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!GATO DE MARMO! – Demo EP
Una intro art-rock con voce femminile presenta l’omonimo, lunghissimo EP dei Gato de Marmo (46 minuti), viaggio di esplorazione nei cinque sensi umani resi in musica per mezzo della psichedelia a 360° (mathcore, shoegaze, kraut, space rock…) e un approccio poetico alle scienze fisiche. Capirete che si tratta di un intento tanto ambizioso quanto arduo da raggiungere, che facilmente può condurre a paradossi e calcoli strumentali irrisolvibili. Nota di merito dei Gato di Marmo è di restare concreti nella vastità della proposta: ad esempio l’incipit delle tastiere kraut di “Shady Vacuum” apre le porte ad un complesso brano di psichedelia crepuscolare frammezzato da evocazioni post-rock e fantasmi wave, che si ingrossano su bridge di diversa natura (psych, grunge, addirittura emo…). Bisogna ascoltarlo parecchie volte questo brano per entrarci compiutamente: la tecnica dei nostri è più che discreta, emerge gradualmente dalla registrazione rigorosamente underground (ma ben nitida), e soprattutto l’inventiva è molto buona, ed è probabile che con studi di incisione all’altezza potrebbe rappresentare una specie di manifesto del loro sound. Una concezione analoga a “Lead and Blades”, anche se a mio avviso qui le rarefatte atmosfere tooliane adagiate su noise e dark rock raggiungono effetti meno incisivi, o quanto meno discontinui. Anche lo shoegaze post psichedelico di “Glass Eye” è di discreta fattura (soprattutto grazie ai riusciti interventi di synth e theremin), mentre il livello si rialza col tour de force di “Vanja’s Death”: scheletrica space-psichedelia, bordate fuzz alla Biblical Proof of Ufo’s, minimalismo catalettico e consuete (per il gruppo) sospensioni post-dark …In definitiva un esordio positivo, penalizzato dalla difficoltà della materia trattata, che richiede padronanza assoluta.. I punti di forza per ora risiedono nelle fasi iterative/liturgiche che fungono da pendolo ipnotico (valide le vocals di Gianluca in questo contesto) e nelle scintille minimaliste che supportano razionalmente i lunghi brani. Roberto Mattei
(ALL MY FRIENDZ ARE) DEAD – Five Songs
Doris Day ubriaca al piano, canta una canzone e ingaggia una lotta ballerina con Charles (S)bronson. È questo l’immaginario malsano degli (All My Friendz Are) Dead, succursale maledetta di vecchi progetti come Hozpital, All the Shit’s Holes e Too Mera B. (alzi la mano chi se li ricorda). Provenienza Reggio Calabria, partecipazione al 20 per centro di FranTz (voce), Succo (batteria), MeltedMan (basso), Gicass (chitarra) e El Pez (chitarra). Influenze musicali? Il suono di una Jaguar del ’62. Per dirla con altre parole, immaginate The Cramps e The Fuzztones che inneggiano agli Stooges sotto l’egida protettiva di The Ventures e The Kingsmen. Non male vero? Li vedremmo bene in tour alcolico con The Ultra Twist, Funny Dunny e The Sick Rose. Cinque brani sono pochi, per altro con una registrazione non certo sfavillante. L’impasto sporco tra surf, rock’n’roll, punk e garage però funziona. “What Madonna You Want?” ha un titolo geniale e un andamento demoniaco. Chitarre scarne, ritmiche che picchiano selvagge, la voce di FranTz a vomitarci addosso storie di disordine e maleducazione (eloquente “Piss in the Bottle”). “Charles Sbronzon” riporta ai tempi dei Too Mera B., riff cavernoso e dinamiche heavy psych. “Beware of the Totem” e “December of ‘62” pongono sigillo conclusivo al viaggio, brani da due minuti secchi di elettricità e adrenalina, per riuscire a cavalcare l’onda giusta. I tempi per il disco di debutto sono maturi. E mi raccomando, attenti al totem!   Alessandro Zoppo  
ØRESUND SPACE COLLECTIVE – Music for Pogonologists
Lasciate dietro di voi le ansie e le preoccupazioni. State entrando nel mondo degli Øresund Space Collective, dove lo spazio e il tempo hanno diverso significato e troverete magnifiche gemme di acido sonoro. Il trucco è sempre quello: entrare in sala di registrazione con la mente libera e lasciarsi andare al flusso delle emozioni. Assumete qualunque droga. Vanno bene tutte. Per ognuna, la musica del collettivo (sette persone sette!), troverà il collegamento giusto per farvi vivere un'esperienza primitiva. Otto pezzi, due CD, oltre due ore di musica. Come 10 album di qualsiasi punk band. "Music for Pogonologists" si presenta così: mastodontico e non proprio per tutti i palati, ma chi si avventurerà alla scoperta del monolite troverà grandi soddisfazioni. Come in "Ziggurat of the Beards", dove l'iniziale tappeto gentile va crescendo via via, portandoci dritti ad un finale al cospetto delle porte di Orione. Altre cose sono più delicate e sfiorano quasi l'aritmia jazz ("Bearded Brothers", "Barbooonsciousness") ma il concetto dell'album è qualcosa di prossimo alle scoperte di 35007, Gong, Colour Haze, Grateful Dead, Hawkwind e a tutte quelle band che hanno fatto dell'espressione musicale qualcosa di veramente libro da schemi.
Il problema dell'autocompiacimento e dell'onanismo strumentale è dietro l'angolo, ma gli Øresund Space Collective lo smarcano di lato proprio nella qualità che mettono nella composizione e nel tocco nell'esecuzione. Raramente si è sentito qualcosa di così lungo (la titletrack ha minutaggio di trentaquattro primi e cinquantatre secondi!) che non venga ingrigito dalla noia. Ma così è. Ovviamente qualcosa risulta stereotipato (la sottrazione degli strumenti nel mezzo della composizione) ma è un elemento organico del suonare. È inimmaginabile portare un riff al minutaggio alto senza il saliscendi degli arrangiamenti. E a loro riesce particolarmente bene. Giunti al termine del viaggio, nella capsula della decompressione, emerge spontaneo un quesito marzulliano: "Ma chi diavolo sono questi Pogonoligi? E soprattutto, sono sogni o la nostra vita è un sogno?". Eugenio Di Giacomantonio
ØRESUND SPACE COLLECTIVE – Organic Earthly Floatation
Attivi dal 2005 e con caterve di dischi alle spalle (ad oggi se ne contano ben 16 ufficiali, senza considerare i vari live album), Øresund Space Collective è il concetto di massima potenza applicato allo space rock. Collettivo guidato dal guru dello spazio Scott Heller, la formazione include musicisti danesi e svedesi alle prese con una formula musicale totalmente improvvisata, che sgorga dal cuore per confluire nelle immense distese dell'universo. "Organic Earthly Floatation" è l'uscita numero 6 (!) del 2013, primo full length vero e proprio dopo "The Black Tomato". Per l'occasione la band si presenta in line up di lusso. Mogens e Scott "DR. Space" ai sintetizzatori; Kristoffer (batteria), Nicklas (chitarra) e Christian (basso) direttamente dai magici Papir (per chi non l'avesse ancora fatto, recuperare l'esordio omonimo, "Stundum" e il recente "III"); Pär (Sgt. Sunshine, Carpet Knights, Hoofoot) al basso e il chitarrista statunitense Daniel Lars, per la prima volta in trasferta danese.
Registrato ai Black Tornado Studios di Copehagen nell'aprile 2012, mixato da Lars e masterizzato da Johan Dahlström, "Organic Earthly Floatation" – concetto visivamente espresso in copertina dall'artista finaldese Eetu Pellonpåå – è puro ed incontaminato space rock. Roba d'altri tempi, verrebbe da dire. Ma come non restare ammaliati dinanzi ad una passione così profonda. Le quattro composizioni che formano il disco sono un trip comodo e sognante tra stelle, gas e polveri. Le linee di chitarra di Daniel e Nicklas formano scie che si sciolgono letteralmente nell'atmosfera. L'arpeggio liquido che apre "Walking on Clouds" – subito spinto nell'ignoto spazio profondo da synth siderali – ne è la riprova. La composizione (divisa in due parti) è un monolite di 25 minuti, versione a dir poco psichedelica di un classico tradizionale danese. C'è tanta grazia nell'animo di questi musicisti che navigano nella lingua di mare di Øresund, nella contemplazione di una Natura altra. Paesaggi che diventano lunari in "Carlos on the Moon" – altri 17 fantastici minuti – e totalmente astratti in "Neptune Rising", meta d'arrivo di un viaggio di consapevolezza. La materia si è dissolta per lasciar posto allo spirito, ai sogni, alle sensazioni.
Chi cerca innovazione resti lontano da "Organic Earthly Floatation". Chi abbraccia metamorfosi e superamento, lo accolga a orecchie spalancate. This is totally improvised space rock, baby! Alessandro Zoppo
ØRESUND SPACE COLLECTIVE – Øresund Space Collective
Un tuffo negli spazi siderali. È questo ciò che vi aspetta non appena il disco d’esordio del collettivo Øresund Space Collective entrerà nel vostro lettore. Note cosmiche inizieranno a fluire indisturbate, la vostra mente si aprirà su luoghi fantastici e incredibili, tra campi magnetici e galassie sconfinate. Tutto ciò grazie a Magnus (chitarre, synth), Sebastian (chitarra), Dave (basso), Michael (basso), Scott (synth), Ola (fender rhodes, synth), Mogens (synth) e Sǿren (batteria). Otto grandi musicisti (danesi, svedesi e americani) che militano o hanno militano in gruppi del calibro di Mantric Muse, Gas Giant, Pseudo Sun, Nadir, Derango, Kaabel e Bland Bladen (e che occasionalmente sono affiancati da altri menestrelli interplanetari di band come Sgt. Sunshine, Mother Superior, Black Hole e Carpet Knights).L’ora abbondante di questo cd è frutto di una jam completamente improvvisata e a quanto pare la band ha ancora ore e ore di materiale da pubblicare. Per ora ci accontentiamo di questo album e godiamo in pieno delle divagazioni che nel nome di Hawkwind, Tangerine Dream, Can, Gong, Ozric Tentacles e 35007 il collettivo elabora. “Faked it all the way” apre il rituale con dei synth super spaziali degni del miglior Klaus Schulze, seguiti dalla cavalcata psichedelica di “Consumed by the Goblin”, un dedalo di ritmiche elettrizzanti, organo, sintetizzatori, chitarre liquide e un morbido piano fender. Le atmosfere ariose di “OSC Bolero” (odore di spezie orientali e umori provenienti da paesi lontani) preparano a “Falling stardrops”, 15 minuti di sublime psichedelia, in questo caso con vocals in loop che rendono ancora più straniante e visionario l’ascolto. “Grab a cab” è un impasto lisergico di space rock, progressive e dub di chiara matrice Ozric, “Moonhead” è un breve intermezzo che ci fa approdare alla conclusiva “Sundown”, lunga astrazione ambient cosmo kraut durante la quale si ha davvero la netta sensazione di perdere il senso del tempo. D’altronde basta seguire il consiglio riportato nel booklet: this is a headphone cd. Listen, relax, enjoy… Alessandro Zoppo
ØRESUND SPACE COLLECTIVE WITH DAMO SUZUKI – Damo Susuki møder ØSC
Flutti di maree acide e orizzonte oltre la quarta dimensione. Con una discografia prossima a quella dell'opera omnia di Arturo Toscanini (ma a pensarci bene anche a degli Acid Mothers Temple, per dire) torna l'ensemble Øresund Space Collective in combutta con Damo Suzuki. Irriducibili freak innamorati di Can (gruppo d'origine del buon Damo agli inizi degli anni Settanta), Neu, Faust, Guru Guru i primi, sperimentatore d'avanguardia il secondo. Dall'incesto nascono frutti polposi come l'iniziale "Damo's første ØSC Flyvtur", ventitre minuti ventitre che forse neanche l'ultimo album completo degli Off! dura tanto. Ma neanche le seguenti canzoni scendono sotto al numero venti di minutaggio, tranne in un paio d'occasioni in cui i nostri "sintetizzano" il "Damo's første ØSC Flyvtur" in due episodi da circa un quarto d'ora ognuno. D'altra parte non si possono imprigionare i flussi di coscienza dentro scatole da tre minuti e mezzo, quindi avanti, si parte per un viaggio che ci porta fuori dal nostro corpo. Evidente è che mr. Suzuki è un predicatore. Una sorta di Allen Ginsberg allenato al potere della parola, usata come alimento dell'anima, che si manifesta in corso d'opera, in evoluzione, in continua compartecipazione di quello che succede ora. La vocalità, lo strumento che può trascendere dal significato perché appartiene propriamente all'uomo e in quanto tale lo rende riconoscibile, crea il vertice emotivo delle composizioni. Di fianco e non sotto, i musicisti improvvisano. Di fianco e non sopra, Damo improvvisa. Ascoltiamo ciò che i nostri hanno fatto il giorno di San Valentino del 2013, salendo sopra un palco, suonando il proprio strumento. Precisamente in quell'ordine. Esattamente nel modo in cui quello che hanno appena prodotto influenzerà quello che deve venire. E così saliamo e scendiamo con le pulsazioni di basso, strumento in bell'evidenza, e tentenniamo nelle sospensioni generate da ciò che Dik Mik degli Hawkwind chiamava Audio Generator and Elettronics. La chitarra (in molte circostanze c'è Nicklas dei jazz/prog/psych masters Papir) è talmente elegante che non spezza mai il continuum del parlato, ma l'incoraggia e lo rafforza. Altra curiosità è che nei centoventiquattro minuti totali dell'album (triplo vinile su Clearspot e Shappire Records) gli elementi della band ruotano in modo tale da non escludere nessuno dal giardino dell'Eden creato da Damo. E lui, un giapponese di sessantatre anni, sempre lì, fisso, un monolite a disposizione del verbo, involto dentro una nube di vocals deelay e riverberi. Sarà forse per la giornata particolare ma eventi come questo sono veri e propri atti d'amore verso lo spirito primigenio della musica: consolare gli inconsolabili. Peace. Eugenio Di Giacomantonio

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