti e compatti che viaggiano a mille e si contrappongono alle abili variazioni introdotte dall’iniziale “The special theory of realitivity” (lisergica e sghemba nel suo andamento) e dalla conclusiva “Valium”, lunga trance psichedelica che esplode in un finale tiratissimo, davvero da capogiro… I Firestone, gruppo che ha già sfornato due convincenti ep (“Mexicon” nel 2001 e “Stonebeliever” nel 2003), seguono grosso modo la scia dei compagni di split, ma a differenza dei Truckfighters limitano al massimo la parti dilatate e danno ampio spazio ad una componente rock’n’roll vicina a quanto fatto ascoltare in Scandinavia da Sunride, Rite e Zerocharisma. Qualche accenno psichedelico lo concedono solo “High ride” e il finale di “Let the sky fall” (comunque bilanciati da chitarroni sempre bene in vista), mentre i restanti brani schizzano via veloci e ficcanti, incentrati su riff e fuzz infuocati (“Code to destroy”, “Planet remover”) e melodie azzeccate (splendida quella di “Megalomania”). Ciò che manca è una certa personalità che può giungere solo con gli anni e la gavetta, per il resto entrambe le band riescono a convincere. Un plauso in particolare va infine alla Fuzzorama, nella speranza che tanto lavoro venga ripagato e non fallisca come molto spesso accade (leggi Man’s Ruin e Lunasound…). Alessandro Zoppo
TSUNAMI – Demo 2005
Quattro i brani per il presente demo CD dei romani Tsunami, formazione energica e volta ad un’interpretazione corposa e vibrante dei classici standard dello stoner (e non solo), senza il timore di aggiungere spunti interessanti, ora heavy, ora alternative, come appare chiaro subito dall’iniziale e decisamente valida “Restare a galla”. La voglia di osare e di sperimentare non manca di certo a questa formazione, a partire dalla scelta (come sempre difficile) di cantare in italiano, scelta abbracciata con successo dagli Tsunami in quanto la resa finale nell’insieme risulta più che convincente. Valida anche la qualità di registrazione dell’intero prodotto così come il livello medio qualitativo dei singoli episodi che lo compongono. Senza ripetere sterilmente la solita lezione composta da distorsioni fuzz, dilatazioni siderali e atmosfere pseudo psych, gli Tsunami si lanciano senza troppe remore alla ricerca di una propria personalità e originalità, riuscendo a non suonare scontati o, come spesso accade, derivativi. Un plauso quindi al coraggio e all’identità di questa formazione da cui è lecito aspettarsi qualcosa di più considerevole in un prossimo futuro. Witchfinder
TUMMLER – Early man
Tornano i Tummler a distanza di due anni dal primo Queen To Bishop VI. Li avevamo lasciati con uno stoner abbastanza convenzionale, li ritroviamo notevolmente cambiati ma non ancora del tutto maturi. Tecnicamente quel che colpisce dei Tummler, e che li distingue dalle tante stoner bands, è la voce profonda, un pò alla High On Fire, ma mai cavernosa o 'papale' come gli Act doom. Quel tipo di tentazione si concretizza in Planet Moai, arricchita da un inaspettato suono di mellotron. Per il resto, si fanno quadrati come degli Helmet dal sound più grasso, viziato da derive psichedeliche (Ablo) e da hot road (Shooting Blanks). Lo stucchevole strumentale hard stoner Here's To Your Destruction e le ricadute kyussiane di Lost Sense Of Cosmic fanno fare al disco dei passi indietro. I brani segnalati sono sei ma in realtà sono otto(??). A sentire la resa, è stato quasi un bene. Il primo è un inedito Dreaming Of A Real Life, il secondo è una cover dei St. Vitus War is Our Destiny che non convince per niente. Insomma, il finale ha rovinato le ottime impressioni dell'inizio. Quando un disco inizia molto bene e finisce così nell'anonimato ci si rimane davvero male, anche perchè è più difficile giungere alla fine dopo tre giri di ascolto. Francesco Imperato
TUNA DE TIERRA – EPisode I: Pilot
I Tuna de Tierra ci sanno fare. Si immergono nel proprio sound come in un rituale antico con tre sacerdoti pronti a venerare il Dio del Deserto. Il numero tre, numero della perfezione, sembra ritornare di continuo: tre gli autori, Alessio, Luciano e Jonathan; tre i pezzi che compongono questa loro prima uscita, "EPisode I: Pilot". Tre i passi per la propria espressione, con l'introduzione, lo sviluppo e la chiusura di quel concetto fantastico chiamato post stoner, che sembra tagliare trasversalmente tutte le band interessanti della nostra penisola.
Con i Tuna de Tierra siamo al cospetto di una ispirazione genuina che parte con "Red Sun" (titolo che fa venire in mente i padri fondatori del genere, chiamati in causa con un riff pachidermico dagli sviluppi inaspettati) e si procede con "Ash", dalle vaghe reminiscenze grunge, soprattutto per l'effettistica della voce che richiama gli ululati tossici del primo Mark Lanegan, in odore di Screaming Trees. Il finale spetta a "El Paso de la Tortuga", quasi un divertissement, indicativo nello spiegarci che la strada dei nostri, in futuro, potrà essere proiettata in qualunque direzione, basta seguire il proprio intuito e la propria mappa emotiva, per produrre risultati di livello. Too fast, too soon recitava uno slogan di qualche tempo fa. Proprio così. Ne vogliamo ancora di pezzi di tal fattura. Eugenio Di Giacomantonio
TUNATONES – Vulcano
Energico e sbarazzino, in perfetto accordo con il carattere più rockabilly, "Vulcano" dei Tunatones rappresenta un gioiellino sculettante per chi nel 2013 adora ancora le venature più seminali del rock. Non a caso, seppur possiamo definirlo molto generalmente un disco rockabilly, spuntano fuori limpidi richiami al surf rock e al country, lasciando tuttavia ampio spazio alla cura e alla ricchezza del suono. Eh sì, rispetto ad "iTunas", loro precedente lavoro nonché album d'esordio del 2011, "Vulcano" è suonato meglio e registrato veramente bene, oltre ad avere carattere.Il trio apre il lavoro con l'introduttiva "El Tiburon", strumentale, per poi passare subito alle carichissime "Rockin' the Highway" e "Me and My Motorbike", forse la hit più divertente del disco. "Like a Goddess" è una dovuta pausa, più tranquilla ma mai moscia, prima della strumentale ma sfrenata "Honkin' Horns", alla quale segue una vera e propria ballata, chiamata "B.F.D. - Big Fucking Deal". Ma dopo avervi fatto ballare con la ragazza più bella del liceo c'è, giustamente, bisogno di un sottofondo più sensuale, più "soft": ed ecco che arriva "Night Has Never Been", che col suo contrabbasso caldo di fraseggi mai scontati adempie alla perfezione alla necessità. Non per niente è il pezzo che colpisce maggiormente: nonostante la facciata ed il carattere sbarazzino c'è una maturità musicale di fondo difficile da trovare in una band emergente. "Take Surf" è un ulteriore pezzo strumentale, dall'appeal che non si dimentica. Stiamo giungendo alla fine del disco e gli animi sono ancora caldi, infatti la successiva "Bonneville Speed" ritorna a ritmi più movimentati e rockabilly ma con un andamento meno sbarazzino e più pacato. E qui sarebbe finito il disco se i nostri "tonni" non avessero deciso di inserirvi un ultimo divertente regalo: "Heavy Medley" è... un medley! Tre classici hard rock ed heavy metal rivisitati in chiave rockabilly, il tutto reso più divertente e fresco dalla presenza di fiati, un ultimo "tocco di stile" da parte del trio. Non lasciatevi scappare un'ottima colonna sonora estiva se siete dei folli festaioli! Gianmarco Morea
TURBOMATT – Own Demon
Turbo Mark on drums, Turbo Fra on bass, Turbo Ex on guitar. Turbomatt. Ovvero: come imparai a non preoccuparmi e ad amare la psichedelia. Stavolta niente maniaci del surf né sonni da vino rosso. È il demone interiore, "Own Demom", il vero protagonista del secondo disco del gruppo abruzzese, fuori dopo il debutto omonimo del 2009. L'impasto sonoro è come sempre dei migliori: psych rock che va a braccetto con il boogie'n'roll, garage fosco e plumbeo che si tinge di stoner e minimalismo. Suoni pieni e al tempo stesso scarnificati, perché l'assioma base è identico a sé stesso, è l'eterno ritorno: far fluire la musica per quello che è.Ecco allora i consueti giri melanconici e sognanti (l'inno alle MILF e alle big boobs di "Squirt Queen", la voluttuosa title track, la dissacrante "Saint's Bones"), i riff cattivi che ti restano marchiati a fuoco nel cervello ("SC"). Momenti stranianti, cibernetici e piuttosto cupi (il wah wah ossessivo di "1976" ha tutto un suo perché, come il loop magnetico di "Autoclone"), assolati stati morriconiani fusi con delizie tex mex ("Shelbiville", la bellissima e iper acida "Borrelli's Mule"). La psichedelia non deve mai mancare da tavola, ci pensano quindi "Wind Meadow" e "Sweet Return" (con tanto di "freaks" in appendice) a donarci la doverosa dote di dilatazione e mestizia. Quella malinconia pura, sana, che fa esplodere con necessità il nostro ego. Un bastimento carico per chi si ciba di Yawning Man, Ché e Ten East. Tutti gli altri potranno scoprire un magnifico universo in bianco e nero, tanto retrò ed eccitante da lasciare a bocca aperta. E occhi chiusi naturalmente, per guardarsi indietro e generare nuova carne. Alessandro Zoppo
TURBOMATT – Turbomatt
Boogie'n'roll selvaggio, rilassanti atmosfere lounge psych, beat elegante e garage grezzo. Con rimandi cinematografici che vanno da King Kong a Freaks e Georges Méliès. Questi sono i Turbomatt, trio strumentale che suona come un gruppo punk con la testa negli anni 20. Fano Adriano è la base, laghi profondi e deserti sconfinati la meta. Basta una chitarra, quella scarna ed essenziale di Turbo Ex. Poco fumo e molta sostanza, i riff giusti al punto giusto, solo il wah wah per dare profondità ed emozione. Il basso di Turbo Fra è un'altra arma vincente, carico com'è di groove e passione, degno compare della batteria precisa e 'stilosa' di Turbo Mark.Disco di debutto autoprodotto composto da dieci pezzi che sono l'attraversata dello spazio profondo. Dalle atmosfere stile Yawning Man e Ché di "United" e "Springfield" si passa con agilità ad episodi boogie diretti e aspri come "Surf Maniacs" e "Boogie Woogie". "Black Vein" è un gioiello di cupa e oscura lucentezza, "Turbomatt" e "Sleep Red Wine" suonano come tutto ciò che ha circumnavigato l'universo Kyuss, dai lavori solisti di Brant Bjork ai Ten East di Gary Arce, Mario Lalli e Scott Reeder. Il piacere della jam e la materializzazione di dune che si perdono in un cielo blu cobalto. "Deep End" tende verso la psichedelia heavy con riff e svisate acide che rapiscono sin dal primo ascolto; "Astroman" lambisce lo stoner con il suo incedere ipnotico e le sue meravigliose aperture aggressive; la conclusiva "Baby", con tanto di traccia nascosta, è il temporale estivo che ricarica l'animo di malinconia. Da Ex e Mahatma a Turbomatt il passo è breve. E ha la forma bizzarra di una macchina del tempo, di una buccia di banana sulla quale scivolare, di una torta in faccia, di Arjumand Banu che danza sensuale ed erotica tra i suoi serpenti. Solo per oggi, in bianco e nero, per la prima volta al cinematografo. Alessandro Zoppo
TWIN EARTH – South of the border
Con l’esordio “Black stars in a silver sky” i Twin Earth avevano convinto molti, tra addetti ai lavori e appassionati dello stoner. Ora, a quattro anni di distanza da quel lavoro che metteva in evidenza una predilezione per le sonorità di Kyuss e Monster Magnet, i tre svedesi tornano tra noi con il secondo capitolo della loro vita artistica. “South of the border” evidenzia una netta apertura di campo compositivo: maggiore spazio alla melodia e brani più brevi e ragionati, come lo stile creato e portato al successo dai Queens Of The Stone Age sta imponendo a chi vuole tirarsi fuori dal giro post Kyuss. Tuttavia l’innovazione lascia minori segni rispetto all’adozione devota dei canoni del genere. E questo non è necessariamente un male. Soprattutto perché i Twin Earth inondano le nostre orecchie con uno stoner rock indiavolato, una continua eruzione di fuzz e wah-wah che non lascia prigionieri. Non siamo certo al cospetto di un disco originale o altamente essenziale. Ma sapete una cosa? Chi se ne frega! Qui quello che conta è la potenza ed il trio ne dispensa in ampie dosi. Le melodie avvolgenti (perfette da canticchiare sotto la doccia…) di “Holy water”, “Black band”, “Run faster” e della title track sono emblematiche del mood che permea l’intero disco. Chitarroni circolari, assoli fulminanti (la prestazione di Oscar e John è da incorniciare), ritmiche secche e vocals coinvolgenti. Una base solida su cui costruire efficaci variazioni sul tema come “Cool song” (heavy psych da alterazione cerebrale), “Profound” (ballad soleggiata di ispirazione desertica) e “Let’s move” (chiusura strumentale da capogiro). Purtroppo l’unico difetto del disco (la materia sonora è sempre la stessa) si rivela una strettissima camicia di forza e ne limiterà la diffusione. Detto questo, “South of the border” rimane un ottimo disco, purtroppo destinato esclusivamente a chi vive cibandosi di questo tipo di sonorità. Alessandro Zoppo
TWINGIANT – Devil Down
Lo scorso anno o giù di lì, ho recensito il secondo lavoro dei Twingiant, band di Phoenix dal gusto musicale heavy e caldo che incrocia metal, southern rock e blues in un mix sorprendentemente gradevole. Mi trovo di nuovo di fronte a un album ben fatto, "Devil Down", un ottimo esempio di lo-fi fatto con cognizione (nelle ultime settimane alcune uscite importanti mi fanno sentire il bisogno di calcare la mano sul concetto stesso di lo-fi, vista la sbandata "accazzo" che il termine sta prendendo). L'impegno e l'accuratezza sono percepibili tra le file delle 7 tracce del lavoro. "Daisy Cutter" rispecchia personalmente al meglio lo schema generale del suono dei Twingiant. Quella mistura calda e vintage con accenti pesanti e rudi che marchiano il prodotto finale come qualcosa di strettamente personale. Una nota di merito inoltre va alla grafica e all'onomastica generale. Ogni titolo infatti è come un nome proprio che rispecchia al meglio in quest'ottica "animista" la personalità della canzone.Ben fatto ragazzi, ben fatto. In fede, S.H. Palmer I reviewed already the sophomore from Twingiant, last year ("Sin Nombre"). Then I received a red cassette, and it was fuckin' amazing. "Devil Down" is the new album released by this Arizona based band, made up of 7 heavy, slow, rough tracks. I was thinking last week about the concept of lo-fi. And maybe this is the right example for me to explain the matter. Twingiant's work is lo-fi, in the better meaning of the word. I can hear, clearly, the attention and the diligence in those properly southern-flavoured stoner cherries. The taste of the members is always good, and in my opinion it sounds much better than SN, even if always in the underground scale of the term. "Daisy Cutter" is my favourite "number," which reminds me also some dirty fuzzy 90's precious memories. Among the songs run and snakes a certain sense of obsession. Lovely soundtrack for my Edgar Allan Poe evenings, "Devil Down" deserves a special spot between the lines of musical genres – crossing metal, blues and hard rock suspicions it has a proper way to draw the conceptual rite consumed between the red of those lines and the black of those hearts. Well done guys, well done! Faithfully yours, S.H. Palmer
TWINGIANT – Sin Nombre
Sto cercando di capire "Sin Nombre", l'EP dei Twingiant. Non è una frase negativa, la mia. Cinque canzoni che tagliano in obliquo tutta la tradizione musicale heavy anglo-americana. La voce tipicamente death old school (alla Obituary, per intenderci, o meglio alla Obituary live dove tutto diventa più lento e cadenzato) strattona indietro nel tempo ogni singolo brano del disco. Nella biografia c'è scritto che la band si è formata nel 2010, ma non sono convinta. Il groove è troppo pieno, il suono è massiccio e non posso immaginare siano dei novellini. Probabilmente – e io questo non lo so, da buon giudice imparziale – hanno suonato in altre formazioni prima. Sicuramente hanno già un curriculum live di tutto rispetto, essendo saliti sul palco accanto a St. Vitus, Church of Misery, Pallbearer, Danava e ancora qualche manciata di nomi – quelli essenziali. Si danno da fare i Twingiant di Phoenix (auto-prodotti/auto-finanziati) e riescono a tenere caldo l'ambiente con una serie di progetti in pentola. Sto cercando di capire meglio "Sin Nombre", dopo essere arrivata al nocciolo della questione: le influenze di questo magma pesante e lento, sono quelle principali del rock e del punk: dal punk, faccio (derivare con licenza poetica) anche il death metal – ovviamente. Potenza spalmata senza pietà: come uno strato di catrame caldo, che sporca e rallenta il traffico sonoro. I richiami ai Settanta sono evidenti, e ben assestati. Le tracce propongono più o meno consciamente un climax interno al lavoro. Non voglio nominare altre band simili ai Twingiant. Sicuramente ce ne sono a bizzeffe, ma non ho bisogno di questo per comprendere un EP completo e massiccio come questo: sì, il termine esatto è "massiccio". Mescolando le atmosfere martellanti proprie del metal americano con un gusto un po' europeo nella scelta del suono, i Twingiant si guadagnano ancora una volta la promozione.   S.H. Palmer  
Twingiant – Blood Feud
Non è molto semplice digerire questo cambio di rotta della band americana Twingiant, di cui abbiamo già recensito ben due lavori, Sin Nombre (2013) e Devil Down (2014). Le otto tracce questa volta non evocano fumosi giganti dal passo pesante nel deserto, che alzano polvere mentre avanzano. Proprio per niente. Questa è una considerazione di per sé neutrale. Questo album non è meglio o peggio degli altri, è altro. Quanto death metal c'è nel background culturale dei Twingiant è dimostrato ampiamente in Blood Feud: seguendo una tradizione tutta americana influenze di Obituary e Death (Throttled e Ride the Gun) e dell'heavy metal classico (Shadow of South Mountain) sono ben strutturate in modo da risultare omogenee e paradossalmente gradevoli all'orecchio . Ogni pezzo incede lento e heavy nel senso più crudo del termine. Di poche parole, come sempre, i ragazzi di Phoenix si esprimono al meglio nelle parti strumentali cicliche e martellanti – anche se producono una litania diversa da quella a cui siamo abituati negli ultimi anni. Kaishakunin è il mio pezzo preferito, l'ultimo in ordine numerico. E non solo perché il boia sussurra e agonizza con l'ascoltatore. Trovo questa traccia la più d'atmosfera dell'album, quella che racchiude l'essenza dell'album stesso: contaminazione melodica, growl e atmosfere sinistre che sono la marcia in più di questo cambio di rotta della band che sembra aver trovato una valvola di sfogo (stilisticamente parlando) nuova e un approccio creativo molto interessante. Nailed it guys! https://www.youtube.com/watch?v=DPW7zyT04ZA S.H. Palmer  
TYPE O’ NEGATIVE – Dead Again
Sgombriamo immediatamente il campo da ogni pensiero o equivoco: “Dead again” è un album dei Type O’ Negative, punto e basta. Ci sono stati commenti non proprio positivi su questo disco, recensioni che hanno tacciato i Types di immobilismo; in parte è così, ma, rimanendo in campo gothic metal, vi sembra che band come Paradise Lost, My Dying Bride, Moonspell e Katatonia stiano pubblicando album diversi dai precedenti? Detto questo, è innegabile che “Dead again” ripresenti il quartetto di Brooklyn esattamente da dove terminavano i passati lavori, ricalcandone né più né meno le coordinate; i Types sembrano infatti godere nel crogiolarsi nel loro inconfondibile stile. Rispetto al recente passato la sorpresa può essere magari un’accentuata vena aggressiva, con canzoni dotate di un ‘tiro’ che rimanda agli esordi della band (“Halloween in heaven” e “Some stupid tomorrow” su tutte). Per il resto è tutta un’esibizione delle caratteristiche che hanno fatto la fortuna (stilistica ed economica) del gruppo: lugubri porzioni doom, melodiche atmosfere dal gusto romantico e il fondamentale apporto della voce di Pete, che gioca a passare da toni baritonali e parti aggressive a dolcissime nenie sussurrate.Nonostante “Dead again” sia forse il disco più dinamico composto dai Types da lungo tempo a questa parte, è difficile arrivare fino in fondo senza provare almeno un pizzico di noia (e ciò suona come un controsenso, vero?). Alcuni brani (su tutti “These three things” – che tra l’altro presenta lo stesso identico riff utilizzato nella parte centrale della passata “World coming down”) si adagiano eccessivamente su tempi “allungati” e ripetuti all’inverosimile; “These three things” dura un quarto d’ora, ma ciò che dice nei suoi 15 minuti poteva esprimerlo nella metà del tempo… capito il senso? Di contro, non mancano le belle canzoni, come la tenebrosa “The profits of doom” (forse la migliore dell’album), la romantica ballata elettrica “September sun” e la drammatica “She burned me down”, pezzi che riusciranno ad emozionare i fan della band, forti del nero appeal che trasuda dalle loro note. La conclusiva “Hail and farewell to Britain” (una cavalcata gothic/doom, che rimanda alle mitiche “Christian woman” e “Black n° 1”) presenta poi una coda finale dotata di un refrain ipnotico dal gusto dolce/amaro che si vorrebbe ascoltare all’infinito. Il gruppo è capace di scrivere ancora canzoni memorabili, ma appare ormai evidente che due dischi come “Blody kisses” e “October urst” siano capitoli irripetibili nella discografia della band. Gli appassionati godranno di questo nuovo tassello che si attesta su livelli sempre più che discreti e propone ciò che tutti gli adoratori dei Types avrebbero voluto ascoltare. La classe è cristallina e non si discute, ma “Dead again” suona fondamentalmente come un disco di “mestiere”. Fra quattro anni staremo commentando il loro nuovo album con le stesse valutazioni utilizzate per questo. Marco Cavallini

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