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A Violet Pine – Girl
La nuova "ragazza" del "pino viola" ha la pelle morbida e movenze sensuali. Promosso dalla partenopea Seahorse Recordings, "Girl" è il progetto che coinvolge Beppe Procida (voce e chitarra), Paolo Ormas (batteria e sequencer) e Pasquale Ragnatela (basso, pianoforte, voce). La combinazione di sonorità trip-hop, new wave e synth pop caratterizza la prima di A Violet Pine, seguendo a distanza i movimenti di band come Massive Attack, Radiohead, Depeche Mode e The Good Machine. Senza indugi ci si immerge nel vortice magnetico di "Pathetic", traccia d'apertura rivelatrice di un sound fino ad ora misterioso che, introduce alla title track, scelta come punto di forza del disco e come protagonista di un enigmatico videoclip, girato e prodotto dalla Rumax Filmakers. Si prosegue con "Even If It Rains" e si passa per "And Them", due brani che sfilano in sordina esaltando perciò il cambio di marcia, tutto folk, di "Family". "25 mg of Happiness" rianima la vena trip-hop dei nostri, per poi fluttuare verso la suadente "Sleep", vero e proprio confronto diretto con la band di Thom Yorke e compagni. "Sam" e i suoi incalzanti accordi di piano, lentamente si inoltrano su vie melodiche dove l'elettronica diventa padrona, arrivando ad osare come mai aveva fatto fin'ora. I ritmi diventano frenetici, il tribalismo esplode. In fine i quasi sette minuti di "Fragile", in un lento crescendo, introducono verso "Pop Song for Nice People", traccia di chiusura del disco. Onore al merito ai A Violet Pine che, senza lasciarsi sviare dalle pesanti influenze, hanno realizzato un disco di spessore dalle qualità indiscusse. Buona la prima! https://www.youtube.com/watch?v=m-QRPEkf1Ms

Enrico Caselli

A Violet Pine – Turtles
Devono aver avuto una profonda fascinazione per Trent Reznor e certo crossover della seconda metà degli anni Ottanta gli A Violet Pine, trio proveniente da Trani, Puglia. Il loro secondo disco, "Turtles", si presenta con una veste nero pece dove l'ambiente scelto per esercitare la propria scrittura creativa è tappezzato di icone dark wave (Christian Death, Death in June, Siouxie) e ha l'odore acre di certe bettole post metal (Tool, Type O Negative e, appunto, Nine Inch Nails) dove si allungano figure attoriali lente e tenebrose. La trama è la stessa di film densi come "The Antichrist", "Requiem for a Dream" o "Rosemary's Baby": una sottile linea nera che mette paura. No lights, no future. Beppe, Pasquale e Paolo hanno dato alle stampe un album solido, costruito intorno alle intuizioni chitarristiche ed inspessito dal magma di una sezione ritmica degno di Cure e Sisters of Mercy. Certo, gli inserimenti ambient/synth (vedi "Bright", ma il concetto è più o meno esteso in tutti i pezzi) cercano di allargare lo spettro delle influenze e ci riescono, portando il risultato a casa anche in trasferta post rock. Ma il primo amore non si scorda mai e, pur con altre relazioni in corso, il cuore sa dove battere ("New Gloves" – a proposito: omaggio alla strana e fantastica creatura messa in piedi da Robert Smith e Steve Severin nel 1983?). Sta di fatto che alla fine del viaggio ci sembra di avere un amico in più. Un amico strano, sinistro, quasi antipatico ma che alla fine ci cattura sempre. https://www.youtube.com/watch?v=qod0IUxuYs0

Eugenio Di Giacomantonio

A Violet Pine – Again
Tornano ispessiti ed incazzati gli A Violet Pine con il nuovissimo Again. Sarà stato il cambio di line-up o la stasi di quattro anni dall’ultimo Turtles, ma nel suono di questa nuova formazione si sente una voglia di riscatto, di mutazione. Le chitarre e la produzione, è vero, si sono fatte più hard, ma il cuore batte tutto là, nella New Wave dei primi Ottanta, con le melodie di tenebra e lo sguardo appannato, come nel finale trascinante di Interstellar Love, dove Giuseppe infila una linea vocale da alzare la pelle. C’è la psichedelia tetra in Run Dog, Run!, un mix tra agghiacciati Mission e fendenti acidi alla Godspeed You! Black Emperor, ripresi anche nella title track. A questo punto è chiara una cosa: la bravura compositiva dei nostri è il vero plus che li distingue. Non sappiamo come nascano i loro pezzi, ma dobbiamo ammettere che quando le intenzioni dei nostri si fondono, riescono ad entrare nell'anima dell’ascoltatore. Un passo avanti notevole dai tempi di Girl. When Boys Steal Candles è Pelican, True Widow, Grails, Friend of Dean Martinez in un colpo solo e Black Lips non c’entra niente con l’omonimo gruppo garage di Atlanta, mostrando il lato cantautoriale della faccenda. Il disco si chiude con Monster (minimale e marziale, in odore alternative) e Z00, cavalcata ipnotica, libera e strumentale, densa come una notte senza luce. Un finale che arriva dopo una mezz’oretta abbondante che ci lascia un gradito gusto di cose genuine nella memoria. https://www.youtube.com/watch?v=K19aGqjq-rU Eugenio Di Giacomantonio
A Violet Pine – Crown Shyness
Sono un gruppo denso A Violet Pine. Qualcuno potrebbe dire gothic o addirittura new wave. In realtà, sono una band esistenziale, un po' come i primi registi francesi della Nouvelle Vague. Certo, potrebbero piacere a quei giovani emo con il ciuffo davanti agli occhi (ma esistono ancora?), eppure si tratta di una band rock a lungo raggio con una definizione delle liriche superiore alla media. Al quarto album in studio intitolato “Crown Shyness” e arrivato dopo “Girl”, “Turtles” ed “Again”, A Violet Pine mostrano la loro parte più epica, come se l’esperienza delle proprie vite avesse creato l’urgenza di un disco vero e diretto. Ai pezzi più rudi come “Rust” (una robusta deflagrazione che potrebbe ricordare i Tool), “Heaven in My Desire” (siamo su un grunge disperato e tiratissimo, ma non senza parti toccanti), “Am I There?” (se fossimo negli anni Novanta la definiremmo indie rock), fanno da controparte delicate digressione interiori ed emotive come “Us”, momento di leggerezza e soavità, e “Buildings”, una canzone non priva di carattere, nata intorno ai migliori Smashing Pumpkins. La strumentale “Moz #” (non crediamo sia un riferimento al buon Morrissey, o no?) sfrutta un’idea geniale sulle sei corde, mentre “All These Ghosts” chiude “Crown Shyness” con un crescendo tra gli Swans e i Godspeed You! Black Emperor. Difficile immaginare che dietro questo trio ci sia il cosmonauta Paolo Ormas dei Rainbow Bridge (gruppo che definire discepolo della Experience di Jimi Hendrix è un puro eufemismo) ma tant’è: la paletta espressiva dell’underground rock e dei suoi esponenti non si pone limiti di sorta. Il disco è come al solito autoprodotto ed è disponibile su Bandcamp.

Eugenio Di Giacomantonio

AA.VV. – 7 Inches of nefarious rock n’roll
Interessante operazione quella dell’etichetta americana Scatboy Records: assemblare e proporre in un intrigante 7” quattro tra le più interessanti realtà del panorama punk’n’roll underground. E fa piacere notare come tra le band presenti tre siano nel North Carolina (stessa zona della label) e una sia italiana, i Greedy Mistress di Milano (tra i membri ex componenti dei Long Dong Silver).Proprio il quartetto si mette in luce con “Latex way”, brano che è anche il migliore dell’intero lotto. Non lo diciamo per campanilismo ma semplicemente perché il loro incrocio di punk/hc (Black Flag e Circle Jerks insegnano) e ultra heavy rock’n’roll (la lezione di Motorhead, AC/DC e GG Allin è fondamentale) picchia che è un piacere. Condividono il lato dei milanesi gli A-Priori, crust punk violentissimo sintetizzabile nel loro motto “Christianity should have died with Christ”. Il lato A vede invece la partecipazione dei The Dead Kings, simpatici punk glamsters che ci deliziano con il rock’n’roll colorato e incandescente di “Liver die”. A far loro da compagni The Aggro-Vators, anche in questo caso punk e hc in stile Black Flag/AntiSocial ma sottolineato dalla voce di Rhonda che rimanda inevitabilmente alle sonorità di Vice Squad e dei primi Jingo De Lunch. Alessandro Zoppo
AA.VV. – Abdullah/Dragonauta – Astroqueen/Buffalo Split Cds
Torna a farsi viva l'agguerrita indie argentina Dias de Garage, questa volta con due split cd che rilanciano quattro band del panorama stoner doom veramente interessanti. Il primo disco è diviso tra Abdullah e Dragonauta, il secondo tra Astroqueen e Buffalo.Partiamo con il lavoro che vede protagonisti gli americani Abdullah (di Cleveland per la precisione) e gli argentini Dragonauta. Due nomi che tutti gli appassionati di doom avranno già segnato nel proprio taccuino, vista l'elevata caratura dei gruppi in questione. Gli Abdullah vengono infatti dal clamore di un bellissimo album quale "Graveyard poetry" e dal leggero cambio di direzione stilistica impartito con l'ep del 2003 "Glisten". Mutazione sonora che si riscontra anche nei sei pezzi presenti in questo split. Viene accantonato quell'ibrido di doom e NWOBHM che caratterizzava "Graveyard poetry" in favore di un sound più sfaccettato, multiforme, che da una parte ("Seven doors", "Brightest day") si apre a sorprendenti influenze gothic dark (vengono in mente Moonspell e Type 0 Negative, riletti in una chiave più "grassa"), dall'altra mantiene ferma la propria identità doom (bellissime le melodie decadenti e i riff arcigni di "Grey sky faith" e della superlativa "With guilt"). L'esperimento risulta spiazzante (anche nell'hardcore di derivazione Misfits di "Killing for culture") ma dopo ripetuti ascolti tutto sommato riuscito, soprattutto grazie alle grandi capacità esecutive del gruppo, in particolare la splendida voce di Jeff Shirilla, uno dei migliori doom singer sulla piazza. Attendiamo comunque un vero e proprio full lenght per poter dare un giudizio definitivo. Quanto ai Dragonauta, ormai la loro bravura ha smesso di meravigliarci. Lo dimostrava l'eccellente "Luciferatu" (del quale in quest'occasione sono presenti in ottima versione live "Bruta vu (hijo del diablo)" e "Tomegapentagram"), lo confermano i tre brani nuovi di zecca registrati per l'occasione. Sono momentaneamente messe da parte le alchimie progressivo psichedeliche in favore di un sound massiccio, asfissiante, hard doom fino al midollo. "Ramera del diablo" ha infatti un riff micidiale, le solite vocals luciferine di Federico ed un finale tiratissimo in puro stile NWOBHM. Roba da infarto! "Revoluciòn luciferiana" (titolo bellissimo) costruisce elaborate atmosfere maligne, mentre "Letargo espiritual" è un eccitante heavy psycho blues da spararsi in campagna a volume disumano durante notti di luna piena. Se il secondo disco dei Dragonauta sarà su questi stessi livelli avremo davvero un gran capolavoro. Passiamo ora al secondo split, "sfida" che vede impegnati gli svedesi Astroqueen e gli argentini Buffalo. Due realtà del panorama stoner rock che abbiamo avuto modo di ammirare con lavori quali "Into submission" (edito nel 2001 da Pavement Music) e "Temporada de huracanes" (uscito nel 2003 proprio su Dias De Garage). Gli Astroqueen continuano la loro opera di divulgazione del verbo 'kyussiano', ma questa volta accentuano certe componenti dure del proprio sound, andando addirittura a lambire territori metallici. Lo dimostrano la compattezza e le armonizzazioni di un brano come "The shades of John Doe" o la scossa d'energia pura di "Crashlander" (di cui è presente un videoclip). Il marchio di fabbrica Astroqueen resta invece nella bellissima "The untitled" (groove a tonnellate e un chorus a presa rapida), nella martellante "Lava", nelle melodie di "Chess of confusion" (che ricordano una certa "Whitewater"…) e nei riff tosti della conclusiva "Fanstyg". Stoner rock non certo originale ma che si guadagna merito e rispetto per onestà, compattezza e dinamismo. Ciò che accomuna la band svedese con i Buffalo sembra essere un certo background heavy metal. Il trio argentino lo sfodera senza mezzi termini con una cover esemplare, "The four horsemen", rallentata e resa groovy a dovere. Altrove vengono alternati giri 'sabbathiani' e sfuriate esagitate ("Bendecidos", "Jesus, el Arquitecto", la cui coda psichedelica è da estasi ma è tagliata nel videoclip in coda al cd), mentre "Asesino de corderos" e "Tormento" sono bolidi stoner che picchiano giù duro, con cognizione di causa e senza mai mettere troppa carne al fuoco. Sono proprio questo dinamismo e questa essenzialità le carte vincenti dei Buffalo, siamo certi che il nuovo album "Karma" (previsto per l'inizio del 2006) sarà l'ennesima corsa a perdifiato per gli oceani di terra della Pampa. Alessandro Zoppo
AA.VV. – And the decterian blood empire
Le voci riguardanti il progetto titolato “The Psychedelic Avengers” cominciarono a circolare alcuni mesi fa e riguardavano una possibile futura uscita discografica frutto di una collaborazione diciamo interdisciplinare tra diversi artisti dalle altrettanto diverse estrazioni, tutti accomunati da un’unica grande passione: lo spazio. Lo spazio cosmico inteso come affascinante definizione astronomica verso il quale la musica psichedelica e appunto lo space rock hanno sempre rivolto grandi attenzioni. Ma non è solo il filone più fumoso e acido del rock ad aver nutrito un così grande interesse verso il buio e denso cosmo che ci circonda; la musica elettronica con i suoi trip allucinati da un lato, sempre quello musicale, e tutta la scena “sci fi” per quel che riguarda la cinematografia e la letteratura, dall’altro, non hanno certo mancato di tributare e sondare le profondità siderali della nostra galassia e non solo. Il progetto “The Psychedelic Avangers and the Decterian Blood Empire” nasce proprio con questo spirito, quello di raccogliere in forma di compilation sonora un tributo globale al mondo space. Il doppio CD in questione in realtà preferisce definirsi come qualcosa di lontano dal concetto di compilation, al quale viene preferito quello di “interstellar sound journey”, un’esperienza unica di psichedelia, space, prog, rock, noise, electro, alternative, drone, wave, cyber, pop, experimental trip, la perfetta colonna sonora per il proprio immaginario viaggio interstellare.Come contraddire tale definizione? Aggiungo solamente che il tutto, ovvero i 155 minuti lungo i quali si articola il doppio CD, è accompagnato da un fitto booklet che narra un interessante e divertente episodio di science fiction ad opera di Leo Lukas, presente solo in tedesco nel CD stesso, ma disponibile on line in un’efficace traduzione inglese. Sarà chiaro che quello di cui si sta qui parlando non è certo un disco qualunque, catalogabile e analizzabile secondo gli standard comuni del mestiere. Qui si ha a che fare con qual cosa di davvero innovativo ed intrigante, una vera esperienza che ci riguarda da vicino sia per l’amore verso lo space, che per la presenza stessa di alcuni artisti (oltre 43 in totale!) provenienti dalla scena space/pscyh rock mondiale. Troviamo così volti noti quali Hypnos 69, Stefan Koglek dei Color Haze, Dark Sun, Marble Sheep, l’interessante progetto psych di John Perez (Solitude Aeturnus) chiamato Liquid Sound Company, al fianco di personaggi provenienti da tutt’altri ambiti musicali. Ma non basta. Il bello di questa iniziativa è che ciascun artista è stato invitato a collaborare con altri artisti provenienti da ambiti musicali del tutto differenti, nell’intento (perfettamente riuscito) di creare qualcosa di innovativo e fuori da ogni schema che ben si adattasse all’idea base su cui si articola tutto il progetto. Gli amanti dello space e psych rock per nulla timorosi delle contaminazioni si staranno già giustamente fregando le mani pregustando di vivere questa profonda esperienza sonora, disponibile direttamente dal sito del progetto e da alcuni altri distributori a fianco segnalati. Witchfinder
AA.VV. – Beware of God
La genovese Second Skin Booking (nata nel 2006) offre la sua personale corrida sonora in "Beware of God", prima orgogliosa compilation che abbatte steccati e chiusure con un doppio CD infuocato, il secondo del quale davvero succulento, visto che racchiude infatti 12 brani completamente inediti.Death, hardcore, postcore, grind, math, rap e ovviamente stoner, sludge e doom, per un totale di 25 nomi più o meno noti agli attenti frequentatori del nostro sottosuolo, questo è quello che espongono nella loro bella raccolta Claudia e gli altri ragazzi dell'agenzia. L'aspetto è quello di una lunga abbuffata fatta di passione e di una vita spesa nei multiformi labirinti musicali del nuovo secolo, così si va dall'HC (e post-HC) di Downright, Vibratacore, Stormo e Payback, agli estremismi chirurgici di nomi acclamati dalla critica di settore come Inferno, Incoming Cerebral Overdrive e Viscera///, ai 'neuroprigionieri' Stalker, Juggernaut e Vanessa Van Basten, passando volentieri in territori stoner/psych nelle sue accezioni radicali e/o contaminate (The Orange Man Theory, Carcharodon, Zippo, 2Novembre, Midryasi), fino al rap politicamente scorretto di Colle der Fomento e DSA Commando. Per il resto in operazioni come queste si potrebbe far torto nel dimenticare qualcuno, vista la proposta valida ed efficace dei vari Slaiver, Daphne, Cubre, Ricochet, Sin of Lot, Conceive, Nerve, Elder Fate, perciò la citazione è d'obbligo, aldilà dei gusti e del background dell'ascoltatore. Probabilmente la conclusiva "Olocausto Farmaceutico '09" dei ritrovati Viscera/// è una delle vette più intense, ma nel complesso si tratta di un'operazione monumentale. Rob Mattei
AA.VV. – Burn The Streets Vol. V
Giunge ad un nuovo capitolo la compilation "Burn the streets", operazione che porta la firma della label tedesca Daredevil Records (da anni impegnata nella diffusione delle sonorità stoner, complice anche una webzine sempre aggiornata e ricca di novità e recensioni), appoggiata questa volta dall'ormai storica MeteorCity (etichetta satellite del portale stonerrock.com) e dalla nostrana Wuck Records, piccola ma agguerrita indie portata avanti dal guru Fabrizio Monni. Ma altre collaborazioni a quest'uscita vengono anche da Hellride Music di Chris Barnes, dall'americana Devil Doll Records e dalle tedesche Longfellow Deeds e Swell Creek Records.Un team allargato insomma, che ha lavorato duramente per darci questo prodotto composto da 21 brani, oltre 70 minuti di musica che fotografano l'andamento attuale della scena stoner rock. Gruppi noti o meno, con pezzi editi ed inediti, che concorrono amichevolmente nel dare una panoramica completa di ciò che l'heavy psych e l'hard rock'n'roll offrono oggi. Andiamo dunque ad analizzare nello specifico le band che compongono il dischetto. Le migliori conferme giungono senza dubbio dai nomi più famosi dello stonerama europeo: Calamus, The Awesome Machine e Ojo Rojo (per carica ed impatto psych "All fear", "Gasoline" e "Sublime" si rivelano i pezzi migliori del lotto), Rickshaw, Generous Maria, Nightstalker, Good Witch Of The South e Highlight. Nella media abbiamo Duster69, Dear Mutant, The Hurricanez, Defuse e Pinocchio Pinchball (questi ultimi penalizzati solo da una pessima registrazione). Mentre sono da rivedere Taurus, C'mon e Stone Tape Theory, per i quali la sufficienza è appena sfiorata. Le sorprese sono invece due gruppi poco conosciuti ma pronti ad esplodere: innanzitutto i Getbucket, autori di uno stoner melodico e molto catchy, in stile El Caco; poi i Winterun, la cui "Lighter" è un misto di stoner e hard blues che porta indietro negli anni. E l'Italia? È ovviamente presente, con tre dei suoi migliori esponenti. La forza heavy psych ce la mettono infatti i T.H.U.M.B. con il bolide "Wasted words"; le atmosfere suadenti sono proprie degli Alix con la bellissima "Out of the sighs"; i Black Hole Of Hulejira (iniziamo a rimpiangerli...) chiudono il disco con la grassa e sudicia "Dust mite". Un'ottima compilation questo volume di "Burn the streets". In attesa di un possibile capitolo successivo lodiamo la Daredevil ed iniziamo a scendere in strada con il volume dello stereo a palla. Alessandro Zoppo
AA.VV. – Church of the flagellation
La chiesa della flagellazione. Sottotitolo: extreme doom compilation. Formato: né cd né vinile ma cassetta, nastro audio. Un vero e proprio tuffo nell’underground quanto ci viene proposto dalla Catacomb Records. Non possiamo far altro che approvare ed immergerci in un passato che ci riporta alla mente il periodo del tape trading e la circolazione sotterranea di nastri durante gli anni ’80.Qualcuno potrà storcere il naso, non chi ama e apprezza i bassifondi musicali che in quanto tali non vogliono emergere. In questo caso è precisa la volontà di rivolgersi ad una specifica fetta di pubblico (gli amanti del doom più esasperato e della musica estrema in genere), producendo questa compilation in edizione limitata (e con la bellissima realizzazione grafica della Conspiracy Psycho Art). Lo stile che invece è seguito con perizia dalle band presenti è un doom portato alle estreme conseguenze. Partendo dal riferimento fondamentale di “Forest of equilibrium” dei Cathedral, si percorrono le vie tracciate da certi sperimentalismi di casa Southern Lord (Khanate e Unearthly Trance su tutti) e dalla scuola funeral doom che fa capo a gente del calibro di Skepticism, Until Death Overtakes Me, Thergothon e My Shameful. Quattro sono i gruppi presenti. Si parte con gli Stabat Mater, progetto di Mikko dei Deathspell Omega (nonché mente che si cela dietro i Clandestine Blaze). Il suo brano è senza titolo, più breve rispetto alla media, caratterizzato da una voce cavernosa, ritmi che più lenti non si può e da parti armoniche di chitarra che fanno raggelare il sangue nelle vene. Veramente terrificante come inizio… A seguire troviamo la lunghissima “Devolve” degli olandesi Bunkur. La registrazione purtroppo è scadente ma i quattro propongono un sound davvero mostruoso. I Bunkur sono l’emblema dell’esasperazione portata in musica, sembrano esplodere da un momento all’altro ma tutto ciò non accade. Le nostre carni vengono lacerate dall’attesa, è questo il loro segreto. Un gruppo da seguire con molta attenzione. Il secondo lato è aperto da “Revelation CCXXXIX” dei nostri Malasangre. Rispetto al loro esordio “A bad trip to…” troviamo una minore componente sludge ed una marcata accentuazione delle coordinate estreme. Il brano però non ne risente, anzi: gli inserti di synths e i drones maligni rendono l’atmosfera ancora più terrorizzante, la colonna sonora ideale di un viaggio sulle rive dell’Acheronte… In attesa del prossimo full lenght (“Inversus”), possiamo iniziare a nutrire floride speranze. Chiude la compilation “Seas that swallowed the night…” dei The Sad Sun, duo composto da S. Van Cauter e E.M. Hearst, già al lavoro con Torture Wheel, Wraith Of The Ropes, Old Hag, Nepenthean e Margaret Hearst. Il loro feeling oscuro è sorprendente, l’aria è resa asfissiante da ritmiche scarne e chitarre profonde. Un vortice di negatività espresso con un nichilismo agghiacciante. Questo è il risultato: quattro microcosmi che emanano un piacevole odore di morte. Fate vostra questa cassetta, la flagellazione è appena iniziata… Alessandro Zoppo
AA.VV. – Clouds
Interessante iniziativa della neonata etichetta romana Raise Records: questa prima loro uscita è una raccolta EP che dà vetrina a cinque gruppi underground della capitale gravitanti nella scena post/shoegaze/sperimentale. Il tema della compilation ed il suo intento consistono nel renderci partecipi al concetto che siamo tutti piccole nuvole (da qui il titolo del disco) che oscillano nello stesso immenso cielo.Aprono i La Calle Mojada (gruppo già abbastanza noto fra i fan di queste sonorità) con un brano dream pop punteggiato da chitarre che passano con disinvoltura da delicati arpeggi ad autentici muri sonori. A seguire i Murmur, più sperimentali e vicini come mood a certe cose degli Hooverphonic (bellissima la voce femminile). Moka si esibiscono in un post rock dai toni decisamente liquidi, mentre i Design non disdegnano soluzioni "movimentate" in un contesto comunque cadenzato. Infine gli Zo.e, in assoluto il miglior gruppo della compilation: la loro "Secret Spot" è puro lirismo/ipnotismo shoegaze rimandante ai maestri Slowdive, una canzone da ascoltare all'infinito scoprendo ogni volta nuovi umori e stimoli sonori. L'EP (confezionato in una semplice ma elegante confezione digipack) costa 5 euro e l'etichetta ha in programma due nuove uscite entro l'estate. Fatevi avanti. Marco Cavallini
AA.VV. – Copenhagen Space Rock Festival 2002
Il 31 Agosto del 2003 Copenhagen è stata sede di uno dei festival più interessanti in ambito underground, il Copenhagen Space Rock Festival. Eh sì, space rock, quel genere nato negli anni ’70 dalle sperimentazioni cosmiche di gruppi del calibro di Hawkwind e Ash Ra Tempel e giunto fino ai giorni nostri grazie alle scorribande intergalattiche di Monster Magnet, Ozric Tentacles e Spacemen 3. Le origini del festival risalgono al 1997, quando questo happening aveva luogo solo negli Stati Uniti (il suo nome era Strange Daze Festival) , fino ad essere allargato anche all’Europa, prima in Svezia e poi in Danimarca. Questo cd edito dalla Burn Hippie si propone l’intento di testimoniare la ricchezza della scena scandinava in ambito space psichedelico e di allargare in questo modo l’audience stesso del festival. Le band presenti sono sei e tutte esplorano con abilità le varie sfaccettature di questo particolare genere. I più fedeli ai canoni dilatati e travolgenti tanto cari agli Hawkwind sono senza dubbio DarXtar (qui presenti con la intrigante “Warriors/Aberrant station”) e Gas Giant, che con la lunghissima “Deep space flight with Jim on board” (oltre 16 minuti!) esplorano sentieri nebulosi e lisergici. Le proposte più particolari vengono invece da Dark Sun e The Spacious Mind: i primi, in “Electrified” e “The epic world of captain Gizmo”, allargano i propri orizzonti verso l’elettronica, i secondi invece sperimentano una particolare forma di psichedelia onirica e rilassata, tra Pink Floyd e Tangerine Dream. Completano la compilation i Mantric Muse, la cui “Cinope” ricalca le bizzarre stravaganze dei Gong, e gli Pseudo Sun, che in “Shapeshifter” e “Woodland waterfall” mischiano psichedelia sessantiana, progressive, hard rock ed elettronica. Un biglietto da visita niente male, che predispone bene per il futuro di questo festival. Allora non rimane altro da fare che prenotare un biglietto per la Danimarca, il resto del trip sarà assicurato dalla musica…let’s ride! Alessandro Zoppo
AA.VV. – Cyniclab
Idra a molte teste, forse più delle quattro dichiarate, la Cyniclab di Bologna è un Laboratorio Musicale che detesta l'interazione diretta con l'umanità bandendo di fatto ogni facile ascolto, ma soprattutto è una interessantissima etichetta che non scherza affatto in tema di devianza e limacciosità sonica. Pura controcultura, fatta di abiezione per la massa e pesante esplorazione del lato nero e disturbante della psichedelia, di sviluppo degli aspetti meno ovvi degli estremismi musicali nati dai ninenties e infine di moderne e isolazioniste evoluzioni math/drone/industrial.Il supporto a Leviatani e Zanzare e Neurofestival (festival di rilievo sorti negli ultimi anni) è solo lo schermo visibile dell'attività della Cyniclab, che condensa la propria mole di cinico lavoro rilasciando questa compilation, da procurarsi velocemente per farsi una radioattiva infarinata. Vi avvertiamo che il mondo che ne scaturisce è disfatto, perpetuamente immobile seppur proiettato musicalmente su posizioni innovative, anchilosato com'è ad una paranoia metropolitana capace di oltrepassare e analizzare l'orizzonte futuribile e 'costruttivista' come nessun altra, ma anche di rimanerne inghiottita in una costante convivenza con i propri demoni, siano essi materici o semplici ologrammi. I fenomenali Dead Elephant aprono le danze con il loro noise psichedelico intellettuale (derivato da una moltitudine di esperienze contemporanee di cui i Neurosis sono solo il punto di partenza), offrendo due deliranti brachiosauri elettromeccanici post-ogni cosa: dall'harsh noise, allo stoner-doom, al punk, all'industrial. Il durissimo e ghiaioso rock dei Choriachi invece tributa quell'attitudine (dimenticata un po' troppo in fretta negli ultimi anni) che permetteva di esprimere rabbia e disagio rendendo indistinti stoner, sonorità a là Helmet e scartavetrato metal/grunge in un mortaio di agata. Le due schegge iper-progressive dei Morkobot (tratte dall'omonimo album) sono un indispensabile ripasso per il nuovo "Morto", mentre l'artropode adimensionale dell'oscurità Jagannah ci offre le demo version (registrate molto bene però !) delle divoranti "Pvl" e "Earth". Si Continua con gli Hycon of Hyemes che violentano l'ascoltatore con la loro tecnica fusione di thrash/death, John Zorn, Fantomas e noise rock, i Colossal Monument che evocano collettivamente maligno e distruzione col loro doom sferragliante e anticonformista, e gli Oracle che offrono un antipasto di drone/post rock coi due minuti di "And Like Tides". Tutto da avere in blocco! Roberto Mattei
AA.VV. – D.I.Y. Family Vol. 1
Un pugno di deviazionisti sonici - riuniti da un'alleanza di fanzine cartacee, produzioni discografiche Do It Yourself e associazioni multimediali indipendenti - costituisce la prima promo compilation della Valvolare Records (in stretta collaborazione con la BloodySound Fucktory, laboratorio creativo noto anche oltre i confini regionali). Stiamo parlando di nomi che hanno avuto in tempi recenti riscontri favorevoli, legati da un anarcoide fil rouge teso a sviluppare l'indole "crossoverista" del noise rock e relativi parallelismi, rimarcandone gli aspetti caustici e dissacratori.Ecco dunque che accanto alle derivazioni harsh e post-core trovano spazio assalti punk-surf-rock'n'roll e sgocciolamenti indie, post rock, stoner e alternative; c'è da dire che ogni gruppo ha una fisionomia riconoscibile, pur nel prevalere di sarcasmo, furia istintiva e situazionismi surreali, e questo finisce per bilanciare le composizioni, che cercano costantemente di sfuggire alla banalità. Butcher Mind Collapse, Lleroy, Jesus Franco & The Drogas, Lebowski, Guinea Pig e Bhava presentano tre brani a testa dai rispettivi CD (2008/2009), quindi c'è spazio sufficiente per farsi un'idea di ognuno: il livello complessivo è soddisfacente - anche se con qualche oscillazione qualitativa - tenendo bene in mente che uno degli effetti dei gruppi della Valvolare è quello di fare tabula rasa del background dell'ascoltatore. I primi dell'ammucchiata sono i Butcher Mind Collapse (http://www.myspace.com/butchermindcollapse), esagitata versione di X, Cows, Tubes, Suicide e Dead Kennedys, che si muovono tra schizofrenie post-punk e simil-blues (soprattutto in "Goddess Dustman"), con un tocco di cantautorato alla Tom Waits/Lou Reed. Fedeli alla linea, voto 7/10. I Lleroy (http://www.myspace.com/lleroymusic) sono già stati recensiti positivamente su queste pagine, e sono quelli che più si avvicinano a sonorità noise-psych, seppur trasfigurate da un violento impatto harshy. E' un piacere riascoltare le frustate di "The Lost Battle Of Minorca", "In My Head" e "Tetsuo". Voto 7,5/10 (riconfermato). Con i Jesus Franco & The Drogas (http://www.myspace.com/jesusfrancoband) siamo in pieno exploited movie: zombies, Tura Satana e improbabili karateki servono un piatto arroventato di Fugazi/Husker Du iniettato di rockabilly e southern rock. In realtà si tratta di un progetto formato da membri che gravitano nell'ambito della Valvolare ed altre esperienze affini: niente di rivoluzionario, ma tre pezzi drogatissimi, voto 7/10. Pop-punk, noise vero e proprio e rock demenziale: questo è il miscuglio dei Lebowski (http://www.myspace.com/lebowskiband). Curativo o letale (a seconda dei casi) nel caso siate dei funeral doomsters o gotici incalliti: allegrotte e movimentate le prime due, ma "Didier e Il Suo Cesto Di Droga" è una specie di triste/grottesca versione indie psichedelica dei Massimo Volume. De gustibus, nel dubbio voto 6/10. I Guinea Pig (http://www.myspace.com/snuffguinea) ci riportano al post rock spigoloso di metà anni '90 (grosso modo), quello acidulo e sfaldato degli Shellac, prevalentemente chitarristico anche se non troppo potente, ma dall'impronta psicologica e vagamente terrorifica. Soprattutto "Crumbs Of Cheese And Spiked" coglie nel segno, voto 7/10. Infine i Bhava (http://www.myspace.com/ibhava), che chiudono con le loro contorsioni di Slint, Fugazi, Melt Banana, Polvo, o anche dei Don Caballero meno induriti, filtrate da un inusuale retrogusto post-punk. I momenti migliori li vivono quando tartassano selvaggiamente il pentagramma, creando un buon groove arricchito dai fiati in "L'impero delle Vacche di Bhava". Voto 6,5/10. Ricordiamo anche tutte le altre minuscole label che hanno lavorato alla raccolta: Sweet Teddy Records, Marinaio Gaio, Dizlexiqa, Escape From Today, Que Serte!, Deambula, Lemming Records, Stonature Records. Roberto Mattei
AA.VV. – Desert Sound – The Spaghetti Session #01
Finalmente qualcosa si muove. Lo stoner, la psichedelia, il rawk'n'roll, il doom. Uniti sotto la bandiera italiana. Nessun nazionalismo, ovvio, è solo la gioiosa realizzazione di un progetto pensato da tantissimo tempo ma mai portato a termine. Una compilation di band nostrane, realizzata con pochi mezzi ma con grinta, attitudine e determinazione assolute. Ci riesce Perkele.it, con la fondamentale collaborazione del portale Omegagenerator.com (figlio di Stonedgods.com) e dell'etichetta sarda Wuck Records. Il risultato è questo "Desert Sound - The Spaghetti Session #01", disco che in 16 brani racchiude le promesse e i pilastri della scena stoner psych doom italiana.Una comunione di forze che promette bene soprattutto per il futuro, perché i "nostri" generi preferiti possano consolidarsi su una base quanto mai solida. Se le premesse sono queste, allora perché non poter credere in una nuova stone(d)r revolution… A partire dal bellissimo artwork sexy lisergico di sir Kjxu (aka Fabrizio della Wuck) e dal lavoro prezioso svolto da Bokal e Zmudah dei T.H.U.M.B. per il master finale. I risultati arrivano infatti oltre ogni più rosea aspettativa. Anche perché tutte le band coinvolte nel progetto hanno dato il 101 per centro. Ed è a loro (oltre che alla Perkele community, ovvio) che va il merito della riuscita complessiva del disco. Si inizia alla grande con lo stoner roccioso di "Comin' free" ad opera dei 5WD (gli Awesome Machine italiani, come li ha definiti qualcuno…), per poi proseguire con la splendida "Let me in" dei Third Stone From The Sun. "Spain '87" dei Deadpeach ci porta in assolati territori garage fuzz, "Lode" dei Jarawa è uno dei brani più singolari del lotto: psichedelico, oscuro, irregolare. Da assaporare a luci spente dopo un hashish party… L'impatto lo riportano i T.H.U.M.B. con "Black doll", song al limite del doom che strizza l'occhio agli Electric Wizard. Alla velocità ci pensano i Gonzales, la cui "Dark mood" è puro punk'n'roll da strada. "No welfare" è il biglietto da visita dei Vortice Cremisi, una delle prime stoner band italiche, capace di unire l'heavy psych ad asprezze dark e ad una visionarietà lisergica. I Black Hole Of Hulejira mettono invece da parte il loro consueto marciume sonoro e con "Tropic" ci trascinano in pieno desert sound. Altra corsa, altra conferma: gli Alix con "Ground", title track del loro nuovo lavoro, non a caso votato tra i migliori dischi del 2004 dai lettori di Perkele. Se la singer Alice ispira morbidezza e fascino, ci pensano gli Hellvis (oggi Evilgroove) a garantire pesantezza e groove. La loro "When hell freezes over" è puro groovy sexy rock. Allo stoner fuzz sono devoti assoluti gli E.X.P., che in "Retinal circus" ripetono in chiave doomy i fasti del loro debutto "Pachamama" (ma a quando un nuovo album?). Il rock'n'roll isterico di "I love you" ci fa scoprire The Moki Snake Dance, mentre The Stoneflower ci riportano al magico hard psych dei '60/'70 con "Two day (and other one)". "Hot leaf" fa degli Psychocritters una promessa assoluta (il loro rawk'n'roll sporcato di garage è lava bollente!), "Do the fish" dei Too Mera B. rallenta i tempi e ci regala ultra stoner rock da tramandare ai posteri. A chiudere il dischetto ci pensano i veterani Skywise: in attesa di un nuovo disco, "Into thick air" è una strumentale che tra heavy, psych e doom fa faville. Se si pensa che il costo imposto di questo cd è 10€, non sappiamo cos'altro dirvi per convincervi a sostenere questo progetto. The italian rawk pirates invasion has begun! Alessandro Zoppo
AA.VV. – Doom Capital – Maryland DC Heavy Rock Underground
Bella iniziativa questa "Doom Capital" compilation, raccolta di materiali sonori provenienti da una delle aree più prolifiche del mondo, il Maryland. Terra di strani incroci, di passioni oscure e di rituali alchemici. Un humus che genera una grande tradizione, nata negli anni '70 e giunta intatta fino ai nostri giorni. Il Maryland è una delle patrie del doom e del metal psichedelico, un territorio che ci ha regalato gruppi misteriosi e affascinanti, pietre miliari del genere e fiori pronti a sbocciare.Tutto prese avvio agli inizi degli anni '70 con autentici colossi come Pentagram, Bedemon (rendiamo omaggio alla memoria di Randy Palmer) e Death Row, gruppi dai quali sono venuti fuori personaggi che hanno fatto la storia del genere come Bobby Liebling, lo stesso Palmer, Victor Griffin e Lee Abney. La fine del decennio e l'inizio degli '80 vide invece emergere come grande protagonista Scott 'Wino' Weinrich ed i suoi The Obsessed. Da qui in poi comincia la grande esplosione doom che dalla seconda metà degli anni '80 partorì innumerevoli gioielli (Iron Man, Wretched, Internal Void, Revelation, Unorthodox), spinti sotto l'egida della label tedesca Hellhound. La scena attuale si presenta ancora florida e ricca di nuovi gruppi in grado di rinverdire le gesta dei loro predecessori. Questa compilation fotografa la situazione esistente, illustrandoci cosa bolle in pentola nelle lande della Virginia e dintorni. Tanto per farci capire di che pasta è fatta questa raccolta vengono piazzati in apertura i pezzi da novanta: Clutch (i campioni del crossover sono presenti con un classico del loro repertorio, "Sea of destruction"), Earthride (la creatura mefistofelica e 'motorheadiana' di Dave Sherman) e The Hidden Hand, il nuovo cavallo di razza di Mr.Wino. La facciata classica del doom targato Maryland DC è rappresentata invece da Internal Void (soffocante il groove della loro "Black wings of deceit"!), Life Beyond e Unorthodox (ritorno edificante quello di "Lifeline"…). Le sorprese vengono piuttosto da band più o meno note anche nei circuiti underground. Innanzitutto un 8 in pagella ai Nitroseed: la loro "Class war" esplicita un stile molto personale, psych doom strumentale ad alto voltaggio mesmerico (non a caso troviamo in formazione due veterani come Gary Isom e Rob Hampshire). Sul versante più ossessivo e paralizzante si piazzano Countershaft (la melodia di "Black sky" è terrificante…), War InJun (ottima la loro "Dangerous prayer", sporcata solo da una registrazione non all'altezza), Leviathan AD (i sette minuti di "Breathing rust" sono un biglietto da visita niente male…) e Los Tres Pesados, progetto realizzato appositamente per questa compilation che vede coinvolti l'instancabile Dave Sherman, Dale Flood (Unorthodox) e Jean Paul Gaster (Clutch). Con "The Ruler" il divertimento e la grande musica sono assicurati… Una menzione meritano infine Black Manta ("Days of yore" è uno stoner doom molto titanico), King Valley (coinvolgente il metal psichedelico di "$2 Brain") e Carrion (nella loro "Damned to know" tra rock e doom si frappongono noise e post punk). "Doom capital" è dunque una panoramica molto esplicativa su conferme e promesse del Maryland. I nostri complimenti alla Crucial Blast per aver messo in piedi un'operazione tanto interessante. Doom on! Alessandro Zoppo
AA.VV. – Doomed Nation Volume 1 Number 1 (DVD)
Doomed Nation deve essere salutato da tutti gli appassionati di stoner doom come una vera e propria manna dal cielo. Si tratta di un video magazine statunitense curato in dvd da Tom Denney ed edito in edizione limitata (questa è la prima uscita ma non vi allarmate, sono già stati previsti altri numeri). L’impostazione è quella della video art, un insieme di immagini dove è il montaggio frenetico e una certa estetica del frammento a mettersi in evidenza.Ma non è solo arte visiva. C’è anche il sonoro, e che sonoro… Una serie di stupendi video delle migliori realtà stoner, doom e sludge odierne. Dal flusso psichedelico delle immagini infatti (i cui contenuti sono spesso e volentieri venati d’ironia e da un attacco polemico diretto contro i mali e le contraddizioni degli Usa di oggi) emerge una serie di bellissime clip di gruppi più o meno noti. Si parte alla grande con i Fistula, i quali ci propongono una versione sludge di “Cocaine” (di claptoniana memoria) in un video molto suggestivo, dal bianco e nero vorticoso e sfumato. A seguire abbiamo i 16, il cui filmato live è montato con estratti da un film che vede protagonista Robert Romanus… decisamente particolare! Si arriva poi ai grandissimi The Hidden Hand del mito Wino, presenti con il filmato di “Divine propaganda”, nel quale affiorano i forti contenuti politici che testimoniano l’attivismo della band. Dopo gli scenari apocalittici che caratterizzano il video degli Jumbo’s Killcrane (un contesto post metropolitano da fine della storia), è la volta di un documento storico, “Dragonaut” degli Sleep: la band ripresa in studio, con un bianco e nero preistorico. Ma è da tenere d’occhio anche la successiva interista a Matt Pike, davvero interessante e singolare. Ancora schegge visive e altri tre video: l’immaginario da biker in fuga degli stoners Smoke (“The mark of Brahm” il loro brano), i live oscuri ed inquietanti di Indian e Rwake. Sembra che il dischetto sia finito, ci sono le anticipazioni del prossimo numero, e invece… La genialità folle viene fuori: dopo svariati minuti di suoni ossessivi e schermo oscurato, si riparte con il video di “Mr. Austronaut Glenn” dei Terminal Lovers. Per poi chiudere in bellezza con un estratto dal vivo dei Saint Vitus periodo “COD”! E vi assicuro che vedere Dave Chandler e Christian Lindersson dividere lo stage fa un certo effetto… Dunque non può che essere un acquisto consigliato quello di Doomed Nation. Arte, intelligenza e grande musica sono tre qualità che fanno la differenza. Alessandro Zoppo
AA.VV. – Dreams of what life could have been – The ultimate sludge compilation
L'attività della PsycheDOOMelic Records non conosce sosta e così ecco arrivare una nuova ed eccitante compilation che esplora le varie sfaccettature dell'odierna scena sludge doom. Dieci sono i brani in scaletta per sette gruppi che esprimono al meglio l'essenza dello sludge: oppressione, senso di rivolta, disagio metropolitano. Quanto di meglio per tirare fuori suoni ruvidi e malsani, imbevuti d'odio e perversione, lenti, sudici e carichi di drones soffocanti. Diciamo subito che il meglio di quanto proposto va in direzione di tre band davvero entusiasmanti. In primis i Negative Reaction, presenti con la splendida "Nod", song già edita nello split con i Ramesses alla cui recensione si rimanda. Sorprese giungono poi da Fistula e Thee Plague Of Gentlemen: i primi propongono uno sludge claustrofobico ma con un occhio di riguardo per la struttura compositiva (evidente a tal proposito il groove stoner che avvolge "Drug smuggler"); i secondi nella loro "Your love is king (of the dead)" dipingono inquietanti scenari apocalittici raggiungendo un livello di tensione emotiva davvero alto. Ma ottimi risultati arrivano anche dai due pezzi dei Soulpreacher (soprattutto nell'alone psichedelico ed evocativo che ammanta "Remember the end") e da "Black domina" dei Ramesses, i quali si riscattano dalla prova opaca dello split con i Negative Reaction e ci offrono 10 minuti di grande doom lisergico che lascia ben sperare per il debutto ufficiale degli ex Electric Wizard. Nella media sono invece le prove di Moss (la loro "Beyond despair" è un monolito in stile Earth ma senza la grinta malsana della creatura di Dylan Carlson e Joe Preston) e Grief, che pur essendo tra i padri del genere non sfuggono ad una certa stanchezza sonora di fondo. Dunque bellissima iniziativa questa della PsycheDOOMelic di Hegedus Mark, ancora una volta a segno e sempre più presente nel panorama dell’extreme doom di oggi. Alessandro Zoppo
AA.VV. – Emissions From The Monolith
L'Emissions From The Monolith è un festival dedicato all'heavy rock, al doom, allo stoner e allo sludge che ogni anno ha luogo presso il Nyabinghi di Youngtown, in Ohio. Per celebrare e promuovere l'edizione del 2003 (contraddistinta dalla presenza di innumerevoli band che si sono esibite dal 23 al 25 Maggio alternandosi durante l'arco dei tre giorni) la Maduro Records ha fatto uscire un cd contenente undici tracce di gruppi presenti al festival o che hanno preso parte alla kermesse in passato. L'idea del dischetto è quella di proporre una panoramica di cosa si può trovare sul palco dell'Emissions negli infuocati giorni del festival. Il piatto forte è rappresentato dalle band presenti con pezzi inediti o estratti dal vivo: innanzitutto il noise sfrenato degli ACID APE (la cui "First things second" è tratta dal loro demo d'esordio), poi la meravigliosa versione riregistrata di "Earthmover" ad opera dei melodic sludgers REBREATHER, l'inedito "Yankee bitch" dei biker rockers sudisti IRONBOSS, una devastante "D is for Denim" dei KUNG PAO catturata dal vivo e "Big muff", monolito space doom degli incredibili SONS OF OTIS, riproposta dopo un'accurata opera di remasterizzazione. Per il resto altre mazzate arrivano da gruppi più o meno emergenti: gli STINKING LIZAVETA sorprendono con il loro heavy rock progressivo ed avanguardistico, i PLAYERS CLUB aggiungono tentazioni crossover ad una melodica matassa stoner doom, MEATJACK e FISTULA si gettano lungo i sentieri marci e sudici dello sludge, THE RUBES sono presenti con "The ballad of Sisyphus MacDuff", capitolo conclusivo del loro ottimo full lenght "Hokum", e i VOLUME si fanno notare con lo stoner'n'roll di stampo detroitiano di "Colossal freak". Dunque una panoramica ampia e completa della scena e dei vari stili che gravitano intorno all'universo "stonato" odierno. Per meglio comprendere cosa bolla in pentola e per assaporare le travolgenti sonorità che si vivono ogni anno a Youngtown… Alessandro Zoppo
AA.VV. – Listen without distraction – A tribute to Kyuss
Listen without distraction - A tribute to Kyuss
AA.VV. – Rock ‘N Roll Blvd. Vol. 1
Decide di fare le cose davvero in grande la belga Buzzville Records alla prima edizione della presente compilation intitolata Rock N Roll Boulevard e alla quale partecipa una grossa fetta della attuale scena stoner rock internazionale, underground e non.Ben 2 CD e 35 canzoni più rispettive band, per un totale di circa due ore e mezza di musica che raccoglie non solo band sotto contratto con l’etichetta stessa (come spesso accade in questi casi) ma una moltitudine eterogenea di formazioni tutte decisamente valide, tra le tante conferme e interessanti novità. Aggiungiamo pure che una buona parte dei brani presenti sono inediti o registrati nuovamente proprio per comparire all’interno della compilation, aspetto da non sottovalutare affatto e che rende il prodotto finale qualcosa in più di una semplice raccolta delle migliori formazioni in ambito stoner degli ultimi anni. Partendo da questo ultimo aspetto, colpiscono positivamente i nuovi brani targati Sir Hedgehog (dei quali “Read Between the Mind” rappresenta la prima nuova registrazione dopo anni di silenzio), Generous Maria, Blind Dog, Mezzanine, una valida sorpresa dello scorso anno come gli Stonewall Noise Orchestra e i Rickshaw tra gli altri. Tra i “classici” invece fanno la loro comparsa nomi del calibro di Sparzanza (a breve in uscita col nuovo studio album), Monkey 3, Throttlerod, Peter Pan Speedrock e i nostri immancabili Alix, presenti con la hit “Ground” dall’ultimo omonimo lavoro. Tra le novità invece più recenti spiccano gli Allhelluja e i Kayser, entrambi accasati presso la nostra Scarlet Records e in mezzo a tutto questo tante interessanti sorprese tratte dal panorama underground che faranno la felicità di chi è alla ricerca di qualcosa di valido e interessante nel sempre verde panorama stoner rock mondiale. Davvero lodevole quindi l’impegno della Buzzville, una compilation da divorare tutta d’un fiato pregustando già le prossime edizioni a partire dal Vol. 2. Witchfinder
AA.VV. – Scandinavian Friends: A Tribute To Roky Erickson
Roky Erickson è un mito. Su questo non ci piove. Già nel 1965 aveva creato con i suoi 13th Floor Elevators il cosiddetto psychedelic garage rock.Impossibile scordare il loro primo leggendario album che tanto ha dato alla musica. E proprio la grandezza di Roky viene omaggiata con un sincero tributo da una serie di band scandinave più o meno famose. Ad esempio i Cheaters, band proveniente da Oslo che non conoscevo, forniscono un’ottima Reverberation. Non hanno invece bisogno di presentazioni i Witchcraft che fanno Sweet Honey Pie in chiave acustica. Fuzz version dei Baby Woodrose com’è nel loro stile per I don’t ever want to come down mentre trascinante risulta Cold Night for Alligators degli Hellacopters a cui rispondono i We con una versione molto personale dello stesso brano. Meritano citazione anche i Los Plantronics con la celeberrima You’re Gonna Miss Me e i Madrugada; La loro Slip Inside This House è assolutamente coinvolgente e commovente allo stesso tempo. Probabilmente avrebbe fatto piacere anche la presenza di un brano come Night of the Vampire ma direi che nel complesso ci si può senz’altro accontentare. Cristiano "Stonerman 67"
AA.VV. – Scarey Records 7″
Bellissima iniziativa quella della Scarey Records: produrre una serie di sette pollici divisi tra giovani gruppi che riportano il auge lo spirito più puro ed incontaminato del rock’n’roll. Dopo una lunga serie di valide uscite questi due split proseguono con ancora più forza un discorso coerente e coraggioso che va senza dubbio premiato.Iniziamo con il 7” che vede protagonisti Filthy Jim e Long Dong Silver. I Filthy Jim sono un gruppo americano che dal 1997 (anno della fondazione) ad oggi ha messo a fuoco i palchi degli Stati Uniti con un mix agghiacciante di rawk’n’roll e punk stradaiolo. Il titolo del loro disco di debutto (“Whiskey and porn”) parla da solo… In quest’occasione ci deliziano con un paio di pezzi tosti e infuocati: “Tied to the needle” è una mazzata veloce e frizzante avviata da un incipit lento e melmoso; “Teenage witch” è puro punk’n’roll come solo gli Zeke sanno fare, acido e corrosivo al punto giusto! Una band che dal vivo deve davvero fare sfracelli! Il secondo lato è occupato invece dai nostrani Long Dong Silver, capitanati dall’estro del pazzo singer Emperor Caligula. Il loro sound viaggia a cavallo tra punk, rock urbano e stoner. Emblematico a tal proposito è il primo brano proposto, “Junkie Cinderella”, perfetto compendio di rabbia dissacratoria e attitudine metropolitana. “Spank my ass” ha invece un groove gigantesco e delle chitarre laceranti. Aspettiamo un full lenght devastante per poter consacrare l’ennesima ottima scoperta proveniente dal nostro paese. Passiamo ora all’altro split, disco che vede coinvolti The Last Vegas e Bible Of The Devil, band entrambe di Chicago. The Last Vegas aprono le danze con il loro dirty rock, influenzato dal punk, dal blues e dalla tradizione hard dei ‘70s. Forti di un piacevole disco di debutto (“Lick ‘em and leave ‘em”), tornano alla ribalta con un bolide intitolato “You wanna know how to love me”, perfetto compendio di garage rock d’assalto. “S&M” si apre con due chitarre che si sfidano a duello e prosegue con un heavy blues che sorprende per carica alcolica ed inventiva. La seconda facciata vede impegnati i Bible Of The Devil, già apprezzati in occasione del loro ultimo lavoro, “Tight empire”. Il rock sfrenato dei quattro non lascia compromessi, seduce e distrugge grazie alle sue melodie a presa rapida e alle armoniche combinazioni create dagli intrecci delle due chitarre. Esemplare in questo senso è “Humboldt home”, bella sassata che rimane impressa nel cervello fin dal primo ascolto. Come ulteriore chicca troviamo poi un tributo al grande hard rock metallico degli anni ’70, una grintosa cover di “Starstruck” dei Rainbow, eseguita con la giusta passione. Dunque ancora un bersaglio centrato da parte della Scarey Records. Avanti così! Alessandro Zoppo
AA.VV. – Sucking the 70’s
La scena dell'heavy rock rende un grande omaggio ai propri ispiratori. I due cd in questione contengono trentacinque cover di band più e meno note palesando il variegato mondo di influenze di questo genere. D'altronde nessuno ha mai nascosto che Mountain, Led Zeppelin, Black Sabbath, Lynyrd Skynyrd, MC5,etc. hanno avuto un grosso peso nel modellare lo stoner sound. Nel calderone troviamo di tutto. Chi segue alla lettera la lezione come i Five Horse Johnson con Never In My Life dei Mountain, chi sottolinea le proprie radici a stelle e strisce nell'acustica Can't You See ( Marshall Tucker Band) degli Halfway To Gone, e chi queste radici le stravolge completamente nel doom rumoroso (The Men Of Porn alle prese con il Neil Young di Out On Weekend... stravolta!), in psichedelìa sottrattiva (Los Natas, Brainstorm degli Hawkwind) o stordente (The Heads, For Madmen Only dei May Blitz). Tra i volti noti, The Glasspack, band rivelazione del 2002, che rileggono TV Eye degli Stooges con rinnovata acidità e ignoranza. Con una certa commozione ascoltiamo Wicked World di Ozzy e premiata ditta rifatta dai discepoli Spirit Caravan recentemente scioltisi e apprezziamo che tra le band più coverizzate della compilation ci siano i Jethro Tull hard rock. I boscaioli Alabama Thunderpussy si occupano di Hymn 43 facendoci riscoprire quanto gli aggettivi roccioso/ spirituale non sono così lontani come sembra; I Clutch invece ci offrono una Cross Eyed Mary spaventosamente in linea con l'originale. Allo stesso modo, come è fedele e coinvolgente Communication Breakdown dei Disengage, non lo è Bron-Yr-Stomp degli Hangnail. Piccolo passo falso. “Sucking the 70's” offre anche quello che davvero non ti aspetti e che ti arriva da gruppi che non hanno ancora un posto al sole. I Novadriver eseguono un'ottima versione di 20th Century Boy dei T-Rex ricreando alla grande QUELLO spirito glam; Michael Schenker viene rispolverato grazie ai Fireball Ministry (Doctor Doctor) e ti rendi conto (anche) da dove sia partito certo metal epico-melodico. Fighissima la trovata dei Brought Low che lasciano agli originali Jagger & Richard introdurre Till The Next Goodbye. E a proposito di 'nice tricks', i Lord Sterling inframmezzano Black To Comm degli MC5 con pochi secondi introduttivi del fondamentale 'Kick Out The Jams'. A grandissimi livelli anche i Roadsaw con Vehicle, in origine degli Ides Of March, pezzo soul rock con venature funky. Blackexploitation in piena regola. A descriverli tutti facciamo notte..anche perché il trasporto emotivo è grande e rischiamo di essere più logorroici del normale. Basta dire che alcune prove - Lowrider, Doubleneck, Broadsword, Puny Human- sono di buon livello ma tutto sommato didascaliche. Il disco acquista punti nella produzione delle cover che è molto, molto rispettosa del sound originale. Insomma, non sono pezzi vecchi rifatti con produzione moderna, al contrario, l'impressione è che più o meno tutti siano stati attenti a ricreare quelle sonorità calde, coinvolgenti, boogie. Sono diverse le letture che possiamo dare ad opere di questo tipo. Una autoreferenziale: le stoner bands celebrano se stesse e i loro miti. Su questo aspetto, sinceramente, continuare con la autoindulgenza ammazza la scena e la sua musica. Una didattica, per così dire, ed è quella che preferiamo di gran lunga. Pensiamo che questa compilation sia un ottimo strumento per avvicinarsi agli originali dando la lettura di formazioni più giovani, quindi (in teoria) più prossime a noi nell'approccio alla materia. La terza: meno pippe mentali e ascoltiamoci della buona, intramontabile musica rock. “Sucking The 70's” è tutto questo. Francesco Imperato
AA.VV. – The Heavy Psych Italian Sounds
Lode e rispetto assoluto per la Go Down Records e Gabriele Fiori, leader dei romani Black Rainbows. Si deve al sodalizio tra l'etichetta e il cantante/chitarrista l'uscita di questa bellissima compilation, "The Heavy Psych Italian Sounds". Un dischetto che ci dona un'ampia panoramica sulle svariate realtà stoner, heavy psych, garage e doom che popolano il nostro paese, sempre più attivo in questo ambito sonoro da sempre esterofilo. Label di lusso e lavoro grafico apprezzabile, opera di Malleus Rock Art Lab. Oltre che l'ovvio parco band comprendente tantissimi gruppi di assoluto valore.Ce n'è per tutti i gusti. Doomraiser e Midryasi a rappresentanza del doom, visionario e senza compromessi. Lo stoner classico, roccioso e dilatato, ha interpreti d'eccezione in Black Rainbows, Alix, El-Thule, Underdogs, The Forty Moostachy e Zippo. La forma hard psichedelica si ibrida con voluttuose dosi alternative e indie quando si ascoltano Veracrash, Tsunami e Fuckvegas. Il lato garage, blues e rock'n'roll viene alla ribalta con OJM, Re Dinamite, Small Jackets e Los Fuocos, mentre i Gonzales donano quel tocco punk che non guasta mai. Il Torquemada, Miss Fraulein e Maya Mountains sono promesse prossime ad esplodere, mentre salutiamo con gioia immensa il ritorno di una formazione storica, i Vortice Cremisi. Ci auguriamo "Mother Nature" sia solo il preludio ad un ritorno in grande stile. Pollice su per Gabriele e la Go Down. Operazioni del genere non possono che far bene alla scena nostrana. Let's ride! Alessandro Zoppo
AA.VV. – The Ultimate Fuzz Collection
Dopo aver debuttato con lo spit diviso tra Truckfighters e Firestone, la Fuzzorama Records di Orebro ci offre come seconda uscita questa compilation che contiene tutte (o quasi) le migliori realtà del panorama stoner fuzz rock odierno. A parte i complimenti dovuti e meritati ai ragazzi dell’etichetta per il duro lavoro svolto, dobbiamo subito mettere le carte in tavola: questo dischetto non aggiunge nulla di nuovo ad un mercato ormai saturo di uscite. Ottimo come biglietto da visita e lodevole come iniziativa, certo. Anche perché nel mondo heavy psych le compilation sono ormai un trademark. Tuttavia un pizzico di varietà e qualche brano in più nella proposta avrebbero decisamente alzato l’appetibilità del prodotto.I nomi grossi infatti sono presenti con brani già editi e conosciuti: i Dozer con “Man made mountain” (da “Call it conspiracy”), i Natas con “Tufi meme” (da “Ciudad de Brahman”), i Greenleaf con “Black black magic” (da “Secret alphabets”), i WE con “Lost crossroad found” (da “Lightyears ahead”) e Brant Bjork con “Rock n’ role” (da “Keep your cool”). Le tracce più ghiotte risultano così quelle inedite di Astroqueen (una bomba la loro “Other side of nothing”), Freedom Bleeder (“Pretend” è un antipasto del nuovo album di imminente uscita, anche se il brano non convince del tutto…), Spiritu (“Throwback” è un gustoso assaggio del nuovo ep “The long goodbye”) e Firestone (tosta e dal piglio blues la loro “Jack”). Per il resto vengono passati in rassegna gruppi più (Dexter Jones’ Circus Orchestra, Elephantum, Truckfighters, Mezzanine) o meno (Gonzalez, Cowboys & Aliens, Sunride) originali, con composizioni che trovano posto nei rispettivi album usciti di recente. Dunque un cd non proprio essenziale, se non per completisti del genere o assoluti neofiti. Attendiamo la Fuzzorama al varco delle uscite ufficiali, augurandole un prezioso in bocca al lupo! Alessandro Zoppo
AA.VV. – Trip In Time Vol. 3 – Psychedelic Adventures On Planet Earth
Con uno spettro sonoro che copre il maggior range possibile della psichedelia, le compilation Trip In Time / World in Sound possono considerarsi tra le più esaustive del settore, offrendo innumerevoli delizie raccolte un po' da tutto il mondo. Si arriva al terzo volume intitolato "Psychedelic Adventures On Planet Earth" e anche stavolta i selezionatori hanno voluto spaziare da formazioni di culto e discretamente affermate a realtà ultra sotterranee, cercando di rendere complessivamente omogeneo il livello qualitativo della raccolta. La fede assoluta nel suono acido 60/70 (ricordiamo che la WIS è specializzata in strepitose ristampe d'epoca) permette di offrire una euforica e poetica visione d'insieme che scandaglia efficacemente il panorama attuale, che è più vivo e vegeto che mai, nonostante i grossi network tendano ad ignorare il lascito (e le evoluzioni) di nomi come Led Zeppelin, Janis Joplin, Zappa, Hawkwind, a discapito di dozzinali sottoprodotti usa e getta.Poco male, visto che la scarsa esposizione preserva bene questi artisti liberi di esprimersi con la dovuta naturalezza, e basta inserire il dischetto per fugare ogni dubbio. 18 gruppi dicevamo, andiamoli a commentare, tenendo presente che nel caso di raccolte di questo tipo un brano può non essere sufficiente per giudicare compiutamente ognuno di loro, verità addirittura lapalissiana nel mega-cromatico mondo psichedelico, ma che risulta sicuramente utile per farsi un'idea del valore dei partecipanti! Bene, aprono gli inglesi Electrical Mystical Soul Vibration con "Bohemian Droput", abbastanza breve (meno di tre minuti) ma favolosa, un incrocio tra Tubes, Roxy Music, Gong, Acid Mothers Temple e un miliardo di altri nomi storici, tra sitar, mellotron e chi più ne ha più ne metta.. procuratevi tutto di loro. (www.myspace.com/electricmysticalsoulvibration). Tocca poi all'ottimo rock-blues dei The People, in pieno retro-trip-style tipico del nuovo hard svedese (Siena Root, Abramis Abrama, ecc) con "Real Love" (www.myspace.com/folket), tra l'altro dotato anche di belle fuge "acidose" che fanno la loro parte... un pezzo tra Hendrix, Kiss, Free e l'heavy-psych per intenderci. Gli svizzeri Ginger continuano con l'hard-psych 60/70 tra riff ruvidi e blueseggianti, che imbrigliano le calvacate jamming e pastose di "Now I See" (www.myspace.com/gingerjamband), niente male. "Unstable Mind" è la song della bravissima chanteuse bluesy-psychofuzz Jenda Wright (http://www.myspace.com/jendawight), qui alle prese con un pezzo dal sapore classicheggiante, ma che basta per comprendere lo spessore della singer di New York. Jarvis Jay era il nome originario degli australiani Shaman Son, e da quella prima formazione ascoltiamo "You're Gone", un bel pezzo ancorato alle cose migliori del grunge-psych di metà anni '90, che guarda anche ad esperienze attuali come i Black Mountain. (http://www.myspace.com/jarvisband). Per tutte le teste acide ci pensa lo stoner bluecheeriano degli ottimi danesi Fuzz Manta (www.myspace.com/fuzzmanta) pilotati dalla voce profonda di Lene, che ci sommerge di feeling con l'hard fuzz di "Mysterious Thoughts". Come dicono loro.. heavy hippie... e così sia. Altro gruppo notevole sono gli svedesi Mother And Sun (www.myspace.com/motherandsun), che con "Lasting The Circle" offrono una convincente mistura di neo-psichedelia, 13th Floor Elevators e Mother Superior dal mood crepuscolare. La sinuosa "Serpentado" ci fa apprezzare gli spagnoli Psychoine (www.myspace.com/psychoineesp), poliedrico gruppo di pop-rock psichedelico con all'attivo già svariati album cantati in lingua madre. Il giro di boa è affidato invece agli acid rockers tedeschi The Magnificent Brotherood (www.myspace.com/themagnificentbrotherhood) che propomgono "My Flash On You", specie di Quicksilver Messenger Service arricchiti di farfisa. Si riparte con un altro ottimo combo, sempre dalla Svezia, i Crystal Caravan (www.myspace.com/crystalcaravan), che dopo la partecipazione al secondo volume si ripresenta con l'indiavolata "A New time Is Coming", nella quale sparano a manetta la loro passione per MC5, Arthur Brown e T-Rex, ispessita con bordate hard '70. Torniamo quindi in Germania perchè la World in Sound vuole recuperare una cult band attiva nei mid-nineties, i Living Room, rock psychedelico post-Jefferson Airplane di ottima fattura, melodicamente ipnotico. Il brano in questione è "Times Like Lakes", estrapolato dal loro secondo album mai pubblicato. Dagli USA (Maryland) arrivano invece i giovani The Flying Eyes (myspace.com/theflyingeyesmd) presenti con la bellissima "Lay With Me", tra Dead Meadow, Doors, Floyd, Cream e Julian Cope. Da tenere d'occhio, hanno pubblicato un solo EP nel 2008 e stanno lavorando al debutto. 'Psychedelic & Experimental Rock Sessions' recita la didascalia che introduce "Djingis Kong" dei Black Box Massacre.. (www.myspace.com/blackboxmassacre) e come dargli torto?? immaginate un kraut/space trasfigurato da batoste ai limiti dello sludge-noise e momenti di iterativo trance/post rock... forse il pezzo migliore. Tedeschi, sono un progetto di membri dei Cogan's Bluff. I nuovi tiranni dello space rock Serpentina Satelite (www.myspace.com/serpentinasatelite) sono presenti col trip senza ritorno di "Madripoor"; per chi non li conosce un succulento antipasto da abbinare a qualche bevanda aromatica. Esoterismo acido, fughe psicotiche e dilatazioni da bad trip: è "Celestial Dream", dei francesi Aqua Nebula Oscillator (www.myspace.com/aquanebulaoscillator), un riposo tutt'altro che rassicurante, visto che si tratta di un orrorifica versione di Sun Ra, Suicide e Hawkwind. Il prog/psych dei tedeschi Space Debris (http://www.spacedebrisprojekt.de/) è ricco di organi caliginosi e partiture jazzy, ma sempre solidamente rock; in parte richiamano i nostri Standarte, oltre allo storico heavy prog. Ottima la loro "Medicine Man". Non potevano mancare i decani del rock psychoprogressivo inglese Fantasy Factory (http://www.fantasyy-factoryy.com/), qui alle prese con l'articolata "Summer Days", uno showcase di riff hard, taglienti tastiere e ovviamente tonnellate di groove. Sempre una garanzia, la copiosa discografia comprende pure (per chi l'avesse dimenticato) la partecipazione ai tributi a Black Widow e Moody Blues. Un nome storico. La chiusura spetta alla rilassata psichedelia dal flavour western e bluesy di un altro gruppo tedesco, i Zaphire Oktaloque (www.myspace.com/zaphireoktalogue): "Green Grass And The Black Clouds", titolo alquanto sintomatico. Come al solito un gran lavoro... Trippin' in time... on Earth! Roberto Mattei
AA.VV. – Wild Sound from the Past Dimension
Operazione interessante quella messa in atto dalla Go Down Records insieme al Circolo Fantasma e all'Atomic Studio: confrontare le stelle dell'underground italiano con i pezzi dei numi ispiratori Sixties e Seventies, nella compilation Wild Sound from the Past Dimension. Ed è proprio un sound selvaggio quello sprigionato dalle punte di diamante The Intellectuals, Gorilla, Pater Nembrot, The Small Jackets, Ray Daytona and Googobombos e Dome la Muerte, eccitati nell'esprimersi con registri surf, psych, garage, funk and hard, ossia tutta la gamma di sfumature dell'espressione musicale dei due decenni. Meglio ancora se il repertorio da cui attingere vede dei giganti quali Elvis, The Beatles, Stooges, Motorhead, Pink Floyd, Jimi Hendrix, Cramps, ma anche piccole e deliziose nuggets band come The Smoke, The Real Kids, The Continentals.Va subito precisato che rifare una canzone implica qualche rischio: si riesce a dire qualcosa di più degli originali? Il dubbio viene smarcato dalla genuità delle band, che non rifanno semplicemente, ma cercano di ritrovare i fili delle proprie radici guardando indietro, nelle soluzioni di padri "affini" soprattutto spiritualmente. Esempi magistrali sono "Reverberation" dei 13th Floor Elevators modulata dai Pater Nembrot nella visione più acida e perforante che si possa immaginare; una "Limb from Limb" tanto motorheadiana da rilanciare i Gorilla non solo come stoner band tout court, ma veri rockers ad ampio raggio; Enri che non ha nulla da invidiare al maestro Brian Auger in "Black Cat", divertente e divertita nel mischiare le due versioni di testo, italiano ed inglese. Belle sono anche le interpretazioni di Electric 69 che rifanno una "Search and Destroy" come la potrebbero suonare i Turbonegro e "Can Your Pussy do the Dog?" che vede la bella Vale e i suoi The Valentines rincarare il tasso di erotismo già ad alto dosaggio nella versione originale a cura di Lux Interior. Altre volte il brano non è messo perfettamente a fuoco come nel caso di "Stone Free" e "Suffragette City" che sembrano rifatte a compitino e non riescono a vibrare come le originali. Peccato. Ma questo nulla toglie alla godibilità di un disco come "Wild Sound", miscelato perfettamente tra i gusti degli stoner addicts e i caveman, che potrebbero trovare un piccolo/grande percorso nello scoprire psychedelic lollypops che rompono le barriere di genere, di appartenenza e di spazio/tempo: good stuff for good people! Eugenio Di Giacomantonio
ABACO – Abaco
Gli Abaco sono un gruppo olandese formatosi agli inizi del 2002 per iniziativa di Mark Bakker (batteria), Michael Cavanagh (basso) e Remco Becker (chitarra), ai quali si è poi aggiunto soltanto in un secondo momento il vocalist Sil Baak. Dopo una prima sessione di registrazioni datata Agosto/Settembre 2002, è nell’Aprile di quest’anno che i quattro, coadiuvati in fase di produzione da Frank Reijgersberg (e la qualità di un tecnico che ha lavorato con Racoon, Cooper, Nuff Said, Benjamin B, I Against I e Motorpsycho si sente…), hanno dato vita a questo promo cd composto da quattro brani più un video clip davvero ben realizzato di “Salomé”. Il rock degli Abaco è qualcosa di veramente particolare, pesca a piene mani dallo stoner, dal metal, dal progressive e dal doom, sorreggendosi su articolati cambi di tempo e d’atmosfera, giri dal groove forsennato e una certa oscurità di fondo mutuata direttamente dai maestri Tool. Il riffing di Remco è complesso ed altamente strutturato (nonostante le song abbiano una durata non molto lunga), le ritmiche sono compatte ed incisive, le vocals di Sil possenti ed evocative, risultando adatte ad un sound tanto criptico e misterioso. L’inizio affidato a “Salomé” mette subito in chiaro quanto detto: su trame intricate si stagliano parti vocali melodiche e sofferte, ben amalgamate con la base ritmica ed il lavoro preciso delle chitarre. La successiva “Down with me” ha un andamento cadenzato che ci fa sprofondare in un doloroso abisso, mentre “The search” unisce perizia tecnica e feeling tipicamente stoner in un mix stravagante ma coinvolgente. “Laika” chiude il lavoro su binari psichedelici grazie a suoni melliflui che vengono fusi alla perfezione con ardite costruzioni metal. Gli Abaco sono una creatura molto particolare nel panorama musicale odierno, specie in quello olandese, da tempo avaro di band in grado di rinverdire i fasti di qualche tempo fa. Il consiglio dunque è quello di dare una chance a questi ragazzi di Amsterdam, la loro musica vi proietterà direttamente nel futuro… Alessandro Zoppo
ABDULLAH – Graveyard poetry
All’improvviso un lampo nel buio. Così potrebbe essere descritto il nuovo album degli Abdullah. La poetica sepolcrale che lo ispira lascerebbe immaginare un semplice depressivo per incalliti amanti del doom. Beh, con somma gioia posso dire che non si tratta solo di questo. Dopo l’esordio omonimo che già aveva lasciato un forte segno nel cuore degli appassionati di sonorità oscure, questo nuovo “Graveyard poetry” porta ai massimi livelli quanto già espresso in precedenza dalla band. Il quartetto dell’Ohio ha affinato le sue doti in fase di songwriting ampliando il proprio spettro compositivo, che ora spazia da sonorità in tipico doom style (ma sempre arricchite da sfumature progressive ed elaborate) a momenti di puro classic metal, conditi da iniezioni melodiche e vibrazioni settantiane. Il vocalist Jeff Shirilla ha lasciato il posto dietro le pelli alla new entry Jim Simonian (ottimo il suo drumming, che con il basso di Ed Stephens crea una sezione ritmica di tutto rispetto) per concentrarsi esclusivamente sulle parti vocali e questa mossa si rivela davvero azzeccata: Jeff è ispiratissimo, affronta qualsiasi tonalità su livelli qualitativi elevati e centra il bersaglio anche quando vuole essere più profondo e delicato. Come al solito invece le chitarre di Alan Seibert si dimostrano variegate ed eterogenee, capaci di giganteggiare tramite riff plumbei ma anche di aprirsi a soluzioni dal groove più marcato. Gli episodi tipicamente doom sono senza dubbio quelli maggiormente convincenti: lo dimostrano autentiche perle come l’iniziale “Black helicopters”, che introdotta da “Rune” esplode tutta la sua carica avvolgente e magmatica, o le successive “A dark but shining sun” (incentrata sulle intricate melodie vocali di Shirilla) e “The whimper of whipped dogs”, song cadenzata e suadente che sembra uscire da quel capolavoro di doom melodico che fu “Rise above” degli ormai sciolti Mourn. Altri momenti simili si riscontrano nella meravigliosa “Pantheistic” (brano dal refrain stupendo…), nella malinconica “Salamander”, vero e proprio manifesto di doom oscuro e al tempo stesso toccante, e nell’immensa “Secret teachings of lost ages”, monolito di marca Trouble ma sempre personale in quanto a capacità e destrezza strumentale. Ciò che sorprende di questo lavoro è però la presenza di tre brani in pieno stile New Wave Of British Heavy Metal: parliamo di “Deprogramed”, bordata che si posiziona tra i Tygers Of Pan Tang e gli Holocaust, di quel capolavoro che prende il nome di “Strange benedictions”, sette minuti divisi tra Angel Witch e primi Def Leppard con uno stacco hard rock e un finale maideniano in crescendo da togliere il fiato, e di un’altra chicca come “Guided by the spirit”, che se non fosse per l’anno d’uscita potrebbe benissimo provenire da un disco dei Diamond Head… Tanto per rimarcare la genialità della band, in scaletta trovano posto anche pezzi dal taglio molto più particolare come l’hard doom liquido e ricco di wah-wah hendrixiani di “Beyond the mountain”, l’heavy rock dinamico di “Medicine man”, il gothic doom struggente della lunga “Behold a pale horse” (le note di pianoforte iniziali sono un tocco di assoluta classe…) e il thrash progressivo ed arioso della conclusiva “They, the tyrants”. Non ci sono parole per descrivere la bellezza di questo disco, solo l’ascolto può proiettarvi nella dimensione creata dagli Abdullah. Non mi resta dunque che dare un solo consiglio: lasciatevi sedurre dalle oscurità e immergetevi in questa vera e propria poesia cimiteriale… Alessandro Zoppo
ABEUEDA – Promo 2003
Gli Abeueda lo definiscono “nu desert punk” e la caratterizzazione non è poi così sbagliata: il rock di questi tre simpatici ragazzi tedeschi (Cowboy, Illo e Lipp), che hanno mutuato il nome dall’unione di due piloti giapponesi (Abe e Ueda appunto…), è infatti sporco, grezzo e cibernetico. Qualcuno potrebbe dire Queens Of The Stone Age… beh, è vero in parte perché la band ha un approccio più diretto e meno elaborato alla materia rock, la insozza con un piglio punk tanto caro ai Mondo Generator di Nick Oliveri e anche con una vena oscura che in casi del genere non guasta mai. Ottima la registrazione (avvenuta con la supervisione di Sebastian Meyer dei Pothead), ispirata l’esecuzione, manca qualcosa in sede di songwriting, quella marcia che fa spiccare il volo ai brani, incentivo che solo anni di dura gavetta sono in grado di dare. Per ora va comunque ribadita la bravura e la convinzione dei tre, i quali in un pezzo come “A wonderful friendship” trovano strade adeguate alle proprie intenzioni con un intreccio di stoner e dark rock che piace e convince. “(Don’t be a) Frog” è però l’episodio più riuscito, una struttura ritmica à la Kyuss e parti cantate molto istintive, tutto insomma fa pensare ad un sorprendente mix tra “Blues for the red sun” e i Black Flag. Molto nella norma è invece “Surfin’”, bordata troppo studiata per poter realmente incidere e far del male. Se continueranno sull’onda dei primi due pezzi gli Abeueda potranno costituire una interessante realtà nell’odierno calderone stoner. La necessità di trovare formule personali è impellente, dunque occhio alle scelte! Alessandro Zoppo
ABRAMIS BRAMA – Nothing changes
Qualche anno fa (era il 2000 precisamente) venne fuori dalle fredde lande svedesi una band davvero particolare: cantavano in lingua madre, il loro sound era incandescente, un hard rock psichedelico sinuoso e variopinto, scritto ed interpretato in modo magistrale da quattro ragazzi che riprendevano in pieno l’attitudine libertaria degli anni ’70. Quella sorpresa chiamata Abramis Brama dopo tre anni di silenzio torna a farsi viva con un disco splendido come “Nothing changes”. Per chi già conosce il gruppo non ci saranno grandi sconvolgimenti, ma per chi non ha ancora avuto l’occasione di ascoltarli sarà un piacevole shock. Questo cd infatti altro non è se non una collezione di nove brani tratti dai due precedenti dischi del quartetto (“Dansa Tokjavelns Vals” e “Nar Tystnaden Lagt Sig”), riproposti in una nuova versione con lyrics in inglese completamente diverse (l’unica traduzione vera e propria è stata fatta per “Just like me”). Perdersi tra le note epiche e lisergiche dell’iniziale “Abramis Brama” e della seguente “Know you’re lying” è un’esperienza unica, sarete catapultati nel bel mezzo delle foreste scandinave durante un rito pagano e non potrete far altro che assecondare i ritmi sconvolgenti che rapiranno la vostra anima… Chi crede di poter affiancare questa proposta ai canoni dello stoner sbaglia: c’è giusto qualche riflesso di fenomeni come Grand Magus, Big Elf e Terra Firma, per il resto è l’hard rock dei seventies la via percorsa dagli Abramis Brama, come testimoniano la meravigliosa “Just like me” e la straniante “Anticlockwise man”, la cui coda acustica vi farà accapponare la pelle. La chitarra di Peo macina fuzz asfissianti e riff assassini, i suoi wah-wah si combinano a meraviglia con le trame agili della sezione ritmica (Dennis al basso e Jansson alla batteria) e con le vocals di Uffe, sempre incisivo ed ispirato, come dimostra “All is black”, heavy psych venato di blues rinfrescante come una birra ghiacciata. Altro colosso è la title track, episodio tirato e gravido di groove che non rinuncia ad ariose aperture progressive, mentre “Promises” con il suo fare diretto e senza tanti fronzoli si accosta allo stile stoner blues degli Half Man. Chiudono il lavoro la scoppiettante “Never leaving my mind” (pensate ad un unico calderone in cui confluiscono chitarre sabbathiane, divagazioni psych e contrappunti acustici) e la travolgente “Parts of my mind”, estasi di wah-wah con un chorus che resterà negli annali dell’hard&heavy ed inserti di flauto degni del miglior Ian Anderson. Con Qoph, Svarte Pan, Terra Firma e Siena Root gli Abramis Brama si confermano tra le migliori cose uscite dalla Svezia negli ultimi anni. Cosa aspettate dunque, fate vostro questo disco e vi si apriranno le porte del paradiso… Alessandro Zoppo
ABSTRACTER – Tomb of Feathers
Gli Abstracter vengono da Oakland, California. Non sembra ascoltando "Tomb of Feathers", esordio sulla lunga distanza edito dalla Path Less Traveled Records. Tre soli brani per 40 minuti di musica. Un magma opaco e torbido, che attraversa il (post) metal, la psichedelia mutante, lo sludge ed il crust. Registrazione analogica e mastering di James Plotkin aggiungono fascino oscuro ad un prodotto che si posiziona in quel limbo che ha reso Amebix, Godflesh, Today is the Day, Disembowelment, Swans e Killing Joke dei riferimenti imprescindibili dopo anni di oblio. Robin (chitarra), Mattia (voce), Ben (batteria) e Jose (basso) hanno le idee chiare e fanno funzionare tutto alla perfezione."Walls That Breathe" è l'incipit a questo complesso viaggio nel cuore soffocante delle metropoli moderne, un grido di liberazione ed elevazione verso l'alto. Come un volo d'uccello, un rito di preghiera e purificazione. Mattia alterna growl a parti pulite, i riff sono ossessivi, le ritmiche elaborate. Manca ancora qualcosa, un marchio che sia riconoscibile in pieno. Quel taglio industriale e apocalittico che "To Vomit Crows" si gioca bene nella prima parte, soprattutto quando spinge sull'acceleratore e sulla cattiveria, esasperando una derivazione neurotica senza per questo esserne schiavi. Come nella pausa lisergica che rianima il vomito e trascina a "Ash", 16 minuti di solennità doom e cataclismi metallici. Una sensazione di fastidio, di profondo disagio. L'obiettivo è centrato in pieno. Born dead, buried alive. From East fucking Oakland, California, United fucking States. Tosti, eh? Non fateli arrabbiare, gli Abstracter. Alessandro Zoppo
ABSYMAL GRIEF – Feretri
Gli Absymal Grief sono una realtà davvero interessante del panorama nazionale, autentica cult band che negli anni si è costruita una solida reputazione grazie ad alcune e sintomatiche caratteristiche quali l'inquietante e funereo sound e l'altrettanto macabro live show spesso ornato da oggetti trafugati da cimiteri (corone, lapidi, ceri) ed il forte odore d'incenso. Nati nel 1995 a Genova, gli Abysmal ruotano essenzialmente intorno alle figure cardine di Regen Graves (chitarra) – misterioso personaggio appassionato di magia nera ed occultismo nonché fondatore della band dopo lo split dai Malombra – e di Labes C. Necrothytus (tastiere e voce), ex componente dei Sacradis. Entrambi condividono il ruolo di compositori e la leadership; diversi si sono invece alternati alla sezione ritmica. Altro aspetto che contraddistingue la band è un alone inquietante e di mistero, oltre a scarse informazioni biografiche sui membri ed una immagine tetra che il gruppo si è costruita facendosi sempre raffigurare in luoghi bui.Caso di notevole popolarità nell'underground e maggiore notorietà all'estero piuttosto che in patria, gli Absymal Grief hanno all'attivo una cospicua attività live nei paesi mitteleuropei, di gran lunga superiore a quella nostrana. Il loro sound è un doom metal con forti connotati horror gothic occult e spesso al limite del funeral doom, condita da una matrice depressive blackned alquanto sporadica. "Feretri" è il loro terzo full lenght, oltre a quattro EP, due singoli ed uno split con Tony Tears (ex Absymal). Titolo del lavoro e nomi delle canzoni fugano ulteriori dubbi sulla natura funerea del progetto: "Lords of the Funeral", "Hidden in the Graveyard", "Sinister Gleams", "Crepusculum", "The Gaze of the Howl", "Her Scythe"… Ma è soprattutto il sound ad annunciarci il cordoglio, intriso di malinconia, disperazione, inquietudine ed infine morte. Il nero sound della band è costruito sui plumbei riff di Regen Graves ed i tappeti sonori orrorifici di Labes, impreziositi dalla catacombale voce dello stesso Labes. Gli Abysmal Grief sono stati capaci nel corso degli anni di personalizzare il proprio sound, pur facendo riferimento ad alcune influenze che sembrano ricondurre in particolare al death rock di band come Christian Death e Mephisto Waltz ed al solenne gothic rock di colossi quali Fields of the Nephilim, Virgin Prunes e Bauhaus. Unendo sapientemente il gusto decadente di questi spunti alla pesantezza dell'horror metal e all'avvenenza del gothic doom Anni 90, gli Absymal Grief sono tornati, o meglio resuscitati, per condurci nell'oscuro mondo dei morti. Antonio Fazio
ABYSMAL GRIEF – Mors eleison
Se volete sentirvi avvolti da un funebre velo di nera solitudine ascoltate questo disco. “Mors eleison” si presenta funerario in tutto; nella grafica nero/viola, nell’artwork, nei titoli e nelle tematiche affrontate nelle canzoni e, soprattutto, nella musica proposta. Nel corso della loro carriera i genovesi Abysmal Grief sono stati etichettati con più termini: doom, horror metal, occult music e altri ancora. Non fermatevi però ad una fredda definizione, ma giudicateli per quello che sono, ovvero il miglior gruppo in grado di trasportare in musica le stesse emozioni che potreste provare presenziando ad un funerale, o partecipando ad un corteo funebre, oppure passeggiando solitari in un cimitero in una grigia giornata piovosa.La title track e la conclusiva “Mysterium umbrarum” sono due capolavori doom, due salmi mortuari elaborati in musica grondanti atmosfere mortifere e capaci di infinite lugubri sensazioni. Splendido il lavoro chitarristico di Regen Graves, ma altrettanto fondamentale risulta l’apporto del cantante Labes C. Necrothytus, abile con le sue tastiere a donare un tocco orrorifico ad ogni composizione. La spettrale “The shroud” sposta di un pelo il raggio d’azione, abbracciando sonorità tipicamente dark e presentandosi come una disperata nenia. A concludere, una riuscita cover di “Occultism”, brano partorito originariamente dal padre dal dark/doom sound italiano, Paul Chain, e reinterpretato magistralmente dai nostri.. Al momento non esiste un solo gruppo capace di trasmettere la morte in musica come lo fanno questi genovesi. Marco Cavallini
ABYSMAL GRIEF – The Occult Box
Nel 1977 col brano “Terror” i Death SS coniarono un termine per identificare una musica sacrificata alla glorificazione dell’arte funeraria: horror music. Oggi, esattamente 30 anni dopo, gli Abysmal Grief ne sono i più autentici interpreti, apparendo la reincarnazione della band pesarese nella sua storica ed originaria line up (quella del leader Paul Chain affiancato da Steve Sylvester).Un gruppo, gli Abysmal Grief, che pare vivere in una propria dimensione, dove la tristezza e l’oscurità circondano l’aria che si respira; un gruppo che “vive” la morte e considera il lutto come inseparabile compagno di vita. La pubblicazione dell’ omonimo album di debutto è l’occasione per approfondire la conoscenza della discografia del terzetto genovese. “Abysmal Grief” (Black Widow Records - 2007)
br> Registrato sul finire del 2004 (ma pubblicato solo oggi a causa di ritardi accumulati dalla Black Widow Records), “Abysmal Grief” è probabilmente l’opera più contorta ed ambiziosa del trio genovese. Un disco che vive sul continuo incastro/scontro fra il riffing chitarristico di Regen Graves e l’apporto, fondamentale, del lavoro alle tastiere/synth di Labes C. Necrothytus, la cui tenebrosa voce somiglia sempre più a quella di Fernando Ribeiro (Moonspell). La varietà delle canzoni è il punto forte del disco, che vede la band costruire brani articolati che vivono su più soluzioni ed umori sonori. L’opener “The Necromass: Always They answer” è una suite di dark doom cimiteriale, dove al suo interno si alternano lugubri doom riff a tristissime note di organo, prima di lasciare spazio ad un recitato in latino (declamato dall’ospite Mario “The Black” Di Donato) che rabbrividisce i sensi. Un pezzo incredibile è “Cultus Lugubris”, in quanto possiede un notevole groove di fondo nonostante si presenti come una tetrissima cavalcata horror metal, mentre “When The Ceremony Ends” non poteva chiudere al meglio il disco, avanzando lenta e strisciante verso la fine, dissolvendosi in un temporale nel quale si ode, lontano, l’eco di una campana funebre. Infine, “Requies Aeterna”, in assoluto la canzone doom dell’anno: semplicemente, l’estrema unzione messa in musica, dove campane a morto accompagnano l’andamento funerario della song. Questa canzone dovrà essere la colonna sonora del mio funerale: saranno queste le mie ultime volontà. “Mors Eleison” (I Hate Records - 2006)

“Mors Eleison” è un mini album di quattro pezzi concepito come ideale omaggio alla morte ed al suo inesorabile arrivo. La title track poggia su un grandissimo lavoro chitarristico di Regen, abile nel creare atmosfere occulte. Particolare è “The shroud”, una raggelante nenia basata su violacei synth ed effetti vocali declamanti rosari e preghiere all’aldilà; fa bella mostra di sé la cover di “Occultism” di Paul Chain (da sempre fonte d’ispirazione del gruppo genovese). Ma il brano che si erge è la conclusiva “Mysterium umbrarum”, una vera suite di doom funereo atta a celebrare il culto e il riposo dei defunti. Un brano dove oscuri synth s’incontrano con sfuriate elettriche ed un tetro recitato in latino accompagna fino alla coda finale dove un clarinetto declama note d’infinita mestizia. “Creatures from the grave” (Self produced - 2004)

“Creatures from the grave” è invece un single EP che poi apparirà anche sull’album in una versione rimasterizzata e definitiva. Un brano che dopo un inizio cadenzato si sviluppa come una cavalcata horror doom apparendo dinamico nonostante la componente cimiteriale di fondo sia sempre presente. C’è da segnalare anche la song di Tony Tears che completa lo split, “L’entità della salvazione”, ottimo viatico per conoscere questo artista genovese dedito ad un’interessante forma di dark sound dai risvolti occulti esoterici. “Hearse” (Horror Records - 2002)

Splendida confezione per questo EP con copertina (e che copertina) apribile e vinile grigio marmoreo limitato e numerato a 666 copie. Rispetto agli standard del gruppo, “Hearse” e “Borgo pass” poggiano su ritmi più dinamici, presentandosi ricche di un efficace groove nero. La title track è uno dei brani più efficaci mai scritti dal trio e viene spesso usata come opening track dei loro concerti. “Exsequia occulta” (Self produced - 2000)

Come recita il titolo, un vero e proprio rituale negromantico è trasmesso in musica nella title track. Tredici minuti di arte musicale funeraria, con un brano di sepolcrale e lentissimo doom metal atto a descrivere le emozioni/sensazioni che scaturiscono da questa antica ed occulta pratica; uno dei migliori brani concepiti dal gruppo. Il secondo pezzo, “Sepulchre of misfortune”, smorza per un momento la greve e pesante atmosfera creata dal pezzo precedente, sviluppandosi come un mid tempo memore di certe cose dei Moonspell più ‘orrorifici’. “Mors te audit” (Self produced - 1999)

Cassetta promo realizzata in sole 13 copie e distribuita fra gli amici più intimi del gruppo. Contiene la prima versione di “Hearse”, nonché brani che ancora oggi il gruppo propone dal vivo, come “Open sepulchre” (il sottoscritto ne cerca disperatamente un copia). “Funereal” (Demo tape - 1998)

Demo di debutto. L’intro “Violeceum sepulchrum” è ancora oggi utilizzato come apertura dei loro concerti. Il gruppo è giovane e palesa le proprie influenze, fra le quali un leggero background virante a certo black metal (soprattutto nell’approccio vocale). Brani come “Fear of profanation” e “Cemetery” mettono comunque il gruppo già su un livello superiore rispetto all’underground italiano dell’epoca. Sta a voi decidere se volete ascoltare gli Abysmal Grief, un gruppo che ogni appassionato della musica dark, in ogni sua forma, dovrebbe fare suo, al fine di capire quanto possa essere piacevole il triste abbraccio dell’oscurità che circonda la nostra esistenza. Intanto noi vi proponiamo una discografia consigliata: Abysmal Grief Mors eleison Hearse Exsequia occulta Marco Cavallini
ABYSMAL GRIEF – We Lead the Procession
"We Lead the Procession" non è un nuovo album degli Abysmal Grief, ma una raccolta dove il gruppo ha scelto di inserire rehearsal, demo version, cover (rispettivamente di Bathory e Death SS) e qualche inedito registrati nel corso della carriera (viene qui preso in esame il periodo che va dal 1998 al 2008). Un album dedicato ed indicato a chi non possiede tutto dei nostri, specie le loro prime uscite ormai esaurite e fuori stampa. Tra le cose più interessanti ci sono le versioni inedite delle iniziali "Open Sepulchre" e "Fear of Profanation", che piacciono nel loro suono sporco e terroso e mostrano come già fin dai primissimi tempi gli Abysmal Grief si proponessero come i degni eredi della scuola occult horror doom italiana. L'ossianica "Procession" è un riuscito inserimento dei nostri nel campo occult ambient ("The Shroud" che apparirà nel 2006 sul mini LP "Mors Eleison" ne ricalca lo stile e lo spirito). La già citata "Mors Eleison" è qui presente in un'azzeccata versione grazie ad un maggior utilizzo dell'organo e delle tastiere. Un CD antologico di tutti i brani che il gruppo ha disseminato negli anni nei vari EP pubblicati sarebbe stato molto più stimolante di questo "We Lead the Procession". Non siamo certo gli unici, anzi, siamo in molti ad attendere da tempo che la cosa si realizzi. Per adesso questo album (edito dalla danese Terror From Hell Records in versione CD limitato a 500 copie) susciterà comunque l'interesse dei fanatici del gruppo. Marco Cavallini
ACAJOU – Gold Ones
C’era un tempo in cui circolava una band capace nel suo stile di reggere il confronto con i colossi internazionali. Tempi in cui dischi come “Hidden from all Eyes”, lo storico split “Cookery Course” e (soprattutto) “Latin Lover” guadagnavano pareri e recensioni positive persino su Kerrang. Purtroppo a volte la magia svanisce e gli Acajou sono stati vittime di congiunture sfavorevoli. Dopo il bellissimo full lenght un altro paio di promo davvero interessanti e poi lo scioglimento, non prima di questo “Gold Ones”, cd di quattro tracce che rimane così ultima testimonianza di quanto prodotto dal gruppo veneto.Un dischetto che fa rimpiangere quei tempi, quella band. Una amalgama perfetta, una spiccata personalità, un sound che travalica stantii confini di genere. Parlare di stoner rock o heavy psichedelia per gli Acajou equivale ad un fraintendimento. Restano chiari certi riferimenti, cambiano completamente scrittura, personalità, esecuzione. In sole quattro tracce si mischiano hard e acid rock, funk, stoner e blues. Splendida la voce di Alessandro Ruffato (il migliore cantante italiano in questo genere), ipnotiche le ritmiche di Filippo Ferraretto (basso) e Simone Ruffato (batteria), ispirate come non mai le chitarre di Nicola Tomas Moro. Se “Freedom” resta appiccicata in mente sin dal primo ascolto grazie al suo fascino sinuoso, “Scandal” pigia sull’acceleratore con un’aggressività tosta e ragionata. “The Cube” è un piccolo gioiello che coniuga melodia e heavy psichedelia, mentre la conclusiva “Shoronne” viaggia su sentieri in cui si incrociano rock, groove funky e hard psych. Non possiamo far altro che augurarci due cose: che l’interesse destato dagli Acajou faccia avvicinare tanti ascoltatori ad una band così importante. E che magari un piccolo gesto come questa recensione faccia tornare ai ragazzi la voglia di suonare insieme... Alessandro Zoppo
ACAJOU – Latin lover
Non stupisce più di tanto il fatto che lo stoner rock abbia attecchito nel lombardo-veneto, e se d’altronde questa musica ha avuto diffusione in territori desertici, nell’accezione più larga possibile, come non poter far rientrare in questo contesto anche la megalopoli padana e relative propaggini? Gli Acajou sono riusciti per alcuni anni ad elettrificare, grazie alla loro musica acida e bluesata - e un immaginario rivolto ai veri ’70 italiani, quelli che non ti racconta più nessuno - le campagne limitrofe ai Colli Euganei, riuscendo ad essere apprezzati anche tra il pubblico specializzato d’oltreoceano. “Latin Lover”, il loro disco più completo, fotografa un gruppo musicalmente molto compatto, sicuramente di matrice kyussiana, ma capace di rileggerla alla luce di una originale sensibilità melodico-compositiva, che non si limita a riprodurre il rombo del deserto. Se “Martini Dry Revolution” descrive un brano stoner sincopato, da ascoltare su una Giulietta impolverata con i gomiti appoggiati sui finestrini, “Latin Lover” è una bella canzone da Sky Valley che ricorda i Fatso Jetson più hard rock. In “Go Vegan” e “Black Horizon” i cori impostati da Ruffato, su fraseggi di acido blues, si fanno alieni ed escapisti, riuscendoci ad avvolgere in spire molto emozionali. “Magirus Deutz” suona veramente Kyuss/Natas, con quei maledetti riff che ti entrano dentro grazie anche alle grasse partiture di basso; “Woman Sex Blues” propone strozzati riff desertici predisposti alla ricerca di un brano vero e proprio, e non certo una mera effettistica psichedelica. Numerosi i cambi di tempo per la discreta “Aeiou”, che lascia il campo al brano migliore in assoluto, “Buenos Aires”, assolutamente fantastica, piena di misteriosa uggia e piacevole perversione latina, da spararsi in cuffia mentre si passeggia tra i giganteschi falansteri della capitale sudamericana. La marziale “Lonely” tira in ballo Dozer e Lowrider, e la conclusiva, lunga, “Mad Dogs And Black Shells” dipinge con classe scenari dilatati, risultando un mirabile hard-psych. Roberto Mattei
ACID APE – Fleshspa
Proprio sul finire del 2002 eccoti sbucare dal nulla il disco che mai ti saresti aspettato…da Helsingborg, Svezia, non arriva il solito gruppo death o stoner, bensì tre ragazzi carichi di rabbia e frustrazione che vomitano sui loro strumenti chili di rumore duro e puro. Si tratta degli Acid Ape, band proveniente dal calderone della Lunasound, che dopo appena un demo riesce a piazzare un album d'esordio spiazzante e violento. Puro noise rock nella migliore tradizione targata Jesus Lizard, Shellac e Unsane. Tonnellate di feedback lancinanti penetrano nelle nostre vene, ci lasciano sbalorditi e con un insistente ronzio nella testa… L'originalità non è il loro punto di forza, ma la carica stordente di questa musica colpisce davvero nel segno. Marcus (batteria), Kristoffer (basso e voce) e Ossian (voce e chitarra) spezzano ogni resistenza e ci inondano di bordate rumoriste fin dall'iniziale "Tetna shot" concedendo pochissimo spazio alla melodia. Tutti e undici gli episodi del disco sono qualcosa di eccitante e travolgente, con alcuni picchi come la favolosa "Axle grease", molto garage nei suoni e nelle atmosfere, o l'altrettanto grandiosa "Swanky", un vero e proprio assalto di chitarre fuzz gioiosamente distorte. Un brano come "Floating" paga anche una certa influenza rock'n'roll (non a caso alcuni membri del gruppo fanno parte della new sensation del rock svedese, The Borderlines), mentre il momento alterato e deviante di "Anorexia nervosa" richiama alla mente le follie distruttive dei Melvins. Carichi di noise effettato a non finire caratterizzano anche "So beautiful, so clean" così come le lente e acide divagazioni di "Walter" e "Spunk", macigni aggressivi che non concedono un attimo di tregua. Viceversa "X-leg" e "Mouthful" irrobustiscono le fitte trame di fuzz con un vago senso melodico che rende tali pezzi ancora più accattivanti e ricchi di groove. In conclusione invece troviamo l'ennesima malattia sonora, "Shitfaced", song dal testo delizioso e dai connotati punk'n'roll maledettamente intriganti. Dunque un debutto senza dubbio interessante, che lascia presagire un futuro roseo per questi tre simpatici alchimisti del rumore… Alessandro Zoppo
ACID BRAINS – Far Away
Sono tra le band più longeve nate lo scorso decennio e sopravvissute alle continue mutazioni del panorama rock nazionale i toscani Acid Brains; attivi ormai dal 1997, hanno fatto dell'incessante attività live e della passione incondizionata per le sonorità ispide il proprio segno distintivo, collezionando oltre 150 date, numerose recensioni e soprattutto uno zoccolo duro di seguaci non indifferente, e c'è da dire che sono tutti risultati raggiunti col sudore e mantenendo uno stile coerente, pur muovendosi tra il rock noise impregnato di umori seattleiani dei primi album autoprodotti, e lo stoner 'alternativo' (segnatamente da "The end of the Show", album del 2004), che non disdegna incursioni nella psichedelia di varia natura (indie e space).Passano altri due anni ed è la volta del quinto album "Far away", fasciato da un artwork nettamente space, evidente sintomo di innamoramento per le sonorità trippy, anche se il sound del combo di Lucca rimane inossidabilmente legato all'originaria matrice noise/alternative, diretta filiazione del grunge e del punk. In questo senso sono esemplificativi brani come "Do You Wanna Hear Me?", "Be Like I Wanna Be" e "I Hate Reviews" basati su chorus iterati, riff ronzanti e ben squadrati, e incedere ritmico piuttosto potente, una specie di commistione tra Mudhoney, Qotsa, Mondo Generator e Sonic Youth lineari e "metallizzati". La ruvidezza melodica impregnata di desolazione metropolitana di "Mirror" condensa l'esperienza del gruppo nel sapere realizzare brani incisivi, e anche "Something Wrong" e "If All The Same", saltellanti e duri pezzi stoner-punk superano la prova, anche se forse lo schema segue percorsi già battuti. Riusciti pure i brani che si avventurano nelle sonorità psych : l'ultima energica semi-ballata "I'll Go Away From Here" che ricorda molto episodi di quei gruppi di metà anni 90 che speziavano a dovere robuste canzoni rock, e soprattutto lo space rock alternativo di "In The Heavens" che con le sue malinconiche strofe e reattori garage/punkoidi, fa decollare la voce calda e lunare di Stefano Giambastiani. "Far Away" forse non si impenna verso vette irraggiungibili, ma rimane un album positivo, senza fronzoli, passionale, suonato in modo asciutto e capace di suscitare emozioni più di tanti altri prodotti di tendenza. E non è davvero poco. Roberto Mattei
Acid King – III
Ancora una volta la Small Stone di Detroit. Ancora una volta il guru Billy Anderson che produce. Dopo i Sons of Otis non potevamo che avere l'ennesimo gran disco. Ed infatti così è stato. Stavolta tocca agli Acid King, tra i prime movers nell'universo stoner psych doom, tornati alla ribalta dopo l'ultimo segnale di vita datato 2001, lo split con gli altrettanto fantastici Mystik Krewe of Clearlight (a proposito, che fine hanno fatto?). Le ristampe del bellissimo "Busse Woods" e dell'EP d'esordio del 1994 avevano alimentato le speranze ed il nuovo "III" solidifica la gloria psych doom di Lori e soci (Guy Pinhas e Joey Osbourne, esperienze fondamentali in The Obsessed, Goatsnake e Altamont). Triangolo malefico che produce getti infuocati e ultra distorti, stoner doom cupo e psichedelico, giocato sui riff grassi e la voce evocativa di Lori, autentica protagonista del lavoro. Ma l'impatto di Guy e Joey non è affatto da sottovalutare, anzi: l'impasto ritmico degli Acid King è fondamentale. Lento e penetrante, si conficca nel corpo e nello spirito, fa viaggiare su binari saturi d'elettricità e di mistica ricerca spirituale. Come dimosta "War of the Mind", dodici minuti dove stoner, doom e sludge trovano un equilibrio davvero incredibile. Sulla stessa scia si muovono anche "Heavy Load" e "On to Everafter", lentezza esasperata messa al servizio di un'attitudine pienamente stoner, per potenza (chitarre pachidermiche ed un andamento da mammut) e atmosfere (fumose quanto basta). "2 Wheel Nation", "Bad Vision" e "Into the Ground" esplorano invece nuovi sentieri melodici, sorprendenti ed inattesi. La coltre heavy psichedelica viene infatti squarciata da sofferte armonie, oscure, notturne, ma pur sempre suadenti. Una voce che sembra provenire dall'oltretomba, un aldilà non certo malefico, decisamente ammaliante. Insomma, gli Acid King non scherzano, insieme a Electric Wizard, Porn e Sons of Otis sono quanto di meglio si possa chiedere nel connubio tra psycho stoner e doom. Inchinatevi dinanzi al suo potere: il re acido è tornato. https://www.youtube.com/watch?v=m30C8MBt7Ts&ab_channel=AcidKing-Topic

Alessandro Zoppo

Acid King – The Early Years
Se vi trovate a scorrere le presenti pagine sicuramente avrete già una minima idea di chi siano gli Acid King e di quello che la musica dietro questo monicker rappresenti per l’intera scena stoner doom internazionale. La formazione californiana capitanata da Lori S, una delle “stoner woman” sicuramente più rappresentative di questo movimento, ha indubbiamente contribuito in maniera attiva alla definizione di un genere multiforme, variegato e dai confini molto spesso poco definiti, come per definizione è giusto che sia, quale quello che appunto spesso viene definito di comodo stoner doom. Gli Acid King hanno sempre dato una rappresentazione musicale di questa corrente mantenendo degli standard ben marcati, a partire dall’inconfondibile voce di Lori, fino al tocco assolutamente personale con cui la band di San Francisco ha sempre caratterizzato il proprio sound. Distorsioni marcatamente fuzz, brani monolitici e dannatamente ipnotici, reminiscenze punk hardcore e quel feeling generale misto southern e psych che rende l’ascolto di ogni brano un’esperienza viaggiante unica. Lo spunto per parlare del trio di Haight Street viene dal Giappone, patria della lodevole Leaf Hound Records, la quale ci ripropone in questa occasione in un unico formato le prime due release degli Acid King, ovvero il primo omonimo 10" e il primo full lenght Zoroaster, originariamente pubblicati nel 1994 e 1995 rispettivamente per Sympathy for the Record Industry. Da lungo tempo fuori catalogo e difficilmente reperibili, le prime due testimonianze discografiche degli Acid King rivivono in questa nuova edizione intitolata emblematicamente The Early Years, per la gioia di tutti i fan della band e di chi vuole avvicinarsi per la prima volta alla musica del trio acido. Un ascolto davvero consigliato. https://www.youtube.com/watch?v=2nQTdEBi0R4

Witchfinder

ACID MOTHERS TEMPLE AND THE COSMIC INFERNO – Starless and Bible Black Sabbath
Kawabata Makoto è un guru della moderna psichedelia. Naviga i tumultuosi mari dell’acid rock con la disinvoltura che si addice ai grandi. Almeno un paio di dischi l’anno, progetti e collaborazioni varie, nessun calo di qualità. Tra le innumerevoli novità discografiche uscite tra il 2006 e il 2007 ci preme sottolineare il passaggio degli Acid Mothers Temple dalla visionarietà dei Melting Paraiso U.F.O. alla nuova incarnazione dei Cosmic Inferno. Dopo lo stile orientale di “Mantra of love” e il rock selvaggio di “Electric Heavyland”, è infatti la volta di “Starless and Bible Black Sabbath”. Il riferimento non è casuale, titolo e copertina parlano chiari.Solo due tracce, la prima di oltre 20 minuti, la seconda di 10. Ci sono i Black Sabbath e i King Crismon (ovvio…), c’è il rock lisergico e travolgente, c’è soprattutto lo spirito libertario della jam, di chi suona per gusto, senso di devozione al proprio istinto musicale e ai propri spiriti interiori. Kawabata è una furia alla chitarra, lo accompagnano Tabata Mitsuru (basso e voce), Higashi Hiroshi (synth), Shimura Koji (batteria) e Okano Futoshi (batteria). L’ensemble è affiatato e furibondo, nella title track picchia davvero duro. Poggiando su un riff oscuro degno del miglior Tony Iommi, “Starless and Bible Black Sabbath” viaggia per assolo dinamici e dissonanti, ritmiche instancabili, vocals minacciose ed evocative, synth astrali, un vortice di perdizione e smarrimento che racchiude il senso stesso del rock psichedelico. “Woman from a Hell” è altrettanto allucinata ma preferisce pigiare il piede sull’acceleratore, suonando come i Motorhead che recuperano la tradizione Hawkwind in un trip spaziale di dimensioni interplanetarie. Venite e adorate Kawabata Makoto. Nel nome dei Black Sabbath, dei King Crimson e della psichedelia. Alessandro Zoppo
ACID OCEAN – Acid Ocean
Trio milanese attivo da qualche tempo e che giunge all'esordio con un 7" che farà da apripista ad un prossimo full length, gli Acid Ocean sono Fabio Serafini (chitarra e voce, già con Unscarred ed Elevation), Luca Caserini (batteria, Sixty Miles Ahead) e Diego Cavallotti (basso, Within Your Pain). Il mini in questione si compone di due brani, "Apatethic" e "Diathom". Il sound è riconducibile a certo sludge metal con influenze post hardcore e alternative metal, alternate ad aperture doom e death. Vengono alla mente in particolare band quali Crowbar, Iron Monkey, Eyehategod, Mistress, Black Cobra, giù addirittura agli Helmet e persino ai Biohazard. Sprazzi doom rendono lo stile del trio sofferto e heavy, con voce stridula e vibrazioni acide. Insomma, i due brani mostrano bozze di idee da sviluppare: restiamo in attesa dell'album. Antonio Fazio
ACRIMONY – Tumuli shroomaroom
In quella gola, dall’ampiezza di circa cinquanta miglia quadrate, sarebbe vissuta, in mezzo alla più lussureggiante vegetazione, una piccola tribù […] che portava berretti verdi e adorava una divinità raffigurata da un pavone. Questo essere diabolico, nel corso degli innumerevoli secoli, avrebbe insegnato agli uomini la magia, e avrebbe rivelato loro dei misteri che un giorno avrebbero sconvolto l’intero globo terrestre.[…] Il tibetano non aveva mentito. Laggiù, in mezzo al più rigoglioso verdeggiare della foresta, si apriva una specie di cintura giallobruna di terra molle e disgregata. […] Tutto quello che gli stava dinanzi appariva in forme ondeggianti come attraverso uno strato d’acqua, […] la luce del sole gli sembrava di un verde spettrale e colorava i lontani ghiacciai. […] Nell’aria vi era un odore inebriante simile a quello dei fiori d’amberia; farfalle iridescenti, grandi come mani, stavano posate con le ali spiegate, quasi libri magici aperti su fiori immobili. (Gustave Meyrink, Der Violette Tod) Only three Whalephants remain in the Universe. They swim in the enormous Sidher vats within the deepest of the Deepest Temples of Space. They await the day when all knowers of the Stone are reunited and the will swim the Stella Tides to Earth and lead us all Home to Wode. That blue star far away. (Acrimony, internal sleeve of Tumuli Shroomaroom) Corre l’anno 1996 e i favolosi gallesi Acrimony – già noti per due dischi di culto del nascente movimento psych-stoner-doom britannico, come “Hymns To The Stone” e “The Acid Elephant” - incidono per l’etichetta italiana Godhead/Flying del talent-scout Karl Demata, quello che si vocifera essere nell’underground uno dei manifesti sonori più importanti del periodo. Ricordiamo che si erano da poco sciolti i Kyuss, i Monster Magnet consegnavano alla storia la loro trilogia uscendone esausti, gli Sleep si immolavano al martirio pur di non compromettersi, e i Cathedral, dominatori col loro “Carnival Bizarre”, guidavano un sottobosco rigogliosissimo, finalmente rifiorito nell’aspra terra albionica (Orange Goblin, Anathema, Year Zero, Mourn, Electric Wizard!). Varie vicissitudini fanno slittare la pubblicazione di un anno e mezzo (nonostante l’album venga nel frattempo “riscattato” dall’importante Peaceville, con Dave Chang ingegnere del suono, e produzione di Andy Sneap), e questa forzata latitanza risulta fatale per la band, che termina di lì a poco la sua attività (uscirà postumo un ultimo Ep con i Church Of Misery). L’interruzione della carriera di questo gruppo è stato uno degli episodi più amari nella storia dell’heavy (almeno per chi ama la musica di altissimo livello), e pur senza farsi piegare da superflui rimpianti, un lieve tremore accompagna ancora le mani nell’infilare il cd, su cui sono effigiati lunghi e tubulari arabeschi, mentre in copertina l’alieno del pianeta Urabalaboom prosegue tuttora la sua opera meditativa in chissà quale antro del nostro pianeta… Lo scorrere di “Tumuli Shroomaroom” ci proietta definitivamente in quello spazio analitico-cerebrale in grado di penetrare la materia rocciosa fin nei suoi più particellari elementi, facendo convivere le mistiche visioni degli originari Celti e degli stregoni siberiani in una futuribile era paleolitica, sino a raggiungere un’estatica orgia dei sensi scevra di ogni appiglio temporale. Un’alchimia di straordinaria potenza, presente in composizioni mastodontiche ma dalla musicalità spiccatissima, e che consente agli organi uditivi di convogliare lo spettro sonoro in infinite geometrie. “Hymns To The Stone” è realmente l’inno dello stoner-rock, con quei riff giganteschi e cosmici, intrisi di pura bellezza architettonica rupestre, e i musicisti suonano come accoliti posseduti dai Grandi Antichi, ed in particolare le vocals sono rapite dalla Sindrome di Stendhal, generatasi millenni prima all’invenzione della pittura. E’ tutto scritto perfettamente, dai giri metallici e sabbatici del basso, fino alla potenza multirifrangente delle sessions ossessive. Ci muoviamo in una sterminata terra pianeggiante, ricca di bassa vegetazione, nell’eccezionale “Million Year Summer” (indescrivibile), e siamo in grado di farlo in sequenza su di un qualsiasi corpo celeste della galassia. Miriadi di aromatiche fragranze vengono esalate dallo strumentale post-Zeppelin di “Turn The Page”, prima di lasciare il campo al lacerante feedback di “Vy”, prologo di un brano ad altissimo grado di elettricità space-doom, un ideale passaggio di consegne generazionale (non a caso dedicata ai “Lords Of Doom” Saint Vitus). La nuova strada viene scoperta quando il riff – che più stoner rock di così non si può - di “Find The Path” squarcia un’imponente parete rocciosa, e ci credo che alla fine della canzone gli Acrimony implorino dosi massicce di Valium: devono essere esplose le pareti cerebrali, al cospetto di quello che hanno provato suonandola in questa maniera! Comunque, immediatamente dopo possiamo affidarci alle naturali infiorescenze di “The Bud Song”, anche questa una song mitica, che riesce ad alzare una densissima cortina fumogena, le cui ritmiche serrate rischiano di scatenare un headbanging di portata sovrumana. Che ci crediate o no siamo ancora a metà dell’album, nonostante l’apparente trascorrere di molte ore (o un giorno? O forse più?), e la seconda parte di “Tumuli” si compone di altri tre pazzeschi, fantasmagorici e lunghi brani (dai 10’ ai 13’), ma vi scongiuro di non stopparvi nell’ascolto, pena un traumatico coitus interruptus con tanto di testata contro l’architrave del dolmen. Allacciate le cinture che si punta dritto verso la genesi dell’universo, invocata dalle primordiali e fantascientifiche note di “Motherslug (The Mother Of All Slugs)”, uno dei più grandi brani space-rock dai connotati ultra-heavy, insieme a “You Shouldn’t Do That” e “Dinosaur Vacuum”, con il non trascurabile particolare che gli Acrimony riescono a spostare gli immani edifici edificati da civiltà pre-umane, per adempiere al rituale su piatti terreni argillosi. Sfumano gli effetti e la nostra mente è ora sovrapposta al core del big-bang con “Heavy Feather”, e ogni calcolo astronomico ci risulta semplice e inebriante come il gusto di un frutto di una pianta grassa. Uno strumento antichissimo, usato a mo’ di interferometro da uno strafatto druido, ci rimette improvvisamente in riga sotto i colpi di “Firedance”, in un tripudio di fuochi che vanno spegnendosi al morire della notte, con i primi abbacinanti raggi luminosi irradiati da una sfera ultravioletta, visto che anche il Sole ha dovuto cambiare attributi, generando forme di vita appartenenti a classi sconosciute… Si torna a casa. Uno dei più grandi dischi heavy-psych di sempre. Roberto Mattei
ACTIVATOR – Both Barrels
Di fronte ad un disco come questo "Both barrels" dei texani Activator viene alla luce il più grande dubbio del recensore: criticare o lodare? Il dilemma ovviamente lo pone la proposta della band, derivativa fino all'osso ma molto travolgente. Secondo i canoni di chi scrive va mantenuto un certo equilibrio, ecco dunque la soluzione: chi stravede per Kyuss e Unida faccia suo questo disco perché potrà ricavarne felicità e ampia goduria. Chi invece non digerisce lo stoner o chi vuole avviarsi a tale genere parta pure da qualcosa di diverso e più fondamentale. Detto questo e messa da parte la questione dell'originalità, agli Activator va riconosciuto il merito di aver realizzato un lavoro intenso e scorrevole. Stoner rock grezzo e groovy, con qualche apertura doom (ad esempio in "Bashtari" e "Ozzy"), sterzate southern ed il classico stile fuzz impresso a caratteri cubitali su chitarre e ritmiche. Nulla di nuovo, questo è chiaro. Ma "Both barrels" è perfetto per far fronte al caldo cocente o ad un lungo viaggio in auto. La somiglianza con gli Unida a volte fa paura (ascoltate soprattutto la voce di Jason e ditemi se non è identica a quella di John Garcia..). Ma la compattezza dei pezzi ed un certo gusto per la melodia fanno sì che il songwriting sia sempre ispirato e mai stantio. Svettano in particolare le bordate messe a segno da "Cadillac" (ideale colonna sonora per una scorribanda a 100 all'ora sulla Route 66) e "Bowl control", matassa incandescente da far invidia ai migliori Dozer. Altri bei colpi li assestano l'iniziale "16 Ohm", tirata e catchy, la bollente "Man's plan", la metallica "Song for nothin'" e la conclusiva "..The whole fuckin' village", misto di sonorità hendrixiane e heavy psych. Gli Activator non saranno dei mostri di bravura o dei colossi del genere ma il loro lavoro (sporco e sudato) lo sanno fare. Se iniziassero ad essere più personali tantissimi osannati gruppi stoner dovrebbero iniziare a tremare.. Alessandro Zoppo
ACTIVE HEED – Visions from Realities
Un progetto solare che esplora mondi fantastici è Active Heed di Umberto Pagnini che giunge alla prima uscita discografica con "Visions from Realities". Come recitano le note di copertina, Umberto "crede nella collaborazione creativa e con Active Heed vorrebbe raggiungere tale obiettivo" e dopo l'ascolto bisogna prendere atto che l'obiettivo è stato addirittura superato, in termini di fantasia e creatività. Si scopre un'idea unitaria di composizione e una visione a lungo respiro, ma quello che più colpisce è il suono: una massa compatta ed omogenea come se una vera band avesse registrato live in studio. In realtà il merito va ad Alberto Callegari, nominato per l'occasione 'Einstein', che produce, mixa e masterizza in sala di regia tutte quelle idee che nel corso del tempo hanno attraversato l'immaginario di Umberto e che hanno trovato effettiva realizzazione insieme a compagni di strada come Lorenzo 'Il Magnifico' Poli, Pellek, Giovanni Giorni, Marit Borresen e Mark Colton. Idee che spaziano da un vago odore pop di "Forest and Joy" (inno alla gioia di riappropriarsi della parte naturalistica dell'uomo) al metal evoluto di "Every Ten Second Before" (vero e proprio anthem che non farebbe dispiacere ai fan dei Judas Priest dei Seventies) al progressive tout court di molti episodi che hanno il merito di divincolarsi dal prog rock stucchevole e tentano un 'progressione' tra generi che ha la stessa efficacia di contaminazione e combinazione di stili diversi. Emerge una visione della musica complessa ad articolata che si nutre di oltre tre decenni di storia e vuole fare focus sulla grazia della composizione e sulla delicatezza del tocco, cose non proprio comuni a tutte le band in circolazione. Chissà quali altri mondi creerà il nostro Umberto in futuro. L'importante è seguirlo nelle sue creazioni con la giusta voglia di lasciarsi andare. Con "attenzione attiva" per la precisione. Eugenio Di Giacomantonio
ADMIRAL BROWNING – Maiden voyage
Si propongono come ‘instru-metal’ band. Mai definizione fu più azzeccata per gli Admiral Browning, sorta di ibrido stoner prog doom metal, formazione senza dubbio particolare nel panorama musicale del Maryland. Il loro rock strumentale è oscuro e perverso, è il viaggio di una zattera abbandonata nel mezzo di una tempesta, diario di bordo di un ammutinamento scritto da uno sguattero costretto nello spazio angusto della stiva.Difficile inquadrare il loro sound. Come stile e affinità possiamo accostare gli Admiral Browning a Stinking Lizaveta e Zebulon Pike. Insomma, un calderone nel quale confluiscono varie esperienze sonore, dai King Crimson ai Karma To Burn, passando per Black Sabbath, Rush, Mastodon e Melvins, il tutto miscelato con ampie dosi di psichedelia, thrash, doom, progressive e hardcore. Ma è una sintesi imperfetta, perché dare dei nomi di riferimento è abbastanza inutile. A parlare sono questi otto pezzi, quattro registrati in studio e quattro dal vivo (dove la registrazione perde in qualità, non in intensità). “Deus ex machina” si apre e si chiude con un riff granitico e ritmiche impazzite, nel mezzo una pausa arpeggiata sognante e delicata. “Slippery slope” possiede un groove caldo e fragoroso, nel quale oltre il muro sonoro creato dalla batteria (dietro le pelli Tim Otis) si esaltano il basso di Paul Grabenstein (il cui ruolo - come nelle bonus track dal vivo - è ora occupato da Ron ‘Fezz’ McGinnis) e gli intrecci delle due chitarre, Matt Legrow e John Marion. La pioggia e il rintocco delle campane aprono “Markley’s grudge”, solita struttura circolare che esalta la bordata hard posta a metà brano, così come “Beast of Gevaudan”, altro bolide che fa fuoco e fiamme. Le bonus track non fanno che confermare la buona vena degli Admiral Browning, che sul palco amplificano al massimo il concetto portante della propria musica e si dedicano a lunghe e dilatate matasse psichedeliche. Rock strumentale che non annoia mai, anzi. Per la serie, quando ci sono intelligenza e coglioni. Alessandro Zoppo
ADMIRAL SIR CLOUDESLEY SHOVELL – Don’t Hear it… Fear it!
Power trio, la grande tradizione continua. La storia del rock pesante negli anni ha scritto pagine indelebili grazie a famigerati terzetti, basti pensare a Cream, Jimi Hendrix Experience, Blue Cheer, Dust, Budgie, Rush, Trapeze, ZZ Top, Motorhead, Cactus, Grand Funk Railroad e tanti altri. Vanno dunque annoverati nell'esclusivo circolo dei celeberrimi e rumorosi terzetti gli Admiral Sir Cloudesley Shovell, capitanati da Johnny Redfrem, già leader di un altro trio britannico, gli stoner'n'rollers Gorilla. La band è l'incarnazione di quanto meglio i primi 70's ci hanno offerto, ossia riff tritatutto sostenuti da una sezione ritmica quantomeno indiavolata. Nel 2011 ci hanno offerto l'antipasto con l'EP "Return to Zero", ed ora sono pronti con il full-length "Don't Hear it… Fear it!".L'album è un caterpillar sonoro: riff dopo riff, cazzotto dopo cazzotto si finisce KO, in un'esaltante cavalcata che parte dall'iniziale "Mark of the Beast" sino alla conclusiva "Killer Kane" (e oltre con la hidden track "Beanstew", cover dei Buffalo). Il disco non concede riposi, privo com'è di fronzoli: heavy is the law! Se cercate l'attimo poetico in questo lavoro, dimenticatelo: non dovreste neanche doverlo pensare. Escluso qualche accenno psichedelico, gli Admiral sono ostinatamente ruvidi ed incollati al roots rock che si inchina dinanzi alla maestà di "Vincebus Eruptum", e che dimostra come i Black Sabbath possano stregare l'ascoltatore fino all'impeto capace di rimandare a Sir Lord Baltimore, MC5 e persino Motorhead. Un ottimo disco "Don't Hear it… Fear it!", che dopo aver avuto l'effetto di una violenza carnale inflitta da una lunga jam, non ti farà correre a denunciare l'accaduto, bensì a cercare un altro stupratore! Chiudiamo con una curiosità: Cloudesley Shovell fu un ammiraglio vissuto tra la seconda metà del 17° secolo e l'inizio del successivo, divenendo un eroe popolare inglese in seguito al disastroso naufragio sulle Isole Scilly!!! Antonio Fazio
ADRIAN SHAW – String theory
Adrain Shaw, bassista della cult band inglese The Bevis Frond, firma il suo ritorno con questo String Theory che segue il precedente Look Out di un paio d’anni fa. Il nuovo lavoro si fa apprezzare fin da subito con l’opener "Mirrors" dove Adrain combina egregiamente atmosfere lievemente psych, chitarre alquanto aggressive e un delizioso aroma seventies. Non dimentichiamo infatti che il Nostro fa parte della storia del rock britannico, considerando che nella sua lunga carriera, oltre ai già nominati The Bevis Frond, ha fatto parte della formazioni di Arthur Brown, Tony Hill (High Tide) e degli Hawkwind, tanto per nominarne alcune. E quell’aura vintage si può assaporare lungo tutto il disco visto l’utilizzo che viene fatto di chitarre, synth e armonie vocali. La seguente "Thirty Two" è infatti basata tutta sulla linea portante creata dal synth e da una semplice batteria, sui quali vanno ad adagiarsi le armonie vocali e le chitarre a tratti delicate, a tratti visionarie: sicuramente uno dei vertici del disco. Adrain sembra preferire per la maggior parte i ritmi meno esasperati dove riesce ad esprimersi al meglio con la propria voce lasciando quindi largo spazio a pezzi lenti ed onirici, come la bella "Lost For Words" o la particolare "Cotham Hill", dove l’unico accompagnamento risulta essere un’orchestrazione d’archi. Un plauso a pezzi come "Stirrup Cup" o "Non-stop dancing", misuratamente aggressivi e deliziosamente stranianti grazie alle voci filtrate e ai soli di gran classe garantiti dalle chitarre di John Perry e dello stesso Shaw. Il disco si conclude con la lunga "Saving Grace", diciotto minuti dove convergono sperimentalismi di studio, ritmi tribali e sitar, voci filtrate e spettacolari assoli forniti da una cerchia di amici di tutto rispetto: nell’ultimo pezzo l’artista si avvale infatti del contributo chitarristico di Nick Saloman, John Perry, Bari Watts e Aaron Shaw. Un’ottima conferma per Adrian Shaw, forse un passo avanti rispetto a Look Out, con un album che sembra ripercorrere almeno trent’ani di musica underground con gran classe e gusto. Bokal
ADRIANO VITERBINI – Goldfoil
Adriano Viterbini è un ragazzo in gamba. Uno che ha preso una chitarra acustica ed ha iniziato ad indagare l'antico sogno del blues con le contraddizioni e le passioni che questo viaggio comporta. E si è fermato nel crocevia dove si incontrano spiritualismo, ricerca interiore, indagine sull'aldilà ed ovviamente amore incondizionato per la musica che in "Goldfoil" si presenta totalmente strumentale. C'è l'amore per figure importanti come Jack Rose omaggiato in "Kensington Blues" e vengono sparsi un po' ovunque gli odori pungenti di Blind Willie Johnson, Alvin Youngblood Hart, Woody Guthrie e Ry Cooder. Poco lontano, con un ghigno saldato tra le labbra, il dannatissimo Robert Johnson sorride nell'osservare come la ragione sia stata sempre dalla sua parte. Anche quando certi patti col diavolo sembravano più che sconvenienti. Espressivamente si godono ritmi saltellanti, sghembi, traditional nel modo più paesano possibile. Slide incantati ed incantevoli che riportano alla mente le visioni di un intossicato Keith Richards del periodo "Love You Live" (per chi avesse in mano il vinile, ascoltare il lato C per conferma). Arpeggi delicatissimi a descrivere in che modo il blues possa essere la l'espressione più conforme al canto della natura.Ma non tutto è esclusivamente chitarra. In "New Revolution of the Innocents" interviene Alessandro Cortini della corte di Trent Reznor che con il suo synth modulare BUCHLA apre una porta "cinematografica" all'interno del concept senza risultare fuori contesto. E così si passa davanti ad una qualità del mood che vira di volta in volta verso colori inaspettati. Senza paura di ricordare un primissimo e genuino Ben Harper o un introspettivo e cervellotico Ben Chasny. D'altra parte il blues è la musica di tutti per eccellenza. Sopratutto degli africani, tirati in causa nella bellissima "Blue Man" che riporta il sogno proprio al grado zero, quando le percussioni erano l'origine del linguaggio. Musicale e non. Eugenio Di Giacomantonio
AFFRAIN – Demo 2001 – Demo 2002
Sono inglesi e si sono formati nel 2001. Gli Affrain cercano da subito di mettersi in mostra con una demo di tre pezzi che gira molto tra appassionati e addetti ai lavori. Quanto proposto è un accattivante mix di metal, stoner e hard rock, caratterizzato dai riff titanici di Dan e da una voce al vetriolo (in questo senso l’operato di Del risente molto dell’influenza di Phil Anselmo). Completa la formazione la bella Charlie al basso mentre le parti di batteria sono sostituite da una drum machine che penalizza abbastanza i brani.Le capacità infatti ci sono, ma vengono inficiate da un suono orribile, figlio di una registrazione di livello davvero scadente. E’ un peccato perché sul primo dischetto le intuizioni si sprecano: “Mainline” trasuda un feeling metal cupo e agghiacciante, “Fate” rallenta i tempi virando su oscuri lidi doom e “Judas” prosegue il discorso unendo il metal al dark. La qualità dei suoni non migliora con il lavoro successivo, un promo di due brani datato 2003. E questo aspetto dispiace ancora di più se si ascoltano con attenzione le composizioni. “4000 feet and falling” ha un giro di chitarra assassino e una intelligente alternanza di vocals pulite e urlate. Un esplosivo gorgo dove si incrociano Pantera e Corrosion Of Conformity. “Solace electra” invece comprime i tempi dando maggiore spazio all’impatto melodico. Esperimento perfettamente riuscito. Attendiamo gli Affrain alla prossima uscita, nella speranza di una registrazione migliore. Già il fatto che sia entrato in line up un batterista in carne ed ossa (Lewis) lo prendiamo come un buon segno. Alessandro Zoppo
AGUAS TONICAS – Aguas Tonicas
La scuola heavy psych argentina cresce qualitativamente e quantitativamente giorno dopo giorno e questi esordienti Aguas Tonicas non fanno eccezione. Il loro disco d’esordio ci propone 10 tracce di ribollente stoner rock psichedelico, figlio diretto dei padri Kyuss e degli adepti Los Natas. Maru (chitarra e voce), Jorge (chitarra), Gato (basso) e Santo (batteria) hanno doti che potranno farli arrivare lontano. Piace soprattutto l’attitudine dei quattro, non certo dei geni capaci di innovare questo genere ma sinceri, generosi, carichi di energia e soprattutto di passione.“Aguas Tonicas” non inventa nulla di nuovo, tuttavia suona fresco, frizzante e dilatato al tempo stesso. Si può dividere il disco in due parti ideali. I primi 5 brani si assestano infatti su uno stoner roccioso e diretto, caratterizzato da un sound ‘ciccione’ ed impenetrabile e dal morbido cantato in lingua spagnola. “Skyrider” è la sola ebbrezza psichedelica, le successive “Gran cañón”, “El expresso”, “Hot house” e “Jack London” ricordano i Natas del periodo “Delmar”/“Ciudad de Brahman”. A partire dalla solare e lisergica “Arenas blancas” l’album cambia: prevalgono lunghe cavalcate psichedeliche (“Hiperkinetia”, “Rex Lujo”), si respira un’aria rarefatta che ammalia e stordisce (“Aullido”), il solo riff cattivo di “Titan” ridona vigore e profonda elettricità. Come se la lezione dei due volumi “Toba trance” - sempre dei Los Natas stiamo parlando - fosse assorbita dalla band e filtrata con la classica tradizione dell’acid rock e dalle atmosfere che i magici paesaggi di Santa Fe comunicano. Insomma, quanto di meglio il rock psichedelico possa offrire ieri come oggi. Gli Aguas Tonicas se ne fanno prodi alfieri. Alessandro Zoppo
AIR FORMATION – Daylight storms
Quando ascolti un disco e ti accorgi che ogni canzone seguente è più bella di quella precedente che ti sembrava già bellissima, significa che stai ascoltando un disco che ha fatto centro e lascerà un segno. A fine anno, quando si stilano le classiche playlist (che tutti consideriamo obsolete, ma poi tutti ci divertiamo a fare), alla voce “album shoegaze dell’anno” sarà impossibile non mettere questo disco.Gli americani Air Formation rappresentano quanto di meglio abbia oggi il genere da offrire, creando immensi vortici sonori di inaudito impatto emotivo. “Daylight storms” è il terzo disco del gruppo, che da sempre predilige il lato hard dello shoegaze, sciorinando quindi a catena riff elettrici che si prolungano all’infinito, producendo l’effetto di estraniare l’ascoltatore dalla realtà esterna, facendolo invece cadere in un limbo dove le melodie accarezzano i sensi. Dieci brani uno più efficace dell’altro, dieci songs che sono come dieci quadri nostalgici che vanno a formare insieme una galleria d’arte sonora, dove echi di Slowdive, Ride, Pale Saints, Swervedriver e My Bloody Valentine risuonano nelle stanze, avvolgendo in una densa spirale di infinite emozioni. Siamo davanti ai più degni eredi di un’epoca musicale che è sempre vissuta nell’ombra ma che, fortunatamente, non ne vuole sapere di estinguersi. Ringraziamo il cielo e guardiamo tutti a testa in giù. Marco Cavallini
Ak’chamel – A Mournful Kingdom of Sand
È un disco speciale questo A Mournful Kingdom of Sand, ma in fondo unici i misteriosi Ak'chamel (semplificazione del nome completo Ak'chamel, The Divinatory Monkey and the Sovereign Plumed Serpent) lo sono dagli esordi in cassetta e poi con Fucking with Spirits e The Totemist, anche quando si presentano con i loro vestiti grotteschi, mascherati da maestri di cerimonie e agghindati con sgargianti costumi fatti in casa. L'atmosfera che si respira nei sette brani di A Mournful Kingdom of Sand è magica e ancestrale. Gli Ak'chamel arrivano dal Texas (almeno così dicono), ma sono ispirati da suoni, suggestioni e tradizioni che vanno senza colpo ferire dalle grotte di Lascaux all'India, passando per l'Africa e la Turchia della città più antica al mondo: Çatalhöyük. La loro musica è un incrocio fantasmagorico di psichedelia neolitica, folk spirituale, ipnotici riff raga-rock e primitivi umori etno, qualcosa che parte dai Popol Vuh e arriva ai Master Musicians of Bukkake. Potrebbe apparire come una baracconata, ma A Mournful Kingdom of Sand è pure un lavoro elegante nella confezione, nella cura dei suoni e nel dosaggio delle porzioni. Tuttavia, l'aspetto più intrigante resta la spregiudicatezza con la quale il "duo cabalistico" statunitense (le identità dei due musicisti rimangono nell'ombra) maneggia i cliché (spesso abusati) del rock psichedelico, facendoli precipitare come per miracolo in una fantastica terra di confine tra la mistica e l'esoterismo, la ricerca etnografica e la critica sociale. Messo da parte il sound ossessivamente lo-fi degli esordi, gli Ak'chamel dimostrano una maestosità negli arrangiamenti che emerge prepotente in composizioni come Ossuary from the Sixth Extinction e la lunghissima, travolgente Sheltering Inside a Camel. Non mancano cupe sovraincisioni e angoscianti field recordings, ma è la massa sonora, pur scarna ed essenziale, ad avere un impatto fuori dal comune. E poi c'è l'ingrediente ironico, esplicitato nei titoli paradossali di brani come The Great Saharan-Chihuahuan Assimilation (l'intero disco è un concept sulla desertificazione del nostro povero mondo dominato dalle false divinità del neoliberismo) e Amazonian Tribes Mimicking the Sound of Chainsaws with Their Mouths, ovvero Tribù amazzoniche che imitano con la bocca il suono delle motoseghe. Insomma, "fuck your pan-drum new age music", come amano ripetere i due. A Mournful Kingdom of Sand è disponibile in digitale e in vinile colorato edizione limitata a 500 copie, edito dall'etichetta francese Akuphone di Cheb Gero. La copertina è del pittore e illustratore Matt Sidney. Un ascolto suggestivo, affascinante e inquietante al tempo stesso, che apre il 2023 del sottogenere freak & acid nel migliore dei modi. https://www.youtube.com/watch?v=VoSg1g7Yo9g&ab_channel=Akuphone

Alessandro Zoppo

AKAHUM – Akahum
Amanti della psichedelia elettro cosmica, gli Akahum sono ciò che stavate cercando! Gruppo inglese che ruota intorno alla figura di David Unlimbo (chitarre, synth), coadiuvato dai sodali Paul Csordas (batteria, percussioni) e Lyndon Izzard (basso). Nel loro disco d’esordio (un mini di cinque brani con presentazione lisergica che potrete gustare sul vostro pc) ci propongono esplosive sonorità psych rock, figlie dirette degli Ozric Tentacles e dell’elettronica più dinamica. Ottime capacità tecniche, intrigante scrittura dei brani, atmosfere rarefatte e il gioco è fatto. Gli Akahum si candidano come nuovi alfieri dell’era psichedelica.La fuga dalla realtà comincia con la melodia avvolgente di “Dulcimer dance”, prende una scossa improvvisa con l’accelerazione di “Douk chat” (che linea aggressiva di chitarra!), rifiata con “Let’s eat lentils”, luogo nel quale tentazioni acustiche si contaminano con profumate visioni d’Oriente. “Everwhen” è un momento space ambent espanso e dilatato, perfetto per bilanciare la trance elettronica scatenata dai ritmi della conclusiva “Eat alien”. Il sogno degli Akahum è raffinato e catartico, è un piacere farsi cullare in un mondo del genere. Alessandro Zoppo
AKRON – Il tempio di ferro
Compito non facile recensire un concept album che trasuda templarismo in ogni traccia. Chi come me ha letto almeno una decina di saggi storici sull'argomento ed effettuato ricerche di ogni tipo, rischia o di apparire o troppo poco imparziale o eccessivamente critico. Ma partiamo per gradi. Gli Akron nascono come progetto di Enio Nicolini, bassista dei The Black, e hanno già all'attivo altri due album. Con questo terzo capitolo entrano a pieno merito nel campo dell'opera rock. Enio rappresenta un po' la mente di questa band. Copre ottimamente sia le vesti del musicista, sia quella del songwriter. Il CD è corredato da un booklet succoso, dove si ha subito un riscontro di quanto possano essere gnostici questi testi, insieme ad un libretto di 90 pagine (scritto dal cantante Eugenio Mucci ed intitolato "Il Labirinto Ottagonale"), che purtroppo non viene fornito nell'edizione fuori commercio. Capire cosa abbiano significato i Templari durante il medioevo e cosa abbiano rappresentato in tutta la civiltà occidentale per due interi secoli vuole anche dire capire alcuni di quegli strani meccanismi che regolano la società odierna. Non solo gli assetti politici legati all'area del Medio Oriente, ma anche parte di quelle strutture organizzate che fanno da fondamento nella nostra vita di tutti i giorni. Vi rimando alla sezione che ho interamente dedicato alla storia dei Templari per non dilungarmi su argomentazioni che trascendono la parte musicale. Musicalmente parlando gli Akron risultano indefinibili. Sicuramente la vena oscura è quella più evidente, ma etichettarli come doom risulta limitativo. Personalmente mi hanno fatto venire in mente un certo tipo di rock sinfonico di stampo seventies. Già la open track si può collocare in questa breve descrizione. Melodie sospese e cori la fanno da padrone. L'uso degli strumenti viene arricchito dal suono dell'organo e dal pianoforte come nel caso di "A Gerusalemme". La voce di Eugenio Mucci impersonifica in maniera espressiva ogni sezione dei brani riuscendo a descrivere gli stati d'animo di questo drammatico viaggio nel tempo. Una delle più ignobili condanne della storia dell'umanità in "Il giudizio" ne è la giusta rappresntazione. Mentre la conclusiva "Condanna" si presenta giustamente senza parole. Epigrafe funeraria di un massacro reale che fece piombare l'Europa intera nell'oscurantismo più profondo. Potrei parlare di questa opera all'infinito. Del simbolismo in cui è immerso, non solo nei testi e nelle parole ma anche nell'artwork dell'album stesso. L'ottagono di retro copertina, piuttosto che il baphomet immortalato all'interno. Simboli profondi che richiederebbero un enormità di spazio per essere descritti. Gli Akron ci consegnano un opera piena e completa. Niente a che vedere con molte delle dozzinali band gothic metal che hanno cercato di toccare l'argomento più per il fascino dell'esoterismo e del mistero che per profonda conoscenza. "Il Tempio di ferro" non è propriamente un album stoner, ma se non avete pregiudizi per ciò che è inclassificabile e volete cominciare a comprendere cosa possa aver significato la parola spiritualità nel nostro passato, non esitate ad ascoltare questo ottimo lavoro. Non Nobis, Domine, Non Nobis, Sed Nomini, Tuo Da Gloriam! Peppe Perkele
ALABAMA THUNDERPUSSY – Staring at divine
Dalla splendida copertina del nuovo 'Staring At Divine' si direbbe che i cinque americani puro sangue si siano lasciati andare al puro misticismo ma non è così anzi, pochi album come questo in ambito heavy stoner sono con i piedi ben saldi a terra, pure troppo se devo essere sincero. Gli Alabama Thunderpussy scelgono la estrema Relapse per il quarto capitolo della loro discografia, un lavoro difficile da assimilare immediatamente e duro da digerire tutto d'un fiato. Il muro sonoro costruito è ricco di cambi di tempo e di riff blues-based smorzati da qualche episodio country (Amounts That Count) che introduce dei cambiamenti su un disco altrimenti troppo statico. I confini dell'heavy rock vengono setacciati in un lungo e largo creando degli assalti da biker forsennati come la iperdistorta Motor-ready, cadenzando pesantemente il blues in Whore Adore e facendo la voce grossa su uno sludge alla Eyehategod (Shapeshifter); altrove invece affiorano influenze kyussiane (Beck And Call, riff killer per uno dei brani più belli ) mentre è con la crepuscolare Twilight Arrival che i nostri rallentano il passo ma non la tensione, crescente e nervosa fino all'assolo di coda molto gilmouriano. Forse la track list si poteva fermare qua ed evitare qualche brano non proprio riuscito come Esteem Fiend che inizia bene per poi perdersi in rallentamenti e reprise che ne tagliano l'effetto dinamico, ma non si può avere tutto. 'Staring At Divine' è tutto sommato un buon disco che non passerà alla storia nè sarà in cima alla personale playlist di fine anno ma fotografa una band che cerca nuove strade, non sempre imboccate in modo lucido, nel solco di una coerenza da apprezzare. Francesco Imperato
ALASKAN – Despair, Erosion, Loss
Ritorna il trio canadese degli Alaskan a tre anni di distanza dal loro debutto "Adversity; Woe". "Despair, Erosion, Loss" – edito dall'accoppiata Alerta Antifascista e Moment of Collapse Records – riprende il discorso dove era stato interrotto prima. Sempre dediti a un post-metal a tinte sludge, figlio dei mai troppo compianti Fall of Efrafa, Isis e compagnia varia, anche questa volta gli Alaskan non cambiano le carte in tavola. Ci sono tutti gli elementi che servono: I break atmosferici e i crescendo epici, alternati da sfuriate più propriamente black metal con tanto di blast beat. Le varie tracce a livello di struttura si assomigliano troppo l'una con l'altra, gli elementi che si intersecano sono quelli sopracitati, e soltanto "Guiltless" fa eccezione (di poco) per via dell'inserimento di una parte d'archi che stacca con l'andamento del pezzo. Al di là di questi appunti, di certo non mancano i momenti di ampio respiro, e i ragazzi hanno buon gusto per le melodie riuscendo nel complesso a rendere "Despair, Erosion, Loss" un lavoro più che godibile, sopratutto per chi è alla ricerca di certe sonorità in ambito post-metal. Giuseppe Aversano
ALCOHOLIC ALLIANCE DISCIPLES – Alcoholic Alliance Disciples
Sotto il nome Alcoholic Alliance Disciples si cela una vecchia conoscenza della scena stoner tricolore, ossia Kjxu, alias Fabrizio Monni. Voce negli storici Clench, batterista nei marcissimi e selvaggi Black Hole of Hulejra ed infine boss della W.*uck Records, ritorna dietro al microfono di questa nuovissima - eppure esperta - formazione isolana. La compagine si arricchisce di alcuni membri dei Burning Grounds (gruppo thrash-heavy con influenze doom old school) ed è proprio l'innesto dell'anima stoner sullo scheletro thrash che dà vita a questo nuovo Frankenstein.Iniziamo col dire che chi ama lo stile americano non potrà farne a meno, perchè questo è un ep degno delle peggiori bettole da centauri: si respira in tutto e per tutto il clima genuino di chi vive on the road ed ha scelto la libertà come compagna di vita. Il concept dei Discepoli dell'Alleanza Alcolica passa attraverso racconti di degradazione ad alto tasso etilico, tramite frammenti di esistenza distrutta dall'alcol e dall'odio verso un mondo che spinge a volere un secondo diluvio universale. Un mondo corrotto e corruttore, che odia e insegna ad odiare, che muore e fa morire. Ma non c'è traccia di tristezza o di pessimismo cosmico, soltanto tonnellate di overdrive e di potenza impattante figlia dei Down e dei Pantera, probabilmente le due influenze più forti, non certo le uniche. Tra queste potremmo anche citare i Black Label Society di Zakk Wylde, nei suoi momenti più southern; i Corrosion Of Conformity degli anni 90 (il trittico "Deliverance", "Blind" e "Wiseblood"); i Trouble di "Plastic Green Head". Non esiste un vero e proprio concept dietro i brani, perchè le lyrics sono volutamente stereotipate quanto efficaci. L'unica cosa che conti realmente è il suono, il concetto è relativo quando ti interessa spaccare; e ben vengano i trucks selvaggi sulla Route 66(6) quando hanno come colonna sonora dei containers carichi di stoner figlio di gentaglia come Clutch o Spiritual Beggars. Prendiamo il toro per le corna e guardiamo in faccia la realtà: qui abbiamo a che fare con ragazzi che amano il sound genuino e infuocato del metal, dello stoner e dell'hard rock targato anni 80 ("Truck Destraction" su tutto), non si perdono dietro simbolismi ed immagini alchemiche ed esoteriche. Gente cresciuta a pane e riff, che vuole suonare sporco e incredibilmente rock'n'roll: se cercate qualcuno che in meno di 30 minuti vi risvegli da torpore, vi spettini con dei sani e robusti riff e vi sazi di grassi chorus ed efficaci melodie, allora procuratevi questo ep. Se vi piacciono i gruppi citati, procuratevi questo ep. Potranno essere forse derivativi, ma sanno esserlo. Ci vuole attitudine per suonare "classic" senza farti venire voglia di skippare... Vi attendiamo alla prova dell'esordio vero e proprio, guys. Gabriele "Sgabrioz" Mureddu
ALEXANDER TUCKER – Dorwytch
Alcuni l'hanno definito doom chamber-pop. Altri minimalist folk. Resta soltanto una certezza: Alexander Tucker è uno dei geni della contemporary music. Lo conferma il nuovo album Dorwytch, il primo edito da Thrill Jockey. Abbandonati il finger-picking estremo e la vena sperimentale degli esordi, da Old Fog (2005) a Furrowed Bow (2006) fino ai progetti Jackie O Motherfucker e Ginnungagap, Tucker ha costruito tassello dopo tassello un favoloso universo sonoro. Che ha trovato in Portal (2008) il suo capolavoro. Maggiore inclinazione alla melodia, apertura al folk pastorale, ampie dosi di psichedelia liquida e oscura. La vena drone è passata al side project Imbogodom, nel quale esplorare in compagnia di Daniel Beban gli orizzonti della dissezione sonora operata a suo tempo da artisti come Terry Riley e Steve Reich (obbligatorio l'ascolto di The Metallic Year, 2010, sempre su Thrill Jockey). In Dorwytch i tempi si dilatano. Alexander Tucker riparte dal bellissimo EP Grey Onion e come con la Decomposed Orchestra ci consegna 14 canzoni che sembrano suonate da un ricco ensemble. Vocals sognanti, chitarre delicate e sinuose, uso di effetti elettronici e qualche accenno ritmico sono la pasta che fa da collante alle composizioni, mai così ammalianti. Un tempo di scrittura durato tre anni e che vede collaborare Paul May alle percussioni, l'amico Duke Garwood, il cantautore Jess Bryant ed il polistrumentista e produttore Daniel O'Sullivan (Guapo, Æthenor, Miracles, Ulver). Si può suddividere Dorwytch in quattro parti. I primi tre brani riprendono lì dove aveva lasciato la Decomposed Orchestra e sono un inizio prodigioso. Tre piccoli capolavori, dominati dalle splendide armonie di Matter. Riflessioni metafisiche, trascendenza (in)organica, ritorno ad una quotidianità a tratti dolorosa. Hose e Gods Creature sono folk puro, che fa pensare ad uno strano miscuglio tra Curved Air e David Crosby, ribaltato dalla psych sintetica di Half Vast. Pearl Relics (per inciso, una delle canzoni più commoventi degli ultimi anni) riapre il sipario sull'acid folk da cipolla grigia e ci prepara ai magnetici, dolenti blues di Atomized e Skeletor Blues. Altra pausa strumentale (Dark Rift / Black Road) e ci si avvia verso il gran finale, nel quale dominano l'epica da glockenspiel di Sill e il trip rurale di Jamie. Il miagolio di un gatto ed il piano di Craters pongono Dorwytch nell'alveo di quel dischi da ascoltare senza alcun pregiudizio. Soltanto con la mente aperta e disposta ad assorbire la sostanza organica dei sogni. Organic matter growing instead of lives...   Alessandro Zoppo
Alexander Tucker – Portal
Bruciano le polveri del folk. Se i classici si trastullano agitandosi tra il proprio passato e un presente ormai negato, è la nuova generazione cresciuta tra psichedelia e hardcore a prenderne il testimone. Senza indugiare tanto sulla quotidianità, esplorando piuttosto sentieri interiori, ricordi d'infanzia (vissuta?), disillusione, una Natura misteriosa e possente.È il caso di Alexander Tucker, folk singer del Kent (paradossale?) che ha realizzato con "Portal" uno dei dischi cardine del 2008. Un vero capolavoro. Un album denso di suggestioni che vanno da Occidente a Oriente, evitando con accuratezza manierismi e bolsi mantra domestici. La sua è una forma canzone lunare, polverosa, che distrugge i canovacci della ballata intimista con un'incisività eccentrica. Melodie tese e struggenti bilanciano il costante finger picking e i drones della chitarra elettrica, supportati da esili percussioni e effetti sottili e stordenti. Dopo l'esordio omonimo del 2003, "Old Fog" (2005) e "Furrowed Brow" (2006), questo lavoro suggella un percorso che parte da lontano, dagli esordi punk con i Suction, passando per il post rock degli Unhome e le collaborazioni con Jackie-O Motherfucker e Stephen O'Malley (sunn O))), Khanate). Un andamento irregolare come la sua chitarra, in linea con gli avamposti folk freak dei vari Earth, Tom Carter e Rick Tomlinson. I brani di "Portal" scorrono suggestivi e anarchici, emoziona(n)ti e disturbanti. La bellezza suadente di "Poltergeists Grazing", "Veins to the Sky", "Husks" e "Another World" marchia in modo indelebile; "Omnibaron" infonde d'elettricità l'atmosfera, resa satura dal minimalismo lisergico di "Energy for Dead Plants". "Bell Jars" ritorna all'afflato gaelico di certi Led Zeppelin, "Here" chiude il cerchio con una sacralità che sa di rituale. Memore di Johnny Cash e Tim Buckley più che debitore delle nuove tendenze stile Devendra Banhart, Tucker si posiziona su una scura linea di confine. Tracciata a suo tempo da Incredible String Band, David Crosby, Terry Riley e John Martyn, battuta poi da Black Heart Procession, Six Organs of Admittance e Bardo Pond. Insomma, epitome e ribaltamento critico della folk music made in Usa. https://www.youtube.com/watch?v=_EYO_MGptXA   Alessandro Zoppo  
Alexander Tucker – Guild of the Asbestos Weaver
Alexander Tucker è un artista in evoluzione continua. Dai tempi di Portal, il suo album di riferimento nonché uno dei migliori dischi in assoluto usciti negli anni Duemila, ha attraversato fasi differenti e sfaccettate. Tucker è musicista inafferrabile, instancabile disegnatore e illustratore, collaboratore di progetti come Grumbling Fur (con Daniel O'Sullivan) e Imbogodom (con Daniel Beban). Insomma, un artista a tutto tondo. Guild of the Asbestos Weaver è il suo ottavo studio album e arriva subito dopo Don't Look Away, uscito nel 2018. "Con questo disco – racconta Alexander – ho voluto unire le diverse influenze chiave che hanno caratterizzato il mio lavoro, dalla fantascienza, i fumetti cosmic horror, il cinema e la letteratura alla composizione di musica minimalista, drone e da sogno. Il mio obiettivo è quello di intrecciare questi elementi in cicli ripetitivi che guidano l'ascoltatore in mondi al tempo stesso sconosciuti e familiari". Un primo piano di Alexander Tucker L'obiettivo è perfettamente riuscito: Guild of the Asbestos Weaver (il titolo cita Fahrenheit 451 di Ray Bradbury) è un lavoro in perfetto equilibrio tra il chamber-folk psichedelico di Portal e Dorwytch e l'elettronica kraut pop di Don't Look Away e Furfour. Tucker dichiara di ispirarsi al concetto di "Dreamweapon", ovvero l'idea che i sogni e le forme alternative di percezione della realtà possano essere utilizzati come una sorta di lotta personale per combattere lo status quo iniquo e perverso della società, del pensiero unico e dell'ordine repressivo umano. Il concetto di "Dreamweapon" è stato preso in prestito dalla "Dream Music" di La Monte Young e soprattutto dal lavoro visionario di Angus MacLise, il batterista dei Velvet Undeground (prima di Moe Tucker) nonché poeta, visual artist (con e per Jack Smith e Ira Cohen) e sciamano che ha viaggiato tra Vancouver, Parigi, la Grecia, l'India e il Nepal. MacLise aveva studiato la batteria jazz e la "dance music" dell'Europa del Medioevo, ma amava le percussioni "free form", le improvvisazioni ipnotiche (un suo celebre happening rituale si chiamava proprio Launching of the Dreamweapon e venne usato come score da Barbara Rubin e Kenneth Anger per i loro film) e i sintetizzatori. Non è forse un caso se uno dei live album più significati degli Spacemen 3, maestri della psichedelia oppiacea, sia Dreamweapon: An Evening of Contemporary Sitar Music, registrato al Watermans Arts Centre di Brentford nel 1988. Tutto scorre, tutto torna. Passato e presente, antichità e futuro. Come nella musica di Alexander, che ammalia con le sue magie vocali nell'iniziale Energy Alphas e subito dopo sfida le leggi spaziotemporali nei 9 minuti di Artificial Origin. L'alternanza tra i toni cupi, con cello e synth che si intrecciano tra acustico ed elettronico in Montag, e la solarità di Precog, che apre il suo tappeto industrial ad avvolgenti stratificazioni melodiche, è la cifra stilistica di Guild of the Asbestos Weaver. Una reazione al grigiore claustrofobico della cultura dominante, al "villaggio globale" che Dick ha teorizzato in Minority Report tra realtà aumentata, droni e big data. Bisogna arrivare al finale di Cryonic, a quella rilassatezza bucolica costruita però su beat, orchestrazioni ossessivamente minimaliste e vocals sublimi, per trovare la serenità che conduca oltre il più gretto materialismo. "Ho seguito una curva - disse MacLise poco prima di morire, il 21 giugno 1979, a Katmandu - attraverso le poesie, la calligrafia, la musica e i viaggi, girando con il maggior numero possibile di esseri umani". Una vita dedicata all'Arte, come quella di Alexander Tucker. https://www.youtube.com/watch?v=fySJ1OP82Ts

Alessandro Zoppo

Alice Tambourine Lover – Naked Songs
Una parte degli Alix (storica band psychedelic della prima ondata di stoner italiano) ha deciso di riunirsi attorno al progetto Alice Tambourine Lover, facendoci gradita sorpresa. Alice Albertazzi e Gianfranco Romanelli (coppia nella vita e nella musica) appendono al muro le distorsioni della band madre (ma non il wah wah!) presentandosi con nove gemme di autentico candore. Un dolce tappeto acustico dove esplorare al meglio le qualità vocali di Alice, vera chanteuse dalla classe cristallina, e dove il risultato assomiglia molto, nella forma, alla primigenia creatività di una PJ Harvey di album come "Dry" e "Rid of Me" ("Track of You" e soprattutto "Shall I Walk Around") e nei contenuti riflette un mood interiore libero di esprimersi in qualunque registro: folk, country, blues al ralenti o psychedelic roots. Qualcosa di simile a ciò che ha fatto, di recente, Jason Simon dei Dead Meadows, registrando le sue honey songs solo con l'ausilio della chitarra classica e di qualche inserto effettistico. In queste "Naked Songs" (mai titolo fu più azzeccato) troviamo giri settantiani di "Angels Gone" e "Candy Cars" (quest'ultima è sintesi perfetta di come avrebbero potuto suonare gli Alice In Chains se nel loro "Unplugged" ci fosse stata una femme fatale al canto), spogliati di qualunque ruvidezza e appoggiati a chorus desiderosi di sporcarsi con il pop. In certe occasioni il discorso diviene via via più intimista, come nelle bellissime "Let Desires Come" e "Pills of Fire" dove la voglia di raccontarsi, di esplorare le proprie emozioni, è tanto più funzionale quanto le strutture compositive rimangono semplici ed evocative; altre volte il ritmo cresce e la voglia di lasciarsi andare segue traiettorie più allegre, "Hungry Thieves", ritmo in levare e schiocco delle dita assicurato e "Crash" dove Alice sembra tornare bambina, tanta è la spontaneità riscontrabile nei suoi vocalizzi. Il tutto risuona omogeneo e privo di forzature, cosa non di poco conto se consideriamo che gli Alix godono di una riconoscibiltà tale da non permettere, ipoteticamente, cambi di direzione: a maggior ragione, chapeau! Speriamo che il progetto non si limiti a questo singolo episodio e affronti al meglio il discorso appena iniziato. "Naked Songs", canzoni nude: un volo d'uccello sugli elementi basici della musica che si ama, con cui si è cresciuti. Un ritorno a casa con la testa sgombra da cattivi pensieri, con la volontà di creare un calore famigliare, un angolo dove raccogliere le forze. Chiunque abbia voglia di farsi accarezzare le orecchie, deve interessarsi a questo progetto: true songs in a true life. https://www.youtube.com/watch?v=QUv2mRLEGLM Eugenio Di Giacomantonio
Alice Tambourine Lover – Down Below
Immergersi nel mondo degli Alice Tambourine Lover è come entrare in un universo fatato. Tutto è meraviglioso e ben fatto, un mondo antico che risplende nella modernità in forma classica. Li avevamo scoperti con il buon esordio Naked Songs del 2012, successivo allo split della band nella quale Alice Albertazzi e Gianfranco Romanelli hanno perfezionato il loro stile musicale, gli Alix, formazione heavy psych da Bologna. Il titolo di quell'album alludeva a qualcosa di più intimo e raffinato, delle naked songs appunto dalla struttura delicata. Al quarto album il duo, nella vita e nell'arte, ha perfezionato il songwriting ed ha pubblicato il proprio capolavoro, Down Below. La titletrack rivendica ed ottiene l'eredità di PJ Harvey del periodo To Bring You My Love, dove la voce di Alice si alza, si alza, si alza e vola in alto. Un brano che fa il paio con Blow Away, canzone che dosa dolcezza e classe in uguale misura. Non è da meno il lavoro delle chitarre di Gianfranco: su un arrangiamento ritmico elegante spuntano come fiori effetti di dobro e resonator dosati con classe. Sembra di rivivere la magia che legò trent'anni fa la sopracitata PJ con John Parish, facendole sfornare i capolavori che conosciamo. Ovviamente non tutto è figlio della carismatica compositrice del Dorset. Emergono spunti che prendono tanto della scrittura di Mark Lanegan (Dance Away e Train) quanto dai profumi desert rock del Rancho de la Luna (Follow) e dal grunge unplugged di metà anni Novanta (Rubber Land). Ma il gioco dei rimandi è solo un tracciare dei contorni sfumati di una mappa che limita un paesaggio ricco di bellezza e da esplorare con la mente libera. La Go Down Records che pubblica i lavori del duo da quasi dieci anni ha a cuore la sorte bella buona musica e noi con loro. https://www.youtube.com/watch?v=9yRFQ-iK2xw Eugenio Di Giacomantonio
ALIX – Good One
2008 è per gli Alix l'anno della grande svolta, in ogni senso. Nuovo produttore, un certo Steve Albini, semplicemente uno dei migliori produttori e ingegneri del suono in circolazione, nonché grande musicista e seminalissimo artista. Il quale vola da Chicago (Illinois) a Bologna -anzi per la precisione al Red House di Senigallia - per registrare il nuovo disco, e sitamo parlando di una persona che – tra il 1982 e il 2008 – ha prodotto gentaglia come Neurosis, Jesus Lizard, Pixies, Helmet, Om, Uzeda, Big Black e via dicendo (per info, andate su google e digitate "Steve Albini"). Quindi il risultato è senza dubbio ottimo, riuscendo ad incalanare e rendere più corposo ed a tutto tondo il suono del combo emiliano. Attivi dal 1995 ed autori di un'ottima discografia con rendita qualitativa esponenziale, in Good One assistiamo ad alcuni cambiamenti, in primis la preponderante scelta per la lingua inglese (ad esclusione dell'ultimo brano,) nei testi, tutti opera della bravissima cantante Alice Albertazzi (il vero valore aggiunto della band) e soprattutto conferma della scelta già intrapresa nel lavoro precedente, Ground, . Il sound questa volta si potrebbe definire come un incontro tra le sonorità rock n'roll dei seventies, il protopunk della scuola di Detroit e degli Stooges in primis ("the sweet – smelling road"; ) e lo stoner rock alternativo di band come queens of the stone age, Goon Moon, e band influenzate da Chris Goss. Il disco cresce notevolmente con gli ascolti, perchè ad un primo contatto è sicuramente spiazzante, incuriosendo grazie alle diverse soluzioni adottate ed agli incroci tra la chitarra – a tratti western a tratti fuzz – del bravo Pippo De Palma e le belle ritmiche corpose e dal bel tiro del basso di Franco Romanelli e Andrea Insulla, capaci di districarsi tra il garage, il southern blues e lo stoner. Gli Alix convincono a pieno, anche grazie alla loro insita capacità di rinnovarsi e mutare pelle, senza rimanere ancorati a sonorità sviluppate in precedenza, ma ricercando sempre una nuova via ed una nuova identità. E questo ripaga, senza ombra di dubbio, degli sforzi del quartetto poiché in Italia un gruppo come gli Alix è difficile da trovare, visto e sentito che non si pone dei limiti, ma si rende riconoscibile per la sua abilità nel creare nuove melodie e nuovi episodi. Magari in Good 1 si preferiscono bands come gli Yawning Man (per la loro componente quasi southern-stoner-country) e Stooges, rispetto alla psichedelia, ma l'ultima (ed unica in italiano) canzone, quel "Bianco E Nero" (presente nel primo disco omonimo), è un brano sopra gli 8 minuti che vale da solo l'ascolto dell'intero disco, perchè è la summa della bravura degli Alix e dovrebbe essere il gonfalone con cui promuovere la musica italiana nel mondo. Grabriele "Sgabrioz" Mureddu
ALIX – Ground
La terza uscita per la Go Down Records è a firma dei sorprendenti Alix che dopo un Ep di un paio d'anni fa propongono il loro esordio sulla lunga distanza. La band Bolognese è riuscita a mettere su disco una personalissima formula di stoner rock di alta qualità offrendo una delle release più interessanti dell'anno in grado di competere con molte uscite di livello internazionale ben più blasonate (rischiando anche di surclassarle!). Non sto facendo del facile patriottismo, ma sto semplicemente riconoscendo agli Alix tutti i meriti per aver confezionato un lavoro veramente eccellente. Il loro stile potrebbe essere definito come uno stoner raffinato e di gran classe, caratterizzato dalla chitarra ipnotica e spesso effettata di Pippo, da una ritmica pulsante e da una voce eccezionale come quella di Alice, valore aggiunto al già ottimo lavoro del resto della band. Il gruppo non eccede mai nella pesantezza dei suoni ma riesce ad essere comunque diretto ed efficace, complice un buon songwriting, degli arrangiamenti molto azzeccati e, non ultima, una cura ultra professionale nella registrazione e nel mastering. Il disco scorre piacevolmente dalla prima all'ultima traccia partendo dalle grintose Out Of The Sighs e Ground, passando per coinvolgenti episodi come I'll be Gone la bellissima scorribanda psichedelica di Like a Flood o per il contagioso riff stoner di Spirit, per finire con l'eterea ballad Love, ammaliante viaggio nella psichedelica d'altri tempi.Una gradita sorpresa questa Ground che proietta di diritto gli Alix tra le migliori promesse del rock (non solo stoner!) made in Italy. Bokal
ALIX – Nessun brivido
Attenzione, spalancate le orecchie: una nuova bomba tricolore sta per esplodere! Luogo di provenienza Bologna, anno di nascita 1995, uscite all'attivo due ("Alix" nel 1997 e "Cuore in bocca" nel 1999), genere proposto stoner rock cantato in italiano. Un sound per certi versi unico nel nostro desolante panorama, che fa leva soprattutto sulla splendida voce di Alice Albertazzi, capace di donare grinta e feeling a tutte e cinque le composizioni presenti in questo minicd. Nonostante il dischetto sia piuttosto datato (risale ad ormai due anni fa), va dato atto alla Edgar Music di aver creduto in una band che può benissimo dire la sua nello stonerama internazionale. La matrice heavy psichedelica è infatti plasmata da una capacità melodica fitta ed intrigante, unita a passionali inserti blues e ad una carica travolgente sottolineata dalle chitarre infuocate di Pippo De Palma. Non va però dimenticato l'apporto essenziale della base ritmica, composta da Gianfranco Romanelli al basso e Andrea Insulla alla batteria. Da questo succoso impasto vengono fuori matasse fumose ed avvolgenti come l'iniziale "Fino al ventre", song impreziosita dai contrappunti delicati di Alice, e "Perfetto", furiosa cavalcata che percorre trame dissonanti ed intense. Testi introspettivi e mai banali sono un altro punto a favore, così come i sotterranei percorsi blues di "In scatola", dove le vocals si scontrano con riff granitici degni dei migliori Unida. Ennesimo gioiello è anche "Può bastare", track introdotta da magnifici cori e portata avanti su un groove micidiale. Ovviamente per il finale non può mancare l'intreccio psichedelico, che in questo caso prende forma in "Cavallette", mantra lisergico che si divide tra ritmiche ipnotiche, vocalizzi eterei ed effetti melliflui provenienti dalla chitarra di Gianfranco. "Nessun brivido" è un cocktail di emozioni uniche, da non perdere assolutamente. Se non altro perché in Italia gruppi così sono più che rari… Alessandro Zoppo
ALL NIGHT – All Night
Agli occhi di molti oggi gli anni Settanta sembrano solo uno sbiadito ricordo, un periodo in cui per la musica è stato fatto molto, il massimo direi, ma così ancorato a certe logiche da relegarlo in uno scaffale del passato. Se c'è chi la pensa così, è comunque sempre presente in una ristretta cerchia di aficionados il desiderio di tornare a fare quella musica, con le stesse passione, spontaneità, sincerità di allora e con un tocco tipicamente odierno per insaporire un piatto già ricco. Il movimento stoner rock porta avanti proprio questo tipo di discorso e in questo filone possiamo inserire gli americani All Night, anche se con una leggera ma fondamentale differenza: la band del North Carolina, al suo esordio, mette da parte ogni velleità "kyussiana" e "sabbathiana" tanto in voga oggi a favore di un netto ritorno ai seventies, cesellato da continui riferimenti a gruppi storici (altro che dinosauri…) come Rolling Stones, Humble Pie, Lynyrd Skynyrd e Allman Brothers Band. L'inizio di "Nightdogs" non poteva essere più eloquente: atmosfere da fumoso bar del sud degli States, ricco di loschi figuri e bicchieri pieni di Jack che volano, si incrociano con l'aria eccitante che si respira ad un raduno di bikers, dove il boogie rock regna sovrano e ognuno fa quello che vuole…le chitarre di Art Jackson e Sanders Trippe, che si alternano anche nell'esecuzione delle vocals, sono autentiche bocche di fuoco, urlano impazzite come in preda ad autolesionistiche crisi isteriche, rockano e rollano fregandosene di tutto ciò che c'è intorno, unendo un appeal decisamente vintage ad umori tipicamente moderni e dunque più granitici e incisivi, di quelli ereditati alla perfezione da bands come Nashville Pussy e Alabama Thunder Pussy. La successiva "Lonely" non mancherà di far scuotere il capo a chiunque diventi preda della sua travolgente energia, ricca di melodia soul tanto cara a gente del calibro dei Black Crowes (a dire il vero riferimento costante nell'intero album), mentre "Feelin' good" prende inizio con un sound tipicamente southern, fatto di riff grassi e saturi come il sole texano, per poi spostarsi su classici binari hard rock che nel refrain ricordano pesantemente i Bachman Turner Overdrive…sembra davvero di essere tornati nei '70! Chitarre mastodontiche e veloci aprono "Crazy", episodio "sleazy" e roccioso quanto basta, dal groove pazzesco (è proprio il caso di dirlo…) dove i ruggiti delle due asce sono accompagnati alla perfezione dalla sezione ritmica composta da Nikos Chremos al basso e Joel Darden alla batteria, i quali si fanno notare per la loro verve e il loro dinamismo anche in "What you say", momento heavy blues diviso tra Nazareth e Badlands, impreziosito da parti vocali sovrapposte tanto ruvide quanto coinvolgenti. L'afa sprigionata dai micorsolchi di questo dischetto comincia a farsi asfissiante, ed è allora che "The grape" pensa a tirare la classica mazzata finale: un incipit soffuso, caratterizzato da vocals parlate a tratti inquietanti, assorbe sempre più linfa vitale da espellere sul povero ascoltatore, che ad un tratto, improvvisamente, si ritrova sommerso da milioni di watt soffocanti, portati in gloria da twin guitars davvero esaltanti. Neanche il tempo di rifiatare e subito "C'mon baby" torna a macinare sangue e sudore in un mix di Blackfoot, Crazy Horse e Ted Nugent, una miscela poco consigliata ai deboli di cuore tanta è la foga che ne viene fuori… Echi degli ultimi Led Zeppelin prendono possesso di "Back to life", altra gemma in quanto a genuinità retro': su un tappeto di chitarre indiavolate e ritmiche serrate (il lavoro di Joel dietro le pelli è grandioso…) la voce di Art si staglia maestosa, ricca di pathos, feeling, quella componente fondamentale che la musica di oggi sembra completamente aver dimenticato. "Back door" riporta in carreggiata sonorità boogie, con tanto di stacchi frenetici e assoli avvolgenti, stessa soluzione ripresa in "Walking on", brano che però vira verso lidi southern blues, terre desolate dove il fantasma di Jimi Hendrix si confonde tra le nebbie dei Gov't Mule e l'armonica che accompagna le calde partiture di chitarra e voce fa tornare alla mente i fasti di Mick Jagger e compagni. A chiudere questo indiavolato tuffo nel passato ci pensa invece la più rilassata "Say you're scared", ballad elettrica carica di sonorità dense, ottima per terminare in compagnia della vostra ragazza una lunga serata ricca di eccessi…immagino che vedere gli All Night dal vivo sia veramente qualcosa di eccezionale, su disco mai mi era capitato ultimamente di sentire tanta devozione per i mostri sacri del passato e quel tipo di musica che tante emozioni ha saputo e sa tuttora donarci. Gli All Night sono un vero inno al rock, quello più puro e incontaminato, il rock che mai è morto e mai morirà…lasciarveli sfuggire sarebbe un delitto! Alessandro Zoppo
ALLHELLUJA – Inferno Museum
Le prospettive aperte dagli Allhelluja sono davvero vaste. A partire dal simpatico nome scelto, dalla copertina del loro debutto "Inferno Museum" e dai nomi coinvolti nel progetto. Dietro questa formazione si cela infatti una proficua collaborazione italo danese, che vede coinvolti il singer Jacob Bredahl (voce degli Hatesphere) con Rob, Stefano e Max. Ciò che ne è scaturito è questo dischetto di 10 tracce edito dalla milanese Scarlet Records, sempre più attiva in campo metal e non.Le lyrics ispirate al libro di Derek Raymond "Dead man upright" lasciano presagire su quali sentieri si muove il lavoro. Niente estremismi eccessivi, solo tanto rock: potente, dinamico e buzzurro al punto giusto. Riff grassi e saturi, urla da fine del mondo e una base ritmica che picchia giù duro per sostenere melodie unte e cotte a puntino. Tutto fila liscio insomma, o almeno così sembra. Già, perché agli Allhelluja manca ancora quel guizzo, quella stoccata da fuoriclasse che lancia una band tanto affiatata nel panorama musicale odierno. Anche perché la bravura c'è (e si sente…), ci si deve solo sforzare un po' di più per emergere, per proporre qualcosa di davvero personale. Pezzi tirati e aggressivi come "A perfect man" o "Who's gonna kill my lady?" colpiscono ma senza affondare. Ci troviamo al cospetto di un ibrido dove confluiscono death rock, hard & heavy primitivo, stoner e speed punk motorheadiano. Come se gli Entombed incrociassero i Kyuss lungo le peccaminose e lussureggianti vie di Eindoven… Ma di realmente sexy e attrattivo è rimasto ben poco oltre la pura forma. Va molto meglio invece quando l'andatura rallenta ("Your saviour is here"). O quando spuntano fuori insospettabili venature heavy psych e a trainare i brani ci pensano vocals incazzate e intrecci di chitarra fumosi quanto basta (la bellissima "Miss M", la convincente title track, il cui riff ricorda un po' troppo una certa "Gardenia"…). Mentre altri episodi come "God is loughing" e "Devil's kiss" fanno il verso (con gusto e bravura compositiva) allo stoner di scuola scandinava e olandese. Insomma, "Inferno Museum" è un buon lavoro ma nulla di così eccezionale. Un disco senza dubbio penalizzato dalle pretese spasmodiche che la stampa nostrana ha riservato a questo progetto. Al secondo disco siamo convinti gli Allhelluja faranno di meglio. Magari senza avere pressioni così eccessive sulle spalle… Alessandro Zoppo
AMPLIFIER – Amplifier / The astronaut dismantles Hal
Onore alla Steamhammer che ha il merito di portare alla luce questo piccolo gioiello underground che rischiava di andare perso, schiacciato dall’assurdità dei meccanismi del music business. “Amplifier” uscì infatti nel 2003 su Music For Nations, ma venne quasi immediatamente ritirato dal mercato a causa del fallimento dell’etichetta. Oggi è fortunatamente di nuovo disponibile, arricchito di un bonus cd e confezionato in un elegante digipack.Gli Amplifier provengono dall’Inghilterra e ciò è avvertibile nelle loro canzoni, ammantate dal tipico senso di velata malinconia che contraddistingue da sempre i gruppi inglesi. Il trio suona un rock ‘spaziale’, molto robusto nelle sue parti heavy ed altrettanto dolce nelle sue porzioni melodico psichedeliche, avvolgendo il tutto in un alone che rimanda a certe soluzioni post rock. Le canzoni avanzano lente e soffuse esplodendo poi in energici refrain che s’incastrano alla perfezione nell’atmosfera ipnotico lunare del disco. Qualcuno ha paragonato gli Amplifier a gruppi come A Perfrect Circle, Tool e qualche similitudine è avvertibile, comunque il gruppo al quale i nostri si avvicinano maggiormente sono i Porcupine Tree. Ascoltando le ottime “Old movies”, “One great summer” e soprattutto la splendida ballata psichedelica “On/Off” viene naturale pensare alle sonorità della band di Steve Wilson (soprattutto quelle degli ultimi dischi, caratterizzati da un’impronta più heavy rispetto agli esordi). Canzoni in grado di far “volare” lontano e che resteranno a lungo impresse nell’animo di chi ama la musica fatta con la mente e, soprattutto, il cuore. Pubblico e critica sono rimasti giustamente affascinati della bellezza di questo lavoro. La SPV, per la serie “batti il ferro finché è caldo”, ha subito pubblicato un nuovo EP del trio inglese, sperando di sfruttarne il momento di gloria. “The astronaut dismantles hal” non propone nulla di nuovo, non una minima evoluzione da quanto detto dagli Amplifier nel debutto e, anzi, non ne raggiunge il valore. Alcune di queste nuove song non reggono il confronto col precedente album (che azzeccava invece 10 brani su 10). Lo stile è rimasto immutato, un’ emozionante rock psichedelico che alterna robuste porzioni hard a vellutate pause liquide, e l’ombra dei Porcupine Tree aleggia forse ancora più marcatamente che in passato. Molto belle l’iniziale “Continuum” e la finale “Live human”, peccato che in mezzo si trovino canzoni scialbe che non dicono niente, al punto da sembrare scarti di vecchie session/registrazioni (è il caso di “Into the space age”). Fossimo stati nella band avremmo aspettato cercando di concentrarsi maggiormente su nuove idee: questo EP è discreto, ma viste le premesse era lecito aspettarsi di più. Marco Cavallini
Ananda Mida – Anodnatius
Gustoso progetto trasversale questo degli Ananda Mida, pensato e realizzato da Max Ear (OJM) e Matteo Scolaro, con Filippo Leonardi (Pater Nembrot) alla voce. La band fa riferimento "a certe dimenticate tradizioni tra il Medio Oriente e il Centro Asia. L'album di esordio 'Anodnatius', polo positivo, (...) sarà seguito dal disco 'Cathodnatius', nel quale si tenterà di far riemergere tutte le forze negative e le relative sottili vibrazioni giacenti fuori e dentro ogni cosa". Si intuisce quindi che siamo davanti alla versione chiara della band, un primo tempo di un film che si concluderà con la pubblicazione del prossimo album. Dal punto di vista estetico, i riferimenti al Medio Oriente sono esclusivamente concettuali dato che ci troviamo davanti ad un esemplare blues rock del terzo millennio con la testa piena di meteore psichedeliche ("Kondur", "Askokinn"). I pezzi sono scritti bene e contaminati al punto giusto. Si può partire da un ritmo serrato e finire dalle parti della dilatazione space/cosmica ("Lunia"). O traboccare di Seventies sound progressivo, come in "Anulios" e "Heropas". Non si dimentica neanche la lezione dei Queens of the Stone Age e di tutto quello che hanno modificato con il loro robot rock circolare ("Passavas", già edita come b-side del singolo "Aktavas"). Ma è sbagliato racchiudere dentro un solo contenitore ogni brano, dato che la scrittura è di per sé espansa. La musica italiana underground è sempre superlativa in quanto a bellezza e visionarietà. Speriamo che se ne accorgano pure oltralpe. Per dare la giusta visibilità a questi ragazzi che meritano appieno i festival europei di musica heavy psych. https://www.youtube.com/watch?v=YmmoyAhtdag   Eugenio Di Giacomantonio
Ananda Mida – Cathodnatius
Seconda parte (e chiusura) del dittico iniziato dagli Ananda Mida due anni fa con Anodnatius, parte chiara “dell’investigazione dell’anima degli esseri tricelebrali del nostro pianeta”, Cathodnatius è il rovescio della medaglia, la conclusione di un progetto, l’incontro di due metà sganciate nel tempo e finalmente ritrovatesi. La prima sorpresa è la presenza di Conny Ochs, cantante, compositore, pittore e illustratore tedesco che conosciamo in compagnia di Scott “Wino” Weinrich (Heavy Kingdom, la prima collaborazione tra i due, è del 2012) e abbiamo ritrovato di recente in solitaria con Doom Folk. La seconda è l’impressione di un album più coeso rispetto al predecessore. La band si è affiatata negli ultimi due anni ed ha nutrito il suo stile in contaminazioni diverse: prima tra tutte la forte impronta di Conny che, oltre ad aver dato un tocco di classe ai pezzi, emerge pura nella ballata Out of the Blue, dove l’ispirazione trasuda genuina (un po’ come successe alle band di Seattle quando staccarono la presa e suonarono unplugged). Pupo Cupo esplora la componente tooliana senza risultarne una caricatura, così come The Pilot e Blank State sono solidi hard psych blues in odore di classicismo. Il lavoro compositivo è regolato sulla fantasia dei chitarristi, Matteo e Alessandro, che combinano i loro suoni efficacemente: se il primo è Seventies oriented, con finiture e frasi post sabbathiane, il secondo lavora di fioretto, pieno di riverberi, tremoli, deelay ed altro, puntando dritto verso il rock chitarristico Ottanta. Strano ma vero, l’incontro risulta davvero amoroso! Basta ascoltare la suite finale, Doom and the Medicine Man, divisa in quattro parti che, oltre ad essere il manifesto espressivo della band, dimostra come un lavoro fantasioso delle chitarre può far diventare la musica... infinita. Lavoro bello e affascinante questo Cathodnatius, che potrebbe attirare la curiosità di ascoltatori fuori dal genere heavy psych in senso stretto. https://www.youtube.com/watch?v=fnmt6ansbwA   Eugenio Di Giacomantonio
Ananda Mida – Karnak
Dolce come miele colato è Aniulos che apre le danze di questo EP dal vivo degli Ananda Mida. Le chitarre di Matteo ed Alessandro tendono ad accarezzare e non a colpire dritto in faccia. La band è nata sotto il segno dell’improvvisazione e della jam e si sente in ogni afflato, sin dai tempi di Anodnatius. Con lo stand-by di due anni da Cathodnatius, date le condizioni in cui viviamo, non sono rimasti con le mani in mano ed hanno ripreso le registrazioni di Treviso e Mirano per ricordarci che loro esistono. Inoltre ci regalano due perle grezze con ospiti eccezionali. La prima è Jam with Mario che vede il buon Mario Lalli (Fatso Jetson, Yawning Man e Dio solo sa quanti altri progetti ancora...) spassarsela alla grande tra ritmi funk e groove irresistibili. Si sente il profumo di Desert Sessions ma anche una funkitudine alla Sly and The Family Stone dove bianco e nero si mescolano in maniera equivalente. L’altra, The Pilot, con una vecchia conoscenza: Conny Ochs. Qui siamo imprudentemente alle soglie dell’arena rock anni Ottanta, ma i nostri si salvano iniettando massicce dosi di sostanze psicotrope, di cui, crediamo, si nutrono. Il risultato rimane godibilissimo e fa luce su quanti e quali territori si muoverà in futuro questa band meritevole di essersi riappropriata della musica in forma viscerale e comunque divertente. L'EP è disponibile in vinile deluxe 180g con screen-print dorata hand-made sul lato B (opera di La Scatola Nera) e artwork di Eeviac, ovviamente via Go Down Records.

Eugenio Di Giacomantonio

ANCESTORS – In Dreams and Time
Gli Ancestors hanno scelto la loro strada. Che non è più quella degli esordi tumultuosi di "Neptune with Fire", dove il gruppo ci aveva regalato mazzate heavy stoner pur con dilatate aperture psych. La loro nuova strada è quella di una psichedelia progressiva che ha via via preso forma nel corso degli anni, prima con "Of Sound Mind", poi, in maniera più decisa, con "Invisibile White", lavoro a tratti troppo lezioso anche per chi ha sempre avuto dimestichezza con questi suoni. Non più Kyuss ed Earthless quindi, ma Pink Floyd (quelli degli anni Settanta) e King Crimson. Ora il cerchio si chiude con il nuovo "In Dreams and Time", sempre per Tee Pee Records, che spinge ancor più sul lato immaginifico della musica del gruppo.Non si faccia però l'errore di considerare il disco una semplice riproposizione dei mostri sacri citati poiché il quintetto sposta l'asse anche verso sonorità moderne, creando così due fonti che si vanno ad intersecare l'una con l'altra. Si parte con lo stoner atmosferico di "Whispers" dove le sembianze dei Neurosis prendono il sopravvento, brano cui fa da contraltare l'ammaliante delicatezza di "The Last Return", caratterizzato da una soave voce femminile accompagnata dal pianoforte di Jason Watkins. Da brividi. Probabilmente a volte si esagera nel voler ottenere un risultato fin troppo ricercato, ma la band ci ha ormai fatto capire che non intende tornare indietro. E così scorrono brani come "Corryvreckan" e "On the Wind" che, pur nella loro prolissità, ci aprono scenari di autentico splendore. Il trionfo del nuovo progressive viene però fornito dalla conclusiva "First Light", quasi venti minuti di durata, che permette all'ascoltatore di abbandonarsi in un mondo fatto di sogni e leggende d'altri tempi, e va a chiudere l'album dopo oltre un'ora di musica sopraffina. Se cercate una nuova via al prog che non guardi esclusivamente al passato, gli Ancestors fanno al caso vostro. Non lasciatevi scappare questa opportunità. Cristiano Roversi
ANTONELLO RECANATINI – Abruzzo Invented Punk
"Magari!", verrebbe da rispondere d'acchito. Da abruzzese di 100 generazioni sarei perennemente con un sorriso stampato in faccia a pensare ai Ramones da Civitella del Tronto, i Sex Pistols da Ceppagatti, i Clash da Pianella e i Damned da Lanciano. In realtà, andando a guardare sotto il velo della provocazione e ipotizzando il punk più come cultura e attitudine che come genere strettamente musicale, l'affermazione risulta più verace di quello che ognuno può pensare. Ogni abruzzese è punk sotto questo punto di vista, per mille diverse ragioni, e non è poi tanto un paradosso, anzi. "Abruzzo Invented Punk" è un manifesto nato nella mente del nostro Antonello Recanatini che misura perfettamente l'approccio dei ragazzi di questa regione (al netto della provincia teramana) alla materia chiamata musica, riuscendo a raccogliere menti e poetiche di gente come Digos Goat, Starlugs, Wide Hips 69, Delawater, Amelie Tritesse, Tre Tigri Contro, Singing Dogs ed altri ancora, in una maniera del tutto coerente al logaritmo punk.
Partiamo dalla materia. Il CD si presenta in una veste molto curata, con un gioco di coperture che portano a scoprire l'oggetto del desiderio pian piano. La neonata Novafeedback Records, moniker dietro al quale si manifesta il progetto editoriale di Danilo 'Felix' Di Feliciantonio, tiene a farci presente che ama fare le cose con cura e che la manualità è alla base dei processi produttivi. Bene. Inserito il disco, il quarto a nome proprio, Antonello si introduce strumentalmente, con accordi dolcissimi. È una presentazione di uno spaccato intimo e riservato alla compagnia di alcuni compagni di viaggio, amici di una vita, affini in una ricerca, in musica, spirituale. Anche l'ambiente di registrazione non è uno studio, bensì un luogo di incontri culturali, il Chaikhana. E qui, dopo concerti, presentazioni, bevute e chiacchiere si incontrano sei ragazzi ed una ragazza e fanno la loro cosa, in punta di piedi. Anche quando il ritmo accelera e il motore si scalda (la title track, "Broadway 39", "Glinting") si ha la sensazione di ascoltare musicisti in punta di fioretto. Le incursioni di tromba nel trittico "Abruzzo Invented Punk", "Old Synthax" e "Broadway 39" aprono a contaminazioni jazz riuscite. Così come la chitarra elettrica arricchisce, con arpeggi circolari a tenuta stagna, di significati espressivi il climax delle composizioni. Altre volte brevi stralci di synth e rumori d'ambiente evidenziano il lato provvisorio della musica, disturbandola con accidenti naturali. E, sopra a tutto, una scrittura elegante e raffinata di versi mai banali con una propensione verso lo stile beat generation curiosamente contaminato con la fantascienza di Philip K. Dick ed Isaak Asimov, soprattutto nei titoli. A spiegazione di ciò Antonello ci viene incontro: «Io e quelli della mia età abbiamo avuto il "culo" di essere nati in quel particolare periodo storico (fine anni Sessanta, nda), con una TV che trasmetteva programmi bellissimi, serie sci-fi ("A come Andromeda", "Gamma", "I sopravvissuti"): il televisore in sé era qualcosa di futuristico e magico, analogico, come lo definiamo ora, che impiegava tantissimo tempo ad accendersi, e da un puntino denso come un buco nero appariva la bellezza. Non è abbastanza science fiction?». Sci-fi, folk, beat e punk. Abruzzo Invented Punk. Eugenio Di Giacomantonio
ANTONIUS REX – Hystero Demonopathy
Quando si deve analizzare un lavoro di Antonio Bartoccetti viene sempre una specie di fitta al cuore. Straordinario personaggio del panorama rock nazionale ed artefice di memorabili momenti legati in particolare al rock occulto ed al progressive oscuro, chiaramente considerata la statura del personaggio non basterebbero poche righe per elogiare e narrare le gesta di colui che dapprima a capo di Jacula e poi con Antonius Rex diede vita alla prima e vera epopea del rock oscuro e mistico targato Italia. E se da qualche tempo si può parlare a ragione di grande tradizione dell'Italian occult doom, molto merito va proprio a Bartoccetti."Hystero Demonopathy" resta ad oggi il decimo album in studio del progetto Antonius Rex e segue a 3 anni di distanza l'istrionico doom esoterico di "Per Viam". "Hystero Demonopathy" è l'ennessimo viaggio cerebrale e filosofico cui Antonio da anni ci ha abituati. Nella fattispecie il concept analizza il risultato di una ricerca esoterica sull'isteria demoniaca visto come evento psichiatrico da alcuni e come magia esoterica da altri. Ne scaturisce quanto segue: un disturbo psichiatrico, o disturbo demoniaco esoterico segnato da eccitabilità, irritabilità, confusione oscura, mistico demonomania, comportamenti scorretti ed estremi emotivi, che si verificano soprattutto nelle donne possedute. Musicalmente l'album si snoda magistralmente in un surrogato cui confluiscono dark, gothic, sperimentazione, doom, prog rock, post progressive, post rock e misticismo esoterico fino a sfiorare l'industrial, il tutto condito dalla grande maestria tecnica dei componenti. Ancora una volta Antonius Rex ci conduce negli oscuri meandri della psiche e dell'inconscio più profondo. Ponetevi pure dei quesiti, ma badate: non avrete alcuna risposta plausibile, non c'è ritorno! Appendice: l'album è uscito il 12.12.12. Antonio Fazio
ANTONIUS REX – Zora
Sebbene la data indicata sia quella del 2010, in realtà Zora è molto più datato nel tempo. Esattamente 32 anni fa - era il 1977 e fu il secondo LP degli Antonius Rex - ma la portentosa etichetta ligure (andate a leggere lo special dedicato alla Black Widow da Perkele) ha deciso di soffiare via la polvere e rimasterizzarlo per un edizione anniversario, come a voler tirare a lucido una piccola gemma degli anni 70.Tutto è stato curato nei mini dettagli: dal suono, all'estetica dell'opera di modo che l'acquisto sia gradevole non solo per le orecchie, ma sia anche soddisfacente alla vista. Foto d'epoca e immaginario vintage grazie ad uno stile che riprende il cniema horror-esoterico tricolore, con tanto di pin-up vampirizzata e mezza nuda. Antonius Rex è solo uno dei molteplici progetti di un grande musicista e polistrumentista, che risponde al nome di Antonio Bartoccetti, un persoanggio nel vero senso della parola (anche qui consigliamo di leggere l'intervista presente su Perkele, per capire il Bartoccetti-pensiero da una fonte più che attendibile). Tuattavia secondo lo stesso Antonius 'Zora' è un disco che lascerebbe in cantina, non ha buoni ricordi e non lo rappresenta per nulla. Accantonando le logiche e la dietrologia, poiché ci occupiamo di musica e solo di musica, siamo in disaccordo con Mr. Bartoccetti. 'Zora' è un ottimo disco, avanguardistico e poliedrico e che meriterebbe maggiore visibilità. Sicuramente le canzoni sono orecchiabili e meno sperimentali del resto della produzione, ma la qualità c'è ed è netta. Non c'è solo la voce (e la recitazione) di Antonius, ma anche il suo sodalizio con la bravissima Doris Norton, straordinaria tastierista ed organista, appassionata di atmosfere jazz e kraut. Il disco è un'opera inclassificabile, anche se forse l'etichetta progressive sarebbe quella più naturale ed ovvia: sarebbe, perché si passa da momenti psichedelici ed acidi a discese decadenti ed oscure. Un disco all'avanguardia, che abbonda di soluzioni e di piste da seguire verso il castello di Zora. Un'esperienza da provare e non solo da leggere, perché qui si parla di uno dei chitarristi ed artisti più sottovalutati del panorama italiano, un musicista mai avaro di colpi di scena e di assi nella manica. In 'Zora' si passa dal jazz al prog pre-raffaelita, dalle atmosfere barocche a quelle sepolcrali ("Spiritualist Seance" è per buona parte una sonata d'organo da cattedrale), fino ai percorsi influenzati dal kraut e dall'hard rock targato 70 dei nove minuti conclusivi di "Monastery". Lasciatevi sedurre dal fascino proibito del peccato, abbondonate ogni resistenza e prendete parte all'avventura di Antonius Rex. Gabriele 'Sgabrioz' Mureddu
Anuseye – Anuseye
Il disco d'esordio degli Anuseye è commovente. Le dieci tracce di questo album edito dalla Interbang Records (vinile 180 grammi e artwork meraviglioso di Massimo Gurnari) segnano il ritorno di Claudio Colaianni e Luca Stero, voce e chitarre dei That's All Folks!, ovvero uno dei migliori gruppi heavy psych mai esistiti in Italia. "Soma… 3rd Way to Zion", il glorioso split con i Nebula e "Psyche as One of the Fine Arts" sono ancora custoditi come gioielli preziosi nei forzieri di ascoltatori fedeli e appassionati. Con Claudio e Luca a formare gli Anuseye ci sono Michele Valla (basso) e Antonello Carrante (batteria). Il risultato è stoner psych di quelli da far drizzare i capelli. Quel sound anni '90 che dal garage blues arrivava all'acid rock attraversando la psichedelia classica e il punk. Insomma, la summa di elementi che portò alla definizione di stoner rock. Dieci canzoni che non lasciano tregua, scritte e suonate benissimo, tra chitarre intense e debordanti, ritmiche che coccolano e scuotono, chorus ora malinconici ora festaioli. L'avvio con "The Girl at the Corner of My Heart" e "Head 02" riprende lì dove i TAF! avevano lasciato: heavy rock acido, storto, melodioso e dissonante, che fa tornare con la mente al suono glorioso portato a splendido compimento insieme a gruppi come Hogwash, Acajou e Vortice Cremisi. Un cookery course da chef esperti che espande la propria sapienza alle pietanze acustiche e psicotrope di "Au dela du ciel" e della sublime "All Is in Your Eyes" e completa la prima facciata con lo stoner sporco e vibrante di "Voodoo Lesson #1". Il lato B si apre con una mazzata ben assestata tra i denti, "Fine Needle", che fa il paio con il riff ammaliante di "Still" e il garage punk di purissima fattura di "The Betrayal", le canzoni che i Queens of the Stone Age non riescono più a scrivere da quasi dieci anni. Ipnosi e catarsi sono ciò cui conduce "Song for the Trees", virata finale al songwriting sopraffino di "Primary Love Blues", dilatazione al potere per cui vale la pena citare il sacro motto psyche as one of the fine arts. E pensare che con il secondo disco, "Essay On a Drunken Cloud", faranno ancora meglio. If you wanna suck my soul I would lick your funky emotions. Are you ready for action? Alessandro Zoppo
Anuseye – Essay On a Drunken Cloud
Ubi maior minor cessat. Quando escono dischi come "Essay On a Drunken Cloud" il mondo, almeno il nostro mondo, magicamente si ferma per ammirare tanta bellezza. Non è una questione puramente musicale. È un'appartenenza, un segno del destino, una visone. Tre quarti d'ora che riconsegnano la gioia di vivere nell'accezione più pura e disincantata possibile. Con un nome che lega basso e alto, sacro e profano, occhio e culo, gli Anuseye consegnano, via Vincebus Eruptum, un album sornione e amabile. Un giro di giostra sul guitar rock (strumento consegnato nelle mani di Mr. Claudio Colaianni, santo subito!) di quattro decenni: non solo quindi Seventies o Sixties, ma anche e soprattutto primi Novanta, sotto il sole latteo di Seattle. Come il bel riff di "Thirst for a Fix" (vecchia conoscenza per i più attenti) che rivuole i Soundgarden di "Badmotorfinger" qui e adesso. Dopo il primo disco omonimo, la band è ormai un power trio definitivo di puro flowered rock che ha affinato i propri mezzi espressivi nella direzione della sintesi. Micidiale in questo senso sono "JR" e "Demon Pulse" che in tre minuti tre ti sbattono in faccia cavalcate da aspiratori di bong professionisti, mescolando dune Fatso Jetson a panorami del Tavoliere delle Puglie. Eccellente. E l'effetto dell'inalazioni si fa sentire nelle vene attraverso gli umori dolci di "Earthquake" e "Sue Ellen" (viene il dubbio che i nostri si siano sparati l'intera serie di Dallas tra una pausa e l'altra in sala di registrazione), ballate sfatte dove il tempo rallenta e il sorriso in faccia diventa smaliziato. C'è anche lo spazio per lo scanzonato divertissment di "Push Magic Button", strumentale e selvaggia, per fare l'omaggio al germoglio di tutta la musica rock, il blues, nel finale di "Wrong Blues" e per ricordare chi eravamo con "S.S. Abyss", che tra le composizioni è quella che richiama maggiormente lo stile dei That's All Folks! C'è chi è in cerca della scena heavy psych italiana a tutti i costi. C'è chi smarca le etichette ed abbraccia genuinamente il proprio strumento per scrivere grandi album. Esistono grandi band che amiamo e che fanno dono all'umanità del proprio talento. Gli Anuseye sono qui per questo. Eugenio Di Giacomantonio
Anuseye – 3:33 333
Gli Anuseye non si fermano mai. Dopo l'esordio omonimo del 2011 e il successivo Essay On a Drunken Cloud, la creatura di Claudio Colaianni (That's All Folks!, Colt 38) torna con il terzo disco, 3:33 333, un album che sfida ancora una volta le leggi convenzionali della psichedelia pesante e del classic rock 60s-70s per inseguire una voce estatica e individuale. Come di consueto, tutto nasce dai riff e dall'improvvisazione, elaborata con cura certosina al Pure Rock Studio di Brindisi, "dotato di macchinari totalmente analogici, dal banco al registratore otari mezzo pollice". Gli otto brani dell'album sprigionano tutta la forza liberatoria della loro musica, a partire dal riff (appunto) dell'iniziale Sycamore Red, stoner rock di immensa qualità, come purtroppo non se ne sente da anni. Meet the Mudman è un singolo che farebbe entrare di diritto gli Anuseye nella line-up del Roadburn se solo venissero da Örebro e non da Bari. The Blend arriva a toccare la furia selvaggia del post-punk, ma subito dopo la title track rimette in ordine il caos con la sua psichedelia oscura e solenne, una composizione dalla dolcezza inquietante e abrasiva, che cresce carica di energia ossessiva e pericolosa, eppure in qualche modo pacifica e consolatoria. Il lato B si apre con The Syrup e siamo sempre lì: gli Anuseye sono maestri nel giocare a cavallo di quattro decenni, dai Sessanta e Settanta ai primi Novanta, quando lo stoner allucinato e febbricitante scaldava il cuore dei nostalgici. Con il suo groove desertico intonato con una sorta di vibrazione cosmica, Armored riassume il suono e la filosofia di 3:33 333, che mostra una band ormai adulta, capace di sperimentare (le percussioni e l'organo di Dominant Eye tra Stones e Brian Jonestown Massacre) senza però tradire il loro unico guitar rock psichedelico. La strumentale Vacuum Time Unit chiude i giochi come un acid test a base di zuccherini con LSD. Nessuna ferita né visioni terrorizzanti però, soltanto la magia di un galleggiamento che ci lascia piacevolmente stonati ed eccitati all'idea di una nuova avventura. Basta con lo stoner borghese e figlio di papà. Insieme a Nude degli Elevators to the Grateful Sky ed Everything Fades to White degli Stoner Kebab, 3:33 333 è la conferma che nel Belpaese l'heavy psych non è morto e sepolto e ha ancora qualcosa da dire. L'album è disponibile in una speciale limited edition in vinile colorato stampato in 333 copie da Vincebus Eruptum. https://www.youtube.com/watch?v=e7S2Z4Ydp8k   Alessandro Zoppo  
Anuseye – Right Place Wrong Time
La Go Down Records prende in carico gli Anuseye alla pubblicazione di Right Place Wrong Time, il quarto full-length della band pugliese dopo che la Vincebus Eruptum, storica label savonese che aveva pubblicato i primi tre album, ha dichiarato lo stop a tempo indeterminato alle pubblicazioni. Così i nostri presentano il proprio biglietto da visita al cospetto dell’etichetta romagnola, diventando immediatamente uno dei gruppi di punta dell’intero rooster heavy psych (tra gli altri Pater Nembrot, Vibravoid, Maya Mountains). Ma quali sono questi posti giusti frequentati nel momento sbagliato? Claudio Colaianni, con un’idea geniale, ha menzionato una serie di città che danno il titolo ai corrispettivi brani del disco. Si parte con Odessa, veloce e spietata, che riporta alla luce i primi interventi su vinile dei That’s All Folks! per quanto è aspra e diretta. Ma non poteva essere altrimenti, visto quello che sta succedendo da quelle parti negli ultimi anni… Fight for your freedom / but freedom don’t need fights / it scores no tomorrow: così taglia corto Claudio, facendo sua, fino al midollo, la tesi della non violenza. Seguono Sagres (a sud del Portogallo) e Churchofchrist che rappresentano un uno-due dove la componente Sixties del gruppo è più evidente che mai. I toni rallentano e diventano più misteriosi nella doppietta successiva: la strumentale Bratislava, un ambient oscuro con chitarra pizzicata, che introduce Medellin, dove riemerge la componente sabbathiana, senza sfociare mai nel doom vero e proprio. Ed è proprio qui l’originalità degli Anuseye: mescolare i due decenni fondamentali del rock, Sessanta e Settanta, in maniera del tutto naturale e sincronica. Girando lato si riparte con Vancouver, anche questa tirata e nervosa, e la successiva Kyoto dove il timbro si fa più evocativo e sul finale si sente qualcuno declamare qualcosa in giapponese (meraviglia!). Nel finale due pezzi siamesi da sei minuti ciascuno, dove emerge un’altra intuizione degli Anuseye; portare per mano la musica heavy psych verso quello che una volta veniva chiamata musica alternative e che adesso non sappiamo più cosa sia esattamente. Ma la band ci mostra una  possibile via da percorrere, gonfiando il suo sound heavy con forti elementi melodici che rimangono stampati in mente (Stockholm è autenticamente grunge delle origini come non ne ascoltavamo da anni). Affiancati dal fido Nanni Surace in sede di registrazione e produzione, gli Anuseye hanno messo in circolo il solito album stupefacente in quanto ad inventiva e scrittura melodica, realizzando un platter classic rock alla stregua dei Lydsyn, side project di Lorenzo Woodrose, che ha fatto la stessa operazione ma con risultati diversi. Da segnalare che l’edizione in digitale contiene tre brani in più (Adis Abeba, Santiago e Berlin). https://www.youtube.com/watch?v=xdeuJ2enr50

Eugenio Di Giacomantonio

APE SKULL – Ape Skull
Chi ricorda i Josiah? Oscuro power trio inglese, purtroppo sciolto a causa del ripiegamento del suo leader Matt verso il progetto (altrettanto interessante) Cherry Choke. Bene, i nostri macinavano un high energy acid rock che mescolava la furia dei Grand Funk Railroad (voce chiara e basso tankard) con una scrittura di facile presa, densa di ritmi funk, hard & soul, à la Funkadelic in botta di THC, per indenderci. Ora i nostrani Ape Skull hanno preso gli stessi ingredienti ed hanno sfornato il primo full-length omonimo che sfamerà tutti coloro desiderosi di una forma genuina di stoner psych.Giuliano Padroni (batteria e vode), Fulvio Cartacci (chitarra e backing vocals) e Pierpaolo Pastorelli (basso e backing vocals) hanno ascoltato una varietà infinita di gruppi americani ed europei per formulare una sintesi così precisa del loro power sound, che valica la nostalgia dei favolosi Anni 60 e 70 per presentarsi oggi come cosa "nuova". L'importante non è dimostrare abilità e tecnica; l'importante e divertire e divertirsi con il rock'n'roll, facendo prori gli impulsi che animavano quelle grandi band. E il tributo verso i padri lo pagano proprio al giro di boa dell'album, rifacendo in forma ancora più sciolta "I've Got No Time" degli Orange Peel, vera mimesi in chiave tedesca dei travolgenti Leaf Hound. Così il disco scorre tra grandi canzoni che viaggiano veloci su generi e influenze. "Time and Wind" si riscalda al sole del Sud Americano in compagnia di Lynyrd Skynyrd e Black Crowes; "Make Me Free" e "Bluesy" rispolverano le fantastiche jam dei Cream quando in concerto si poteva andare oltre, oltre, oltre... e l'uno/due iniziale potrebbe benissimo stare in un album pubblicato a cavallo del triennio 1969/1971 senza sentire alcuna differenza. Ma non tutto è propriamente retro: in "Now I Get You" emerge un cortocircuito robotico nel riff che riavvicina gli Ape Skull ai "moderni" Queens of the Stone Age. Tutto amalgamato dalla bella sensibilità di Fulvio che con i sui solos riesce a svincolarsi dal già sentito, impreziosendo le songs ogni volta con una sfumatura diversa. Chi ha bisogno della modernità nel rock se escono album di questo calibro? Mettendo vicino i dischi da Top Ten e gemme underground come queste, non abbiamo nessun dubbio sulla scelta: long live to high energy rock'n'roll! Eugenio Di Giacomantonio
APE SKULL – Fly Camel Fly
Dopo il bell'esordio omonimo del 2013, i romani Ape Skull hanno sfornato un altro album di classe. Intrappolati nel triennio 68/70, riescono a produrre qualcosa di buono senza risultare calligrafici. Sarà per la bravura di Fulvio, capace di dare un tocco psichedelico con la sua chitarra SG vintage, o sarà l'amalgama perfetta tra Giuliano e Pierpaolo, autori di una base ritmica impeccabile, ma il concetto di retro rock viene assorbito e superato dalla scrittura musicale. "Early Morning", ad esempio, è puro American way of life con una spruzzatina di calor latino. Certamente siamo lontano dai Los Natas che hanno esplorato questo concetto in maniera radicale. Qui siamo sull'onda lunga di Grand Funk Railroad (la title track è Farner/Schacher che di più non si può!), MC5, Taste, Sir Lord Baltimore, Blue Cheer, Montrose, qualcosina dal primo Alice Cooper e qualcos'altro in odor di glam.
Insomma, "Fly Camel Fly" è puro high energy rock'n'roll. Con il giusto pegno pagato in onore dei padri attraverso la gustosa cover di "Driver", amplesso lisergico di uno dei gruppi americani più sconosciuti, ovvero i Damnation of Adam Blessing, autori di quattro album tra il 1969 e il 1973, uno più bello dell'altro. Gli Ape Skull la mettono a chiusura della prima facciata del vinile come a dire: "Ecco da dove veniamo, girate gente e sentirete dove stiamo andando". "Kids on the Kitchen" in apertura del lato B strizza le palle in due minuti e mezzo alla maniera del punk rock. La successiva "Tree Stomp" è gigionesca come un incrocio tra Twisted Sister e Captain Beyond; "A Is for Ape" e "Heavy Santa Ana Wind" si fanno apprezzare sin dal titolo, la conclusiva "Looking Around" è un vero e proprio invito a guardarsi intorno se questa realtà non vi piace. Anzi, meglio guardarsi indietro se volete scoprire delle gemme del passato, schizzate improvvisamente nel nostro presente chissà in quale porta spazio/temporale. Eugenio Di Giacomantonio
ARBOURETUM – Song of the Rose
Da qualche anno l'animo di Dave Heumann, cantante e chitarrista degli Arbouretum da Baltimore, si è pacificato. Ne abbiamo avuto sentore già dal precedente album della band del Maryland, "Coming Out of the Fog", e ancora di più nel lavoro solista di Dave, "Here in the Deep", dove l'elemento pastorale e bucolico del songwriter ha preso il sopravvento sulla montagna di watt che il nostro riusciva a sprigionare con la sua chitarra. A ben vedere sin dalla cover di "Highway Man" di Jimmy Webb, contenuta nel loro miglior disco, "The Gathering" (uno dei cinquanta migliori del 2011 secondo Mojo e Uncut), il gruppo ha dimostrato sempre un certo appeal nei confronti della melodia. Ora, con l'ultimo "Song of the Rose", la bella scrittura ha preso il controllo totale dell'operazione. I ritmi sono lenti, come in una calda ed afosa giornata messicana, dove il sole rende mobile il punto dell'orizzonte e non si riesce a muovere un passo. Ovviamente, anche in questa stasi pachidermica, quando il nostro si esibisce in solos acidi, non ce n'è per nessuno: come nel caso della title track, nella quale prende il sopravvento nel finale con una cascata di note appuntite.
L'eco psych/jam/lisergica non è del tutto spenta. L'iniziale "Call Upon the Fire" ha un bel tiro e sembra indicare dove sono le radici e gli amori non dimenticati; ancora, "Mind Awake, Body Asleep" è rude e distorta a dovere, ma purtroppo è solo un siparietto messo a contorno. E qualcosa si sente negli elementi sospesi dentro ogni pezzo (synth, riverberi e space effects sono sparsi un po' ovunque anche se dosati con parsimonia). Si cerca e si trova una classicità tipicamente americana e fuori dal tempo: "Dirt Trails", "Comanche Moon" e "Woke Up on the Move" sono a tutti gli effetti delle piccole gemme di classicismo roots che portano i nostri in prossimità degli... Eagles! Strano ma vero. Da non dimenticare che la band di Don Henley per trarre ispirazione per il terzo album si rifugiò nel deserto a masticare peyote: un elemento che accorcia sensibilmente le distanze con gli Arbouretum. Alla fine dell'ascolto tanta precisa bellezza non fa altro che coinvolgerci e migliorare il nostro umore. Libero da ogni cliché, persino quelli creati da lui stesso, Dave Heumann si espande in ogni direzione con la sua band. E noi con loro. Eugenio Di Giacomantonio
Arbouretum – Coming Out of the Fog
Il bello di un gruppo come gli Arbouretum è la loro costante evoluzione. Un continuo sviluppo nel songwriting, una crescita esponenziale. Non sono il classico gruppo che spara le migliori cartucce nel primo album per poi vivere di rendita. Sono dei ricercatori in continuo raffinamento della bellezza. E cosi può accadere che al quinto album ufficiale, "Coming Out of the Fog", Dave Heumann scriva alcune tra le migliori pagine di psichedelia moderna. Uno stile che si va ad intrecciare con le radici del folk e si sporca con i suoni robusti dell'hard e dell'heavy. Un miracolo, a pensarci bene. Le cose che avevamo ascoltato nel bellissimo "The Gathering" ora sono germogliate in maniera definitiva e brillano di luce propria. Il percorso sembra proseguire da dove si era interrotto, anche se l'uscita dalla nebbia rappresenta per i nostri un passaggio intimo e delicato. Per molti versi definitivo. L'apertura è consegnata all'elegia di "The Long Night" che viene svuotata dalla pura malinconia tesa all'autocompiacimento e vira verso il canto della bellezza tout court. Un'idea di appartenenza al mondo così com'è, un lasciarsi andare all'osservazione naturalistica: un divenire puro pensiero per scartare la rovina della materia. Stessa gioia contemplativa che ritroviamo in "Oceans Don't Sing", lunga carezza dal ritmo lento e dai respiri profondi, dove un pianoforte ed una lap steel rifondano il concetto stesso di southern culture dal calore famigliare. Di contrappasso sta la ruvidezza di "The Promise" e "Renuncer", veri e propri monoliti stoner rock con un gusto melodico sopra la media. È questa la dualità che percorre tutto l'album ma non lo spacca in due: da un lato canzoni autoriali che guardano al Neil Young dei Settanta ed hanno una sensibilità nord-europea; dall'altro tracce guitar oriented dalla distorsione protagonista, che non rinunciano ad un'aurea meditativa. A pensarci bene nessun gruppo è riuscito a far convivere queste due anime, anche se gli Arbouretum applicano un processo di sintesi assolutamente nuovo anche per loro stessi e i brani sembrano sparire da un momento all'altro. "All at Once, the Turning Weather", "World Split Open" e "Easter Island" appartengono a questa categoria. Nel momento in cui il concept della canzone potrebbe colorarsi di jam spaziali, viene interrotto quasi con uno strozzamento, a ribadire che il monolite non ha bisogno di ripetersi se si è già consolidato. Dopo il trittico, la chiusura spetta alla title track, altra novità nell'espressione artistica del gruppo: una serena, dolce e rassicurante ballad southern country dove le chitarre tacciono e le trame vengono tessute dall'intreccio di piano e lap steel. Bob Seger, Allman Brothers e Pink Floyd dei Seventies mescolati in un unicum eccezionale. Sarà difficile ripetersi dopo una prova talmente bella ed emozionante, ma gli Arbouretum, ne siamo certi, stanno già osservando altri limpidi orizzonti, una volta usciti dalla nebbia. https://www.youtube.com/watch?v=OfcdwjMAxT4

Eugenio Di Giacomantonio

Arbouretum – The Gathering
Gli Arbouretum suonano vintage. Su questo paiono non esserci dubbi. Ascoltando la loro musica non si può fare a meno di pensare ad un folk bucolico ancorché tristemente penetrante debitore dei Seventies. Oppure ad un rock elettrico, un Neil Young accompagnato dai Crazy Horse senza dimenticare i fantasmi di Jerry Garcia. Questo per citare le influenze più rilevanti. Dal 2004 ad oggi ne hanno fatta di strada passando attraverso quattro album, tra cui gli ottimi "Rites of Uncovering" e "Song of the Pearl" più alcuni cambi di formazione come il recente ingresso di Brian Carey alla batteria e soprattutto Matthew Pierce alle tastiere. Tuttavia, nonostante quest'ultimo particolare, il sound della band di Dave Heumann appare più spigoloso, più duro, sposando in certi momenti la causa di uno stoner senza fronzoli. Ed è proprio quello che accade nel nuovo lavoro in studio, "The Gathering", il quinto della serie (tenendo anche conto del disco live a tiratura limitata "Sister Ray"). In tal senso non è sbagliato dire che il loro percorso somiglia a quanto fatto dai Pontiak, altra formazione di grande spessore. Il disco si divide in due parti: la prima più compassata dai consueti accenni folk blues, cantautorato ed una ricerca sonora invidiabile (d'effetto gli assoli doorsiani di "White Bird"). Una seconda dove invece le atmosfere si fanno più pesanti, con passaggi decisamente hard, riverberi dichiaratamente psichedelici e lunghe improvvisazioni chitarristiche che raggiungono picchi assoluti. Ne sono un esempio la dissonante "Waxing Crescent" e la dirompente "Song of the Nile", dieci minuti di funambolico psych hard blues suonato ad alto livello. Nel mezzo pure due brani più "semplici" come il rock rilassato di "Destroying to Save" ed il punk spensierato di "The Empty Shell". Insomma, "The Gathering" è un album che presenta alcune differenze rispetto al recente passato ma che, proprio per questo, potrebbe interessare anche un pubblico più ampio. Sta a voi saper cogliere ed ovviamente apprezzarne i contenuti. https://www.youtube.com/watch?v=9eUZfzJPSAA

Cristiano Roversi

Arbouretum – Let It All In
Tornare a sentire la grazia degli Arboretum è un'esperienza unica. Dave Heumann ha costruito e sviluppato il suo percorso artistico attraverso la sottrazione degli elementi: se i primi dischi degli Arbouretum nascono sotto la stella di una psichedelia rallentata, dal vago sapore stoner addizionato ad una scrittura fortemente originale, man mano gli elementi chimici sono precipitati in una soluzione che abbraccia la musica tout court. Di segnali ne abbiamo avuti da tempo, basti pensare alla cover di Highwayman contenuta nel disco The Gathering del 2011 che vuole porre il focus sui gusti American roots del nostro, ma il vero risultato di tutte le ricerche condotte è proprio questo nuovo album, Let It All In, il cui titolo non poteva essere più azzeccato. Fanno capolino l'elegia e la scrittura lirica come in A Prism in Reverse, pezzo rallentato e bucolico che ci restituisce in pieno l'originalità di cui sopra. Fa il paio con questa la successiva No Sanctuary Blues, in cui emerge chiaro sia l'affiatamento della band nel costruire arrangiamenti gustosi, sia il tocco chitarristico di Dave, veramente unico. A proposito, nel mix dell'album la chitarra non è sparata a volumi improponibili accentrando l'ascolto solo sul suo suono, ma questo, bisogna essere onesti, è un processo già in atto, in maniera più sfumata, nel corso degli ultimi tre album, possiamo dire da Coming Out of the Fog in poi.

Arbouretum: mistica folk psych

Dopo l'interludio strumentale Night Theme, ecco un nuovo classico: Headwaters II. La gioia di vivere e la bellezza della musica esplodono senza filtri. Alcuni potranno sentirci un vago attaccamento al folk psych, altri alle esplorazioni degli ultimi Dead Meadow, ma se aprissimo la mente a nuove pulsioni e abbandonassimo i preconcetti, allora noteremo lo specifico del sound degli Arbouretum, in tutta la sua unicità e ricchezza. Per gli amanti della dilatazione sonica, la perla è la title track: oltre dieci minuti di oscillation chitarristica che chiude il conto con band come Vibravoid, Baby Woodrose e le Desert Sessions dell'ultima ora, che ormai sembrano essere diventate il gingillo di un Josh Homme senza più ispirazione. Il congedo è affidato a High Water Song, un brano che dopo lo sbalzo temporale della precedente ci riporta su prati fioriti e buoni sentimenti, con un sapore folk blues enfatizzato da un pianoforte protagonista. La parola giusta per descrivere l'ascolto di Let It All In è mistica: mistico è il suono della band, mistico è il processo che mette in relazione loro e noi, mistico è il substrato che ci lascia nelle orecchie e nella pancia ogni loro disco. https://www.youtube.com/watch?v=IBY3a0pB-t4 Eugenio Di Giacomantonio
ARCANA COELESTIA – Nomas
Giungono con "Nomas" alla terza release i cagliaritani Arcana Coelestia, nati nel 2005 e con due uscite alle spalle ("Ubi Secreta Colunt" nel 2007, "Le Mirage de l'Idéal" nel 2009). Fautori di un doom funereo a tinte black, non deviano di un millimetro dalla strada intrapresa con i precedenti dischi e mettono sul tavolo tutti gli elementi necessari a portare avanti il loro discorso: arrangiamenti trionfali e stentorei, batteria poderosa e voce cavernosa che si alterna al cantato pulito.
Tutto ben fatto, ben suonato e registrato. Ma alla fine la sensazione è che le cinque tracce che compongono "Nomas", cinque movimenti di un'unica canzone, lascino ben poco oltre le tiepide impressioni iniziali. Ci si trova di fronte a qualcosa di spesso abusato, di già sentito infinitesime volte, e non basta la cura dei dettagli e degli arrangiamenti per far sì che il lavoro emerga in un panorama musicale tendente troppo spesso alla saturazione, visto anche l'enorme mole di musica fruibile. La strada da percorrere per la compagine isolana ancora è tanta per nobilitare la propria proposta musicale. E lo scriviamo perché crediamo nelle grandi potenzialità degli Arcana Coelestia. Giuseppe Aversano
ARCHON – Ouroboros Collapsing
Arriva la seconda prova in studio per i newyorkesi Archon, dopo "The Ruins at Dusk" uscito nel 2010. Il quintetto della Grande Mela continua a farsi alfiere di uno sludge doom a tinte gotiche. Però c'è qualcosa che non torna, perché gli Archon non sembrano avere tanto le idee chiare: sembrano vagare alla ricerca di una identità sperimentando soluzioni che non sempre riescono a rendere al massimo.L'apertura del disco è affidata a "Worthless", brano nel quale atmosfere sinistre e voci evocative si snodano nell'arco di 15 minuti, decisamente troppi. "Desert Throne" ravviva un po' la situazione, il lungo intermezzo di chitarra riesce nello smuovere le acque della monotonia. "God's Eye" rimane nella mediocrità, non spicca né per dinamismo né per atmosfera. "Masks" è un altro tour de force di 13 e oltre minuti: prova a recuperare puntando su una parte centrale sommessa che prelude ad un crescendo finale che tende all'epicità. Insomma, non convince il sophomore degli Archon, nulla si eleva al di sopra della mediocrità, e la monotonia tende a farla da padrona quando i pezzi si ripetono stancamente e non durano mai meno di 9 minuti. Giuseppe Aversano
ARTEFIX FRAUDIS – Sinin
Sono passati tre anni dall’ultimo segnale degli Artefix Fraudis, promettente band di Merate che aveva fatto ben sperare con le due precedenti demo “Somnia aegris” e “The unassuaged’s maze”. Oggi il gruppo torna in pista e lo fa con una rinnovata formazione, che vede l’ingresso in line up di Davide (basso) e Matteo (voce) al fianco di Alessandro (chitarra, tastiere), Dameth (chitarra) e Michele (batteria). Rivoluzione che non intacca l’idea originaria dei cinque, suonare un potente e melodrammatico gothic death doom di chiara scuola britannica, ispirato dai numi tutelari My Dying Bride, Anathema e Paradise Lost.Se in “The unassuaged’s maze” erano la voce, alcune pecche di scrittura e la registrazione a non convincere, in questo caso le cose sembrano essere davvero cambiate. “Sinin” ci offre infatti quattro brani validi sotto tutti i punti di vista, penalizzati solo dalla breve durata. Le vocals di Matteo sono profonde e sentite, il senso drammatico comunicato dalle sofferte ritmiche e dalle due intense chitarre esplode in tutto il suo dolore. “None of us” è una intro in crescendo che lancia la bellissima “The two of us”, lenta e straziante come una pugnalata in pieno petto. La title track è un delicato passaggio di pianoforte che ci prepara alla conclusiva “Paradiso estinto”, song più aggressiva, dal taglio deciso e tendente al death. Di sicuro con un maggiore azzardo in fase di songwriting questi cinque ragazzi lombardi potranno dire sicuramente la loro in un panorama tanto inflazionato come quello del metal italiano.. Alessandro Zoppo
ARTEFIX FRAUDIS – The unassuaged’s maze
“The unassuaged’s maze”, primo lavoro sulla lunga distanza per gli italianissimi Artefix Fraudis (dopo il demo “Somnia Aegris”), è un dischetto che catapulta indietro nel tempo, all’inizio degli anni ’90, quando in Inghilterra nacque una nuova ondata che donò vigore ed inventiva al metal. Parliamo della scena gothic doom che sulla scia di acts ormai storici come Anathema e Paradise Lost portò un velo di oscura luce su un movimento ormai privo di mordente. Gli Artefix Fraudis (progetto nato nel 1999 come band personale di Alessandro Spitale e poi divenuto gruppo vero e proprio con l’ingresso di Fabio Ferrari e Marco Spitale, fratello di Alessandro) si rifanno proprio alle sonorità drammatiche e lugubri che i suddetti colossi hanno portato allo scoperto. Se però gli intenti sono positivi, la realizzazione pratica in qualche punto lascia a desiderare: innanzitutto la voce di Marco, versatile ma poco incisiva e sicura; in secondo luogo la registrazione, che dona scarso vigore alle composizioni; infine alcune pecche in sede di songwriting, evidenti in un brano come “Bleeding eyes”, che vuole essere morboso e pestifero ma alla fine risulta piuttosto scontato. Le note felici giungono invece dagli azzeccati inserimenti atmosferici donati dalle tastiere di Alessandro (vedi l’”Intro” e la conclusiva, malinconica “Unassuaged we rest”) e dall’aura aggressiva e al tempo stesso catacombale che ammanta “Morbid fantasies” e “Tears of a blossom”, episodi gotici, depressivi e a tratti epici sui quali gli Artefix Fraudis dovranno lavorare in futuro. Nell’insieme siamo ben oltre la sufficienza, ma manca ancora quello spunto che renda la band acuta e più pungente. Magari proprio il recente inserimento in formazione di Marco Marzolla al basso e Matteo Casiraghi alla batteria servirà a donare nuova forza espressiva al gruppo. Noi ce lo auguriamo vivamente… Alessandro Zoppo
ARTEMISIA – Gocce d’assenzio
«Lento orrore, dentro gli occhi appare. Scorre il sangue, scende e fa male». Uno stralcio dal vortice che risucchia lo stile degli Artemisia, quartetto di Gorizia che è arrivato con 'Gocce d'assenzio' al passo del secondo disco. Undici tracce per un robusto e potente hard rock venato di blues, progressive e tentazioni dark. Un lavoro che lascia con l'amaro in bocca, perché le potenzialità in questo gruppo ci sono tutte. Partiamo dagli aspetti positivi. In primis la produzione, realizzata presso il Fandango Studio di Trieste. Compatta, a tratti sporca ma efficace, eterogenea nell'unire gli umori differenti che attraversano l'album. Da applausi è il lavoro del chitarrista Vito Flebus, vero motore degli Artemisia: riff che rimangono in testa, soli precisi, nessuna sbavatura o voglia matta di strafare. Giusta complicità con la sezione ritmica (Fabio Corsi al basso, Matteo Macuz alla batteria) ed un modo di comporre e suonare che ben si adatta al rock sanguigno perseguito in 'Gocce d'assenzio'.I punti negativi? Facile a dirsi: il cantato in italiano e la voce di Anna Ballarin. Sul primo punto incide molto il tipo di decisione, che purtroppo accosta alcuni pezzi ("Immobile", "Donna prescelta") alle peggiori sensazioni nostrane (leggi Lacuna Coil). Invece di concentrarsi su qualcosa di diverso (tornano alla mente le bellezze oscure dei compianti IV Luna). Sul secondo è un fattore di gusto, perché Anna mostra un buon timbro ma scarsa amalgama con un genere di questo tipo. Detto questo, piace come vengono risolti gli intarsi psichedelici della title track, le delicate intuizioni delle ballad "Il tempo" e "Il sentiero" (anche se il giro è rubacchiato ai Joy Division di "Love Will Tear Us Apart"), gli inserti di Hammond delle hendrixiane "Inutile assenza" e "La vetrina". Per concludere, diamo un consiglio agli Artemisia: ascoltare 'Kaleidoscope' degli svedesi Siena Root. Potrebbe essere un'indicazione per capire su cosa indirizzarsi e dove muovere le dovute correzioni. Alessandro Zoppo
ARTIFEX – Suspension of Disbelief
Attivi da circa dieci anni, gli Artifex sono un trio bolognese capitanato da Antonio 'Mircea' Olivo (voce, chitarra, synth) e completato da Vito Laterza (basso) e Francesco Pavonessa (batteria). "Suspension of Disbelief" è un promo di quattro brani che giunge dopo tre dischi auto prodotti e segna il definitivo orientamento sonoro della band. Un rock in bilico tra industrial, elettronica e progressive, con delle puntatine in territori metal e tentazioni moderniste. Non molto originale a dirla tutta, tuttavia le varie sfaccettature fanno degli Artifex un progetto abbastanza interessante."Brainflush" sintetizza bene queste anime: elettronica industriale messa al servizio di riff affilati e vocals aggressive. "Emptiness" vira verso una forma complessa e intrigante di progressive electro psichedelico, mentre "Room 453" è influenzata dall'operato dei Tool, nella struttura ritmica come nell'esplosione melodica del chorus. "The Ultimate Display" chiude il promo nel migliore dei modi con un metal cerebrale e dilatato, che fa un uso non troppo invadente dell'elettronica. Restano da smussare degli angoli (non sempre sperimentare è sinonimo di personalità), detto questo gli Artifex si segnalano per la bravura e la sensibilità decadente che permea i brani. Restiamo in attesa del full lenght definitivo. Alessandro Zoppo
ARTIMUS PYLEDRIVER – Artimus Pyledriver
Rozzi, bruti, scatenati ma dal cuore d’oro, sempre pronti a far baldoria con un po’ di sana musica e una boccia di whisky. Così immaginiamo gli Artimus Pyledriver, cinque rawkers assatanati che bruciano da diversi anni palchi e bottiglie su e giù per gli Stati Uniti. “Southern fried rock” è stato l’ep d’esordio, uscito nel 2002. Passano tre anni ed ecco il loro full lenght, prodotto dalla band in compagnia di Matt Washburn e Dave Angstrom (Supafuzz, Hermano) ed edito dalla sempre attenta Buzzvile Records.Lo stile degli Artimus è grezzo e primordiale, è la naturale eruzione del sud degli States, un suono corposo, marcio e lento, micidiale se assunto senza precauzioni (leggi un bel bottiglione di Jack Daniels da trangugiare in tutta tranquillità). Le radici vanno trovate tanto nei mostri sacri dei ’70 (AC/DC, Mountain e Lynyrd Skynyrd su tutti) quanto nel rock’n’roll abrasivo di Nashville Pussy e Bad Wizard o negli influssi southern stoner di Alabama Thunderpussy, Halfway To Gone, Drunk Horse e Karma To Burn. Sono soprattutto le due chitarre a tratteggiare parabole infuocate a base di riff grassi e sudati, sostenuti ottimamente dalle ritmiche, esagitate a dovere, sulle quali poggia l’ugola abrasiva del singer Dave Slocum, ruvida più della carta vetrata, ovvia conseguenza delle alte quantità di bourbon ingerite… Ascoltando pezzi come “Swamp devil” e “Ride on” sembra proprio di vivere la dimensione sporca e fumosa di un saloon di Atlanta, tra una bonaria scazzottata e tanto sano divertimento. L’unico difetto di questo disco può essere riscontrato nell’eccessiva compattezza della proposta, che rende alcuni brani un po’ troppo simili tra loro ed appiattisce il livello compositivo generale. Ma se siete amanti di tali sonorità dopo vari passaggi nel vostro lettore questa sensazione sarà sostituita da un piacevole scuotimento ormonale. È infatti impossibile resistere a mazzate del calibro di “Dixie fight song” o “Get some”, punti d’incontro tra southern, blues e rawk’n’roll. Come è difficile star fermi quando dopo averci accarezzato con una languida slide, “High life” ci trascina in un inferno orgiastico e godereccio. Gli Artimus Pyledriver sono dei diavoli saliti in terra sotto forma di beoni. Ma con gli strumenti in mano cazzo se ci sanno fare! Dal vivo immaginiamo che l’inferno si materializzerà davanti agli occhi degli spettatori, ma non ci saranno fuoco e fiamme. Solo copiosi fiumi di birra! Alessandro Zoppo
ASTEROID – Asteroid
Si erano rivelati con un paio di demo interessanti e uno split con i compagni d’etichetta Blowback. Giunge ora per gli Asteroid il momento della verità con il primo album ufficiale, edito sempre dall’attenta Fuzzorama e forte di una distribuzione capillare. Tanta fiducia è stata ben riposta perchè la band svedese si affranca definitivamente dai canoni stoner ‘kyussiani’ e sforna un lavoro ben scritto, suonato in modo impeccabile e soprattutto per ampi tratti molto personale. L’unica pecca può essere riscontrata nella produzione, che non sempre fa emergere un dovuto wall of sound, una potenza che renda gli Asteroid dei titani nel panorama heavy psych odierno.Poco male comunque, perchè questi tre ragazzi sanno il fatto loro e lo dimostrano quando picchiano giù duro (la doppietta iniziale formata da “The great unknown” e “Speaking to the sea”, la travolgente “The 13th witching hour”), quando esplorano fatati lidi psichedelici (“Panoramic telescope”, la bellissima strumentale “The infinite secrets of Planet Megladoon”, le soavi “Silver leaf” e “Flowers and stones”) o quando si confrontano con l’ingombrante fantasma chiamato Kyuss (“Little fly”). Il rock del trio unisce anime e sfaccettature diverse: bordate hard & heavy, magiche aperture space, una sensibilità tutta progressiva nei cambi di ritmo ed umore, dosi massicce di lsd per esercitare il controllo totale sulla nostra mente. Come se tutto ciò non bastasse la divagazione acustica di “Water” e il trip assoluto della conclusiva “Doctor Smoke” condiscono il piatto di ulteriori spezie. Insomma, gli Asteroid non inventano nulla di nuovo, quello che suonano però si rivela eterogeneo e mai stantio. Di sicuro una delle migliori band ‘di genere’ in ambito europeo. Alessandro Zoppo
ASTEROID /BLOWBACK – Split Cd
L'agguerrita indie label Fuzzorama Records torna a farsi sotto dopo una serie di uscite interessanti (ricordiamo soprattutto lo split tra Firestone e Truckfighters e il disco di debutto di questi ultimi). Ed è proprio con un disco diviso tra due delle migliori realtà del panorama stoner svedese che l'etichetta si ripresenta. Asteroid e Blowback sono infatti gruppi promettenti e onesti, che fanno della psichedelia heavy il loro credo.I primi sei pezzi del cd sono affidati agli Asteroid, trio di Orebro che avevamo già apprezzato in occasione di un promo uscito nel 2004 e di un ep auto prodotto nel 2005. Robin (chitarre, voce), Johannes (basso, voce) e Martin (batteria) ci propongono un pugno di canzoni toste e ben eseguite, classico stoner rock cazzuto e roccioso, ispirato dai padrini del genere (leggi Kyuss) ma anche ricco di sfumature, che vanno dalla psichedelia classica all'hard rock dei '70. Brani come "Supernova" e "Walk alone" pagano dazio al classico sound kyussiano, così come "Anagram", composizione 'flippata' in pieno stile Queens Of The Stone Age. Dove la personalità emerge è invece nell'eclettismo di "Hexagon" (melodie malate su un tappeto duro come granito), nel sound catchy di "Sim-sala-bim" e nella voglia di jammare in totale libertà che pervade "The big trip beyond". Davvero ottimi gli Asteroid, li attendiamo con impazienza al varco del primo full lenght. Altrettanto validi sono i Blowback, che nel 2005 si sono segnalati come una delle migliori realtà hard stoner grazie ad una demo dalla qualità davvero elevata. Se era il loro gusto tipicamente seventies a farceli piacere, i pareri allora espressi trovano piena conferma nei sei brani qui presenti. Seb (chitarra), Crille (basso), Henke (batteria) e Steffe (voce) hanno dalla loro un songwriting ispirato e imbevuto di dense sonorità hard psycho blues, senza risultare per questo stantii. Echi di Led Zeppelin, Mountain e Black Sabbath pervadono le loro composizioni, bolidi come "Holy skies" o passaggi dilatati quali "Cosmic dust" e "The arquitect", esempi perfetti di contemporanea hard psichedelia. Il pieno stoner sound emerge invece in "Autumn leaf" e "Fairys dance", concentrati di Kyuss e Orange Goblin suonati come la bibbia heavy psych comanda. Insomma, i Blowback si pongono alla perfezione tra lo stoner 'eterogeneo' di Generous Maria e Stonewall Noise Orchestra e l'hard intenso di Abramis Brama e Svarte Pan. Praticamente quanto di meglio la Svezia possa offrire in questo campo. Alziamo i calici e brindiamo. Ovviamente in the name of fuzz!! Alessandro Zoppo
ASTROSONIQ – Son of A.P. lady
Con l’exploit di “Sound Grenade” abbiamo dovuto fare i conti con una nuova realtà devastante che ci riconciliava con la terra arancione; in effetti riascoltato alla distanza, l’ultimo Astrosoniq guadagna ulteriori punti, e proprio il suo carattere eclettico che riesce a comprendere sia personale space rock che altri connotati musicali (ma senza ricorrere a scappatoie), può far prevedere un futuro molto roseo in vista delle prossime releases. Facciamo obbligatoriamente un passo indietro con l’album d’esordio, uscito un po’ in sordina, anche se i più attenti ascoltatori dello stoner rock avevano già messo le mani su questa bella rivelazione, autrice di brani trascinanti e di altri più strutturati e fantasiosi. “Fistkick” è un esempio di come per comporre un brano stoner ad alta tensione non si debba per forza emulare i Kyuss o i Monster Magnet, o mostrare le chiappe al cesso con Turbonegro e Toilet Boys: potenti riff epilettici e a spirale, sovrastati da parti vocali melodiche irresistibili di puro stampo hard rock underground, il tutto unito a break lisergici immediati, e il gioco è fatto… Orrorifica e strisciante, che lascia lo spazio a divagazioni prog-space di valore memori di “Carnival Bizarre”, è invece “Aterlife Rulers”, come se i primi Marilyn Manson di “Portrait…” avessero pensato a progredire musicalmente, piuttosto che ad un’estetica di discutibile gusto. “Godly Pace” e “Doomrider” sono degli infusi tirati e bollenti di rock’n’roll, stoner e metal, ricchi di feeling e energia, mentre “Eartquake” ci ricorda che le radici risiedono in gruppi come Grand Funk, Corrosion Of Conformity e Sweet, anche se ovviamente i nostri si lasciano prendere la mano e si abbandonano alla jam rumorista alla maniera di Altamont e Clutch. In “Pegasus” si fa largo l’aspetto dadaista degli Astrosoniq, un bizzarro e affascinante ibrido tra psichedelia freak e wave-rock, ma torniamo subito allo stoner di matrice hard/blues/psych con l’eccellente, terremotante “Ego Booster”. I tredici minuti che chiudono questo grande album sono condensati nell’epocale “You Lose”, che inizia scheletrica e fumosa per deflagrare in un doom psichedelico vicino a Down e Acid Bath, in una maledetta volta stellata, tanto che rimaniamo avvolti da un astio atavico e inesorabile; partono poi le splendide divagazioni solipsistiche ricche di cromatismi notturni, grazie alle quali si plana nelle sconfinate lande caleidoscopiche di We, Celestial Season e 35007. Fatevi un regalo, acquistate gli album degli Astrosoniq. Roberto Mattei
ASTROSONIQ – Soundgrenade
Ricordate quando la psichedelia heavy aveva il suo epicentro nei Paesi Bassi? Era da poco passato il primo lustro dei nineties e agili mammut multicolori a nome Celestial Season, Beaver, 35007, 7Zuma7, ci regalavano tra i migliori album di rock duro della passata decade. Non tutto è andato perso per fortuna, e se le attese per il nuovo 35007 rimangono spasmodiche per ogni cultore dello space-rock contemporaneo, ci pensa la seconda prova sulla lunga distanza degli Astrosoniq a darci grosse soddisfazioni, dopo l’ottimo esordio “Son Of A.P. Lady”.Non c’è nessun rischio infatti nell’affermare che gli Astrosoniq siano eccelsi musicisti capaci di suonare magnetico stoner rock con sotto la sacra fiamma del rock’n’roll, un’impalcatura sostenuta assai bene sia da infissi cosmici che da una ponderata dose di eclettismo, ma non preoccupatevi, non c’è nessuna tentazione crossover o di informalismi psichedelici ad oltranza. L’intro space di “Secret Passage” è in breve sovrastata dal riff cavernoso ma dinamico della title-track, capace di penetrare i recettori nervosi come solo da quelle parti sanno fare: ne scaturisce un brano di r’n’r siderale dalla struttura ariosa e trascinante, grazie anche alla voce astburiana, che chiama in causa i dispersi bolidi di Eindhoven, gli splendidi 7Zuma7. Sulla stessa falsariga la seguente “Astronomicon”, uno dei migliori brani stoner rock del 2003, dotata di un refrain da panico, come se i Turbonegro perdessero i loro connotati glam. A questo punto gli Astrosoniq possono tranquillamente dedicarsi agli oltre 10 minuti di “Aphrodite’s Child”, la cui ricchezza di progressioni heavy-psych, breaks psichedelico-tribali e fiati vicini al free-jazz, tiene fede alla sensualità del titolo, senza intaccare l’unitarietà della composizione, ottimamente riuscita. Le sorprese non finiscono, dato che “Evil Rules in Showbizzland” è una superba ballata (ma sì…) country-psych, che fa quasi immaginare che sia sempre esistita una tradizione di questo tipo tra i polders; “Hit & Run” e “Sod Off!” sono poi altri episodi hard’n’heavy al cardiopalma, due “botte” e ancora via di corsa, premurandovi di nascondere la vostra faccia allo stizzito impiegato che incrociate nella bruma mattutina, dopo chissà quale nottata. Comunque a farvi riprendere aria c’è il funky-rock stralunato di “So Be It”, un po’ Red Hot e un po’ Living Colour e grande anche l’ultima “Daemonology”, un vortice ad alta gradazione jamming. Nonostante qualche passaggio a vuoto degli ultimi anni, in cui ha dovuto subire l’invasione di truzzi di mezza Europa in cerca di sensazioni forti quanto superficiali, l’Olanda profonda, quella dannata, sessuale e psichedelica, esiste ancora, e la prova è contenuta nei solchi di “Soundgrenade” degli Astrosoniq. Roberto Mattei
ASVA – Futurists against the ocean
Certa musica ha la capacità di trasportare la musica in uno stato di coscienza alterato, il drone è sicuramente uno di questi allucinogeni sonori in grado di produrre delle ascesi quasi mistiche allontanando il contatto col mondo. Gli ASVA con questo "Futurists against the ocean" usano questa capacità del drone per introdurci in un viaggio spirituale.La prima traccia (Kill The Dog, Tie Them Up, Then Take The Money) è una processione di accordi che lentamente si evolve, la chitarra di Trey Spruance (ex Mr. Bungle) ci trascina lentamente ma senza sosta verso l'alto con continui strattoni scanditi dalla batteria, man mano che ci si innalza il cammino è supportato da un organo che amplifica il senso di sacralità. Questo lungo cammino porta a "Zaum; Beyonsense", secondo pezzo che parte col basso di G. Stuart Dahlquist (già nei Sunn O))) ) che ripeterà ossessivamente le stesse due note per ben 11 minuti come sottofondo a rumori che rapiscono in un clima di staticità e di nulla sensibile. La sensazione di inquietudine continua e cresce anche per metà della terza traccia finchè dei delicati accordi di organo non aprono la strada al cantato di Jessika Kenney che, con un testo è ispirato da un'opera di Carl Orff (compositore avanguardista di fine '800) ci accoglie in un luogo ancora sconosciuto. Quando ormai ci stavamo per abituare ad una insopportabile pace ecco che reinizia l'ascesi forzata con la terza traccia "By The Well Of Living And Seeing": ripartono i riff monolitici che stancamente si trascinano avanti con cui si sposano benissimo i cori femminili che recitano testi esoterici del poeta Charles Reznikoff, cori sostituiti nel finale da urli di delirio e voci di grazia sovrapposte e contrastanti. Musicalmente questo "Futurist's Against The Ocean" miscela abilmente il drone degli earth, fasi ambient e arrangiamenti dal gusto post-core con l'aggiunta di soluzioni azzeccatissime come voci femminili e organi. Chi è capace di lasciarsi trasportare dall'estrema lentezza musicale non avrà bisogno di conoscere i testi per godere di questo album, che diventa però una vera esperienza mistica grazie alla profondità dei contenuti. Federico Cerchiari
ASVA/BURNING WITCH – Split 12′
Una creatura agghiacciante e mostruosa è nata dalla mente contorta di G. Stuart Dahlquist. Il suo nome è Asva e la sua prima emissione maligna è questo split in compagnia di altri amanti dell'estremo come i terribili Burning Witch.Per chi non lo sapesse, dietro il progetto Asva si celano due eminenti personaggi come il suddetto Dahlquist (già all'opera in passato con Burning Witch, Sunn O))) e Goatsnake) e B.R.A.D. (anche lui ex Burning Witch). Mentre abbiamo avuto il piacere di conoscere i Burning Witch soprattutto grazie al terrificante "Crippled Lucifer (Seven psalms for our lord of light)", disco edito dalla Southern Lord che riuniva i due precedenti lavori della band, "Towers..." (1996) e "Rift.Canyon.Dreams" (1997). Date queste premesse è evidente quali siano i territori sonori calcati dai due gruppi: drone doom acido e ossessivo, senza alcuna concessione melodica, una tormenta di nichilismo cieco e sfacciato che induce l'ascoltatore in un inquietante limbo catatonico. Il primo lato del disco vede protagonisti gli Asva con un brano interamente strumentale. I 19 minuti "Caprichos 1-80" sono qualcosa di incredibile: tempi ultra slow scanditi da rullate marziali, chitarre compresse ed effettate (non a caso è ospite Mr. Dylan Carlson from Earth…), rumori e dissonanze che producono un senso di vuoto paralizzante, una corrosione del cervello che fa sprofondare nel buio più assoluto. In attesa del full lenght di prossima uscita, gli amanti di Sunn O))) e Khanate troveranno negli Asva nuovi idoli da osannare. Quanto alla seconda facciata, i Burning Witch si rifanno vivi con "Rift canyon dreams", composizione risalente al 1997 ma mai portata alla luce, solo oggi riscoperta e mixata in una nuova veste. I 13 minuti che la animano mostrano il classico volto (pauroso e mefistofelico) della band: doom opprimente e claustrofobico, sorretto da urla sfrenate e litanie vocali. Ritmiche che definire lente è poco, drones assassini e riff catacombali pensano al resto. Per concludere, una nota di colore: questo 12" è limitato a sole 500 copie e presenta un picture disc dall'artwork molto particolare. Ai coraggiosi che lo faranno proprio lasciamo la gioia di scoprirlo… Alessandro Zoppo
ATHENE NOCTUA – Glayx
Nati da una costola degli Space Paranoids, gli Athene Noctua puntano a raggiungerne le vette espressive se non addirittura a superarle. Il presupposto dichiarato è cogliere i migliori frutti di tutti quei sottogeneri che il rock, nei 60 anni della sua esistenza, ha creato. È quindi lecito sporcarsi le mani con kraut, jazz rock, proto hard, seventies guitar sound, post rock, stoner e psichedelia. Il risultato è affascinante e si chiama "Glayx", EP di 4 pezzi della durata di 20 minuti. C'è un'attenzione particolare al tocco, al timbro, alla leggerezza del gesto: la forza delle composizioni non risiede tanto nell'aggressività, quanto nella mescola delle sue componenti e negli arrangiamenti preziosi.Anche qui, come in "Under the King of Stone" si evoca la contemplazione della natura, ma in maniera più dolce. Come nei cinguettii che chiudono l'opener "Remigio Sette Code" (titolo fantastico!): un cavalcata space prog che fa il paio con la chiusura di "Krautalamo Karavan" (altro titolo molto esplicativo). Nel mezzo due composizioni strane: "Black Earth and Creamy Horizon" – piena di suoni Anni 80 e con una ritmica dub – e "El Ciuciu", una ballad strappalacrime con battito al rallentatore e cielo stellato sopra di sé. Alla fine viene la curiosità di andare oltre e mettere il naso dentro a chissà quale altra direzione i nostri possono farci prendere. Staremo a vedere. Eugenio Di Giacomantonio
ATOM MADE EARTH – Morning Glory
Mettere su un progetto di band strumentale pone delle prerogative specifiche: avere qualcosa da dire. Smarcare di lato il triunvirato strofa/ritornello/ponte e dover tessere la trama musicale dal basso è un lavoro difficile, che non a tutti riesce. Mettete poi che alla maggior parte del pubblico il fatto di non potersi attaccare al cantato risulta straniante (ma fortunatamente questa tendenza sembra rimpicciolirsi) e avrete la stima di quanto coraggio hanno i gruppi che decidono di intraprendere questa strada. Gli Atom Made Earth da Ancona dimostrano di averne a palate, così come di azzardo e fantasia, nell'ultimo "Morning Glory", pubblicato da Red Sound Records.
L'uno/due formato da "Thin" e "October Pale" rappresenta il binomio stoner/space/ambient di band come 35007 e Monkey 3 che si accoccola con le dolcezze dell'orizzonte "Australasia". Da "Reed" in poi le cose sembrano volgere lo sguardo altrove. Sembra un'immersione, con un tuffo a martello, su tutto quello che i giovanotti hanno ascoltato. Intrusioni jazz rock schizzano indisturbate su atmosfere roots rock ("Baby Blue Honey", con vaghi accenti funk soul) come bambini dispettosi o deframmentano con ostilità un impianto progressive Seventies (la stessa "Reed"). Nella penultima "StaC" synth e chitarre, nel finale, riportano fortunatamente il risultato a casa, lacerando la visuale e la cognizione del tempo dell'ascoltatore, lasciandolo tramortito e contemplativo, come bong appena spento.
Daniele, Nicolò, Thomas e Lorenzo hanno trovato qualcosa di speciale nel loro modo di esprimersi insieme. Non facile. Non organico. Non omogeneo. Questa è la loro bellezza. Se poi si è interessato a loro James Plotkin per il master, volete altra garanzia per rassicurarvi sulla bontà dell'operazione? Eugenio Di Giacomantonio
ATOMIC BITCHWAX, THE – Spit blood
Con Spit Blood giunge al capolinea la bella esperienza Atomic Bitchwax, side project di Ed Mundell ( Monster Magnet ), che con sole tre release ci ha regalato splendidi momenti di rock sanguigno gettando un lunghissimo ponte tra l'originario hard rock venato di blues degli anni settanta ed il suo recupero, riveduto ed ampliato, alla fine degli anni Novanta. Il disco raccoglie brani nuovi e non, una alternate take di Liquor Queen, già sul precedente 'II', ed una cover di Dirty Deeds Done Dirt Cheap degli AC/DC - da anni nel repertorio live della band - posta in apertura. La rock'n'roll vibe dell'originale è stata perfettamente ricreata, il singer e bassista Chris Kosnik se la cava egregiamente nell'emulare lo strofinio di corde vocali tipico di Bon Scott. Mossa coraggiosa e azzeccata ma in fin dei conti un divertessement. Il resto è roba più tosta che non curante della presenza o meno di parti cantate va subito al sodo. Gli Atomic Bitchwax mostrano i muscoli con il boogie rock di 'Liquor Queen' e Black Trans-Am, uno dei due brani più datati dove ancora forte è la forte impronta stoner blues degli esordi , e si attorcigliano su se stessi con il riff incalzante di Cold Day In Hell, Piede sul freno invece per la title track, il ritmo si fa pigro e gli spazi della psiche si aprono per l' inerzia circolare. Il power trio del New Jersey ha anche un altissima propensione alle jam degne dei migliori Grand Funk Railroad e Mountain e U Want I Should lo dimostra. Alla voce umana si sostituisce quella elettrica della chitarra di Ed Mundell che svolazza su assoli fuzzy, ricchi di wah wah, e conduce per mano fino al turbinio finale. Doveroso in conclusione menzionare anche la classe di Keith Ackerman alla batteria, motore propulsore dallo stile molto simile a Ginger Baker dei Cream. A rendere "Spit Blood" ancora più appetibile ci sono dei contenuti multimediali, il making of del disco, diversi mp3, video clip ed un'intervista. Se i commiati fossero tutti così! Francesco Imperato
ATOMIC BITCHWAX, THE – The atomic bitchwax
Nel 1996 Eddie Glass, in compagnia di Ruben Romano, ha lasciato i Fu Manchu per dar vita ad una nuova creatura, i tanto amati Nebula. Il risultato è stato un ritorno alle sonorità psichedeliche e roboanti che caratterizzarono il capolavoro dei Fu “In search of…” grazie a dischi strepitosi come “Let it burn” e “To the center”, una spanna sopra le future uscire di Scott Hill e soci. Lo stesso fenomeno è sembrato ripetersi nel 1999 con un altro gruppo fondamentale per l’evoluzione dello stoner rock: i Monster Magnet. Il chitarrista Ed Mundell infatti, pur non abbandonando l’istrionico Dave Wyndorf, mise in piedi una band come gli Atomic Bitchwax (che a dirla tutta jammavano insieme sin dal lontano 1993…) per recuperare le proprie radici e la libertà compositiva smarriti nei Magnet. Il risultato è quasi uguale a quello dei Nebula: i dischi successivi del “mostro magnetico” incespicarono sempre di più in prove incerte ed inconcludenti mentre l’esordio omonimo del guitar hero ha fatto gridare al miracolo. Purtroppo proprio quest’anno è arrivata la notizia che il progetto Atomic Bitchwax è giunto all’epilogo con “Spit blood”, quindi cogliamo l’occasione per celebrare un lavoro stupendo come il debutto della band. Compagni d’avventura di Ed sono stati Keith Ackerman, drummer potente e preciso, e Chris Kosnik, basso e voce (il quale ha a sua volta creato il progetto Black Nasa). Le sonorità su cui viaggia “The Atomic Bitchwax” sono un calde e pastose: si tratta di un tributo all’hard blues dei ’70, riletto in chiave moderna, votato allo spirito dell’improvvisazione e giocato sulla bravura tecnica e l’ardore passionale di Mundell. Furiose cavalcate strumentali come “Stork theme” e “Ain’t nobody gonna hang me in my home” si alternano a superbi pezzi di bravura quali la splendida “Hey alright”, “Birth to the earth” e “Shit kicker”, dove il cantato bluesy di Kosnik si contrappone ad uno sbizzarrito Ed Mundell, diviso tra riff ciccioni, assoli al fulmicotone ed effetti psichedelici. Sorprende anche la presenza di due cover: in “Crazed fandango” i Bitchwax rendono omaggio al grande Tommy Bolin (troppo spesso dimenticato da orde di sbarbati che sbavano per gente come Malmsteen…), mentre in “Kiss the sun” tributano i Core di “Revival”, loro superlativo disco d’esordio del 1996. Un colosso liquido e psicotropo come “The formula” è posto a chiusura del lavoro proprio come marchio distintivo dei tre: drumming variegato e dinamico, basso agile e slabbrato, chitarre indemoniate che debordano in un orgia di umori e visioni del passato…insomma, un must assoluto! In una fase storica piena di meteore che si affermano per poco e poi scompaiono nel più assoluto anonimato è giusto non far passare inosservata una band di gran caratura come gli Atomic Bitchwax. Il consiglio è uno solo: se ancora non avete comprato questo album correte in un negozio di dischi e fatelo vostro! Alessandro Zoppo
Atomic Mold – Hybrid Slow Flood
Un riff sulfureo; una batteria che entra imponente; una cantilena soffusa e indolente: così si presenta Hybrid Slow Flood, il secondo full-length dei veronesi Atomic Mold, band dedita a riti occulti e malefici. Più che ai consanguinei Electric Wizard, con cui condividono il bere sangue da calici infetti da putrefazioni sabbathiane, possono essere ricondotti ai Sons of Otis e agli Acid King, soprattutto per quella visione space infinita della particella elementare doom. Dopo lo split con i Mount Hush, Hybrid Slow Flood è un disco di conferme. Colpiscono a fondo due pezzi lunghi e deliranti: I Fall, ovvero se hai indovinato un riff giusto perché cambiarlo? (Stephen O’Malley docet), e Wood Line, monolite 100% Goatsnake, e questo è un bene. Il primo è l’eterno essere se stessi, senza cambiare mai, anche se nel fondo si sentono infiltrazioni millesimali di accenti e particolarizzazioni. Il secondo parte dalle Wetlands della Louisiana per approdare ad una sospensione dello spazio/tempo magistrale. In mezzo, a contrasto, l’opener Hypnosis e la simpatica Yellow Crocodile (quasi quasi hanno sciolto anfetamina nel calice?) da sembrare quasi fuori luogo con i, rispettivamente, cinque e i tre minuti e quaranta. E pensare che i Ramones con venti minuti ci facevano un album intero di dieci pezzi… https://www.youtube.com/watch?v=ESV53T8v68U Eugenio Di Giacomantonio  
ATOMIC MOLD + MOUNT HUSH – Split Album
Due belle realtà di genuino stoner alla vecchia maniera. Lo split edito da Electric Valley Records mette in fila due tra i più bei gruppi emergenti italiani: Atomic Mold, power trio da Verona, e i Mount Hush, quartetto di cavernicoli heavy psychedelic blues provenienti dalle pendici delle Alpi. Gli Atomic Mold aprono le danze con "President Augusto" e sono subito mazzate sui denti alla maniera degli Unida di John Garcia. "Freak Tad" allunga invece il minutaggio e i movimenti interni del brano e Antonio (basso e voce) sbraita lyrics alla maniera di un cagnaccio allupato e impestato. Chiude il lotto "Wild Woman" (le donne... croce e delizia di ogni rockers ma della specie umana maschile in generale) che con il suo giro a metà tra Sleep e Black Sabbath, dice la sua in merito al gentil sesso e alle sue rappresentanti. Dall'altro lato del vinile i bigfoot montanari Mount Hush vengono introdotti da spaventose urla tra le grotte e un riff micidiale à la Fu Manchu che ha il nome di "The Spell". "The Day She Stole the Sun" è un southern blues robusto, arrangiato con delicati, accorati e riusciti fraseggi di chitarra che traghettano il pezzo in direzione ultra heavy. La conclusiva "Wolves in the Walls (Live from the Ravine)" rischiara il cielo all'orizzonte e gli inserti di Hammond donano un calore unico (sembra che sia la sola canzone registrata live con la line-up al completo). Uno split degno delle uscite d'oltreoceano: sintonizzatevi sugli album lunghi delle band per approfondire l'argomento ultra heavy psych in Italy in these days.   Eugenio Di Giacomantonio  
ATOMIC NUMBER 76 – Atomic Number 76
Dopo un minicd d'esordio che ci aveva ampiamente convinto, tornano alla ribalta gli Atomic Number 76, power trio americano finalmente giunto alla prima prova sulla lunga distanza. Quanto di buono fatto apprezzare in precedenza viene ora confermato ed ampliato in questo cd autoprodotto di dieci tracce: il roboante hard rock di stampo '70 che Bingo Sinatra (basso e voce), Mauro Felipe (chitarra) e Ronnie Steward (batteria) elaborano si pone al crocevia tra tentazioni di stampo Grand Funk, Blue Cheer e Pink Fairies e modernizzazioni stoner care a gruppi come Drunk Horse o The Quill. Oltre alle già apprezzate "Born with no soul" e "Bourbon eyes", sorprende la vena oscura che permea pezzi come "Prophecy" (autentico atto di divinazione nei confronti dei Pentagram…) e la sabbathiana "100 Proof". Ritmiche corpose, riff marmorei e wah-wah a go-go sono l'essenza di questi indemoniati newyorkesi, sempre in bilico tra groove selvaggio e brillanti passaggi armoniosi. Una proposta che piace proprio perché pur non inventando nulla di nuovo esce allo scoperto dura e pura, senza compromessi o concessioni, figlia dell'underground più sommerso. D'altronde è solo da un sound che si richiama esplicitamente al passato che potevano venire fuori bordate quali "Devination" e "Gas hangover", vulcani in eruzione da sparare a mille alla guida di un bolide lungo assolate highway. Insomma, è il classico immaginario "stoned" a fare di questa band un piccolo baluardo, lontano da tentazioni commerciali e fedele alla propria linea. Tanto è vero che manifesto programmatico degli Atomic Number 76 potrebbe essere benissimo la conclusiva "Alkihol", traccia esaltante che mette in mostra perizia tecnica sopraffina, furia elettrica, melodie beatlesiane e soprattutto tanta voglia di divertirsi…in parole povere ciò che ci vorrebbe per tutti coloro perennemente alla ricerca di novità ed esasperate innovazioni cervellotiche. Rock on! Alessandro Zoppo
ATOMIC NUMBER 76 – Cursed forever
Davvero un gran bel gruppo gli Atomic Number 76, power trio dal tiro micidiale e dalle sonorità pienamente radicate nel magico suono degli anni '70. Con un promo ed un disco ufficiale interamente autoprodotto alle spalle, i tre tornano alla ribalta con un mini di quattro pezzi intitolato "Cursed forever", una "maledizione" per quel sano e robusto sound hard & heavy psych di trenta e più anni fa che non smette mai di fare storia.Piuttosto sorprende il fatto che una band di questo calibro non abbia ancora trovato un'etichetta vogliosa di darle fiducia. Ci auguriamo che questo dischetto sia il giusto trampolino di lancio perché un gruppo come gli Atomic Number 76 senza contratto è davvero un crimine. Pezzi come la title track e "Humanzee" sono infatti gioielli di hard rock psichedelico che ci catapultano direttamente a cavallo tra gli anni '60 e i '70. Sembra di ascoltare le chitarre aggressive dei Grand Funk, la vena heavy blues dei Cactus, le ritmiche agili e la fantasia lisergica dei Pink Fairies… Certo, è puro revival ma fatto con cuore e soprattutto cervello, il che rende gli Atomic uno dei gruppi più sinceri e spontanei degli ultimi anni. Così come furioso e grezzo è l'heavy psych di "Alien agent", che trita come una macchina assassina e affascina per la sua aura anacronistica che odora di vecchi pantaloni a zampa, frammenti di lsd e jam in completa libertà (non a caso l'assolo di Mauro rimanda proprio al clima libero di quegli anni). "Spirit" infine è un brano proto metal come solo Frost e Sir Lord Baltimore erano in grado di scrivere: riff incandescente che entra nelle vene, base ritmica pronta a tutto, vocals limitate al massimo e break psichedelici che fanno volare alto nel cielo. Simpatici e ruspanti, gli Atomic Number 76 meritano tutto il nostro rispetto e i nostri auguri per la ricerca di una label degna di loro. Rock on! Alessandro Zoppo
Atomic Workers – Embryonic Suicide
Terminata l’esperienza coi seminali That’s All Folks! (splendido gruppo barese che ha contribuito a scardinare i pregiudizi heavy-psych nel nostro Paese), il bassista Michele Rossiello si è trasferito a Londra dove ha proseguito il suo iter artistico componendo una montagna di materiale, collaborando con musicisti del calibro di Laurence O’Toole (cantante/chitarrista e polistrumentista degli Hypnosis) e Gary Ramon (già chitarra nei Sundial), oltre agli incorruttibili Angelo Pantaleo (batterista all’opera con Al Darawish, X-Darwish, Skizo e Dictators) e Daniele Sindaco (chitarra negli Shear, e batterista nei fantastici Subwoofer Testing Days). Con una formazione di questo calibro nascono gli Atomic Workers, formazione totalmente dedita all’acid rock e alla space-psichedelia, che completa le registrazioni ad inizio del 2004 del primo “Embryonic Suicide”, spettacolare avventura trippy-psych che dopo un paio di anni viene ristampata in coproduzione tra Acme e Nasoni. L’attacco della title-track è già rassicurante: rock acido e fantasioso con un grande lavoro chitarristico, cantato con trasporto da O’Toole, un brano sincopato ma coinvolgente, che rimanda in parte agli anni di “Soma…Third Way To Zion”. Strepitosa la seconda traccia, “No Reaction”, space rock durissimo che ingloba Spaceman 3, Stooges, Alpha Stone e Sundial… ma soprattutto Atomic Workers! Dopo oltre 4 minuti di incessante show fuzzy, ci si immerge in un caleidoscopico rallentamento, per riprendere con una coda durissima. “White” è una lezione di morbido rock siderale che rimanda ai Bevis Frond, i Floyd più estraniati, e a tratti Jefferson Airplane e Dead Meadow, un’autentica “culla del cosmo” insomma, da inserire in antologie specializzate; “Plastic” conclude la prima parte dello showcase vocale di O’Toole, che interpreta al meglio un hard psych nobile, dalla corposa struttura Sixties. La cover di Donovan “Hurdy Gurdy” (resa decisamente psichedelica, se mai ce ne fosse stato il dubbio) è affidata all’ugola spiritata di Gary Ramon, ed è trattata con schizoidi intrecci chitarristici che arricchiscono le linee melodiche folk. Altri duri brani space-prog sono “Down On Earth” dove mellotron, synth e le vocals di Rossiello cercano di placare la tempesta chitarristica e “Far Way (Lacrimae)”, che coniuga acid rock, kraut e shoegaze in un onirico viaggio psicologico. L’esplorazione delle pareti cerebrali ha il suo grand finale in “Breakfast on the Ocean (part1)”, sorta di suite free form tra lancinanti, formidabili chitarre dopate, ossessioni ritmiche pulsanti/tribali alla Amon Duul e break progressivi affini ai King Crimson.

Roberto Mattei

Atomic Workers – Wall of Water Behind Me
Il secondo capitolo degli Atomic Workers viene rilasciato stavolta direttamente su berlinese Nasoni e vede la dipartita di O’Toole, ma inattaccabile rimane il nucleo Rossiello/Sindaco/Pantaleo/Ramon, a cui si aggiungono i guest Guy McKnight (voce, Eighties MatchboxB-Line Disaster), Julie Wood (violino, Current 93), Fabio Mongelli (voce, organo, chitarre, farfisa) e Hay Yahya Ashraf (voce). Le ritmiche sono registrate a Bari al Tom Tom Studio, mentre lo stesso Gary Ramon completa il lavoro al Third Eye Studio di Hastings, incidendo personalmente le parti di sitar. È un lavoro più introverso e sofferto del precedente, composto in gran parte da Rossiello, che accentua le componenti prog, stoner e kraut, presenti come sfaccettature in “Embryonic Suicide”, e che preferisce percorrere uno scabro sentiero immaginario, in una sorta di viaggio argonautico improntato sulla critica al modernismo e alla costante ricerca dell’apologia spirituale. Un disco essenziale, tra i migliori usciti negli ultimi anni all’interno del nuovo rock acido, teso e chiaroscurale. L’inizio è ostico quanto affascinante: dapprima il muriatico distillato di “Through the Channel” (un flippato stoner rock), che pone direttamente l’ascoltatore al confronto con riff coriacei, variazioni ritmiche schizofreniche e chorus in lontananza, poi “I Must Confess”, hard blues stralunato che potrebbe ricordare i Groundhogs eseguiti con piglio punkoide, e interpretato con diversi registri vocali da McKnight. Le acque si placano momentaneamente nella stupenda melodia space-folk di “Girl in the Tower”, intonata da vocals femminili che fanno riemergere antichi rituali memori degli Stone Angel, e distesa nella seconda parte in un iterativo e ipnotico desert/kraut rock. L’incubo torna a farsi tangibile nella robotica “Scientist Mantra”, arricchita da partiture noisy e lunghe divagazioni solipsistiche. La seconda parte dell’album ha inizio da “Unpredictable”, una spigolosa iconoclastia stoner rock, con rimandi all’hard fuzz dei ’70, seguita dalla trasognante vetta progressive di “Waterfall” in cui vengono impastati King Crimson, Comus, Amon Duul e Moody Blues (riletti con creatività e personalità), poi da “Six Afternoon”, immersa in fumosi mantra melodici, che scaturiscono da sitar, chitarre, effetti, e marziali linee di basso.

Roberto Mattei

ATOMIC WORKERS/HYPNOSIS – 7″
45 giri diviso tra Atomic Workers che pagano tributo alla classica “The Seeker” degli Who, resa in maniera avvincente dal caratteristico trademark acido del gruppo, e gli Hypnosis che scelgono come estratto del loro terzo album il suggestivo hard/psych di “High Tide Rollin”, che rimanda all’età dell’oro, quando sullo stesso palco duellavano Quicksilver Messenger Service e Grand Funk Railroad. Edizione limitata a 300 copie. Roberto Mattei
AUDIOSLAVE – Audioslave
Non per fare l'equilibrista, ma probabilmente hanno ragione tutti; quelli che salutano gli Audioslave come una bella realtà del rock contemporaneo e quelli che invece li maledicono, rimpiangendo i Rage Against The Machine che non ci sono più. Il fatto è che i RATM non sono stati uccisi da questo nuovo progetto; erano già morti, per quel filo di complicità e stimoli che tiene unito le bands e a un certo punto si spezza, e per i tempi che cambiano - non è più il 1992, era lontana già da tempo l'emozionante sincerità di quel disco che fin dalla copertina si annunciava come incendiario e diverso. Quanto agli Audioslave, non ci provano neanche a suonare «nuovi», a recuperare qualcosa di quella tempestosa innocenza. Partono invece dai loro trent'anni, da un heavy rock moderno che si accomoda in forme classiche; molto Led Zeppelin, un po' di grunge, il passo minaccioso della sezione ritmica che scuote il terreno per i voli fantastici della chitarra di Tom Morello. Chris Cornell è un grande cantante e sembra lui a portare il gruppo dove va; viene facile dire che questo disco comincia là dove i Soundgarden avevano finito, anche se a essere sinceri non si spinge molto più in là. Molti inni rock da «martello degli dei», da verificare in scena, come Exploder, Bring 'Em Back Alive e quella Cochise che è il quasi inevitabile singolo di lancio, con i suoi facili e suggestivi richiami all'idea di un antico e coraggioso guerriero delle praterie; e qualche brano più intimo, riflessivo a sciogliere come da manuale la tensione - I Am The Highway, The Last Remaining Light. Previsioni del tempo: grandi vendite, critica perplessa. Poi, un giorno o l'altro, Zack De La Rocha riuscirà finalmente a comporre il puzzle del suo disco «solo», e allora si faranno i paragoni. Paragoni che dovranno sicuramente essere messi alla prova dello stage. Peppe Perkele
Australasia – Notturno
Il terzo capitolo a nome Australasia è misterioso, una presenza buia, dietro e oltre il nero notturno. La notte è tale solo se risplende, cieca, nella luce lunare, così come la percezione dei pieni e dei vuoti creati dal sempre più raffinato Gian Spalluto, titolare del progetto. Lo spleen dato dalle chitarre si è fatto maggiormente wall of sound ed è stata quasi del tutto abbandonata la componente black a favore di accelerazioni post death. Percorso simile di certi Kylesa, Baroness e Mastodon, con le dovute e rivelate distanze, anche se il plus che è proprio al sound di Australasia è quell'immancabile, eccezionale e incantata/tevole vocazione a entrarvi nell'anima. Se il precedente "Vertebra" sembrava la colonna sonora di un film, "Notturno" è il film. Prendiamo "Creature": una dissolvenza in entrata di un arpeggio distorto introduce il pezzo come un dialogo corale tra le sei corde che effettivamente recitano. Poi, ci saranno rumori naturali, voci di donna (brava Mina Carlucci - nomen omen - in "Invisible" che canta quasi attraverso lallazione) e tessiture sintetiche a narrarci le storie notturne visitate dal nostro Gian e restituite come storia nostra. Ma quello che accade in ogni riff, in ogni passaggio chiave, in tutte le sfumature di cui si compone "Notturno" è osceno come nelle intenzioni di Carmelo Bene, fuori dalla scena, quindi fuori dall'epoca, eterno. Ne abbiamo percezione nel finale di "Lumen" più "Notturno", dove si inizia con keyboards sulla scia dei Goblin degli Ottanta e si procede verso un finale commovente di piano al chiaro di luna e grilli innamorati. Di album così ispirati ne escono davvero pochi. Se ne devono essere accorti anche i capoccioni della Apocalyptic Witchcraft che hanno deciso di mettere all'occhiello proprio gli Australasia, insieme ad altre band del rooster ben più arcigne e dure. Fate come loro. Indirizzate il vostro tempo verso la bellezza. https://www.youtube.com/watch?v=AmluLhAJCPQ

Eugenio Di Giacomantonio

Australasia – Sin4tr4
Con un nome preso a prestito dal capolavoro dei Pelican si presenta il duo degli Australasia. "Sin4tr4" è il loro primo EP prodotto da Golden Morning Sounds e se è vero che il mattino ha l'oro in bocca, data la cura per il packaging e la qualità della proposta, è altrettanto lecito aspettarsi altre uscite di questo calibro per la neonata etichetta brindisina. Con i numi tutelari di Ennio Morricone (esemplare in questo senso è la bellissima "Apnea") e Angelo Badalamenti da un lato e Mogwai, Isis e 35007 dall'altro, i setti pezzi proposti sono quanto di più bello sentito di recente in quest'ambito.Immaginando le visioni cinematografiche di un Aki Kaurismäki più onirico, la musica degli Australasia diventa compendio imprescindibile per la descrizione intimista di lande desolate e di spazi profondi. Si ha la sensazione che i ragazzi abbiano preso a prestito più i linguaggi del cinema che della musica e ogni volta che si lanciano in composizioni articolate, sembrerebbe di dare voce sonora ai film che scorrono nelle loro teste. È privo di senso citare questo o l'altro pezzo: il flusso è unico e indivisibile. Alcune volte abbiamo delle sorprese di dolci voci femminili, altre di samples aeroportuali e altre ancora irrompono synth ad alleggerire le numerose accelerazioni che pervadono tutto il dischetto. Il tutto fila liscio in venti minuti circa e il tedio è intelligentemente evitato dal corto minutaggio di ogni singola composizione e sebbene gli stili si incontrano e si scontrano lungo tutto il viaggio, il concept suona fresco, compatto e coerente. A path distant from the typical instrumental music cliches. This is "Sin4tr4", our way. Conveniamo. E, come il cavallo che in copertina esce dalle tenebre in maniera aristocratica ed elegante, così emergiamo dall'ascolto di questa bella prova: con un senso di aver vissuto un'esperienza profonda e radicale. https://www.youtube.com/watch?v=seZgDPCBdLU

Eugenio Di Giacomantonio

Australasia – Vertebra
Gli Australasia sono un progetto enorme. Del grande album dei Pelican è rimasta solo una traccia, una confessione di appartenenza e nulla più. Il Sig. Gian Spalluto, l'unico personaggio che si cela dietro il moniker, ha fatto le cose in grande. Per capirlo basta procedere a ritroso, dall'ultima traccia, "Cinema", posta a chiusura di un album che riempie lo spazio tra barbarie proto black (soprattutto nel modo di suonare la batteria, quando compare) e illusioni ambientali. Cinema, si diceva. E sono proprio una dichiarazione d'amore al nitrato d'argento questi arpeggi delicati e rassicuranti, una specie di Nouvelle Vague soundtrack che potrebbe affiatarsi bene con registi del calibro di Paolo Sorrentino. Il disco procede in avanti dal punto in cui il precedente "Sin4tr4" aveva fatto disperdere le tracce. Di quel mini album ripropone due pezzi, "Antenna" ed "Apnea", e si capisce come l'idea di una miscela strumentale che metta in risalto le espressioni più personali dell'autore sia in nuce sin dai primi respiri degli Australasia. La grande novità è rappresentata da un'incantevole vocalist che appare di tanto in tanto a smorzare l'enorme massa di suono, a ricordo di come tutto quello che stiamo percependo sia di umana natura. Una voce che apre ad un universo non tanto distante da quello di Björk: sperimentale ed evocativo. Come sperimentale appare l'uso di synth ("Vostock" e "Aura") che fa venire in mente cinematografie horror/b-movie prossime alle ispirazioni di Matt Hill (altrimenti conosciuto come Umberto). Ma qui si avverte qualcosa in più. Un'influenza Morriconiana indiscutibile. Soprattutto nella ricerca del tocco. Nello stile. Come al maestro anche al Sig. Spalluto importa mescolare i registri stilistici di diversa natura. E se un'incursione distorta e pesante à la Red Sparowes deve essere al fianco di un mood etereo non importa. La bellezza nasce soprattutto dai contrasti. https://www.youtube.com/watch?v=QjIfUvpelz0

Eugenio Di Giacomantonio

AVVOLTOI – Amagama
È proprio vero che gli Avvoltoi non sono tornati, ma rinati nel vero senso della parola. Ce ne accorgiamo subito, dalla distorsione garage rock di "Storia di una notte". D'altra parte non ci sono comparti stagni nella musica di Moreno Spirogi: il beat, il garage e l'hard sono tutti incesti tra mamma blues e figlio rock 'n roll. Sopra, sotto, di lato, ovunque la sua voce a narrare storie di ordinaria provincialità italiana. Amori, amici, scommesse perdute, occasioni perse. Con tutto il rispetto Moreno fa sua la massima motorheadiana born to lose, live to win, anche se gli aggiunge quel tocco scanzonato da entertainer del suo carattere che conosciamo bene.
Gli 8 pezzi più bella cover (stavolta imbevuta fino al midollo di italian beat) di "Un figlio dei fiori non pensa al domani" sono il compendio di quasi quarant'anni di frequentazioni musicali. Gli Steppenwolf tirati per la giacchetta di "Eh Eh Ah Ah", Canterbury meets cantautorato italiano nella bellissima "Come puoi" e prog Seventies in "Isabel". Ecco: le donne. Punto focale (doloroso?) nella poetica di Moreno. Sfuggenti, scontente, ma anche forti e pronte al cambiamento, da sempre sono nell'immaginario del rocker croce e delizia. Il nostro non fa eccezione: le guarda, le vive, ne scrive. Con la delicatezza che gli è propria. In questo gli Avvoltoi e il suo promoter principale sono cosa preziosa nel panorama italiano, perché sono lontani dallo stucchevole che l'argomento porta con sé. Avanti così Moreno. Per altri quarant'anni almeno. Eugenio Di Giacomantonio
AWESOME MACHINE, THE – Black hearted son – 7”
Un sette pollici che va a colmare l’attesa tra il precedente Under The Influence e l’imminente The Soul Of A Thousen Years. Confezionato in uno splendido vinile bianco, questo appetibile oggetto per collezionisti presenta l’inedito "Black hearted son" (che probabilmente verrà incluso nel nuovo album) e un remix di "Under the veil" (presa dal precedente full-lenght). Devo ammettere che il nuovo brano mi è molto piaciuto, sia per la sua struttura che per le sonorità che presenta: un mid-tempo molto cadenzato e potente sul quale si adagiano le vocals del cantante, con alcuni cambi ritmici e anche sonori, tant’è che ad un certo punto fa capolino anche la slide guitar. Il lato B invece presenta una "Under the viel" un po’ rivista in fase di mixaggio e che forse ritengo inferiore all’originale di Under The Influence: non sufficiente comunque a togliere punti ad un lavoro ben curato ed ottimamente confezionato. Bokal
AWESOME MACHINE, THE – Soul of a thousand years
The Soul Of A Thousand Years riporta sulle scene una delle più longeve ed importanti band della scena stoner rock scandinava. Con il nuovo album gli svedesi puntano decisamente in alto, continuando il percorso intrapreso con il precedente Under the Influence e muovendo un ulteriore passo al di fuori dello stoner in direzione di un hard rock/metal raffinato, come recita esplicitamente la bio allegata al promo in mio possesso. Personalmente ho trovato anche molte atmosfere più cupe rispetto ai precedenti lavori, influenzate forse da quella frangia del metal che predilige visioni più gotiche e dark; la caratteristica carica rock e il suono delle chitarre rimangono però il trade-mark inconfondibile della band, assieme alla voce di Lasse che album dopo album è cresciuta e migliorata, raggiungendo in questo capitolo una piena maturità riuscendo a gestire con padronanza e personalità tutte le tracce in cui viene chiamata in causa. Notevole anche la produzione, che si assesta su ottimi livelli. Alcuni pezzi abbastanza tirati (Eating Me Slowly e soprattutto la vertiginosa My Friend) e molti mid-tempo vanno a formare il lavoro in questione, assieme ad alcuni intermezzi strumentali e ad una oscura ballata perlopiù acustica intitolata Scars, un piccolo inquietante gioiello nella collezione degli Awesome Machine. Nell’album è stato incluso anche il pezzo Black Hearted Son, già proposto lo scorso anno su un limitato 7 pollici (già recensito su Perkele.it), nonché un pezzo dark/doom molto oscuro (forse il più oscuro mai proposto dal gruppo), dal sintomatico titolo Deadly Caress. Molto bella anche la title track, molto suggestiva e lievemente psichedelica nel suo incedere lento e vagamente epico, posta in conclusione del succulento programma offertoci dagli Awesome Machine: un album dal notevole potenziale… chi fermerà la corsa di questa macchina spaventosa?! Bokal
AWESOME MACHINE, THE – Under the influence
Questa è una delle più longeve band scandinave con all’attivo già una discreta discografia e l’album in questione è stato licenziato dalla People Like You nel 2002: la band ha già pronto il nuovo album che sarà presto recensito, ma ora voglio parlare di questo ottimo lavoro. Aperto dalla potente "Tomorrow", puro Awesome sound al quale la band ci aveva abituato, l’album è molto vario ed ottimamente prodotto dalla band stessa: chitarre incisive, sezione ritmica possente e le grezze vocals di Lasse sono gli elementi perfetti che guidano l’album attraverso pesanti riff, melodie stranianti e sottili veli di psichedelia. Il pezzo di apertura è uno degli episodi più incalzanti del CD, anche se in quest’ottica se vanno sottolineati pezzi come "Kick", "Desire" (che qualcuno avrà già sentito nella compilation The Desert Rock Avengers)) o "Black dove", che mostrano la parte più dura della band. La cosa che ho trovato sorprendente sono alcune tracce in cui la voce si fa più melodica e carica di feeling ("Mother gone" e "Still got no share") dove Lasse si impegna a dimostrare che non solo uno ‘screamer’ ma anche un buon cantante. Vorrei menzionare in particolare la lunga e perfetta "Emotion water", un pezzo che mi piace particolarmente per il suo inizio evocativo e il suo ottimo sviluppo attraverso melodie azzeccate e pesantezza misurata. Un ottimo album che conferma The Awesome Machine tra le band degne di rispetto e considerazione, con un piede nello stoner più roccioso e uno nel metal più sperimentale: ora non ci aspetta che aspettare il nuovo album The Soul Of A Thousand Years che sarà presto nei negozi. Un’ultima segnalazione: il Cd contiene anche la traccia multimediale del video di Kick, che potete ugualmente scaricare dalla tracklist riportata a lato. Bokal
AWESOME MACHINE, THE / DUSTER 69 – Split CD
La Fluid Groove è una nuova etichetta australiana che si pone come obiettivo la diffusione del verbo stoner rock anche in questa parte di mondo. La prima uscita di questa label assume così una valenza speciale e allora quale migliore occasione per celebrarla se non uno split che vede la presenza di due tra le migliori band in campo heavy psych?Ecco dunque spiegato il motivo di questo dischetto diviso tra gli svedesoni The Awesome Machine e i tedeschi Duster 69, due formazioni che stanno cercando di portare nuova linfa vitale ad un genere spesso orfano di creatività, soprattutto a partire dal periodo post Kyuss… La prima parte del cd (intitolata "Presence of a cyclops mind") è affidata alle sapienti mani degli Awesome Machine ed è composta da tre brani che non fanno altro che confermare la classe dei quattro. Dopo i due album usciti per la People Like You ("It's ugly or nothing" del 2000 e "Under the influence" del 2002) questi tre pezzi rappresentano la naturale evoluzione di una band dalle caratteristiche disparate: nell'iniziale "Bleeder" si apprezzano infatti alcuni ricami di slide guitar molto settantiani che si accostano alle solite bordate stoner tirate e melodiche, mentre nella successiva "Drowning in you" sono la voce di Lasse e la chitarre ricche di fuzz ad impressionare in quanto ad espressività e groove. Tuttavia il vero capolavoro della band svedese è la strumentale "The crailsheim experience": si tratta di una fusione perfetta tra ritmiche tipicamente anni '70, al limite del rock blues, infiltrazioni spaziali degne dei migliori Monster Magnet, fraseggi tribali e divagazioni psichedeliche…in poche parole un must assoluto! La seconda parte dello split ("My sisters demon") è invece occupata dai Duster 69, valida band con all'attivo due album per la Daredevil Records ("Interstellar burst" del 1999 e "II" del 2001). Le quattro tracce proposte segnano una svolta rispetto al materiale precedente in quanto evidenziano una maggiore propensione del quintetto all'evoluzione e alla voglia di provare qualcosa di realmente nuovo. Questo desiderio si mette in mostra in un sound che alle classiche coordinate stoner tipicamente kyussiane aggiunge un'irruenza punk e un taglio decisamente catchy nelle melodie. Evidente a tal proposito è l'iniziale "Calling", song che rimane subito appiccicata nella mente per merito del suo refrain accattivante e di un azzeccato stacco centrale. La successiva "Schoolbus" è un esempio di punk adrenalinico carico di fuzz pachidermici, mentre "Laugh is suffocated" rappresenta il vero gioiello dei Duster 69: in questo caso le vocals di Lucki sono ruvide e al tempo stesso melodiche, le chitarre di Flo e Jocken grondano riff su riff e la sezione ritmica (Peter alla batteria e Matthias al basso) avanza in modo ora pacato ora ossessivo, tra break e controbreak allucinanti. In aggiunta all'edizione australiana è poi presente anche un'altra traccia, "Pride", brano che conferma l'ottima vena compositiva dei tedeschi fondendo melodia e aggressività in un prezioso concentrato di heavy fuzzed rock'n'roll. Dunque un gran inizio quello della Fluid Groove, a questo punto aspettiamo solo di conoscere quali saranno le sue future mosse, se tutte le uscite saranno di questo livello qualitativo c'è ben da sperare… Alessandro Zoppo
AXEHANDLE – Axehandle
Gli Alabama Thunderpussy si confermano uno dei gruppi più prolifici del panorama attuale e anche questa volta mantengono alta la media annuale di uscite. Infatti dopo il disco solista di Erik Larson e l’ultimo “Fulton hill” ora è volta degli Axehandle, progetto che vede impegnati il solito Larson (stavolta alle prese con voce, batteria e percussioni), Ryan Lake (basso e chitarra) e Bryan Cox (batteria e percussioni).Tre assatanati che in questa diversa incarnazione non perdono tempo e voglia per picchiare duro. Già, perché questo mini di sei pezzi si rivela davvero un lavoro con le palle. Un misto di sonorità sludge, southern e heavy psych impreziosito da echi tribali e condito da un’attitudine pulp a base di testi crudi ed immagini sanguinolente. Sei macigni che spaccano davvero il grugno, a partire dalla violenta “Face down” (percussioni e chitarre tesissime interrotte solo da uno stacco acido) per arrivare alla lunga estasi barocca di “Fine food”, oltre dieci minuti divisi tra rovelli psichedelici, riff dal groove titanico e vocals a dir poco inquietanti. “All redheads are crazy” mantiene invece il tipico trademark Alabama Thunderpussy, melodia appiccicosa e partiture hard rock bollenti come il sole d’agosto. “Pulp” pesta pesante e dritto in faccia, senza alcuna concessione, mentre “The damage that can be done at the ocean” e “Self help” donano momenti di respiro grazie a liquide iniezioni lisergiche in un corpo sonoro ruvido e teso. Ed è proprio questa sapiente alternanza di parti tirate all’inverosimile ed escursioni tribal psichedeliche la carta vincente degli Axehandle. A questo punto speriamo non si tratti solo di un progetto estemporaneo perché qui di talento ed arguzia compositiva ce n’è davvero molta. Alessandro Zoppo
AXIS/ORBIT – 3 Song EP
Il quarto d'ora proposto dagli Axis/Orbit nella loro prima uscita di tre pezzi è pazzesco. La band proviene da New York e questo loro primo timido capolino nella scena cittadina li trascina direttamente nello space/psych di band come Naam e White Hills. È ancora presto per dirlo perché i limiti di una registrazione da sala prove e la breve durata della pubblicazione non lo permettono, ma bisogna puntare su questo power trio. Mike Margulis, batteria, percussioni e voce; Bill Fridrich, chitarre e voce; Lee Greenman, basso a 4 e 6 corde e voce, hanno il tiro giusto e le perfette influenze musicali per far parlare di loro in questo 2015.
Gli Axis/Orbit non mostrano subito i denti. Il loro è un tocco delicato ("Riot Canal"), fatto di riferimenti antichi e calore blues. Emerge la figura del chitarrista, non per autocompiacimento virtuosistico tipico di chi suona questo strumento, bensì come diretta espressione della band: la sezione ritmica prepara la scena, il tappeto sonoro su cui Bill passeggia e attraversa scenari del cosmo sconosciuto ("Hazy"). Tutto è perfetto in questo primo EP. Tranne la durata. Seguiteli. Eugenio Di Giacomantonio
AYTOBACH KREISOR – Aytobach kreisor
Kenny Sehgal, oltre ad essere la mente della Rubric Records, label che si è fatta notare ultimamente per aver dato alle stampa dischi eccellenti come “New River Head” di Bevis Frond, è anche chitarrista e cantante degli Aytobach Kreisor, stoner band proveniente da New York, sulle scene sin dal 1998 ma giunta solo lo scorso anno al disco d’esordio. La fama di gruppo tosto e coriaceo che i tre (oltre a Sehgal Antony Zito al basso e alla voce e Jeremy O’Brien alla batteria) si sono fatti girando per i locali della “grande mela” e di tutti gli States trova conferma in questo dischetto di nove pezzi per cinquanta minuti di sano e passionale stoner rock. C’è tuttavia da dire che se la spontaneità ed il groove degli Aytobach Kreisor convincono in pieno, le reali capacità in fase di songwriting non emergono come ci si aspetterebbe: troppi sono i passaggi a vuoto, le melodie stentano a decollare e i brani sono spesso privi di quel guizzo che potrebbe renderli memorabili. Non si tratta certo di una stroncatura, anzi, i ragazzi ci sanno fare: il loro rock si mantiene in bilico tra l’heavy psych odierno e le radici del sound hard&heavy dei primi ’70, ma ciò che manca è la compattezza delle composizioni e un pizzico in più di originalità, doti fondamentali nel mercato discografico odierno. Forse l’ansia da debutto dopo un’attesa durata quattro anni hanno giocato un brutto scherzo… Come detto però non tutto è da buttare: “Me, myself and you” ha un tiro niente male, condito com’è di chitarre graffianti e ricche di wah-wah; “Easy” è un lungo tributo “sabbathiano” impreziosito da ritmiche tipicamente seventies; “Dizbuster” è una fuga strumentale di matrice Blue Cheer dal groove forsennato; “Phthalo” ha uno stupendo inizio notturno che poi si scioglie in una matassa psichedelica fumosa e avvolgente. E’ un vero peccato perché in potenza questo disco poteva dare certamente altri risultati. Ma la vita è lunga e gli Aytobach Kreisor non sono tipi che si abbattono al primo colpo. Li aspettiamo al varco per un capitolo più maturo e convincente. Alessandro Zoppo

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