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BABY GRANDMOTHERS – Baby Grandmothers
Nel 1968, i concerti della tournèe svedese di un certo Jimi Hendrix vennero aperti da una sconosciuta band locale, tali Baby Grandmothers, che proprio in quell'anno pubblicarono il loro primo ed unico singolo, contenente due soli brani. Il perché di un tale onore lo si comprende ascoltando la musica di questo power trio, presto discioltosi e caduto velocemente nella polvere e nel dimenticatoio. A inizio 1968 i Baby Grandmothers, attivi già dall'anno precedente, pubblicarono il loro primo ed unico singolo contenente due sole tracce, "Somebody Keeps Calling Me" e "Being is More than Life"; poco dopo si sciolsero, ma restarono comunque alcune registrazioni risalenti al 1967 assolutamente meritevoli di pubblicazione. Ecco che quindi nel 2007 esce per la Subliminal Sounds il primo vero album del gruppo, in realtà una raccolta che comprende le due tracce del singolo e altri cinque brani registrati dal vivo nel corso del 1967, il tutto per un'ora tonda di musica interamente strumentale, un hard rock acidissimo e psichedelico al massimo grado, travolgente ed ammaliante, capace di incollare all'ascolto e di regalare un memorabile viaggio, tanto nelle oscurità del cosmo quanto nei caldi meandri della psiche umana.L'iniziale "Somebody Keeps Calling Me" è un manifesto d'intenti per l'ascoltatore, che dopo pochi secondi sa già cosa aspettarsi dall'intero disco: è una lunga, sinuosa, lisergica cavalcata che sfocia, con un continuo crescendo, in un vortice psichedelico via via più oscuro e sfrenato (degno dei migliori Hawkwind che di lì a poco si affermerranno sulla scena europea). Qui sono presenti le uniche parti vocali del disco, che poi consistono nelle poche parole del titolo cantate distorte, quasi proprio come fossero richiami siderali o luciferini. Segue la versione del singolo, ridotta, di "Being is More than Life", la canzone più conosciuta e che è da considerare la gemma del lavoro: il suo riff iniziale è di quelli che valgono un'intera carriera, un brano realmente da annoverare tra i migliori in assoluto della psichedelia trippy della seconda metà degli anni Sessanta! "Bergakungen", il primo brano dei cinque registrati dal vivo, è una lunga traccia di oltre sedici minuti che regala cambi di ritmo sensazionali. L'inizio ricorda vagamente la "Season of the Witch" donovaniana (e in particolare la cover dei Vanilla Fudge) ma subito si inseriscono cupi riff di chitarra, ruvidi e taglienti che si aprono, accelerano ed avvolgono l'ascoltatore in una spirale sempre più calda e travolgente. Un brano che richiama le lunghe improvvisate jam sessions hendrixiane e che certamente può essere accostato alla musica di band come Josefus, Fraction e tanti altri gruppi noti e meno noti che faranno parte dell'ondata hard rock che, di lì a poco, nei primi anni Settanta, esploderà a livello planetario. La registrazione dal vivo di "Being is More than Life" rappresenta l'altro pezzo forte del disco: quasi venti minuti che costuiscono il vertice assoluto dell'album. Minuti e minuti di incessante, sfrenato, martellante acid rock, con chitarra basso e batteria che si intrecciano e si allontanano di continuo, melodie nitide seguite da buchi neri rumoristici. Come se Hendrix si unisse in una jam con Blue Cheer e Hawkwind e dicesse a Peterson e Lemmy/Brock: "Hey, ce lo facciamo adesso un bel viaggio insieme? Che ne dite?". Sì, ed è un viaggio pesante e nero nella mente umana. Anzi, decisamente oltre la psiche umana… Suoni dell'Hendrix più selvaggio si affiancano alle cavalcate desertiche di certi Quicksilver Messenger Service, per passare alle dilatazioni cosmiche dei primissimi Kraftwerk e alle oscurità siderali senza ritorno dei soliti Hawkwind (sul finale del brano ritorna in mente l'immensa "Time We Left This World Today"), per poi rifluire nella psichedelia minimalista dei Grateful Dead di "Dark Star", al termine della quale si innesta il solito memorabile riff che ha aperto, e quindi chiude, il brano. Un vero e proprio capolavoro assoluto, incredibilmente poco celebrato. "St. Georges Dragon" ha un incedere convulso, cupo, dissonante, dominato da un drumming ossessivo che sul finire, finalmente, lascia spazio ad un'esplosione chitarristica in pieno stile hard classico. La reprise che segue è invece ancor più veloce e accelerata. L'ultimo brano è "Raw Diamond", diamante grezzo, ruvido, un'autentica sassata, una pesantissima discesa agli inferi guidata da chitarra e batteria. I riff sono mefistofelici, come se a suonare fossero dei Black Sabbath più incazzati e veloci, o degli MC5 ancor più in acido. Questo album non può non esser incluso tra i capolavori dell'hard rock psichedelico: è un disco sensazionale, avanti anni luce, anticipatore dell'heavy psych e dello space rock, e non può non costituire un gioiello in musica da ascoltare con avidità ed ammirazione, da custodire e conservare gelosamente, come fosse proprio uno scrigno di pietre preziose, di inestimabile valore! Alessandro Mattonai
BABY WOODROSE – Chasing Rainbows
Ci voleva proprio un disco come “Chasing Rainbows”. Dopo una partenza a razzo con lavori bellissimi quali “Blows Your Mind” e “Money for Soul”, i Baby Woodrose (la costola garage fiera e ostentata degli On Trial, il gruppo punta della Bad Afro) avevano vissuto una fase di flessione. Non tanto per il cover album “Dropout!” (una rigogliosa esposizione delle proprie radici, dai 13th Floor Elevators ai The Sonics) quanto per l’ultimo “Loves Comes Down”, acerbo e senza molta grinta. “Chasing Rainbows” rilancia la creatura di Lorenzo Woodrose, forte anche del nuovo side project Dragontears, che forse ha donato nuovo vigore al songwriting del gruppo.Una scrittura che rimane sempre la stessa, partorendo però gemme pop psych grezze e luminose come “Someone to Love” e la splendida “I’m Gonna Make You Mine”, pezzi che non si scrivono tutti i giorni. Segno di una rinnovata voglia, fresca, ritrovata e genuina. Che si fa amare anche quando i tre affrontano la dilatazione psichedelica, sul versante hard (“Let Yourself Go”), nel mood fatato (“Twilight Princess”, le melodie e sitar beatlesiani che caratterizzano “In Your Life”, l’oscurità di “Dark Twin” e “Renegade Soul”) e nelle derive acustiche della conclusiva, delicata “Madness of Your Own Making”. I Baby Woodrose si confermano per quello che sono: una macchina che viaggia fuori sincrono, totalmente fusa con un tipo di sonorità che non risentono del passare del tempo. Spesso perdono di vista l'elemento 'razionale' e si lasciano travolgere in toto dalla loro passione. Ma è un vizio che si lasciano perdonare con somma grazia. Alessandro Zoppo
BABY WOODROSE – Drop Out!
Se gli On Trial ci hanno deliziato con le cover di “Head”, questa volta tocca al progetto satellite Baby Woodrose proseguire lo stesso discorso. Come una sorta di pacifico botta e risposta la band guidata da Lorenzo Woodrose esplora le proprie radici e rende un sincero tributo a tutte quelle band che ne hanno segnato il percorso artistico.Per chi conosce già il gruppo e ha assaporato le magie garage psych dei loro due lavori ufficiali (“Blows your mind” e “Money for soul”) non sarà difficile immaginare quali colossi del passato sono stati omaggiati. Per tutti gli altri invece diciamo subito che in questo cd troverete perle di garage punk e psichedelia che hanno inciso la storia della musica durante gli anni ’60. Non un nuovo lavoro per i Baby Woodrose insomma, ma una fase di passaggio per chiarire a tutto il mondo dove nasca il loro sound. Apriamo subito con i pezzi più conosciuti. “Can’t explain” dei Love (onore e gloria ad Arthur Lee!) avvia le danze: non a caso questa ballad inacidita verrà scelta come primo singolo per il lancio del dischetto. Un tuffo nell’anno di gloria 1966. Inevitabile è una cover dei 13th Floor Elevators, tra i padri della psichedelia, omaggiati con una splendida “I don’t ever gonna come down”. Ovvia anche la presenza degli Stooges, resi in maniera acida e corrosiva con “Not right”. Altri dovuti atti di devozione sono quelli a Captain Beefheart and His Magic Band (ottima la cover di “Dropout boogie”) e ai fondamentali The Sonics, celebrati con l’isteria vibrante di “I’m going home”. Sul lato più nascosto invece spicca per intelligenza ed arguzia l’aver riproposto “I lost you in my mind” dei Painted Faces (garage band che potrete gustare ascoltando l’antologia “Anxious color”), “Who’s it gonna be” dei Lollipop Shoppe di Fred Cole (coloratissimo garage psych!), il proto punk “The world ain’t round, it’s square” dei Savages, “This perfect day” dei Saints (tratta da “Eternally yours” per l’unico gruppo che sfora negli anni ’70) e “A child of a few hours” della West Coast Pop Art Experimental Band, misterioso collettivo di musicisti che sul finire degli anni ’60 animava la scena di Los Angeles. Insomma, ce n’è per tutti i gusti, come in una rilettura dei “Nuggets” o dei “Pebbles”, raccolte di culto che hanno fatto la storia del garage. “Drop out!” non è un lavoro fondamentale, questo è chiaro. Ma la passione, gli arrangiamenti, la cura dei particolari lo rendono appetitoso e sincero. Un incentivo per conoscere glorie passate purtroppo oscurate dalle corrosioni della memoria. Alessandro Zoppo
BABY WOODROSE – Freedom
Lorenzo è tornato. Dopo "Third Eye Surgery" e il successo clamoroso ottenuto in Danimarca da "Kommer Med Fred" degli Spids Nøgenhat (due Grammy vinti come miglior rock album e miglior live band dell'anno), i Baby Woodrose sfornano il settimo disco ufficiale nonché il lavoro più radicale e politico della loro carriera. "Freedom" è un grido di protesta, un urlo a squarciagola contro il massacro di classe e la violenza del sistema capitalistico neoliberista.
Cittadini trasformati in clienti, schiavi del debito e della tecnologia, succubi di paure e pregiudizi. È per combattere questi spettri che Lorenzo ha sviluppato il concetto di moderna slave song. "Tutte le canzoni di questo album affrontano argomenti come il controllo della mente, il lavaggio del cervello, l'impossibilità di andare oltre, la schiavitù e l'oppressione", ha spiegato. Il risultato si concretizza in nove brani crudi e diretti, registrati e mixati on tape (con Anders Onsberg allo STC di Copenhagen e il mastering di Flemming Rasmussen allo Sweet Silence) per un approccio live-in-the-studio. Quindi zero taglia e incolla e un numero minimo di sovraincisioni.
Un assalto 60's garage psych che non rinuncia alle melodie a presa rapida, vero marchio di fabbrica della casa. A partire dall'iniziale, aspra e aggressiva "Reality", passando per i due singoli, il manifesto "21st Century Slave" e la sognante "Open Doors" che, va detto, produce un'immediata dipendenza. Se il vortice lisergico di "Mind Control Machine" non concede scampo, la calma apparente di "Peace" (un malinconico passaggio acustico da brividi lungo la schiena) serve a introdurre le due cover piazzate nella seconda metà del disco. Il classico "Freedom", spiritual reso immortale da Richie Havens a Woodstock, è restituito con un'anima hard e wah-wah sulfurei senza esclusione di colpi; l'acidissima e fuzzy "Red the Signpost" è una rivisitazione di un brano degli oscuri sperimentatori Fifty Foot Hose, tratto da "Cauldron" del 1968. Non c'è tempo per rifiatare perché "Mantra" è una commovente ballad psych pop che colpisce dritto al cuore. E segna la dicotomia che pervade questo lavoro: la denuncia delle tragedie sociali dei nostri giorni contro la fuga in noi stessi per trovare la vera libertà. Andrà tutto bene, perché mistero, gioia e stupefazione sono ancora possibili, come dimostrano gli otto minuti conclusivi della space jam "Termination".
Mettete da parte il nuovo iPhone, le promesse di rinascita, le illusioni di rivincita e i "lo dice la scienza". Con "Freedom", i Baby Woodrose rivendicano la nostra libertà ed il diritto ad avere una vita dignitosa. I AM FREE. Alessandro Zoppo
BABY WOODROSE – Third Eye Surgery
Sesto studio album per i Baby Woodrose, ormai un'istituzione quando si parla di garage acid rock. Sempre su Bad Afro Records, sempre con la consueta formazione guidata dal buon Lorenzo, "Third Eye Surgery" suggella il compimento di un percorso che aveva trovato nei fondamentali "Chasing Rainbows" e "Baby Woodrose" dei passaggi essenziali. Dai classici riferimenti quando si parla del progetto (per i completisti ossessionati: 13th Floor Elevators, Love, The Sonics, The Painted Faces, The Savages) a chicche oscure della psichedelia Sixties come The Torchbearers, The Fallen Angels e Growing Concern, il sound di "Third Eye Surgery" aggiunge due elementi chiave alla materia. In primis, una produzione pastosa e multiforme, con arrangiamenti che sfoggiano una complessità notevole. Senza per questo dimenticare ciò che rende i Baby Woodrose uno dei migliori gruppi in circolazione: la capacità di scrivere bellissime canzoni. In secondo luogo, una varietà stilistica che i precedenti album non conoscevano. In questo nuovo lavoro, trovano posto il garage rock acido e speziato, le derive space progressive di Dragontears e Spids Nøgenhat, un appeal flower power mai così spiccato.Si parte a razzo con due canzoni da lacrime agli occhi come "Down to the Bottom" e "Waiting for the War": due pop song ipercinetiche e drammatiche, gioielli che in un mondo saggio e giusto sarebbero in cima ad ogni classifica. Synth astrali e sitar che odorano di garam masala contraddistinguono la deliziosa "Dandelion", cantata in duetto con Emma Acs. La parte centrale del disco si arricchisce di inflitrazioni spaziali a partire da "It's Just a Ride"; "Bullshit Detector" è il brano più visionario e drogato mai scritto da Lorenzo, perfettamente a suo agio nei panni di guru psichedelico (emerge il gran lavoro effettuato agli studi Black Tornado di Copenhagen con l'aiuto di Anders "Evil Jebus" Onsberg). "Nothing is Real" completa il quadro con un esotico sitar ed un chorus da mandare a memoria per le future generazioni. Quando credi che i colpi in canna siano terminati, ecco arrivare tra capo e collo la travolgente "Love Like a Flower" (un uomo che scrive lyrics come love your enemy, save more energy / change reality, third eye surgery non può che essere amato) ed il psychotropic lollipop della title track. Metaphysical facelift o imaginary spaceship che sia, questa chimera alla triptamina è un sogno psichedelico dannatamente eccitante. Il finale con la delicata ballad cosmica "Honalee" conclude un album real fucking high. Lo splendido artwork di Kiryk Drewinski completa il tutto, un ulteriore tassello di magnificenza ad un disco che profuma di polvere di stelle e ha il sapone dolce della Dimetiltriptamina. I grew up in a treadmill at the bombshell factory. They tell me war is peace and TV is reality. But I don't wanna feel like nothing is real. Alessandro Zoppo
BABYLONIAN TILES – Teknicolour Aftermath
Un misto di psichedelia, progressive, dark (versione goth e influssi post punk) e folk. È questa la miscela creata da Bryna Golden (voce, keys), Tim Thayer (chitarra), Brian Schreiber (batteria) e Christian Ramsey (basso), le anime che sin dagli anni ’80 alimentano il progetto Babylonian Tiles. “Teknicolour aftermath” è il terzo disco della band americana (dopo “Basking in the sun at midnight” e “Green midnight glow”) ed è una sorta di greatest hits (uscito originariamente su Pangea Music e ora ristampato dalla Distort-O-Sound in una differente edizione) comprendente brani del passato, inediti e nuove registrazioni.Lo spettro sonoro affrontato dai quattro è senza dubbio affascinante: echi di Doors, Pink Floyd, Cure, Dead Can Dance, Iron Butterlfy e Siouxsie And The Banshees si rincorrono senza sosta, in un calderone oscuro e lisergico, specchio di differenti (e affini) istinti musicali. Le volte psichedeliche di “Electrified eyes” e “Rain people” aprono magici universi paralleli, “Boulevard” e “House of cards” avvolgono in spirali concentriche di incenso, “Each dying breath” e “Reason for grey” sono plumbee invocazioni agli spiriti della notte. Certo, non tutto funziona: a volte la tensione cala, il tono elegiaco sfiora la nenia e si rischia la noia. Ma la passione è tanta e si nota soprattutto nel caso di “Season of the witch”, cover tratta dal repertorio di Donovan ed eseguita con bravura e calore. Il disco contiene inoltre una serie di versioni inedite di vecchi pezzi della band (“Far far away” e “Crystal gavel” sono tra i più interessanti), nonché “Going and going away”, bonus track sentita e coinvolgente, trascinata dalla voce soave e dall’organo pastoso di Bryna. Alessandro Zoppo
BALERO – Demo 2005
Nuovi Karma To Burn crescono. Stavolta si tratta degli americani Balero, trio formato da Shawn (chitarra), Jim (basso) e Mike (batteria). La demo di cui parliamo è stata registrata nel novembre del 2004 e più che essere una emissione ufficiale si presenta come una sorta di biglietto da visita per la ricerca di un ipotetico singer. Ricerca che vivamente sconsigliamo ai tre dato che il sound di questi quattro brani è davvero notevole. C'è qualche sbavatura solo nell'assemblaggio dei suoni (il lavoro di mixaggio poteva essere migliore insomma), per il resto i pezzi scorrono via che è un piacere.Matasse infuocate che esplodono non appena il cd entra nel lettore con la grintosa "Drop the bomb", song che rimanda in pieno all'universo selvaggio e putrido creato dai gloriosi Karma To Burn in autentici capolavori come "Wild wonderful purgatory" e "Almost heaten". Stoner rock grasso e brutale dunque, nel quale emerge il valore compositivo ed esecutivo dei tre, abili nel dosare aggressività e classe con indiscussa tecnica. È in particolare il lavoro di Shawn ai riff che colpisce e ammalia: "El mere'" ne è la prova evidente. Ma il chitarrista si trova a proprio agio anche in fase solista, quando la sua ascia conduce i giochi (è il caso di "The voyage" e "Well look who it is"). Ovvia menzione va anche fatta per le ritmiche, perché Jim e Mike sono un rullo compressore in continuo movimento. Tutto fila liscio dunque. I Balero sono pronti per il grande salto. Noi invece di un cantante consigliamo solo una migliore registrazione ed una manciata di brani in più. Alessandro Zoppo
BALLO DELLE CASTAGNE – Surpassing All Other Kings
Terzo appuntamento per il Ballo delle Castagne, a chiudere il sipario sulla trilogia aperta nel 2009 con "108" e proseguita con "Kalachakra". Nome alquanto esoterico Ballo delle Castagne. Secondo la leggenda Alessandro VI e Lucrezia organizzarono una sorta di sabba satanico passato alla storia come il ballo delle castagne, appunto. Un'orgia ideata da Cesare Borgia, durante la quale prostitute nude danzavano tra candelabri messi a terra e poi raccoglievano con la bocca, strisciando, castagne sparpagliate sul pavimento – Alessandro VI otttenne un'onirificenza quale Gran Maestro dell'Ordine Supremo del Cristo… La band ruota intorno alle figure del cantante ed autore Viz Aquarian (ex Calle della Morte) e di Marco Garegnani, chitarra, sitar, tastiere, moog e maggor compositore (ex The Green Man). Completano la line up l'ex Malombra, Recondita Stirpe ed Egida Aurea Diego Banchero al basso e Jo Jo dietro le pelli. Al lavoro partecipa l'intera formazione degli Egida Aurea, seppur come amichevoli guest."Surpassing All Other Kings" è un ambizioso concept che ruota attorno alla figura di Gilgamesh, mitico re dei sumeri le cui vicende vennero successivamente narrate in quello che è considerato il primo poema epico della storia, "Epopea di Gilgamesh". Musicalmente, la band propone una forma di progressive rock dalle tante sfumature: l'aspetto esoterico lascia spazio ad un'ottica epica pur rimanendo correlata ai dettami canonici di cui il gruppo da sempre si appropria. In questo caso «Gilgamesh si risveglia dopo molti secoli e si alza dalla sua tomba per scoprire ciò che resta del genere umano e di ciò che il destino dell'uomo ha scelto per sé stesso». Viene citato anche un passo del "Necronomicon" di H.P. Lovecraft nel brano "Eoni": «Non è morto ciò che in eterno può attendere e col passare di strani Eoni anche la morte può morire». Il sound è un collage tra prog rock 70's ma anche neo prog 80's; è dark, gothic e occult; è epic, psych e kraut rock, ma anche fusion con lievi candori funk. L'uso delle due voci, maschile e femminile, rende la musica gotica; la magniloquenza in certi frangenti dà una misura epica e le tastiere fanno da autentico primo attore. Un lato che conferisce un aspetto progressive e sperimentale che rimanda a gloriose formazioni passate, dagli italiani Biglietto per l'Inferno ai Malombra, dagli Abiogenesi ad Antonius Rex, passando per Peter Hammill, la dark wave degli 80, l'hard rock di matrice Deep Purple e Uriah Heep, la psichedelia, giù sino all'occult rock e a visioni cosmiche kraut. Un grande ballo che fa la gioia di chi nella musica cerca momenti colti e vuole fermarsi a pensare... Antonio Fazio
Banana Mayor – Primary Colour Part II: The Blue
Blu come il cielo, il mare e la notte. Blu come il blues, genere che riemerge iper-amplificato nel sound dei nostrani Banana Mayor. Blu come uno dei colori primari, che dà il titolo al terzo album della band, dopo Zombie's Revenge del 2014 e Primary Colour Part I: The Red che fa il paio con quest'ultimo, Primary Colour Part II: The Blue. Ne è passato di tempo da quando li avevamo visti al festival A Desert Odyssey. Out of My Shell apre il disco in maniera super rocciosa con un riff stoner al 100%: sembra di ascoltare gli Orange Goblin del primo disco, dove il verbo heavy rock veniva appena diluito in una psichedelia interstellare. Bitter Smile apre al new metal ma sempre dentro i confini del guitar seventies sound, così come in The Scarescrow Walks at Midnight dove pare di sentire echi di musica alternative anni Novanta. Insomma, già da questi primi tre pezzi sembra che al gruppo non piaccia stare fermi in un posto solo. Inevitabile ammettere che le diverse inclinazioni di stile derivano dal cantato di Stefano, che sembra avere nel DNA tracce di Chino Moreno, John Garcia e Sonny Sandoval. Fall in Blue, a dispetto del titolo, dà sfoggio della tecnica chitarristica di Alberto che avvicina i mostri del metal progressivo, senza essere minimamente prog, così come Night Owl ristringe alleanze, questa volta molto più manifeste, con il new metal. Blue Man prosegue sulla linea del brano precedente, in bassa battuta, con un lavoro melodico più raffinato, mentre la conclusiva Shades of Dawn spinge sull'acceleratore con un bel pugno in faccia dirty rock. Alla fine dell'ascolto rimane in testa l'idea che la band non vuole piacere ad un pubblico specifico e fa di tutto per scappare dalle reti del genere. All'ascoltatore la scelta di sposare questa idea o abbandonarsi a percorsi largamente codificati. https://www.youtube.com/watch?v=YPHsl3aYpj8

Eugenio Di Giacomantonio

BANGTWISTER – The moon on a stick
Ultimamente tantissimi gruppi del circuito garage psych stanno venendo alla ribalta grazie a ottimi lavori supportati dalla costanza di etichette discografiche votate al recupero di questo tipo di sonorità. Non ultima ad unirsi a questa schiera è la nostrana Beard Of Stars, label savonese che ha avuto la grazia di riportare alla luce un vero e proprio gioiellino di puro garage heavy psych come questo “The moon on a stick” dei Bangtwister. La formazione britannica in realtà aveva dato il disco alle stampe per TrapannerHead Music ormai due anni or sono, la BOS ha avuto il merito di recuperare il lavoro e arricchirlo con tre bonus tracks, nella fattispecie i singoli “We’re the reaction” e “Some kinda revolution” e “Your dumb life”, precedentemente presente su “Brainblood Volume 1”, sampler della TrapannerHead. Per chi non conoscesse ancora questa stupenda realtà britannica, i Bangtwister sono un trio composto da Alasdair Mitchell (voce, basso, tastiere), Gordon Brady (chitarra, voce, organo, percussioni) e Keith Beacom (batteria, percussioni, voce) totalmente devoto al suono garage psych di Stooges ed MC5, condito però da sterzate hard rock e maree di debordanti fuzz e wah-wah, punto che può essere accostato all’operato di Ed Mundell con i suoi Atomic Bitchwax. “The moon on a stick” è un concentrato di pura energia sonora, servito su un vassoio cesellato da ritmiche assordanti, trame fumose e chitarre in preda a travolgenti sbornie lisergiche. Stooges e MC5 vengono chiamati in causa soprattutto in episodi diretti e martellanti come l’iniziale “White knuckle ride” o la furiosa “Super-heavy black number”, mentre una perla del calibro di “Control” evoca fantasmi hendrixiani nel suo contorcersi tra riff indemoniati ed avvolgenti melodie. Ciò che stupisce è la freschezza di una band che suona un rock da tutti additato come giurassico ma che in questo caso rivive il suo splendore grazie ad uno ardore compositivo veramente esplosivo, personale e mai derivativo. Da lacrime sono alcuni momenti come “Downside up” e “Sleepwalking”, ballate imbevute d’acido che coinvolgeranno anche il più burbero degli ascoltatori, mentre “Birdman” e “The very next pop song” sono l’ennesima dimostrazione di forza di una band che sa unire alla perfezione cavalcate elettriche, break mozzafiato e aperture melodiche. In conclusione, un solo consiglio: fate vostro “The moon on a stick” e non ve ne pentirete, sono pochissimi i gruppi che al giorno d’oggi hanno tanto feeling e tanto groove come i Bangtwister… Alessandro Zoppo
BARONESS – Blue Record
Esplosi in poco tempo, i Baroness rappresentano già un passo obbligato all'interno della nuova scuola post-metal di cui i connazionali Mastodon sono stati apostoli. Del four-piece di Atlanta, John Baizley e soci riprendono una certa irruenza di fondo e l'approccio progressivo, dalle fitte trame chitarristiche, elementi che già sul full-length di debutto erano ben visibili, se non addirittura maggiormente preponderanti. Quel “Red Album” che fece balzare dalla poltrona in molti.Lievi ritocchi ed un attento lavoro di ripulitura, hanno portato a questa nuova release targata Relapse Records. Le chitarre guizzanti e dinamiche restano, così come quella sezione ritmica pulsante e corposa, ma le voci oltre a guaire tentano di emanciparsi melodicamente, riuscendoci ampiamente. Anche le strutture sembrano essere più snelle. Un lavoro molto più lineare, a tratti particolarmente easy-listening, come nelle meravigliose “Swollen and Halo” e “A Horse Called Golgotha”, quest'ultima vera e propria hit commerciale. Non da meno la rockeggiante “Jake Leg”, l'ideale punto d'incontro tra garage e progressive rock approcciato da quattro metallari della Georgia. Ottime le varianti acustiche, di ampio respiro e straordinariamente ben congegnate. Molto piacevole anche l'utilizzo di una stessa trama riutilizzata in diversi episodi sotto spoglie differenti di volta in volta, dall'intro “Bullhead's Psalm”, all'intermezzo “Ogeechee Hymnal”, fino all'outro “Bullhead's Lament”, chiaro tributo alla scuola prog rock d'antan. Ma come in ogni disco che si rispetti, c'è la perla. In questo caso si chiama “The Sweetest Curse”, pezzo che riassume in sé tutte le caratteristiche positive dei Baroness, culminante in un refrain semplice ed efficace, gustoso da canticchiare sotto la doccia, in auto nell'ora di punta, o da fischiettare allegramente ovunque. L'unico esperimento forse appena meno riuscito riguarda “O'er Hell and Hide”, interamente basata su un pattern groovy-dance, che se non altro sa mettere in luce l'aspetto più giocoso del quartetto di Savannah. Sempre sublime la veste grafica, affidata ancora una volta a John Baizley (cantante/chitarrista), ormai divenuto un vero punto di riferimento per la scena con i suoi artwork visionari. “Blue Record” è un disco che cresce dopo vari ascolti, al superamento dei quali non potrete ascoltare altro per diverso tempo. Davide Straccione
BARONESS – The Red Album
Colpo gobbo in casa Relapse. Mettono sotto contratto i Baroness che ringraziano con uno dei dischi più interessanti del 2007.Dei Baroness dei due ep "First" e "Second" già pubblicati rimane poco. Rimane un pò della aggressività vocale degli esordi, rimangono le chitarre spesse e una certa complessità musicale che allora era figlia dell'imbastardimento dell'hardcore e del metal ma The Red Albumè un altro pianeta su qualsiasi aspetto, della produzione, dei suoni, della tensione, del songwriting. Dietro la corteccia di pezzi muscolosi spesso e volentieri fa capolino una vena "progressive" e free che i Baroness assecondano splendidamente. Capita spesso che la sezione ritmica si sganci dalle maglie dei riff, delle strofe, della canzone per andarsene per conto proprio aprendo totalmente l'ascoltatore su un paesaggio musicale di ampio respiro che prevede percorsi sinuosi, tecnicismi chitarristici, svolazzi psichedelici, squarci di tenebra musicale tipici dei Minsk, melodie vocali rabbiose o votate alla melodia alla maniera dei Torche. E sotto tutto, le chitarre a costruire un muro metallico sì spigoloso ma anche facilmente assimilabile. E qui sta forse una delle caratteristiche dei Baroness, quella di rendere i pezzi assolutamente digeribili e mai troppo ostici nonostante la complessità. Insomma, già dopo pochi ascolti le trame risultano familiari e e melodie vocali godibilissime. The Birthing e Isak sono due buoni esempi per capire l'ampio respiro su cui i Baroness hanno impostato il disco. Bastano pochi minuti perchè chitarre e batteria partano all'inseguimento l'uno dell'altro in una sfida virtuosa ma mai fine a se stessa e che regala grandissimi minuti di pura musica suonata. Aleph vive di momenti di impalpabile follia, Teeth Of A Cogwheel invece sembra si muove dentro un incubo ritmico con batterie doppie che si sovrappongono incalzanti. Tra momenti di stasi e accellerazioni epiche i Baroness tengono alta la tensione, sorprendono ad ogni cambio di tempo e dimostrano di poter offrire molte idee come Wanderlust, un pezzo intero di chitarra acustica arpeggiata, l'adamantina O'Appalachia o l'estemporanea e incompiuta Untitled. Pare proprio che The Red Album si presenti come uno dei migliori dischi del 2007 senza distinzioni di genere. Francesco Imperato BARONESS The Red Album Colpo gobbo in casa Relapse. Mettono sotto contratto i Baroness che ringraziano con uno dei dischi più interessanti del 2007. Dei Baroness dei due ep "First" e "Second" già pubblicati rimane poco. Rimane un po’ della aggressività vocale degli esordi, rimangono le chitarre spesse e una certa complessità musicale che allora era figlia dell'imbastardimento dell'hardcore e del metal ma The Red Albumè un altro pianeta su qualsiasi aspetto, della produzione, dei suoni, della tensione, del songwriting. Dietro la corteccia di pezzi muscolosi spesso e volentieri fa capolino una vena "progressive" e free che i Baroness assecondano splendidamente. Capita spesso che la sezione ritmica si sganci dalle maglie dei riff, delle strofe, della canzone per andarsene per conto proprio aprendo totalmente l'ascoltatore su un paesaggio musicale di ampio respiro che prevede percorsi sinuosi, tecnicismi chitarristici, svolazzi psichedelici, squarci di tenebra musicale tipici dei Minsk, melodie vocali rabbiose o votate alla melodia alla maniera dei Torche. E sotto tutto, le chitarre a costruire un muro metallico sì spigoloso ma anche facilmente assimilabile. E qui sta forse una delle caratteristiche dei Baroness, quella di rendere i pezzi assolutamente digeribili e mai troppo ostici nonostante la complessità. Insomma, già dopo pochi ascolti le trame risultano familiari e e melodie vocali godibilissime. The Birthing e Isak sono due buoni esempi per capire l'ampio respiro su cui i Baroness hanno impostato il disco. Bastano pochi minuti perché chitarre e batteria partano all'inseguimento l'uno dell'altro in una sfida virtuosa ma mai fine a se stessa e che regala grandissimi minuti di pura musica suonata. Aleph vive di momenti di impalpabile follia, Teeth Of A Cogwheel invece sembra si muove dentro un incubo ritmico con batterie doppie che si sovrappongono incalzanti. Tra momenti di stasi e accellerazioni epiche i Baroness tengono alta la tensione, sorprendono ad ogni cambio di tempo e dimostrano di poter offrire molte idee come Wanderlust, un pezzo intero di chitarra acustica arpeggiata, l'adamantina O'Appalachia o l'estemporanea e incompiuta Untitled. Pare proprio che The Red Album si presenti come uno dei migliori dischi del 2007 senza distinzioni di genere. Francesco Imperato
BATILLUS – Concrete Sustain
Direttamente dalla Grande Mela ritornano i Batillus. Dopo "Furnace", uscito nel 2011, è ora il turno di "Concrete Sustain", seconda fatica del quartetto newyorkese. Fautori di uno sludge doom con forti connotazioni industrial, i Batillus non si smentiscono con questo nuovo album che mantiene saldamente il percorso iniziato con il precedente. L'ostinato di batteria ci introduce nei meandri di "Concrete", il suo incedere marziale è scandito dalle chitarre malefiche e oppressive. "Cast" ricorda alla lontana gli Isis, infarciti però di componenti noise e industrial, un delirio sonoro a forte connotazione urbana. "Beset" e "Mirrors" vanno a braccetto, entrambe fautrici di un doom funereo, scosso da un growl infernale e uno screaming inquietante."Rust" è il pezzo che forse più di tutti sente l'influenza di certi Neurosis, mentre "Thorns" chiude il disco, ed improvvisamente i toni si fanno tanto epici quanto malinconici, la chitarra tira le redini del pezzo con un ostinato che perdura per gran parte del pezzo, fino all'arpeggio con cui la canzone va a spegnersi, dal sapore vagamente romantico. Nonostante la validità di "Concrete Sustain", quello che rimane alla fine dell'ascolto è un senso di incompiutezza, come se le varie componenti che creano il sound dei Batillus ancora non abbiamo raggiunto il giusto livello di amalgama e il risultato sia ancora qualcosa di incerto e impersonale. È lecito aspettarsi di più da questi ragazzi, ed quello che faremo. Giuseppe Aversano
BEATEN BACK TO PURE – The Burning South
Li avevamo lasciati nell’ultimo rifugio dei figli di puttana e li ritroviamo ad incitare alla danza in un Sud che prende fuoco. I Beaten Back To Pure sono senza dubbio tra le migliori espressioni dell’heavy southern odierno e lo confermano in pieno con “The burning South”, la fatidica prova del terzo disco.Suoni compatti, ottima produzione (sporca al punto giusto) e uno stile incandescente che unisce la profondità dello sludge doom, l’impatto del metal, il groove dello stoner e i caldi sapori del southern rock. Impressionante si rivela soprattutto la prova delle due chitarre, prodighe di riff selvaggi tirati fino all’inverosimile. Ma convincono anche le ritmiche e le vocals di Ben, omaccione che col passare del tempo ha saputo migliorare la propria impostazione, sia nei growls più gutturali che nel cantato pulito. Frutto di una perfetta alternanza tra accelerazioni e pause groovy che più coinvolgenti non si può, “The burning South” gode di brani trascinanti e titanici come l’iniziale “American vermin”, l’esagitata “Hell goes thru hanging dog” e la stupenda “One shovel and a place to die”, ricca di cambi d’atmosfera e cupa come la notte più buia. E’ un’autentica orgia di killer riff quella cui si è sottoposti, senza alcun compromesso per il povero (mica tanto…) ascoltatore. “Pillars of tomorrow, piles of yesterday” viaggia sulle basse frequenze del doom, “Where the sewer meets the sea” rilegge gli Alabama Thunderpussy con il piglio assassino degli Entombed, “Smothered in sundress” aggiunge un tocco di psichedelia ad una fanghiglia sonora targata Down. Un meccanismo che funziona alla grande, comprese le bordate che giungono sul finire, quelle laceranti della strumentale “Vertigo” e quelle opprimenti di “Running out of neck”, sigillo conclusivo di un disco che rende omaggio al “dirty south” statunitense a base di whisky e distorsioni valvolari. Il Sud avanza e mai come in questo caso si presenta così cattivo. I Beaten Back To Pure hanno innalzato sanguinosi vessilli, prostratevi al loro passaggio! Alessandro Zoppo
BEATEN BACK TO PURE – The last refuge of the sons of bitches
Questo disco è una bomba! La Retribute Records assesta un gran colpo in ambito extreme stoner e ci propone il secondo disco (dopo l'esordio "Southern apocalypse") dei Beaten Back To Pure, una band che fa della genialità la propria forma d'arte… Prendete dei riff thrash di stampo Pantera, mischiateli con bordate di lercio e putrido southern stoner alla Alabama Thunder Pussy, Halfway To Gone o Throttlerod, uniteli a soffocanti trame death rock in stile Entombed, rigurgiti doomy e slabbrate infiltrazioni sludge derivate direttamente dagli Eyehatedog ed il risultato sarà un concentrato di potenza definito dalla band stessa "dirt metal". Le vocals di Ben Hogg sono qualcosa di assurdo, un'alternarsi di growls e clean vocals da brivido, come evidente nell'iniziale "The last refuge of the sons of bitches", un assalto di stoner metal sudista con uno stacco acustico al cardiopalma che riprende vigore solo nel finale per sfumare in "Wheels coming off", cascata di riff dal groove gigantesco caratterizzata da incredibili partiture di batteria, roba da togliere il fiato…la successiva "Syphilis" marca di più la componente doom del sound, contaminandosi però con brutali vocalizzi e illuminanti aperture progressive per le quali questi cinque ossessi meritano l'appellativo di geni. Ma i Beaten Back To Pure non finiscono mai di stupire e proprio nel bel mezzo del disco piazzano una mazzata come "Shards of mason jars", episodio southern sludge isterico ed indemoniato caratterizzato da duelli di chitarra che fanno gridare al miracolo! Tutto ciò prepara il terreno per una perla come "Paleface": l'incipit acustico inganna perché tanta delicatezza si trasforma subito in una macchina da guerra pronta a colpire alle spalle con riff assassini, ritmiche serrate e le chitarre sempre pronte a sfidarsi in assoli travolgenti. Si prosegue sulla stessa scia con "866 days", song che unisce groovy thrash e roccioso stoner rock in una matassa intricata sciolta solo dall'ennesimo break acustico che allenta la tensione ma non elimina del tutto il senso di pesantezza che si respira…ci pensa infatti la strumentale "Carry me back to the old Virginny" a regalarci una cavalcata di rabbia sudista, viscida e fangosa come le paludi virginiane, prima del finale affidato a "Double barrel blasphemy", scheggia impazzita che ancora una volta alterna momenti rilassati ad altri a dir poco estremi fino al bombardamento conclusivo che fa cessare tanta ruvida bellezza… Buy or die son of a bitch! Alessandro Zoppo
BEEHOOVER – he sun behind the dustbin
Che strana band i Beehoover. “The sun behind the dustbin” è il loro debutto ma segue tre ep che per durata erano già veri e propri full-lenght. Sembrerebbero un side project dei Voodooshock ma non lo sono: Claus-Peter Hamisch (batteria) e Ingmar Petersen (basso) sono un gruppo vero e proprio. E l’assenza di una chitarra nel loro sound non si fa affatto sentire. Anzi.
BEEHOOVER – Heavy Zooo
Nel mondo del rock le formazioni a quattro elementi hanno sempre fatto la parte del leone. Un cantante frontman, un chitarrista, un bassista ed un batterista. Ma anche la classica formazione triangolare (l’essenza vera e propria del rock) ha indubbiamente avuto un ruolo rilevante. Vengono in mente gruppi storici come Cream o la Jimi Hendrix Experience. Diverso, per ovvi motivi, il discorso riguardante le band a due soli musicisti.Venendo ai giorni nostri vale la pena ricordare gente come i Black Keys o i ben più famosi White Stripes, gli Om, i devastanti Black Cobra oppure i Lightning Bolt e per sconfinare nel black più tetro, i Dark Throne.Anche Ingmar Petersen e Claus Peter Hamisch (già sezione ritmica dei doomsters tedeschi Voodooshock) hanno pensato bene di creare un progetto, forse in un primo momento di puro divertissement, denominato Beehoover. Dopo il sorprendente “The Sun Behind The Dustbin” dello scorso anno, i nostri, grazie anche ad un buon riscontro di pubblico, hanno fatto da supporto a gruppi come Stinking Lizaveta e soprattutto Hidden Hand ed è valsa loro la partecipazione al Roadburn di quest’anno. Ora è la volta di questo Heavy Zooo e a questo punto parlare di semplice progetto risulta senz’altro riduttivo, perché anche se solo in due, i Beehoover dimostrano di essere una vera e propria band.Le dieci tracce che compongono questo album lo testimoniano ampiamente costituendo un puzzle di suoni in cui tutto si incastra a meraviglia. Si parte con “Solitude in Bloom” dove aleggia il fantasma dei Soundgarden di Bad Motorfinger mentre in “Dance like a Volcano” esce anche un paragone con gliamici/colleghi End of Level Boss. Non mancano riferimenti allo stoner specie nella titletrack e in “I Desert” così come Esophagus Overdrive è una scarica elettrica di pura adrenalina che non lascia respiro. Suoni ruvidi, cambi di tempo, basso preciso e micidiale, drumming potente e selvaggio, questa è in sintesi la loro ricetta.D’un tratto, quasi a voler stemperare la tensione fin qui accumulata, compare “My Funeral Procession” che rammenta i Black Sabbath più contemplativi.Il disco si chiude con una superba Stanislav Petrov dove vengono sorprendentemente a galla certe atmosfere care ai Tool. Sembra incredibile che un lavoro di questo genere sia stato fatto da due sole persone; segno è che quando la creatività è al servizio della musica e la tecnica sopraffina, i risultati sono ugualmente eccellenti proprio come in questo caso. Grandi. Cristiano "Stonerman 67"
BEELZEFUZZ – The Righteous Bloom
I Beelzefuzz si sono formati nel 2009 grazie a Dana Ortt, talentuoso chitarrista e cantante proveniente dal nord est del Maryland. Sebbene il luogo d'origine possa far pensare ad un progetto old school traditional doom, in realtà il gruppo – che pur ingloba elementi tipici del doom – propone un sound eterogeneo che richiama a certa tradizione 70's heavy & hard, influenzata dall'hard prog di quei gloriosi anni e dall'occult rock. Giunto al secondo album dopo uno scioglimento avvenuto tra i due dischi, Dana ricompatta una nuova line up denominandola The Righteous Bloom. Costretto ad abbandonare il nome originale dopo una battaglia legale con l'ex bassista Pug Kirby, Ortt ha vinto la diatriba e ha rinominato la band con l'originale Beelzefuzz, dirottando "The Righteous Bloom" a titolo dell'album.
L'attuale line up dei Beelzefuzz è una vera e propria doom all stars: oltre al citato Ortt, ci sono Bert Hall Jr. al basso (Revelation, Against Nature, Mangog), alla batteria Darin McCloskey (Pale Divine, Falcon, Sinister Realm, Crowned In Earth) e Greg Diener alla chitarra (Pale Divine). "The Righteous Bloom" diventa così uno dei maggiori lavori di questo 2016: la band si inserisce in quel filone retro rock piuttosto in voga oggi, ma riesce egregiamente a distinguersi grazie alla grande padronanza tecnica. Una scrittura che denota l'enorme personalità nel perseguire una ricerca sonora che malgrado le inevitabili influenze (dagli stessi dichiarati), fa sì che la loro rilettura risulti davvero originale. I Beelzefuzz hanno saputo fare anche meglio del già ottimo esordio datato 2013. Il loro heavy rock propone un ottimo incrocio di visioni occulte ricche di azzeccate melodie, tra echi di Uriah Heep e Lucifer's Friend, sferzate heavy ed oscure unite a percezioni dal sapore prog e rari momenti cui si manifesta certa NWOBHM. Va inoltre sottolineata l'incredibile somiglianza vocale di Dana Ortt con il leggendario John Lawton. Inutile citare un pezzo piuttosto che un altro: "The Righteous Bloom" è un diamante che brilla nell'attuale panaroma. Parafrasando il nome dell'album, non attendete oltre una giusta fioritura: è già sbocciata. Antonio Fazio
BEGINNING, THE – This is… The Beginning
E in principio fu la psichedelia. Un regno fatato, pieno di colori, sogni distorti, spazi allucinati. Un mondo nuovo e vecchio al tempo stesso, partorito dalla fantasia di cinque menestrelli cresciuti con il sound lisergico dei ’60 e ’70, colonna sonora della loro vita. Ora siamo nel vivo dell’oscuro reame chiamato Josiah, durante gli anni ’90 la creatura che partoriva le nostre deliziose visioni prendeva il nome di The Beginning. Un gioiello che rischiava di rimanere perduto nel tempo e invece la Elektrohasch ha riportato alla luce. ‘This is… The Beginning’ è infatti l’unico disco (edito nel 1998 da Molten Records e subito andato fuori stampa) della band di Mathew Bethancourt (voce, chitarre), leader dei Josiah, in questo precedente progetto accompagnato da Louis Wiggett (chitarra), Chris Payne (batteria), Samuele (basso) e Paolo Aversano (percussioni).Lo stile dei The Beginning è un omaggio al groove e alla psichedelia, all’hard, al garage e all’acid rock. Nei sette brani del disco confluiscono echi di Pink Floyd e Rolling Stones, Grateful Dead e Blue Cheer, Pretty Things e 13th Floor Elevators. Meri riferimenti per un bagaglio culturale comunque fatto proprio perchè vissuto in tutto e per tutto. Da qui nascono i fermenti che alimentano il lavoro. ‘Soul Revolution’ e ‘The Ju Ju Man’ riprendono il garage fuzz dei ’60, fresco e solare. ‘Blue Honey’ e la bellissima ‘Baby’s Takin’ Me for a Ride (and the sun ain’t never gonna set)’ affondano i colpi nella psichedelia pura e visionaria, lunghe sgroppate acide da transito per un nuovo universo. ‘The Golden Whisper’ concilia con delicatezza queste due anime, ponendosi come sigillo e ponte ideale tra San Francisco, Los Angeles e Detroit. C’è da aggiungere che completano questa ristampa due bonus track live (‘Freedom Express’ e ‘The Sacrifice’), tanto per ribadire che i cinque anche dal vivo esprimevano al massimo il loro mood dilatato e trippy. Tra The Beginning, Josiah e The Kings of Frog Island, Mat Bethancourt si conferma moderno aedo psichedelico: dalla sua penna nascono affreschi visionari e coinvolgenti. Fortuna che questo è stato soltanto l’inizio, perderci tanta grazia sarebbe stato imperdonabile… Alessandro Zoppo
Bentrees – Psychollage
Deve essere un ragazzo caparbio e determinato Riccardo Podda. Si sente da quanta passione ha messo nel progetto Bentrees insieme al fidato Mauro Cocco. Hanno costituito un duo chitarra + batteria ben lontano dalla figaggine White Stripes, ma con tanta ignoranza e incazzatura da far sembrare dei fighetti anche le band stoner hype oriented. D'altra parte la terra da cui provengono è così: forte e genuina. Una Sardegna che non smette di regalarci band heavy psych di rilievo (Black Capricorn, Elepharmers, Desert Hype, Raikinas) e che deve avere nei suoi panorami e nei suoi orizzonti qualcosa che l'accomuna a Joshua Tree. Il loro album di esordio, "Psychollage", è tanto bello quanto didascalico nel titolo. Sei pezzi lunghi che ci fanno attraversare il cosmo profondo a cavallo di space effects. L'uno due iniziale è una doppietta hard psychedelic con sapori prog, ma non progressive, stampati nel segno di Øresund Space Collective, primi On Trial o Sula Bassana. Siamo nell'orbita Nasoni Records, per intenderci. "Harmony", come suggerisce il titolo stesso, si lega alla successiva "Starry Sky" e ricama eleganti fraseggi chitarristici su trame Colour Haze, Liquid Sound Company e Los Natas. Stoner rock dai tratti bollenti e latini, per capirci. La conclusiva "Journey" è un acid trip di oltre 11 minuti che condensa e conferma le impressioni avute finora. Alla fine del viaggio si rimane sinceramente colpiti da come questi ragazzi siano riusciti a creare un magma sonoro così affascinante, ricco di sfumature di classe e passaggi creativi. Senza buchi espressivi e senza sentire la mancanza di altri strumenti fondanti del rock come il basso. Giù il cappello. [caption id="attachment_5990" align="aligncenter" width="800"]Bentrees Bentrees[/caption]   Eugenio Di Giacomantonio  
BETULARIA – La Stanza Di Ardesia
"La stanza di Ardesia", disco d'esordio dei livornesi Betularia - giunto dopo l'ottimo ep del 2004 "La calma e l'immenso" (co-prodotto dalla Red House Recordings di David Lenci) - presenta tutti i crismi dell'alternative indie rock italiano. Produzione artistica di Riccardo Parravicini (fonico dei Marlene Kuntz), collaborazione esterna di Gianni Maroccolo, produzione esecutiva di Suoni Sommersi. Così come tutti i difetti di un progetto del genere: influenze chiare e piuttosto nette che a volte spengono la personalità del gruppo. Detto ciò - limite maggiore in un lavoro di questo tipo -, i dodici brani dell'album suonano freschi e poetici, scritti e suonati con grazia, senza dimenticare robuste scosse elettriche che donano una sana corposità rock.Prevalgono comunque atmosfere sospese ed eteree, testi intelligenti e visionari, un lirismo mai troppo esasperato. Se in molti episodi aleggiano prepotenti i fantasmi di Afterhours ("Una notte fioca di lume", "Ferro vecchio") e CSI ("Sagome", "Tutto a mio modo", "L'esodo dei girasoli"), è nell'ipnotico gorgo di "Etere fluido", nelle discrete infiltrazioni elettroniche di "La quiete di ora" o nella psichedelia romantica di "Un certo sentore" e "Breve riflessione" che Simone Turchi (voce), Gabriele Porciani (chitarra), Cristiano Minelli (basso), Giacomo Salvadori (batteria) e Nicola Porciani (tastiere) trovano la propria, autentica cifra stilistica. Scavando in questa direzione e approfondendo alcuni tagli di luce decadente che richiamano certa new wave tricolore ("La calma e l'immenso", "Misture"), i Betularia potranno affrontare la prova del secondo episodio discografico con maggiore libertà. Alessandro Zoppo
BEVIS FROND – Hit Squad
Una copertina degna della locandina di un film poliziesco anni ’70 di serie B presenta il nuovo, Hit Squad di Nick Saloman & Co. La formazione è quella degli ultimi lavori, con la sola sostituzione del batterista Andy Ward con il nuovo arrivato Jules Fenton, e come il solito tutte le composizioni portano la firma di Nick Saloman. Come d’abitudine nelle ultime uscite i pezzi sono parecchi (diciotto) e va subito detto che questo lavoro mi è proprio piaciuto, più dei precedenti, segno tangibile di una vena compositiva del vecchio Nick quanto mai ispirata. Come al solito ci vengono proposte le più disparate influenze del rock degli ultimi trent’anni (e qualcosina in più forse), il tutto ottimamente amalgamato nell’inconfondibile stile Bevis Frond. Si va dal garage beat da antologia della titletrack e di It’s A Gut Thing a pezzi grintosi come Dragons e Mission Completed, fino ad arrivare a brillanti ballate intimiste come la lunga e conclusiva Fast Falls The Eventide, velata di psichedelica e space rock. Squisito l’aroma Canterburiano dei fiati in All Set? e del synth in No Attempt, incisivo il riff di Doing Nothing, belle le melodie e i suoni delle molte ballate distribuite lungo i 78 minuti del CD, ottima la scelta dei suoni in tutti i pezzi. La chiusura del disco è da capogiro con l’ottimo lavoro chitarristico di Am I Burning?, un mid-tempo dal riff hendrixiano, e con la lunga e straniante Fast Falls The Eventide, cupa poesia decadente dal mood malinconico.Lo stesso Saloman, che ha firmato di suo pugno le note per la stampa, ha definito Hit Squad come uno dei suoi lavori più brillanti e non posso far altro che trovarmi d’accordo con l’artista che ha messo assieme la miglior raccolta di canzoni a nome Bevis Frond degli ultimi anni. Bokal
BEVIS FROND – New river head
Nick Saloman è ormai da tantissimi anni una figura di culto nell’ambito del rock psichedelico: creatore della Woronzow Records, è noto soprattutto come mente di Outskirts Of Infinity (in particolare nei due volumi delle Acid Jam) e Bevis Frond, autentico nome chiave per comprendere l’evoluzione della psichedelia britannica nel corso degli anni.“New river head” è la ristampa di un lavoro uscito nel 1990 e questa volta edito nella versione originale, molto più lunga ed elaborata di quanto venne dato alle stampe tredici anni or sono. In più, nel doppio cd (durata totale 2 ore e mezzo!) sono presenti ben 9 bonus tracks che tra versioni demo e pezzi inediti arricchiscono un piatto di per sé già ghiotto. Al solito Saloman si sbizzarrisce mescolando le sue radici sonore (dai Pink Floyd agli Hawkwind passando per Jimi Hendrix, The Seeds, Pentangle e Led Zeppelin) e divertendosi a suonare la maggior parte degli strumenti. Al suo fianco troviamo ospiti più o meno noti come il fido Ade Show (grandioso il suo lavoro di basso sulla cavalcata heavy psych “Solar marmelade”), il drummer Martin Crowley, Cyke Bancroft (il suo sax impreziosisce di toni aggressivi la splendida “White sun”), Barry Dransfield (suo è il violino negli episodi folk rock come “Waving” e “Thankless task”), il chitarrista Bari Watts (autore un vero e proprio tributo hendrixiano in “Wild Jack Hammer”) e David Tibet, leader dei Current 93. Dunque un disco vario ed illustrativo di quanto è capace di proporre un genio come Bevis Frond, che spazia da cavalcate ricche di wah wah nella migliore tradizione acid jam (“She’s entitled to”, “Son of many mothers”, la lunghissima “The miskatonic variations II”) a brani melodici e sognanti (“Drowned”, “Stain on the sun”, “Motherdust”), passando per affreschi folk, arrangiamenti progressivi, space rock, sapori indie, pop song vellutate del calibro di “Down in the well”, rumorismi psych e zuccherose schegge garage come la divertente “Chinese burn” e “Snow”. “New river head” è un compendio necessario per ogni amante del sound psichedelico: occasione giusta per chi non conoscesse nulla di Nick Saloman, acquisto obbligato per quanti amano tutto ciò che porta la firma Bevis Frond. Ovviamente nell’attesa di un nuovo lavoro… Alessandro Zoppo
BIBLE OF THE DEVIL – Freedom Metal
Dei Bible Of The Devil ormai dovreste sapere tutto. Partiti nel 2002 con il full lenght “Firewater At My Command”, il gruppo si è fatto conoscere con “Brutality-Majesty-Eternity” inciso per la italianissima Scarey Records.La proposta sonora dei Bible è un hard rock’n roll caldo e sanguigno con influssi della NWOBHM sullo stile dei maestri emersi a cavallo degli anni 70/80, in primis Iron Maiden ma anche Motorhead, Thin Lizzy e Judas Priest. Con “The Diabolic Procession” di due anni fa hanno iniziato la collaborazione con l’etichetta (sempre italiana) Cruz del Sur, collaborazione che oggi ha dato vita anche al nuovo lavoro “Freedom Metal”. Nonostante le coordinate del suono non siano mutate del tutto, il gruppo con questo disco ha fatto un piccolo passo indietro. Innanzitutto la voce è meno aggressiva e ricorda a tratti Paul Stanley dei Kiss; inoltre le tipiche cavalcate maideniane della band sono diminuite lasciando spazio a brani molto più melodici come “The Turning Stone” e “Womanize”, il che non è necessariamente negativo ma sicuramente di impatto minore. Non male Ol’ Girl con un bel tiro che ricorda i già citati Thin Lizzy mentre a sorpresa giunge una semi acustica “Heat Feeler” a dire il vero non proprio esaltante. Cosicchè i pezzi migliori risultano essere i primi due, ossia “Hijack The Night” e “Night Oath” dove il gruppo tocca i confini dello stoner. Una prova quindi altalenante per una band che nel complesso ha sempre dimostrato tutta la sua potenzialità in sede live. Se vi capita, fate un salto a vederli. Cristiano "Stonerman 67"
BIBLE OF THE DEVIL – The Diabolical Procession
La presentazione sarà breve, I Bible Of The Devil vengono da Chicago, e proprio nel nuovo continente la Cruz del Sur è andata a pescarli immettendo sul mercato questo “The Diabolic Procession”, ennesima fatica per questa prolifica band statunitense.
BIBLE OF THE DEVIL – Tight empire
Quando i Bible Of The Devil si esibiscono dalle loro parti c’è da scommettere che Chicago (luogo di provenienza dei quattro) è una città in fiamme! Attivi sin dal 1999 e con ben tre dischi all’attivo, questi folli rumoristi propongono una forma sporca e deviata di rock’n’roll che parte dal sound di Detroit (leggi The Stooges e MC5) e dalle mazzate hard boogie degli AC/DC e arriva a fenomeni odierni chiamati The Hellacopters e Zeke. Velocità al fulmicotone, quindi, unita a simpatiche melodie e riff devastanti di chiara matrice metal, aspetto che rende il piatto ancora più ghiotto. Se infatti brani come l’iniziale “Shit to pimp” e la lasciva “Sexual dry gulch” strizzano l’occhio al garage e ci catapultano in locali fumosi dove sono l’alcol e il sesso a regnare sovrani, le chitarre maideniane di “Ball deep, mountain high” e “Iron university” o la furia assassina di “Fuckin’ A” (qualcuno ha detto Motorhead?) sono chiare dichiarazioni d’amore per il metallo pesante, imbastardite a dovere dalla voce sbiascicata di Amp Reed e dalle ritmiche forsennate di Lead Meat (basso) e King Rape (batteria). I duelli epici e furiosi di chitarra tra lo stesso singer e l’altra ascia Viet Claus sono la ciliegina sulla torta (come non pensare ai Thin Lizzy sulle note di “Thou”?), tocco di classe per un dischetto che vi farà zompettare estasiati dall’inizio alla fine. D’altronde un brano così catchy come “Kickin’ birth” non si scrive tutti i giorni, sintomo di grande classe e mirabili capacità compositive, dote che non tutti possiedono nel mercato discografico attuale. Sono promossi a pieni voti i Bible Of The Devil, a questo punto sale la curiosità di vederli dal vivo: se le premesse sono queste c’è da uscirne con le ossa rotte! Alessandro Zoppo
BIBLICAL PROOF OF UFOS – Interstellar messages
Che gruppo bizzarro i Biblical Proof Of Ufos! La loro musica travalica i normali confini dei generi e si pone come un ideale crocevia capace di fare la felicità di diverse fasce d’ascolto. Tutto nasce dal disco omonimo (interamente strumentale) uscito nel 2001 e accolto ottimamente da pubblico e critica, in seguito al quale il trio (Joe Shipman chitarra e voce, Michael Peffer batteria, Ray Pillar basso e voce) riesce ad incasellare una ricca attività live in compagnia di gente del calibro di System Of A Down, Fu Manchu, Snapcase, Fireball Ministry, Nebula e Queens Of The Stone Age. E proprio alle regine di Josh Homme il nuovo “Interstellar messages” sembra guardare incessantemente. Il rock dei BPOU è infatti eclettico, fresco, coinvolgente, isterico ma al tempo stesso rilassante. Al suo interno c’è un po’ di tutto: stoner, hard rock, pop, psichedelia, indie rock e brusche sterzate noise. Sembra di assistere ad una sfilata di moda in cui le modelle non sono figure diafane ma colossi “ingombranti” come QOTSA, Pavement, The Who, Slint e Masters Of Reality. Una bella miscela dunque, arricchita dalla presenza di un ospite di eccezione, Mr. John Garcia, il quale presta la sua voce a due brani (l’ipnotica “Passive aggressive” e la torrida “Two minute warning”) che spiccano per gusto melodico e grande forza ritmica. Ma è in generale tutto il disco a farsi piacere per il forte senso lirico: a partire dalla splendida doppietta iniziale (“You would if you loved me” e “Summer song”) ci si immerge in chorus catchy ma mai ruffiani, chitarre sempre ben in vista e arrangiamenti che pur essendo elaborati fino allo spasimo scorrono via che è un piacere. Insomma, “Interstellar messages” è un disco che funziona alla perfezione, senza sbavature o cadute di tono. Se poi, tra una vibrante “Enfant terrible” e una lisergica “Grand guignol” troviamo un gioiello come “It’s hard” (melodie beatlesiane, struttura ad incastro ed un piano elettrico da brivido lungo la pelle) non possiamo che constatare come i Biblical Proof Of Ufos siano una band originale e fuori dagli schemi. Doti che al giorno d’oggi non possiamo non apprezzare… Alessandro Zoppo
BIG ELF – Hex
Segnatevi bene questo nome perché gli svedesi Big Elf potrebbero essere la next big thing del panorama hard rock europeo e non solo. In realtà non parliamo di una band alle prime armi, ma di un gruppo in giro ormai da diversi anni, con due dischi all’attivo (“Closer To Doom” del 1996 e “Money Machine” del 2000, editi entrambi da Record Heaven) e due ep di recente uscita (“Goatbridge Palace” del 2001, “Madhatter” e “Pain Killers”, entrambi di quest’anno). Un meccanismo già rodato, dunque, che viaggia alla perfezione e centra l’ennesimo bersaglio con il nuovo “Hex”.
BIG JESUS – Big Jesus
La città di Atlanta è ormai da anni al centro di una scena incredibile popolata da tutta una serie di band dal background più disparato, dal metal all'alternative passando per lo stoner e tutte le sue derive. I Big Jesus si presentano con un ep di quattro pezzi disponibile in download gratuito e che mostra una invidiabile capacità di comporre pezzi semplici ma dal bel groove a cavallo fra il grunge più meditativo e certo stoner rallentato ed alcolico.L'iniziale "Ribs" è l'unico episodio diretto ed heavy dell'ep, dove delle belle chitarre veloci sono sorrette da una sezione ritmica molto semplice ed ordinata ma piuttosto efficace. La voce melodica e suadente completa un quadro già di per se perfetto. Molto soundgardiana invece "Hairteeth" con quell'incedere dolente e sofferto che ricorda le pagine più meste ed introspettive della band di Seattle. Andamento in chiaro scuro che si ripete nella conclusiva "Apecave", pezzo dal retrogusto southern grazie ad una bella chitarra in slide. A completare l'ep il mid tempo "Black Flies", altro ottimo esempio di come coniugare le ruvidezze grunge con i tempi più rallentati senza far risultare il tutto soffocante. I Big Jesus hanno sfornato un ep fresco e dal minutaggio limitato ma dannatamente godibile. Pochi fronzoli e molta sostanza per un dischetto disponibile gratuitamente e che si farà spazio in tanti lettori mp3. Davide Perletti
BIONIC – Deliverance
Il Canada non è mai stato terreno di conquista per le band dedite a suoni ruvidi e selvaggi. Dopo l’uscita di “Deliverance”, secondo disco dei Bionic che segue l'esordio omonimo del 1998, siamo contenti di aver sbagliato parere. Questo dischetto infatti non inventa assolutamente nulla di nuovo (nonostante sia stato incensato da Kerrang e buona parte della stampa trendista come un vero e proprio capolavoro…) ma spacca che è un piacere! Si tratta infatti di un concentrato di stoner punk'n'roll che non lascia scampo nel suo eccessivo disfarsi: le chitarre ruggenti e le vocals urlate dei due “barbosi” Ian Blurton e Jonathan Cummins corrono a velocità folli, la base ritmica (Paul Julius al basso e Tim Dwyer alla batteria) li accompagna alla perfezione assestando colpi di rara precisione. Da questo miscuglio ne viene fuori un disco rabbioso ma al tempo stesso melodico, corrosivo ma coinvolgente, da assaporare nei momenti in cui le arrabbiature quotidiane cominciano a non dare più tregua… In “Deliverance” c’è dentro davvero di tutto: dal punk al vetriolo di scuola Nick Oliveri nei suoi Mondo Generator (“Turn you out”) all’hardcore (quello melodico dei Bad Religion in “Shake it Annie, Shake it!” e quello senza compromessi dei Black Flag in “Bad times”), passando per il rock’n’roll granitico di scuola Detroit che è tornato tanto in voga oggi (“Disarm”, “Little mistake”) e le contorte armonie che i Queens Of The Stone Age stanno insegnando ad intere generazioni di musicisti (“Nobody to blame”, “Better”, “Ballad of the electric brains”). Un groviglio di suoni che fila liscio come l’olio, dal principio fino alla fine, quando “Do it now” concede il conclusivo colpo di grazia con una scarica di suoni psicotropi da levare il respiro… Tanto clamore intorno ai Bionic forse è un po’ eccessivo, ma un punto fondamentale a loro favore rimane certo: “Deliverance” è un disco dal gran tiro, essenziale e dinamico quanto basta per scaricare tutta la vostra adrenalina… Alessandro Zoppo
BITCHCRAFT – Bitchcraft
I Bitchcraft, da non confondere con gli omonimi gruppi di sole donne che suonavano trash metal a Detroit alla metà degli anni '90 e le contemporanee punk rock di Newcastle, sono attivi a Poznan. A ottobre 2012 hanno reso pubblica la prima demo, "Evil Thing": 4 brani che lasciano trasparire la loro passione per sonorità à la Black Sabbath (c'è anche una cover di "Sunshine of Your Love" dei Cream), ma che rappresentano solo l'appagamento di un'eventuale curiosità per la genesi del loro primo lavoro. Ri-registrando e producendo a dovere due brani già diffusi ("Not the One" e "Acid Dream"), e includendo due pezzi nuovi ("Mouth of a Cave" e "Stoned One"), nel dicembre del 2013 hanno infatti reso disponibile un EP omonimo. Oltre ai numi Black Sabbath, sin dal campione che dal riff iniziale del primo brano in scaletta si evince come i giovani polacchi siano stati fortemente ispirati dagli Electric Wizard: nulla di nuovo, si direbbe, pensando a quanti si possano citare tra i fanatics dei maestri del Dorset. Per loro fortuna, la cantante Julka cerca di trovare una propria personalità tra le trame imbastite dai 4 adoratori del mago elettrico (Amisz al basso, Larva alla batteria, Daniel e Baton alle chitarre) e riesce, pur restando nell'alveo del genere, a evitare di scegliere linee vocali uguali a quelle di Jus Oborn: chiunque si esalterebbe a risentirle pari pari nel disco di un altro gruppo che già scimmiotti nella struttura dei brani e nei suoni gli inglesi, ma così è troppo facile e può capitare di ricevere elogi sperticati senza un reale motivo (si veda l'ultimo caso degli statunitensi Windhand). In conclusione: i 4 brani di questo EP sono un ascolto interessante, lasciando presagire buone potenzialità per il futuro. L'augurio è che i Bitchcraft continuino su questa strada per arrivare all'esordio su lunga distanza. Raffaele Amelio
Blaak Heat Shujaa – Blaak Heat Shujaa
Con i Blaak Heat Shujaa lo stoner europeo dimostra di essere in piena salute. Così dopo il Regno Unito, la Germania, la Svezia, la Spagna ed ovviamente l'Italia è toccato alla Francia fare la parte del leone. I Blaak Heat Shujaa vengono da Parigi e, benché giovanissimi, hanno sollevato l'interesse nientemeno che di Scott Reeder, il quale li ha prontamente chiamati negli USA per l'incisione del disco d'esordio. Debutto che vede la luce appena tre anni dopo la formazione del gruppo. E questo è un dato significativo. L'altro dato importante è che questi ragazzi dimostrano una sorprendente maturità nei nove brani dell'album per un totale di 64 minuti. Un lavoro in cui tutto sembra al posto giusto nella sua uniforme miscela e fa sì che il sound scaturito non vada ad impantanarsi in scontati e ridondanti cliché. Certo, le influenze ci sono, riconducibili a certi Naam, anche se in questo caso l'involucro risulta meno criptico ed oscuro della band newyorkese. Ne sono un esempio brani come "M.I.A.", "Where You At" o "Moon", una incredibile cavalcata dove emerge un lato strumentale da jam band che non sarebbe affatto dispiaciuto a gente come Earthless e Colour Haze. Ma queste influenze non impediscono ai ragazzi di avere una spiccata personalità, tale da farli sembrare una band adulta. Basti pensare a quello che combinano in "The Brown Buffalo": dopo una intro dal sapore "tarantiniano" il brano si trasforma in un solenne stoner in bilico tra passato, presente e futuro. È segno che i ragazzi ci sanno fare. Lo dimostra anche un pezzo che ammicca ai migliori Queens of the Stone Age come "Sinaloakarma". Come a chiudere il cerchio. Se continueranno su questa strada potremmo affermare di aver trovato la "next big thing" dei prossimi anni. Per il momento godiamoci questo disco. Allez enfants!! https://www.youtube.com/watch?v=njYf72fCOAA Cristiano Roversi
Black Bombaim – Titans
Barcelos, Portogallo settentrionale, la città del "Gallo nero", emblema nazional-popolare portoghese. Da questa anonima cittadina di provincia provengono i Black Bombaim, band dedita alla psichedelia acida e pesante giunta nel 2012 al terzo album in studio, intitolato "Titans". Il disco è costituito da soli quattro ma lunghissimi brani (denominati semplicemente A, B, C e D con aggiunti i nomi dei musicisti esterni che vi hanno collaborato) che non a caso potrebbero esser definiti come autentici macigni sonori, dei "titani psichedelici" appunto, dove la grande psichedelia dei Sixties (Pink Floyd in primis, ovviamente) si amalgama con i più recenti echi stoner doom e soprattutto con certo heavy psych acido di gruppi come Earthless, Mammatus e Bevis Frond, solo per citarne alcuni. Il primo brano inizia con una cavalcata acida in pieno stile Earthless, seguita da un frenata con un inusuale assolo di batteria che lascia presto spazio ad uno stoner cupo, ossessivo e martellante (è questa l'unica parte cantata dell'album), sostituito poi da una digressione lenta, sinuosa e acustica prima dell'esplosione finale, un autentico conato stoner doom che richiama subito alla mente un certo "Jerusalem": veramente un gran pezzo! "B" è nella prima parte un omaggio ai Pink Floyd, quelli più cosmici, psichedelici e dilatati (per intenderci, alla "Careful with that Axe, Eugene", "One of These Days" o "There Be More Light"), mentre dopo percorre sentieri più elettrici già battuti e che richiamano ancora una volta gli Earthless, gli Ancestors ed altri: ed è qui impossibile non rotear dolcemente la testa e lasciarsi trasportare. Il terzo brano, "C", è sicuramente l'apice del disco, un calderone psichedelico dominato nei primi minuti dalla sorprendente presenza del sax del redivivo Steve Mackay (già con The Stooges nei primi Anni 70!), un sax alla Causa Sui che scandisce il ritmo e avvolge l'ascoltatore ma che presto viene sostituito da una batteria precisa e incessante e soprattutto da un muro di chitarre acide guidate da quella di un certo Isaiah Mitchell. Proprio lui, il leader degli Earthless più volte citati! Dieci e più minuti di riff incendiari e ininterrotti, un'orgia di wah wah, distosioni, magma fluido fiammeggiante e incandescente. Spettacolare! La quarta traccia che chiude l'album si presenta con una intro di theremin dai richiami spaziali per poi evolvere in un brano pienamente stoner dominato da basso e chitarre distorte, quasi ci trovassimo di fronte ad una jam dei Blue Cheer. Insomma, "Titans" è un gran bel disco, non una mera riproposizione, ma anzi un album complesso, variegato e destinato a crescere con gli ascolti. In una parola: sorprendente!   Alessandro Mattonai
BLACK CAPRICORN – Black Capricorn
Corna al cielo e caprone sacrificato nel nome del riff per chi ricorda Clench e Black Hole of Hulejra. L'artefice di quelle bellezze (parliamo di NWOIST, New Wave of Italian Stoner Rock) torna in pista: i Black Capricorn sono infatti la nuova creatura di Fabrizio "Kjxu" Monni, chitarra e voce del diablo, coadiuvato per l'occasione da una sezione ritmica al femminile, Virginia al basso e Rachela alla batteria. Il debutto del trio è un power heavy rock psichedelico e cinereo, edito dalla risorta 12th Records. Il gruppo sardo gioca con gli stereotipi del genere, proponendo otto brani che solleticano gli appettiti di chi è cresciuto a pane e Sleep.L'artwork di Malleus sembra dire volcanic space witchcraft in your mind, tuttavia gli artisti piemontesi potevano fare qualcosa in più per impreziosire un dischetto che si lascia ascoltare con entusiasmo dalla prima all'ultima traccia. A volte la produzione scarna e grezza fa perdere mordente alle composizioni, tuttavia è un difetto da poco, a fronte di uno stile torbido, lisergico e avvolgente. Il doom acido, groovy e catacombale di "Perpetual Eclipse" e "The Maelmhaedhoc O'Morgair Prophecy" (passaggio mistico esoterico che si pone come miglior episodio del disco) rimanda addiruttura al mood che negli anni Novanta aveva reso eterni nella memoria dei doomsters i gruppi della Hellhound Records. "Il tamburo del Demonio" è stoner kyussiano in veste strumentale che provoca demoniache ebollizioni, lava che cola nel delirio magmatico di "1000 Tons of Lava". "Call of the Goat" (presente su "Desert Sound vol. IV - In the Mouth of Fuzz") punta sul riff ipnotico e la melodia appiccicosa, "Liquid Universe" chiude i giochi partendo dall'ossessivo controllo della mente e planando sulla terra con un'iterazione psych oltremodo doverosa. Preparatevi ad affrontare la psichedelia più oscura e godereccia che ci sia, i Black Capricorn sono i nuovi messia del satanic rawk'n'roll. Alessandro Zoppo
BLACK CAPRICORN – Born Under the Capricorn
Risuona possente ed abissale lo stoner/doom pregno di visioni esoteriche dei Black Capricorn, al secondo episodio sulla lunga distanza dopo il fortunato esordio omonimo di due anni or sono. Si tratta di una netta conferma per la band di Kjxu e soci, i quali riescono a coniugare ancora una volta evocazioni sabbatiche e dilatata pesantezza, senza per altro risultare dei semplici imitatori di modelli in voga negli ultimi periodi.Mette già tutto in chiaro il monolite "Tropic of Capricorn", che si rivela un'ottima mazzata iniziale, e soprattutto la suggestiva "Born Under the Capricorn", ancestrale e sulfurea fino al midollo, grazie anche all'intervento dell'armonica e dei synth sparsi qua e là lungo il brano: un perfetto esempio di demonismo rurale dalla durata 17 orgasmici minuti! Il disco prosegue bene con "Capricornica", aperta per un attimo da strumenti tradizionali, prima di esplodere in un iterativo riff assassino guarnito di dilatazioni space, e con le conclusive "Double Star Goatfish" e "Scream of Pan", che completano il roccioso e blasfemo rituale. Pregevole l'artwork, motivo in più per non resistere all'eterno richiamo della bestia cornuta. Roberto Mattei
BLACK CAPRICORN – Cult of Black Friars
Dopo l'esordio omonimo del 2011, il successivo "Born Under the Capricorn" (2013) e i brani ascoltati sulle compilation della serie "Desert Sounds" (sempre disponibili gratuitamente su Perkele), il nuovo album "Cult of Black Friars" conferma le buone impressioni che ci eravamo fatti dei Black Capricorn. Siamo effettivamente in campo "desert rock", dove con questo termine possono essere assimilati fra loro generi spesso confinanti come doom metal, stoner rock e heavy psych, e il trio di Cagliari basa il proprio impasto sonoro raccogliendo e assimilando con criterio elementi dai generi sopra citati.
Abbondano le parti strumentali (l'opener "Atomium", "Animula Vagula Blandula", la granitica "Cat People") nelle quali emerge la passione dei nostri per la psichedelia più pesante e acida. Altrove è il doom di scuola Saint Vitus a farla da padrone, in brani cadenzati e ossessivi come la title track e soprattutto "From the Abyss", lunghe cavalcate dove la voce del chitarrista Kjxu echeggia spesso (volutamente o involontariamente?) quella di Dave Wyndorf. Proprio una versione più nera dei Monster Magnet del primo periodo (fino a "Dopes of Infinity", per intenderci) potrebbe essere il termine più vicino a descrivere quanto si ascolta in questo disco. In conclusione arriva l'acustico/psichdelica "To the Shores of Distant Stars", cantata dalla batterista Rachela, e qui il gruppo si dimostra abile nel non perdere la cappa nera che ammanta l'intero album.
Da segnalare cover artwork a cura di Vance Kelly (Down e The Sowrd, tra gli altri) e guest di Luca Catapano (Black Wings of Destiny) e Alessandra Cornacchia (Sacred Swords). Marco Cavallini
BLACK COBRA – Bestial
Recensione tardiva per questi Black Cobra, il loro debutto "Bestial" è infatti uscito nell'ormai passato 2006 e chi scrive si mangia le mani per non averli scoperti prima perchè la band si piazza sin dai primi ascolti nei favoriti dello sludge-core odierno.Quello che esce dalle casse una volta fatto partire il disco è un mix sulfureo di tutto ciò che può essere etichettato "violento". Come non mai è da raccomandare l'ascolto a volumi spropositati per meglio farsi prendere dall'aggressività di ogni traccia: frenetiche incursioni thrash, devastanti rallentamenti doom, cavalcate hardcore e urla che vengono dallo stomaco pieno d'acido si rincorrono in queste 11 tracce di pura rabbia animalesca. Il duo (sì, sono solo in due nonostante il putiferio che scatenano) si lancia in pezzi che schizzano via come una continua carica di barbari. Lo stile generale ricorda quel metal evoluto già sentito negli ultimi High On Fire, furia nei riff proposti con suoni saturi in cui potenza e pienezza vanno di pari passo. La band si dimostra ispirata sia nelle sfuriate a capo chino sia nei micidiali rallentamenti che spezzano il respiro, è difficile scegliere tra i pezzi quelli più riusciti.. Sicuramente "Sugar Water" e "Omniscent" spiccano ma in tutto il disco non è concessa neanche una pausa o un rallentamento di intensità, sul finale brevi intro alle canzoni durano giusto il tempo per svegliarsi dalla trance e capire che non si è nel mezzo di una battaglia corpo a corpo. Bestial è il classico disco che una volta finito dev'essere riascoltato, è il classico disco che sveglia moti di cattiveria e sfogo nell'anima, è il classico disco che già dal primo ascolto rimane impresso a fuoco nelle meningi lacere. Consigliatissimi. Federico Cerchiari
BLACK CROWES, THE – Freak’n’roll…into the fog
Questo disco è una dimostrazione (l’ennesima, purtroppo) di come la musica rock stia perdendo inesorabilmente qualità col passare degli anni. Perché se è vero che la masterizzazione sta distruggendo il mercato, le case discografiche devono anche ammettere che i gruppi odierni (salvo rari casi) non valgono quelli di 15/10 anni fa, producendosi in dischi che dopo nemmeno un anno dalla loro pubblicazione finiscono nel dimenticatoio. Dopo oltre 15 anni dal loro debutto i Black Crowes sono invece ancora qui fra noi, dimostrando come sia largo e profondo l’abisso fra loro e le band degli ultimi anni. “Freak’n’roll...” raccoglie in un doppio cd il meglio delle cinque date che la band ha tenuto lo scorso anno al mitico Fillmore di San Francisco. Cinque date, sì, perché i Black Crowes vantano un repertorio di grandi song che i gruppi odierni neanche possono sognare.Un inizio con un trittico come “Halfway to everywhere”, “Sting me” e “No speak no slave” è qualcosa che pochissime altre band sono in grado di permettersi: il gruppo appare in forma strepitosa (una menzione particolare per Chris Robinson e il tastierista Ed Hawrysch), supportato dal grandissimo lavoro alle backing vocals da Lisa Young e Charity White. Il primo disco prosegue poi con, fra le altre, “Jealous again” e “My morning song”, mentre il secondo presenta il gruppo dedito a meravigliose versioni acustico/psichedeliche delle grandi “Cursed diamond”, “Wiser time” e “Non fiction”. Non ci sono altre parole per descrivere il pathos creato da “Seeing things”, una delle più belle ballate rock di tutti i tempi, e nel finale arriva la storica “Remedy” col gruppo intento a creare un vortice rock infinito. Nella speranza di sentire presto un loro nuovo album godiamo di questa celebrazione live da parte della più grande rock blues band degli ultimi 15 anni. Marco Cavallini
BLACK CROWES, THE – Warpaint
Dopo il doppio live dell'anno scorso "Freak'n'Roll" che annunciava il loro ritorno sulle scene ecco l'atteso nuovo disco in studio dei Black Crowes, la più grande rock blues band degli ultimi venti anni. Da registrare l'ennesima uscita del chitarrista Marc Ford (che pare comunque seguirà il gruppo nell'imminente tour) e la cosa che balza subito al primo ascolto è quanto questo "Warpaint" sia in assoluto il lavoro più seventies oriented mai partorito dai corvi di Atlanta. Sembra di tornare ai tempi di due dischi come "Amorica" e "Three Snakes and One Charm", due lavori devoti agli anni '60/'70 ed alle loro atmosfere ruvide ma delicate al tempo stesso.Si può dire che "Warpaint" si divida esattamente a metà, in quanto ad una prima parte di potente e ruvido rock si contrappone un secondo lato impregnato su agresti ballate dal sapore soul. Si segnalano su tutte le ottime "Walk Believer Walk" (totalmente devota a certi Lynyrd Skynyrd/ZZ Top), il duo "Evergreen" e la seguente "We Who See the Deep", oltre la delicata ballad "There's Gold in the Hills". I fratelli Robinson (soprattutto Chris) si confermano in ottima forma e danno l'ennesima lezione a tante giovani band che si sentono "arrivate" dopo il disco d'esordio. Gran bell'album, nonostante un po' di elettricità in più non avrebbe affatto guastato. Marco Cavallini
BLACK ELEPHANT – Spaghetti Cowboy
"Spaghetti Cowboy" è l'album d'esordio per i Black Elephant, quartetto di Savona attivo dal 2010 che definisce il proprio sound come un connubio tra thrash e southern stoner metal. In realtà la band è più facilmente inquadrabile nella prima corrente: il suono risulta essere una sorta di groovy post thrash con influenze stoner, riconducibile in primis ai Pantera ma anche a gruppi quali Machine Head, Meshuggah, o i nostrani Extrema. Altro particolare che avvicina i nostri ai texani di "Cowboys from Hell" è il cantato di Alex, autentico veneratore di Phil Anselmo e vicino anche a Gianluca Perotti.La scelta del cantato in italiano purtroppo non convince appieno, mentre le influenze stoner sembrano essere quelle mutuate da Down, High On Fire, Mastodon, Orange Goblin (quelli più metal, per intenderci), Corrosion of Conformity, Texas Hippie Coalition, Black Label Society ed affini. Con "Spaghetti Cowboy" i Black Elephant ci consegnano un album senza infamia e senza lode, un onesto tributo alle band che evidentemente amano. C'è da suggerire non un monito quanto un consiglio disinteressato: provare a personalizzare maggiormente il sound, perché le potenzialità sembrano esserci. Per ora, lo stesso non si può dire delle idee, decisamente rivedibili. Antonio Fazio
BLACK ELK – Black elk
Hardcore sludge all’ennesima potenza, molto estremi e gratuitamente violenti, rasentando la soglia del volutamente fastidioso. Sicuramente una proposta senza compromessi il debut album dei Black Elk che ben si sposa alla natura estrema di un’etichetta come la Crucial Blast, sempre alla ricerca delle proposte più estreme e coraggiose da proporre, così come è coraggiosa e curiosa anche al copertina del CD, priva di qualsiasi riferimento diretto alla band. Ci sono pochi frangenti in cui sia consentito tirar fiato durante l’ascolto di questo lavoro, claustrofobico e pesante da reggere dall’inizio alla fine per i palati non avvezzi a certi estremismi. Mi ha sorpreso l’ultima traccia del CD, che esce da quel tunnel oscuro e malsano in cui sono infilati gli altri nove pezzi e si lascia andare su un mantra ipnotico dalle spezie vagamente stoner. Per il resto sarete bombardati da un feroce rifferama metallizzato, dalla foga scomposta del cantante e da una sincera attitudine hardcore-punk che a mio avviso rende questo lavoro una proposta di rilievo nel sempre più caotico panorama della musica estrema. The Bokal
BLACK GREMLIN – Rock and Raw
I Black Gremlin sono dei gran simpaticoni. A cominciare dal nome del gruppo, dai titoli delle canzoni ("Bongoloid" vince il premio di titolo più bello dell'anno ma anche "O)))ptimism" non scherza per niente) e dalla copertina dirty, tutto è più che esplicito nella loro idea di rock band. Messa su la puntina – ah, i bei tempi! – veniamo travolti da ruggiti hardcore di ottima fattura, ma non solo. C'è l'idea che la migliore band del mondo siano stati i Black Flag, però ci si è fatti le ossa anche con Fu Manchu, Sleep e compagnia stonata.
La citata "O)))ptimism" sembra una outtakes di "Holy Mountain" degli Sleep anche se l'acceleratore è pronto a sbuffare. Ecco, in questo ricordano un gruppo ottimo e semisconosciuto a nome C/Average che sul finire dei Novanta triturava "Interstellar Overdrive" e "Beer Drinkers and Hellraisers" come una punk band. Loro fanno alla stessa maniera e in questo sono fratelli ai contemporanei losangelini The Shrine, Zig Zags o ai The Decline Effects di Lousville. Come dire: calore e soulful Seventies stuprato dalla tossicità proto punk. Nei primi Ottanta succedeva questo. Oggi pure. Eugenio Di Giacomantonio
BLACK HOLE – Land of mystery
“Land of mystery” dei veronesi Black Hole è da molti anni uno dei dischi più ricercati della scena doom/dark mondiale; all’epoca della sua pubblicazione, nel lontano 1985, fu uno dei primissimi esempi della musica oscura che stava prendendo corpo all’interno della scena metal. Oggi l’edizione originale (1000 copie in vinile) ha raggiunto quotazioni considerevoli, ma ecco che come per incanto il lavoro è reso disponibile in versione CD (con l’aggiunta di quattro bonus tracks provenienti dagli ormai introvabili demos dell’epoca) grazie all’etichetta Andromeda Relix.Black Hole furono in assoluto il primo gruppo italiano che seguì la scia tracciata dai primi Death SS, dedicandosi ad una musica oscura accompagnata da liriche trattanti magia ed esoterismo, ed è difficile, se non impossibile, trovare altri gruppi/artisti di quegli anni devoti a queste sonorità. La title track, “Bells of death”, “Blind men and occult forces” e “Spectral world” sono piccole gemme di horror dark/doom metal e proseguono fedelmente il cammino maledetto degli originali Death SS (specialmente quelli del periodo Sanctis Goram). L’intuizione del leader Robert Measles fu comunque quella di abbinare ad influenze metal la sua passione per la new wave, arrivando così ad un’alchimia di suoni ed umori assolutamente inesplorati all’epoca. Il maggiore pregio di “Land of mystery” è comunque quello di suonare/apparire immortale; è uscito nel 1985, ma suona ancora moderno ai giorni nostri, e lo farà anche fra 20/30 anni. È musica senza tempo, e scusatemi se è poco. Marco Cavallini
BLACK HOLE – Land of Mystery (ristampa)
Dopo un prima ristampa del 2006 andata velocemente esaurita, l'etichetta Andromeda Relix (con la partecipazione del sito www.spectraweb.it) riedita per la seconda volta "Land of Mystery", album culto dei veronesi Black Hole che da molti anni risulta uno dei dischi più ricercati della scena doom/dark mondiale. All'epoca della sua pubblicazione, nel lontano 1985, fu uno dei primissimi esempi della musica oscura che stava prendendo corpo all'interno della scena metal.Rispetto all'edizione del 2006, oggi il cd (sempre a tiratura limitata di 500 copie) si presenta in un elegante formato digipack, le bonus track sono diverse e soprattutto le tracce sono state tutte ripulite e rimasterizzate, suonando ora in maniera davvero pregevole. Il difetto che molti avevano infatti lamentato della prima stampa su cd (ovvero il fruscio del vinile che accompagnava sovente lo scorrimento dei brani) è scomparso, mentre nulla è andato perso del fascino "arcano" di queste note. Parlando del lato musicale, è doveroso ricordare che i Black Hole furono in assoluto il primo gruppo italiano che seguì la scia tracciata dai primi Death SS, dedicandosi ad una musica oscura accompagnata da liriche trattanti magia ed esoterismo, ed è difficile, per non dire impossibile, trovare altri gruppi/artisti di quegli anni devoti a queste sonorità. La funerea title track, l'orrifica "Bells of Death", la spettrale "Blind Men and Occult Forces" e l'ossianica "Spectral World" sono piccole gemme di horror dark/doom metal e proseguono fedelmente il cammino maledetto degli originali Death SS (specialmente quelli del periodo "Sanctis Goram"). L'intuizione del leader Robert Measles fu comunque quella di abbinare ad influenze metal la sua passione per la new wave, arrivando così ad un'alchimia di suoni ed umori assolutamente inesplorati all'epoca. Il maggiore pregio di "Land of Mystery" è comunque quello di suonare (e apparire) immortale; è uscito nel 1985, ma suona ancora moderno ai giorni nostri, e lo farà anche fra 20/30 anni. È musica senza tempo, e scusateci se è poco. Marco Cavallini
BLACK HOLE OF HULEJRA – B.H.O.H.
I Black Hole Of Hulejra sono il progetto solista di Fabrizio "The Duck" Monni, batterista dei Clench nonché mastermind della neonata etichetta W.uck Records. Dal vivo Fabrizio ha assoldato per questo esperimento (che doveva essere estemporaneo ma poi non si è più rivelato tale…) Davide (voce dei Clench ma in questo caso dirottato alla batteria), Guido e Vincenzo degli Inkarakùa, che rispetto alla loro band madre invertono gli strumenti e diventano rispettivamente chitarrista e bassista. Le sonorità evocate sono qualcosa di assolutamente marcio e putrido: nei sette brani presenti stoner e hard rock si fondono in una miscela lercia e sudata, con registrazione e mixaggio volutamente sporchi ed imperfetti per mettere in mostra la passionalità e la carica della musica proposta. Brani come l'iniziale "N.Y. 54" e la travolgente "Devil wishes" evidenziano groove, ottime capacità melodiche e tanta voglia di divertirsi ritornando ad un suono datato ma sempre fresco. Tutto funziona alla perfezione, compresa la voce inacidita e a tratti stonata di Fabrizio, che con la sua idea riannoda i fili sottili che legano gli MC5 ai Fu Manchu passando per i Monster Magnet. "Black humma" e "Toyeca" sono altri esempi lampanti di caldo e stridente "dirt rock" che funge da colonna sonora ideale per le brulle lande sarde dalle quali la band proviene: le chitarre e le ritmiche si fanno asfissianti come il calore delle terre dalle quali hanno origine, fino a portare in una dimensione stravolta ed ipnotica. A dare il colpo decisivo ci pensa infatti la conclusiva "Tropic", oltre sei minuti di psichedelia strumentale, liquida nel suo incedere e malinconica nelle atmosfere piovose che richiama alla mente. La Sardegna si appresta a diventare un nuovo luogo sacro per lo stoner italiano. A dimostrarlo c'è questo progetto particolare e davvero interessante. Welcome into the Black Hole Of Hulejra… Alessandro Zoppo
BLACK HOLE OF HULEJRA – La danse macabre
Torna in mezzo a noi teste calde la grande truffa del rock’n’roll, i Black Hole Of Hulejra! Il progetto nato dalla mente malata di Fabrizio Monni (anche membro dei Clench e capoccia della label Wuck Records) giunge alla sua seconda emissione con questo ep di quattro pezzi che prosegue il discorso intrapreso con il cd d’esordio. Continua anche la saga dedicata al mitico videogioco di auto “Re-volt” e questa volta Fabrizio non si risparmia: produzione accurata (sempre considerando la dimensione “sporca” cui il lavoro si ispira), bellissimo artwork e una manciata di brani che faranno la gioia di tutti gli amanti del vero rawk’n’roll. La musica dei Black Hole è scarna, essenziale, ruvida, trascinante, grezza: è un pieno di energia che per quanto possa mancare di originalità (per loro stessa ammissione l’idea della band è nata per riprendere tutti gli stilemi ed i luoghi comuni del rock!) ci afferra per il collo e ci scuote con i suoi chitarroni rabbiosi e la sua voce sguaiata. Emblematica a tal proposito è l’iniziale “Insecto kill”, assalto all’arma bianca condotto con piglio punk e scaltrezza rock’n’roll. Ma d’altronde non si vive di sola aggressività e allora ecco che “La danse macabre” è una sghemba ballata (ben riuscita ovviamente…) che mischia sapori country con una struttura tanto cara alle ballad dei Guns’n’Roses di “Lies”. “Dust mite” è invece pura dinamite stoner sludge: ritmiche kyussiane servono su un piatto d’argento i vocalizzi allucinati di Fabri, a suo agio sia in fase coyote ululante sia quando cala l’asso della melodia sotterranea… “Phat slug” riprende le stesse fattezze e si lancia in un dirty rock dannato e marcio, ancora una volta interpretato alla perfezione da Fabrizio con bei riff e assoli ficcanti. Alla fine dell’ascolto si esce dunque frastornati e contenti… Cosa vuol dire? Che la truffa è riuscita alla perfezione! Alessandro Zoppo
BLACK LAND – Extreme Heavy Psych
Psichedelia. Pesante. Estrema. In tre concetti si racchiude un intero universo, quello che i Black Land mettono in musica nel loro secondo album. Lavoro entusiasmante per chi si nutre di doom e heavy psych, avventuroso per chi dal rock cerca sempre nuove sensazioni. Ascoltare brani come l'iniziale, travolgente "Psych N. 1" o la tortuosa, groovy, melanconica "Drowning Deeply" equivale a mettere insieme Pentagram, Hawkwind, Saint Vitus, Misfits e Fu Manchu e frullare il tutto con spezie lisergiche, senza dimenticare necessarie spruzzate metal e punk. Perché l'idea del gruppo romano nasce da lontano, dal 2001, dalle prime prove e dai primi concerti a nome Wizard e da un album intitolato "Evil of Mankind" da cui partire e al tempo stesso prendere le distanze. Nel mezzo ci sono stati e ci sono i Doomraiser, perché tre quarti del gruppo sono qui: Willer Donadoni (voce, chitarra), Daniele "Pinna" Amatori (basso), Nicola "Cynar" Rossi (batteria), ai quali si aggiunge la seconda chitarra di Manuele "Catena" Frau.Gli otto brani dell'album emanano un suono pesante e avvolgente, che fa leva su ritmiche toste e chitarre che si intrecciano a meraviglia. A questa solida base si devono aggiungere una produzione corposa e sporca quanto basta e il moog di Massimo Siravo (L'Ira del Baccano) che dona quel sapore spaziale e magmatico che non guasta mai. Unico neo la voce di Willer, non sempre all'altezza della varietà richiesta dal sound. Fronte su cui lavorare, perché nel suo disfarsi malefico "Extreme Heavy Psych" è un disco che ipnotizza e coinvolge. Dai riff minacciosi e psicotropi di "From the Black to the Rainbow" alle litanie oscure e decadenti che caratterizzano "Life and Death" passando per il retro rock ribollente di "R'n'R Bite", è un susseguirsi di emozioni nere e liquide. Lo ribadisce il passaggio acido e acustico di "Holy Weed of the Cosmos (The Great Ritual)" ed il finale affidato a "Victims of the Cast", quasi dieci minuti in cui si bilanciano doom, metal, punk e psichedelia. Ossia la materia di cui sono fatti i Black Land. Cosmic music for stoned people. Alessandro Zoppo
BLACK MAMA – Black Mama
Troviamo classic hard rock e blues a fiumi nell'esordio dei Black Mama, il tutto debitamente insaporito col southern e il tradizionale rock'n'roll, una portata a base di Allman Bros, Muddy Waters, Mott the Hopple, Free e via discorrendo, da servire sulle nostre tavole bella fumante e con un buon numero di bicchieri a portata di mano. Delta del Mississippi e British invasion shakerati in un barilotto di vecchio whisky insomma, quello che a volte manca e che buttato giù con un solo sorso ci dà la botta giusta per ricordare le vecchie radici, anche per chi non è proprio a digiuno di tali sonorità. Un album rigorosamente tradizionalista ma che in definitiva appare impossibile definire come vecchio o sorpassato, visto che parliamo di una delle formule che nei tardi Sixties e nel decennio seguente ha rappresentato una specie di pietra filosofale in ambito musicale e culturale. Di sicuro i nostri non si curano di cercare strade innovative, ma da un certo punto di vista va benissimo così: "'41-'61" e "Tell Papa" faranno già in avvio la gioia di tutti gli amanti del '70s rock robusto e pregno di feeling, per non parlare dell'emblematica "Blues is Blues", dal titolo didascalico quanto si vuole, ma che a conti fatti rimane un ottimo brano, caldo e coerente. "The Slow One" è uno degli apici della raccolta, rallentata e soffusamente acida, mentre "'Round Midnight" e "Black Mama" con le loro commistioni di Clapton e B.B. King rafforzano senza problemi la qualità generale dell'album. Si continua fino alla fine sugli stessi livelli con "Snake Out Blues" e Keeping My Style" (quest'ultima con tanto di interessante coda psych), senza intaccare minimamente la solidità della band guidata da Nicolò Carozzi (ex Lavoirlinge). Retro-sound senza orpelli di sorta. Roberto Mattei
Black Mama – Where the Wild Things Run
Nove tracce di rhythm and blues dal sapore nostalgico. I Black Mama sono un trio di Verona che nel 2019 ha pubblicato il secondo album Where the Wild Things Run, e ci immaginiamo che queste cose selvagge a cui si riferiscono siano di casa nell'America del Sud dei primi del Novecento. Feelin' Allright apre le danze in perfetto fingerpicking style ultra-elettrico e a trecento all'ora. Where the Wild Things Run – sorpresa! – ha un bel sapore di acid rock anni Sessanta, come dei novelli Quicksilver Messenger Service (tra le altre cose la copertina dei nostri cita apertamente Happy Trails). L'uno/due di Tell My Mama e Come On, Come On, Come On prende per la barba i fratelli Gibbons, era Tres Hombres, quindi assolutamente un bel sentire. Emerge a questo punto la bravura di Nicolò che con il suo stile chitarristico riesce a scappare dall'accusa di revivalismo tout court. Cosa lampante nel mid tempo Hands Full of Nothing but the Blues, un buon blues claptoniano, vellutato come le porpore cardinalizie. Ma sta mano po' esse pure fero e quindi ecco I Got a Woman, che lancia la sfida face to face ai Black Keys sul loro stesso campo, anche se per energia e convincimento il terzetto mostra i muscoli come i Grand Funk Railroad. Il diavolo veste di rosso, come le donne disinvolte, così come Red Dressed Devil è disinvolta nell'affiancare al blues un certo vago sapore funk à la Living Colour. Shining Rust è dodici battute dodici che stranamente riportano alla mente l'hair metal losangelino degli Ottanta suonato al Troubadour e la conclusiva Icarus non poteva farci mancare l'acustica per completare il concept. Where the Wild Things Run è un buon album che potremo definire a tutti gli effetti classic rock. Una foto dei Black Mama di Where the Wild Things Run

Eugenio Di Giacomantonio

BLACK MAMBA ROCK EXPLOSION – Black Mamba Rock Explosion
Energia è la prima parola che viene in mente appena inserito questo disco nel lettore, e con ogni probabilità ciò che avevano in mente di trasmettere Andrea Belgrado, Peter Nadlisek e Marco Mattietti quando hanno fondato i Black Mamba Rock Explosion. Si presentano già dal primo pezzo, "Sold Our Soul", con un bel sound hard rock sino al midollo, più morbido nel suddetto brano, ma che si intensifica con lo scorrere dei minuti. "Day After" è catchy al punto giusto, con una linea di basso di tutto rispetto che non lascia dubbi sul groove della canzone sin dall'intro, che concima terreno per la spericolata "My Drug", specchio dell'animo puramente rock'n'roll del trio di Trieste.A quale donna si saranno ispirati i BMRE per "Sexy Legs"? Quanto sia sexy non lascia dubbi il coro del ritornello! "Hypocrisy" tiene fede a quanto ascoltato sinora, molto apprezzabile la breve durata della song e il solo con base rallentata che suggerisce al vostro orecchio che anche dei rockers triestini sanno apprezzare dei buoni accenni di blues. "Thanks Lady" è forse l'apice del disco, con un pezzo dinamico e grezzo al punto giusto, senza mai strafare. "Pollution" è un altro brano memorabile, di facile ascolto ed esecuzione, ma con un'energia tutt'altro che banale: «Se il tuo rock ha energia al punto giusto non è mai banale!», sembra voler gridare Andrea. Se "Temptation" risulta un po' troppo monotona, la successiva "The River" riaccende a meraviglia lo spirito fiammante del disco, anima che brucia quando arriva "Ramblin' Rose", cover degli MC5, rieditata per l'occasione con maestria ed energia non indifferente! Ottimo l'utilizzo dell'armonica da parte Nadlisek. Infine "Line of the World" chiude l'album senza perdere nessun aspetto di ciò che hanno proposto per tutti i 35 minuti di durata del disco, passati in modo molto scorrevole. Insomma, una bella prova in questo lavoro uscito sul finire del 2012. I Black Mamba Rock Explosion dimostrano una personalità non indifferente al loro esordio: meritano considerazione, dunque ci auguriamo di riascoltarli maturati in futuro. In fondo, "...it's all about love, sex and pollution...": stay rock!!! Gianmarco Morea
BLACK MERDA – Black Merda
Alla fine non ci sono passi obbligati nell’innamoramento, ti innamori così, non si sa perché, non si sa per come, però è così. Ma anche no. Ci son sempre quei due o tre motivi fissi che accomunano il tutto, ma anche il blow up, a volte il rockerilla, e ti butti nel mucchio. Morale: io vi dico che nel 1970 (è uscita fresca-fresca l’edizione del 25esimo anniversario) quattro afroamericani dividono la loro passione fra Jimi Hendrix ed il black funk, e non riescono ad accomunare il tutto, ma dopo varie colluttazioni verbali-e-non, capiscono che il tutto si accomuna nella skin, ma non zzzzzzz, ma non default, ma non Mameli, bensì black. Jimi è (al tempo “è”, poco dopo “era”, ma purtroppo quella glaciale è un altra cosa) black, il funk è musica black... una massa informe di black, una bella matassa da quattro kilogrammi di Black Merda solida e fumante come appena sfornata da un goloso intestino.Già molti di voi si sono innamorati di loro, non dite di no perché è cosi. Black Merda attira, ha il suo fascino, ti calamita come una mosca, e migliaia di miliardi di mosche nel mondo non possono sbagliarsi. Se si fossero chiamati Giants Of Funky Psych Rock o Funk People Doing Fuzzy Things molto probabilmente li avrei lasciati nel mare degli ‘ascolterò’, assieme ai settanquattromilioni di gruppi dei ‘70 sepolti dalle sabbie del tempo come Titanic, Budgie, Dust, Ice-Cross, Poobah, Mountain, Straeberry-Path, Boot, May Blitz, Incredible Hog, Groundhogs, Dark ecc ecc... che sono tutti molto validi, hard rock di vari stampi e stili, è inutile però negare che se devo scegliere ad occhi chiusi fra May Blitz e Black Merda, io vado di Black Merda tuffandomi in carpiato, perché è già amore. Potrei spiegarvi che nel mistone merdoso potete trovare il minuto di distorsioni acide come i due minuti di bassone slappato, intervallati dai tre minuti di divagazione psichedelica prima maniera. Potrei spiegarvi che questo è uno di quei gruppi senza identità precisa, tipici del fermento di quegli anni, che facevano crossover senza sapere che fosse quello il nome. Potrei spiegarvi tante cose, ma tanto so benissimo che prenderete questo disco solo perché quando qualcuno spulcerà la vostra discoteca proverete un sottile piacere quando esclamerà stupito - Black Merda?!... ma li conosci tutti tu?! - ... e tu dirai - si, li conosco tutti io, sono un figo, metti i Black Merda, ‘gnùrant, senti che groove acido e fuzzoso. E famose ‘no spinello -. Funk you Merda's people! Pier ‘porra’ Paolo
BLACK MOSES – Royal stink
Erano in molti ad attendere una nuova fatica dei Black Moses, band che aveva tanto appassionato in occasione del debutto “Emperor deb”, risalente al 2002. Le attese, come nelle migliori occasioni e per le grandi band, non sono state affatto deluse, anzi. Il nuovo “Royal stink” è un signor disco, capace di travolgere ed affascinare nel breve volgere della sua mezz’ora di durata.Puro rock’n’roll venato di garage, rabbioso a dovere ma sempre melodico, pop nelle atmosfere ma con sommo gusto. I padrini Jim Jones e Graeme Flynn (un passato non indifferente in band fondamentali quali Thee Hypnotics e Penthouse), coadiuvati dal drumming incessante del bravo David Axford, proseguono sulla strada di un rock fresco e ruspante, non originale né sconvolgente, ma adatto ad un periodo musicale come quello odierno, plastificato e artefatto. I Black Moses, infatti, riportano alle origini del rock’n’roll, a quelle calde sonorità fatte di sudore e passione, a quel suono garage che tanti cercano di riprodurre senza la giusta attitudine. I tre invece ci riescono alla perfezione e sfornano nove brani brevi ed essenziali, ben arrangiati ed eseguiti, con il giusto tocco di psichedelia (ad esempio il riff affilato e lisergico di “Thru you”) e tutta la grinta primordiale di cui sono capaci. Non a caso Jim Jones ha dichiarato che il feeling che li ha animati nella realizzazione del lavoro è nato dall’ascolto dei dischi di Little Richard… Influenza che si percepisce in divertenti razzi boogie come “So good”, “She got da moves” o “Baj (Oh yeah)”, rock’n’roll d’annata imbastardito dal sound corrosivo di MC5 e Stooges che fa scuotere con vigore piedi, testa e bacino. Mentre in “Can’t breathe (Turkey neck)” sono i Rolling Stones a riemergere dal passato. E se “Better believe” è impreziosita da un’armonica bluesy che ammalia ed ipnotizza, “Lose control” sembra rileggere in chiave soul l’operato dei Led Zeppelin. È un continuo saliscendi di emozioni, quali la splendida melodia pop che esalta il chorus di “Stevie” o l’esaltante heavy rock della title track, altro gioiello che ci trasporta indietro nel tempo. Grandissimi Black Moses, un salto nel passato tenendo i piedi ben saldi nel presente e nel futuro. “Royal stink” deve essere vostro a tutti i costi. Alessandro Zoppo
Black Mountain – In the Future
Si e ci catapultano nel futuro guardando al passato, i Black Mountain. Loro sono fatti così, viaggiano. Più che nel tempo, fuori dal tempo. "In the Future", secondo capitolo di un'avventura iniziata a Vancouver sul finire degli anni '90 con i Jerk With a Bomb, prosegue e perfeziona quanto proposto nell'esordio omonimo: attitudine moderna al servizio di uno stile vintage fiero e ostentato, che mescola psichedelia acida, progressive, blues, folk e kraut rock. Uno spettro sonoro ampio, retrò e al tempo stesso attuale, attento a cogliere sfumature diverse e di ogni tipo. Certo, non tutto funziona alla perfezione. A volte le atmosfere calano di intensità, in strutture che appaiono elaborate e ampollose si insinuano tratti fin troppo semplicistici. È tuttavia un tratto lieve, che non inficia il livello elevato dell'album. Disco scritto e composto con gran perizia, merito dell'alchimia creatasi tra Stephen McBean (voce, chitarre), Matthew Camirand (basso), Jeremy Schmidt (organo, mellotron, synths), Amber Webber (voce, percussioni) e Joshua Wells (batteria). Piace la capacità di variare registro con stile e grazia: da melodie a presa rapida ("Angels", l'acustica "Stay Free") a brani lunghi e corposi che lasciano il segno ("Tyrants", l'odissea "Bright Lights", 17 minuti di assoluta intensità), fino al gioiello "Queens Will Play" (dedalo di vibranti sensazioni guidate in punta di penna dalla voce splendida di Amber), passando per le bordate di "Evil Ways" e il rock lisergico e narcolettico di "Wucan", condotto dal fuzz delle chitarre e dai toni stanchi delle vocals. Non certo un capolavoro, ma di sicuro il disco che lancia definitivamente i Black Mountain tra i migliori esponenti rock del nuovo millennio. https://www.youtube.com/watch?v=ouV4Y_Tlg8U Alessandro Zoppo
BLACK NASA – Black nasa
A giudicare dal nome del gruppo ci si aspetterebbe una band dedita allo space rock di scuola Hawkwind ed invece eccoti la sorpresa che ti coglie impreparato: i Black Nasa non sono nient’altro che il progetto parallelo di Chris Kosnik, noto ai più come bassista e vocalist degli Atomic Bitchwax di Ed Mundell.
BLACK NASA – Deuce
Prendete l'hard rock da arena, catchy e orecchiabile al limite della ruffianeria. Unitelo con un tocco di stoner, qualche spruzzata di psichedelia, un recipiente di blues e soprattutto tanti odori "pinkfloydiani". Quello che ne verrà fuori è lo stile dei Black Nasa, noti ai più per essere il progetto portato avanti da Chris Kosnik (voce e basso degli Atomic Bitchwax di Ed Mundell) in compagnia di Duane Hutter (chitarra) e Corey Stubblefield (batteria). "Deuce" è il secondo capitolo della loro saga dopo il debutto omonimo di due anni fa e in realtà non aggiunge molto rispetto a quanto già detto in precedenza. Ci troviamo di fronte ad un disco onesto, ben scritto e suonato, ma che non cambierà certo il corso della musica. Né attirerà sulla propria strada nuove orde di fan. Come si dice, chi si accontenta gode: chi ama questo tipo di sonorità può farci un pensiero, se però volete originalità e un sound personale passate pure oltre. Non che sia un disco da buttare, anzi. Spesso la ricerca dell'hit a tutti i costi snatura le composizioni ma in fondo la mezz'ora d'ascolto si rivela piacevole e rilassante. Tra i prevalenti momenti di heavy rock bollente e psichedelico con ampie concessioni alla melodia (la strumentale d'apertura "Shabadoo", le groovy "Kamikaze" e "Colony", lo stampo Foo Fighters che ammanta "Thanks anyway") spesso si tira il fiato e vengono fuori episodi più particolari. Esempi ne sono le aperture strumentali di "Hut nut" (svisata blues con tanto di slide e torbida armonica a bocca..) e "Talking candles", grande momento psichedelico che è anche la vetta dell'intero lavoro. Quando però l'influenza dei Pink Floyd, che aleggia su tutto il lavoro, si fa troppo pressante, allora si cade nell'eccesso. In questo senso il mezzo plagio operato da "Light" è un episodio da dimenticare.. Molto meglio la simpatica divagazione operata dalla cover dei Run DMC "You be illin"! Insomma, se avete un po' di soldi da spendere e cercate un disco di puro e semplice relax "Deuce" è quello che fa per voi. Tuttavia, considerando quanto costa un cd al giorno d'oggi, il consiglio è quello di poter pure soprassedere. Alessandro Zoppo
BLACK RAINBOWS – Carmina Diabolo
A tra anni dall'esordio 'Twilight in the Desert', i Black Rainbows tornano alla carica. Forti dell'appoggio della francese Longfellow Deeds Records, confezionano un secondo lavoro che è manna dal cielo per gli amanti dello stoner rock classico, quello roccioso, caldo e vibrante di matrice Kyuss, Fatso Jetson, Fu Manchu e Nebula. 'Carmina Diabolo' è un prodotto che rilancia per l'ennesima volta il sempre più florido panorama italiano. Un disco che non sfigura accanto a produzioni americane, scandinave, olandesi, tedesche o inglesi. Confezione accurata (splendido l'artwork di Angryblue), produzione eccellente, dieci canzoni che restano impresse sin dai primi ascolti.Gabriele (voce, chitarra), Daniele (batteria) e Marco (basso) rielaborano la lezione heavy psych con sensibilità sopraffina, andando a pescare dall'hard rock di matrice 70s e condendo il tutto di saporite spezie psichedeliche. Si parte alla grande scalando la vetta dell'Himalaya, aria rarefatta e satura d'elettricità, i riff che gonfiano le casse e rendono "Babylon" un caos d'altri tempi. "Under the Sun" è il suono dell'afa, veloce e spiazzante: è il rock'n'roll. Affascina così tanto da restare bloccati, immobili e ipnotizzati dinanzi alle dinamiche mistico lisergiche di "What's in Your Head". "Bulls & Bones" (già presente nel terzo volume della compilation di Perkele 'Desert Sound') è una mazzata heavy grassa e stentorea, così come l'hendrixiana "In the City" e la selvaggia "The Witch". La coda dilatata ed evocativa di "Return to Volturn" è un piccolo antipasto per il trip cosmico della conclusiva "Space Kingdom", viaggio fuori controllo tra chitarre titaniche e ritmiche pulsanti. Un colpo al cuore e soprattutto alla mente, che fa dei Black Rainbows tra le migliori stelle del firmamento stoner italiano. Heavy mothafuckin' psych, baby! Alessandro Zoppo
BLACK RAINBOWS – Holy Moon
Inizia come un disco dei compianti 35007 il nuovo lavoro dei nostrani Black Rainbows a titolo "Holy Moon", ossia sample vocali catturati da un lancio spaziale NASA fusi con riff dal battito lento e circolare. La band romana è giunta al quarto disco con un'intenzione precisa: rispolverare il groove che, a cavallo tra i due millenni, tra il 1995 e il 2005, ha ispirato una serie di band dell'orbita heavy psych producendo una quantità di album evoluti soprattutto in direzione di contaminazione tra diversi stili. Dischi come "Los Sounds de Krauts" dei Color Haze, "Ciudad de Brahman" dei Natas e "To the Center" dei Nebula hanno avuto il merito di proseguire il discorso post Kyuss arricchendolo di personalità e classe cristallina. E in un certo senso l'evoluzione che ha ispirato il gruppo capitolino punta nella stessa direzione. Come dire, l'effervescenza giovanile ha lasciato spazio ad un bel frutto maturo. È chiaro soprattutto in pezzi come "Chakra Temple", desertica e ammaliante, che sembra proprio una outtake del trio argentino nel momento in cui espandeva i propri orizzonti alla ricerca di corsari neri. Come è chiara l'ispirazione dietro "Black to Comm", una chiusura esemplare che tra saliscendi espressivi è il vero apice dell'intero progetto, facendo convergere il miglior hard rock con le sperimentazioni psichedeliche di tre decenni. Ottimo. Ma qualcosa parla ancora il linguaggio basico dei nostri: "Monster of the Highway" e "The Hunter" riportano l'adrenalinico power sound dei Grand Funk Raiload in avanti con l'orologio e l'episodio "If a Was a Bird" è una piacevole eccezione acustica nel classico timbro stilistico della band. Qualcosa è cambiato. Sicuramente la nuova lineup ha dato nuovi stimoli a Mr. Fiori, vero deus ex machina del progetto. E sicuramente questi nuovi stimoli porteranno una luce nuova sul prossimo full lenght del combo. D'altra parte la contaminazione risulta sempre essere meglio delle singole parti che la compongono. Eugenio Di Giacomantonio
BLACK RAINBOWS – Superfmothafuzzalicious!!
I Black Rainbows si confermano uno dei pochi gruppi italiani da esportazione e giunti al traguardo del terzo disco ribadiscono il loro stato di salute più che positivo. Edito da Longfellow Deeds, "Superfmothafuzzalicious!!" è il consueto concentrato di rock'n'roll, hard & heavy psych ideale da gustare in macchina, magari a folli velocità su highway deserte. Certo, l'universo di riferimenti (come la proposta musicale stessa) sono risaputi. Per certi versi, anche questo è il bello. I Black Rainbows amano il rock (ascoltare testi e musiche di "Behind the Line" e "I Love Rock n' Roll" per farsene un'idea) ed il loro modo di farlo è ruvido, spontaneo, semplice. Ad esaltare sono soprattutto i riff di chitarra, le svisate hendrixiane e una sezione ritmica che fa faville. Complice una produzione davvero piena che fa risaltare tutte le sfumature di un sound pesante e corposo. E non è roba da poco.Lo stoner roccioso di "Burn Your Nation" trascina sin da subito in un immaginario a stelle e strisce sudato e polveroso, quell'antagonismo che dagli MC5 è arrivo inalterato ad oggi con gruppi come The Glasspack e Drunk Horse. Lo spirito dei Monster Magnet aleggia su "Mastermind", heavy psichedelia con i fiocchi che fa il paio con la dilatazione astrale e groovy di "Solar System" e "Mother of the Sun". "Feel the Beat" macina fuzz a botte di richiami kyussiani, mentre "Lady" guarda al passato con gli stessi occhi di The Answer e Airbourne. "Brain Circles" è puro godimento Seventies (roba da puristi, dirà qualcuno…), "Cosmic Flower Blues" chiude il cerchio con un'orgia rock (perché così breve?) che farebbe impallidire qualsiasi detrattore. Superfmothafuzzalicious, motherfuckers. Messaggio chiaro quello del gruppo romano. I feel the beat, you feel the beast, inside my hands, inside of me. Facile, no? Alessandro Zoppo
BLACK RAINBOWS – Twilight the Desert
Black Rainbows, ispirato nome dietro cui si cela la mente di Mr. Gabriele Fiori già con Void Generator (per chi non lo sapesse, una delle più valide band stoner italiche).Questo disco, registrato ormai due anni fa, è completamente opera di Gabriele che per le registrazioni si è circondato di due loschi figuri provenienti da Thrangh e Nahui. Nel frattempo la line-up si è consolidata in forma stabile con Dario Epifani al basso e Daniele Conti alle pelli e piatti caciaroni e il disco ha finalmente visto la luce. Finalmente perchè si tratta di una serie di canzoni che rafforzano l'idea che in Italia i figli dei Sabbath e dei Kyuss si stanno moltiplicando e prendendo forza. Quello che ci si trova nelle orecchie con questo "twilight in the desert" è un bell'esempio di desert rock maturo ed energico, i riferimenti a band più o meno famose del genere si sentono (Kyuss, Sabbath, Natas su tutti) ma con il marchio di fabbrica italiano nelle linee vocali. Per il maligno senso di inferiorità che continuamo a nutrire verso l'estero è doverosa la precisazione che questo disco, come tante altre produzioni italiche, non ha niente da invidiare a ciò che sta venendo da oltreconfine. Non lasciatevi influenzare dalla provenienza della band insomma, e invece lasciatevi trasportare dalle accellerazioni di "comin' down the mountains" e "follow your pattern", o dai ritmi a 100mph di "shaman visions" e "mind revo". Insomma, un'altra ottima band targata IT. Il consueto augurio alla band di devastare quanti più palchi possibile e il consueto consiglio al pubblico di alzare il volume. Federico Cerchiari
BLACK SABBATH – 13
Un album destinato a far parlare di sé per lungo tempo, "13" dei Black Sabbath. Molteplici sono i motivi: innanzitutto l'importante ruolo svolto nella storia dell'heavy music dall'eminenza sabbathiana. Poi i continui e ripetuti rumors intorno ad uno dei dischi più attesi degli ultimi anni, gli entusiasmi ed in egual misura le polemiche suscitate da questa reunion – inclusa l'esclusione di Bill Ward e tanti altri motivi di interesse. Ma le domande che attanagliavano maggiormente gli innumerevoli fan erano: riusciranno i Re a riapprioparsi del proprio trono? Saranno i grandi ispiratori del doom, gli ante litteram dell'heavy metal ed una delle principali influenze per lo stoner rock degni della loro fama? E in particolare all'altezza dei nomi che oggi accendono la fantasia dei seguaci delle suddette forme di musica e non solo?Detto questo e abbandonando l'aspetto "colorito" che ha inevitabilmente accompagnato l'uscita dell'album, le impressioni iniziali sono chiare: i Black Sabbath giocano a ripetere se stessi, o meglio ad inseguire se stessi. Già, poiché il sound sembra riportare alla memoria alcuni classici indelebili, stampati a fuoco nella memoria di molti di noi. Sorta di moderna rilettura del passato, la formula potrebbe e dovrebbe funzionare al cospetto dei giovani appassionati; viceversa c'è da supporre una tiepida accoglienza da parte dei vecchi nostalgici. Per il vecchio cuore sabbathiano di chi scrive, l'esito è non affatto disprezzabile per vari motivi. Primo tra tutti (excursus polemico incluso): se Orchid e compagnia varia vivono il loro momento di gloria grazie soprattutto alle sacre scritture dei quattro Lords of Doom, perché essi stessi non devono usufruire della medesima e fortunata "riscrittura"? Per quanto sia oggettivamente possibile analizzare l'album, "13" suona Black Sabbath. Meglio ancora, ciò che oggi sono i Black Sabbath. Nessuno si attendeva un miracolo e neppure una rivoluzione sonora: "13" non è una pagina indelebile nella storia dei leggendari ed immensi Black Sabbath. Ma chi vive questa musica come il sottoscritto, non può fare altro che farsi sedurre nuovamente dagli inimitabili riff di Mr. Tony Iommi. E poco importa se talvolta risultino déjà vu... I Black Sabbath sono tornati: mettetevi tutti in fila. Antonio Fazio
BLACK SABBATH – Black Sabbath
Fa sensazione oggi parlare di un disco la cui attualità è sotto gli occhi di tutti. Eppure sono passati quarant’anni (!) dal momento in cui John Michael Osbourne (alias Ozzy Osbourne), Frank Anthony Iommy (Tony Iommi), Terence Michael Joseph Butler (Geezer Butler) e William Thomas Ward (Bill Ward) decisero di passare alla storia.La loro avventura inizia quasi in punta di piedi. In un periodo in cui i leggendari Beatles stavano per segnare il passo, i nostri fanno i conti con il rock degli ormai famosissimi Rolling Stones, la straripante creatività dei Led Zeppelin, la psichedelia innovativa dei Pink Floyd. Tuttavia, ben presto ci si accorge che il loro heavy blues ha qualcosa di anormale rispetto alla massa. I Black Sabbath mostrano delle notevoli diversità già a partire dalla copertina del loro esordio che raffigura una creatura femminile completamente vestita di nero ai bordi di un bosco, una specie di sacerdotessa del “sabba” che alle proprie spalle ha un castello sinistro ed inquietante. Abbiamo parlato poc’anzi di heavy blues (così come Butler amava definire la musica del gruppo) ma un heavy blues lento, opprimente, atmosferico, miscelato ad una certa psichedelia a far da contorno (anche se ridotta all’osso in questo primo parto). Prendiamo la title track che apre il disco: in principio si sente lontanamente il rintocco di una campana accompagnata dal rumore della pioggia. Praticamente una colonna sonora per film horror. È l’inizio di quello che oggi viene comunemente definito doom metal. E già avremmo dovuto capire cosa aspettarsi dalla band di Birmingham da qui in avanti. Se “The Wizard” e “Behind the Wall of Sleep” sono due brani in qualche modo debitori dei Led Zeppelin, con la successiva “N.I.B.” si ritorna nel buio più totale soprattutto per quanto concerne i testi. Con questo pezzo il gruppo è apertamente accusato di satanismo e si trova ad affrontare non pochi problemi. Straordinario il giro di basso di Butler che fa da intro alla chitarra di Iommi quasi in stile Cream. Non molto azzeccata è invece la scelta di piazzare come singolo “Evil Woman”. In realtà si tratta di una cover di una band sconosciuta, i Crow, che non lascia il segno. Diversa invece risulta “Sleeping Village” con un inizio molto sofferto e la voce nasale di Ozzy a subentrare prima di un altro assaggio tipicamente rock blues. “The Warning” è un brano quasi interamente strumentale in cui il gruppo dimostra una notevole padronanza tecnica, mentre “Wicked World” è un altro blues stravolto con repentini cambi di tempo, per chiudere l’album in modo sontuoso. Con questo lavoro vengono gettate le basi per quello che in futuro sarà chiamato heavy metal. Con i successivi dischi, il passo sarà compiuto. Come affermato da Peter Steele (Type O Negative): «A mio parere i Black Sabbath sono coloro che hanno dato vita a ciò che oggi siamo soliti considerare heavy metal. Non c’è una band in giro che non sia stata influenzata in qualche modo da loro». Sante parole. Maestri. E questo lo aggiungo tutti noi. Cristiano Roversi
BLACK SABBATH – Sabotage
Black Sabbath: il gruppo che più di tutti ha influenzato le band delle successive generazioni. Sono stati fondamentali nella nascita della maggior parte delle evoluzioni che il rock dei seventies ha subito nei decenni successivi, per non parlare dei riff di Tony Iommi; principale ispirazione ancora oggi per migliaia di chitarristi. In una parola: Leggenda.Tra il 1970 e il 1975, i Black Sabbath pubblicarono sei album che hanno rivoluzionato il rock, donando alla propria musica una forma ora opprimente, ora epica, ora sinistra; un tourbillon di emozioni e di sensazioni ben radicate però nel blues, nell'hard rock e in quell'irripetibile feeling dei seventies. Di questo periodo d’oro, purtroppo mai più eguagliato in seguito, fa parte Sabotage del 1975, album che malauguratamente segna anche il lento ma inesorabile declino della band (pur se con qualche ottimo acuto con Ronnie James Dio alla voce). Ciò che si nota in quest'album è una maggiore coesione e strutturazione dell'opera rispetto ad esempio a Paranoid o all'omonimo debutto, oltre che una maggiore dinamicità nelle soluzioni adottate. Difatti dall'apertura corale di "Hole In The Sky" (impossibile resistere) si passa allo stacco acustico di "Don't Start (Too Late) per arrivare a "Symptom Of The Universe", secondo il mio modesto parere il più grande pezzo scritto dal quartetto di Birmingham. "Symptom Of The Universe" è un brano epocale; da quel riff semplice quanto devastante all'incedere epico e gli stacchi pirotecnici e venati di progressive. Monumentale. “Megalomania” ha un’atmosfera molto rarefatta: la voce riverberata, la chitarra più oscura del solito, un basso sornione e una chitarra acustica che accompagna ottimamente il tutto. Tutto questo fino a quando Iommi non sfodera uno dei suoi riff duri quanto trascinanti; il ritmo aumenta e sfocia in un assolo pirotecnico e in una performance vocale di Ozzy da incorniciare. “The Thrill Of It All” inizia con un gran pezzo strumentale, passando per un bel riff ottimamente supportato dal sempre incredibile lavoro dietro le pelli di Ward, e termina con un finale buono, seppur abbastanza spiazzante. “Supertzar” è la traccia più sperimentale dell’intero album: un riff epico e massiccio ed un imponente muro di cori, prima maschili poi femminili, che ne seguono la melodia principale creando un’atmosfera davvero maestosa. La seguente “Am I Going Insane" è un perfetto singolo radiofonico, seppur calato in una generale atmosfera acida. In seguito Ozzy spiegò che questa traccia nacque solamente per via dello stress accumulato all’epoca, periodo in cui il music business cominciava ad opprimere seriamente il gruppo (non a caso, la crisi cominciò dopo quest’album). L’album si chiude con “The Writ”, brano altalenante ma ugualmente molto incisivo. Un album fondamentale seppur leggermente inferiore rispetto alle altre cinque pietre miliari del gruppo, certamente da rivalutare, considerata la generale diffidenza verso quest'opera, soprattutto da chi ritiene che il periodo d'oro dei Sabbath sia terminato con Sabbath Bloody Sabbath. Daniele Salvatelli
BLACK WILLOWS – Haze
Sebbene il nome – nei canoni del genere, per carità – non sia proprio il massimo e non salti propriamente all'occhio, i Black Willows riescono a convincere, a evocare demoni e presenze di fumo e nebbia. Le atmosfere di "Haze", nove tracce psichedeliche e personali, oscillano tra Oriente e Occidente in un'amalgama onirica capace di toccare i centri nervosi più remoti. Ieri ascoltavo "Space Rituals" degli Hawkind, e mi trovo ancora su quella frequenza, ascoltando "Haze". Musica per organi caldi, direbbe l'amico Bukowski. L'album dei Black Willows risponde ai miei personali criteri di giudizio musicale: è sexy, sporco e fluido. I brani si susseguono lenti e cadenzati, con un ordine ben stabilito. Le influenze classiche e la pesantezza delle mani sugli strumenti, si alternano svicolando e scivolando su un continuum di psichedelia tra antico e moderno. I Velvet Underground risuonano dal fondo della scatola di Schrödinger, insieme a suoni più vivi che morti (alcuni punti di questo disco ricordano le atmosfere dei Puscifer e – immancabili – i Black Sabbath nelle battute finali). Passione e personalità traspaiono dal lavoro dei Black Willows che – tra le righe – è una formazione di Losanna. Una donna (Mélanie Renaud) nella line up, alla chitarra. Una voce dal timbro ipnotico. Sezione ritmica oscura, gente dalla mano pesante. Ci piace.
Pezzo più cazzuto: "Velvet Diamond". Pezzo preferito e consigliato: "Apache". Pezzo romantico: "Haiku". In fede, S.H. Palmer
BLACK WILLOWS – Samsara
"Samsara" è il secondo lavoro dei Black Willows, formazione svizzera di ottimo gusto e tempismo. Quasi tre anni sono durate ricerca dei fondi e realizzazione delle 6 tracce – lunghe, ossessive e dal respiro pesante sulla giugulare – di questo disco ben fatto e più che discreto, che svetta in alto nella mia personale classifica del 2016 musicale.
Parlandoci chiaro, la scena "stoner-psych" bla bla bla, è sempre più satura e non se ne può più. Diventa difficile discernere un buon disco da un ammiccamento pubblicitario, da una trovata sorniona à la "female fronted band" e via discorrendo. Ho ricevuto anche questa volta il disco per posta. All'antica. Un disco leggero, dalla grafica minimale. Dai contenuti precisi e insieme affabulatori. Le influenze sono quelle che sono: solo influenze. Il gusto traspare tra le note di ogni pezzo, in una spirale di fumo che passa dai Tool di fine anni '90 all'amore per l'Oriente, finendo nel tipico oscuro lato dell'Europa (Electric Wizard, Cathedral, a tratti My Dying Bride), sebbene l'album sia stato registrato e masterizzato negli Stati Uniti (da Erik Wofford ai Cacophony Recorders di Austin, in Texas).
"Morning Star" occupa lo spazio mentale e metaforico in un mantra nero che dura anche formalmente la metà del lavoro. "Mountain" alza il livello creativo con un riff potente. Adorabilmente melanconico è il leitmotiv che trafigge "Samsara", dove la poetica del male si accosta al decadentismo minimale della modernità. Un passo indietro – cronologicamente parlando – che spiega la qualità della musica stessa, lontana quanto basta dalla nuova ondata face psichedelica degli ultimi anni. Solve et coagula. In fede, S.H. Palmer English Version I remember – as if it were yesterday – that moment I've found the letter from Aleister Crowley in my mailbox. At the time I lived (in) Berlin. It was a bit weird, but an absolutely awesome feeling run through my spine. The same feeling I've felt under the palms of the hands, when (this time in Cologne) I've found my copy of "Samsara" at the bottom of my dark green metal box. I actually appreciated a lot kind of kind people. And Black Willows are both talented musicians, gentle raw souls (as it can be seen and heard) and kind spokespersons.
"Samsara" is the sophomore I was waiting for, this year. I read through the lines of a couple of social networks, the guys were trying to fund themselves since the debut of "Haze" (their first work, I reviewed for Perkele three years ago). Six tracks. Long tracks, as the concept itself demands. And the old-fashioned – in a positive way – taste of Black Willows strikes again. This work reminds me of a strange "crossroad" company, I think.
The devil whispers – Triton somehow – the obsessive instrumental parts. Delayed, slow and heavy megaphone reverberates in a cloudy bowl of gloomy (although shining) smoke. Something between "Aenema" – the 1996 masterpiece of Tool, and the whole Electric Wizard taste crawls and climbs from the depth with a little help of Lee Dorrian and Aaron Stainthorpe. Even a soft Wave, a thin line between a fine European taste of distortions and an obscure mantra culture of bold hallucinations, which blows indeed from the extreme east.
Best moments can be found in "Mountain" (officially the best riff of the album), "Jewel in the Lotus" (15 very intense and summarizing minutes) and "Sin" (8 minutes long precious little gem), even if the Devil came out and played his tricks during the "Morning Star" minstrel flavoured mantra. Dark clarity and spontaneous refined decay, are the keys of this black geometrical outcome. As above, so below. Faithfully yours, S.H. Palmer
Blackbird Hill – Midday Moonlight
Un suono grass blues è quello che esce dalle casse una volta inserito Midday Moonlight, il dischetto d'esordio dei Blackbird Hill. Duo francese di Bordeaux, Alexis Dartiguelongue (chitarra, voce) e Maxime Conan (batteria, voce) ricordano i nostri There Will Be Blood ma con un appeal più commerciale. Una ballad come Horseback Sight non sfigurerebbe certo in un film di Tarantino, così come Midday Moonlight potrebbe essere giusta consolazione per gli orfani dei White Stripes e 16 Horsepower. I restanti quattro pezzi sono sulle coordinate delle dodici battute che dopo i Black Keys hanno convinto più di un produttore ad investirci i soldi e più di un ragazzino ad imparare a suonare la chitarra. Va da sé che Howlin' Wolf, Muddy Waters, Willie Dixon e tutti gli altri artisti della Chess Records erano altra cosa, a cominciare dalla ribellione/rivoluzione che rappresentavano. Ma questa è, come si suol dire, un’altra storia. https://www.youtube.com/watch?v=7f3wefivFoc   Eugenio Di Giacomantonio  
BLAST, THE – Everybody wants to change the world… but not themself
Nuovo prodotto dell’underground italiano, The Blast si propongono a stampa ed appassionati con l’esordio “Everybody wants to change the world… but not themself”. Titolo eloquente per un lavoro molto interessante: rock a 360 gradi, capace di spaziare tra la tradizione rock italiana, crossover, hard dei ’70 e colorate virate psych. Tempesta (voce e chitarra), Sbunna (batteria), Remus (tastiere) e theUnNamed (noise & sounds) - nota negativa per i nomignoli terribili che consigliamo di cambiare - hanno ottime idee e discreta tecnica, sanno creare canzoni piacevoli e mutare bene registro senza mai annoiare l’ascoltatore.Piacciono molto le chitarre sature e distorte che bagnano “I die for all the things she says” e “Baciami”, così come le ‘dolci sfuriate’ di “As I was blind”, “Disperso nell’aria” e “Tossina”, i cui testi in italiano funzionano a dovere. C’è anche il tempo per un paio di ballate (“Unghie rotte (memorie di un condannato a morte)”, “Paracetamol”) - poste sapientemente tra i momenti più tirati per dare maggior respiro al disco - e per qualche variazione elettronica (“Your right”). A completare l’opera troviamo 3 ghiotte bonus track. La registrazione evidenzia limiti palesi, tuttavia è una buona occasione per farsi un’idea di suggestioni e stimoli che hanno influenzato i quattro. “Il Partigiano John” è ripresa dal repertorio degli Africa Unite e proposta in chiave hard; “Jack Strappamutande” sottolinea la carica dei Blast dal vivo; “Sweet” è una demo che non rende del tutto giustizia sulla bontà della band, ancora lontana dalla maturazione che si può invece apprezzare nel resto del disco. Alessandro Zoppo
BLEEDING EYES – A Trip to the Closest Universe
Il nome dei Bleeding Eyes si aggira quatto quatto nell'underground da diversi anni ormai, preceduto dalla fama di gente che si sa divertire, e chi li conosce questo lo sa bene. La Go Down si accorge di loro e rilascia questo interessante "A Trip to the Closest Universe", che li vede alle prese con una varietà stilistica maggiore rispetto al passato: sì sludge ma anche psichedelia, sì stoner ma in grado anche di smorzare i toni quando serve. Tre pezzi su sei sono cantati in italiano, con testi visionari e folli, come l'iniziale "Arrotino", ma anche "Pozzo senza fondo" che recita con cinico umorismo la vita è una tragedia, non facciamone un dramma. L'indole lisergica della band veneta viene messa pienamente in mostra nella bellissima "Terzo occhio", che svela anche il lato più sensibile dei Bleeding Eyes. La lingua madre è ben modellata sulla base strumentale, tanto da suonare molto esotica ad un orecchio poco avvezzo alla lingua di Dante.I tre pezzi in inglese sono altrettanto validi, a partire da "Cruel World" in cui la voce di Simone ricorda un giovane Ben Ward in erba, e la canzone stessa è accostabile agli stessi Orange Goblin per groove e puzza di carburante. "Barrage" è sludge doom all'ennesima potenza, con riff di chitarra che susciterebbero l'approvazione di un Jimmy Bower, tanto per dirne uno che nel fango ci sguazza. La conclusiva "From Here On It Will Only Get Worst" sembra suggerire che peggio di così non possa andare, ma in realtà qui va sempre meglio. Il brano racchiude in oltre 11 minuti tutte le sfaccettature di cui abbiamo parlato finora, con un gran finale di distorsioni e violini, sancendo la maturità di questi 5 ragazzacci della provincia trevigiana. Un disco che attesta la sana e robusta costituzione della scena heavy psych italiana. Davide Straccione
BLEEDING EYES – One Less to My Last
Ha iniziato ad attecchire da un po' di tempo lungo lo stivale anche il tipico metal/sludge, dopo che per anni le band italiane hanno preferito frequentare in massa altri estremismi (soprattutto black, death e metalcore), e ci pensano i veneti Bleeding Eyes a realizzare un platter competitivo che trasuda melmosa violenza da ogni solco.L'EP "One Less to My Last" è prodotto da Steve Austin direttamente nei suoi studi di Nashville e di conseguenza il sostrato sonoro ricalca alla perfezione l'impatto disturbante di Raging Speedhorn, Soilent Green, Iron Monkey e Crowbar, arricchito di violenza death-core (vengono in mente anche Obituary e di riflesso naturalmente Today Is the Day). Cinque colpi di mannaia a partire dall'ottima "33 Papers Left" che alterna con efficacia riff circolari e accelerazioni ai limiti dell'hardcore, seguita da "Empty Crosswords", festa di sangue sludge debitamente mescolata col death metal. "The Ring Of Fire" prosegue il discorso lasciando intravedere anche qualche influenza sudista - sempre ricoperta di esagerate limacciosità metalliche - e idem dicasi per la variegata "A Question of Light", che condensa tutte le influenze dei Bleeding Eyes, praticamente inappuntabili nello spaccare le ossa. Non può mancare la conclusione di esasperata pesantezza (come se fossimo reduci da una passeggiata, N.d.A.) affidata a "The Long Slow Trip", da ascoltare sotto antidolorifici, che oltre alla consueta spremitura di feedback offre pure parti vocali deturpate, coronando una tortura complessiva di una ventina di minuti che non sfigura coi nomi del settore. Rob Mattei
BLENDED SKY – Introduction to liquid space time
A giudicare dalla cover e dai titoli dei brani si ha subito l’impressione di trovarsi dinanzi ad un gruppo space rock. Invece i francesi Blended Sky varcano i confini della musica psichedelica per gettarsi a capofitto in un incrocio di metal, stoner, hard e sludge rock. Nelle composizioni di Jack (voce), Chandler (chitarra), Xox (basso) e Pat (batteria) aleggia prepotente e minaccioso il fantasma dei Melvins: come non pensare alle sonorità ruvide e pastose di “Houdini” e “Stag” ascoltando “The marvel secret” o “Divine will”.“High mummy” ha un groove fitto ed asfissiante, lentezza catatonica e aggressività metropolitana tipica di certo sludge core. “Off stuff” ha un giro ‘sabbathiano’ virato al metal psichedelico, mentre riff e ritmiche della conclusiva “Allenski” pulsano stoner rock e attitudine hardcore. Se solo la registrazione di questo “Introduction to liquid space time” fosse meno pastosa saremmo già al cospetto di una rivelazione, fieri portatori di ‘stoner rock n’ roll from outer space’. Alessandro Zoppo
BLESSING THE HOGS – The Twelve Gauge Solution
Il mago della produzione Billy Anderson, famoso per i suoi lavori con Melvins, Mr Bungle, High On Fire, Eyehategod, Neurosis e molti altri, si propone in veste di chitarrista in questi violentissimi Blessing The Hogs (non al primo lavoro, ma ignoro le precedenti produzioni), band che offre un metal alquanto estremo e disumano. Tredici schegge di assurda violenza racchiuse in un CD che si rivela a dir poco spaventoso, nonché perfetto dal punto di vista dell'esecuzione e della registrazione (ovviamente c'è lo zampino di Anderson). Niente compromessi, nessuna possibilità di tirar fiato, il CD scorre su binari alquanto pesanti, con l'unica concessione di rallentare appena i ritmi di tanto in tanto ma mantenendo inalterato l'atteggiamento bellicoso della band. Non saprei indicare qualche pezzo in particolare degno di nota visto che il livello di tensione e qualitativo è pressoché uniforme, anche se è giusto segnalare la presenza di un paio di cover: Fazer dei Quicksand e Hogleg dei mitici Melvins, resa in modo personale ed efficace mantenendo intatto il malsano fascino dell'originale. Un disco di qualità, alquanto ostico però per chi è estraneo a certi estremismi metal.P.S.: Il CD offre anche una sezione con il video di Let's Play Doctor… Kevorkian, foto varie e lo spassoso gioco Metal Man, un Pac Man con protagonisti i membri della band! The Bokal
BLINDMANN – Mind altering
I Blindmann sono una giovane formazione di Jyväskylä (Finlandia), nota cittadina ricca di università e per questo piena di fermento musicale in ambito rock. Nati nel 1999, giungono alla produzione di un primo CD l'anno successivo. Un secondo album è stato pubblicato nell'estate del 2002, mentre quello che andrò a recensire è il terzo lavoro autoprodotto quest'anno. Il sound dei Blindmann sembra uscire direttamente da Seattle. Riff possenti sostenuti dalle due chitarre di Petri Lindström e Jussi Timonen. Cambi di tempo repentini, coadiuvati dall'ottima sezione ritmica composta da Vellu Virtanen al basso e Pasi Manninen alla batteria (recentemente sostituito con Pekka Rinne) e la splendida voce di Jussi Virkajärvi che riesce a coniugare James Hetfield e Layne Staley in un condensato di melodia e rabbia. La produzione è decisamente sopra la media per un lavoro autoprodotto mentre appare un po meno curato l'artwork. Tra i vari brani risalta sicuramente "Cave" che combina, oltre alle predette qualità vocali di Jussi, una serie di riff grassi in pieno stile stoner. "The edge of the world" si spinge su canoni metal più consoni alla Bay Area di storica memoria Thrash, mentre "Paralyzing day" è sicuramente da annoverare come la song più oscura dell'intero album. Sonorità più sabbattiane con assoli che si rincorrono in un turbine metallico dalla potenza inaudita. "Would you give up" resta comunque il mio brano preferito, una colata di groove anni '70 addolcita dal morbido arpeggio della sezione centrale. L'album si chiude con l'ottima "Human pawn" che a fronte di un intro che farebbe pensare ad una ballata, si trasforma in una cavalcata metal furibonda condita da fuzz guitar e assoli in pieno stile stoner. I Blindmann hanno tutte le caratteristiche per poter firmare con una casa discografica. Riescono a convincere non tanto in virtù di un'originalità che sicuramente manca, quanto per la capacità di riuscire a miscelare quanto di meglio possa aver detto il rock negli ultimi vent'anni. Peppe Perkele
BLIZZARD OF LIZARD – Blizzard of Lizard
Album d'esordio per i Blizzard of Lizard, power trio milanese. Lavoro autoprodotto che si apre con "Beware the Mad", brano da struttura stoner metal, richiami all'hard rock e chiusura funky blues che mostra un'apertura all'esplorazione da parte dei tre. Si prosegue con "The Rage Blooms in My Soul", ancora sospesa tra hard rock e stoner metal, ricca di fuzz e wah wah: ad un primo acchito sembrerebbe nulla di nuovo, in realtà la band pur muovendosi in territori più volte "saccheggiati" dimostra una certa personalità. Soprattutto riesce a non cadere nell'ovvio. Con "Baba Lava" si cambia registro, passando ad una sorta di desert funk rock, momento bluesy e tra i più ispirati del lavoro."Undersound" è un vigoroso rock'n'roll, Van Halen meets stoner, a conferma di un background di tutto rispetto. Arriviamo poi a "Firebird", ancora atmosfere funky e stoner tinte di southern; "Blizzard Theme" è avvolta da colori heavy black e il fantasma dei Primus riaffora più che in altre tracce, mostrando tutta l'abilità tecnica del gruppo. "Grey Town" torna su sentieri metal con accenni prog e il riffing di matrice heavy psych: brano complesso ed essenziale, che fa da apripista alla rilettura in chiave Blizzard del classico "Sabbath Bloody Sabbath", rivisitazione davvero buona. Chiude l'album "Lizard Theme" e ancora una volta riaffiorano le variegate influenze della band: funk, blues, un'interessante fusion jam che pone fine ai giochi. Interessante esordio questo dei Blizzard of Lizard, un gruppo che pur proponendo sonorità ampiamente consolidate mostra una certa padronanza tecnica e una discreta abilità in fase di songwriting, tra hard rock, stoner metal, funky, sprazzi di soul, gusto bluesy ed anche una sana dose di ironia. Le influenze richiamano Funkadelic, Primus, Van Halen, Joe Bonamassa, l'hard, lo stoner e persino grossi nomi della fusion quali Mahavishnu Orchestra. Al primo colpo il bersaglio è centrato. Antonio Fazio
BLOOD FARMERS – Permanent brain damage
Alziamoci in piedi e facciamo un doveroso applauso alla Leafhound Records, etichetta giapponese che a più di dieci anni di distanza dalla sua uscita riporta alla luce "Permanent brain damage", storico demo tape dei grandiosi Blood Farmers.Edito originariamente nel 1991, il dischetto era rimasto sepolto per molti anni a causa dello scioglimento della band. Ora la Leafhound compie questa opera meritoria e ci rivela il fascino sinistro e la carica oscura di un vero e proprio gioiello doom. Eh sì perché il gruppo capitanato dal chitarrista Dave Depraved sfoggia un sound legato a certi stilemi marchiati Black Sabbath/Saint Vitus, aggiungendo tocchi geniali di psichedelia e classico '70 hard rock. Il tutto condito da un immaginario che rimanda agli horror movies di serie b (a quanto pare grande passione dei quattro). A parte le infuocate orge di chitarra (incredibile di lavoro di Dave!), balza all'orecchio la voce possente ed evocativa di Eli Brown, molto bravo nel coinvolgere ed emozionare con le sue litanie tetre e decadenti. Completano la formazione Dr. Phibes al basso e Eric Jakob alla batteria, motore ritmico compatto ed instancabile. Il cd in questione presenta sei tracce: le prime cinque risalgono al demo del 1991, la sesta è "Awakening of the beast", bonus track strumentale tratta da una sessione live eseguita nel 1996, ultima testimonianza dei Blood Farmers prima del loro scioglimento. E' un vero peccato che un gruppo del genere non sia ancora più in giro, avrebbe molto da insegnare a chi si accinge da poco con la bollente e drammatica materia doom. L'iniziale "Behind the brown door" è già di per sé un piccolo capolavoro, quattordici minuti di heavy psych doom dall'elevato tasso lisergico, giocati sugli intrecci dei solos e sul chorus dannato intonato da Eli. La successiva "Bullet in the head" è più diretta e penetrante, accompagnata da una serie di riff che ti prendono tra capo e collo, come un colpo di pistola al cervello appunto… Tocca poi a "Veil of blood (Scream bloody murder)" rallentare i ritmi, 100 per 100 puro doom, nessuna limitazione, qui si pesta duro e lento, punto e basta! "St. Chibes" è un episodio più hard e grezzo (una sorta di Blue Cheer in chiave doomy), trampolino di lancio per la conclusiva suite "Deathmaster": cinque parti per quindici minuti complessivi durante i quali accade di tutto, passando dal doom all'heavy psych con facilità estrema, testimonianza di una forte personalità e di un gusto compositivo davvero sopraffino. Un solo consiglio: fate vostro questo disco finché siete in tempo, gruppi come i Blood Farmers ne esistono pochi! Alessandro Zoppo
BLOOD RED WATER – All the Ills of Mankind
Quando si decide di addentrarsi nelle viscere paludose e fangose dello sludge doom, un denominatore comune e basilare resta quello del verbo sabbatthiano. Non scopriamo assolutamente nulla, perché a questo concetto non sfuggono i Blood Red Water, quartetto veneziano per natura già avvezzo alla palude. Partendo da riff dai chiari riferimenti ai maestri inglesi, i quattro arricchiscono e personalizzano il loro sound con elementi di sicuro interesse quali un'atmosfera horror e densa di sarcasmo. La formazione veneta fa le cose seriamente ma senza prendersi sul serio: per capire meglio basta partire dal recente passato. Questo "All the Ills of Mankind" è il loro secondo lavoro ed esce un anno dopo l'esordio del 2012, l'EP "Tales of Addiction and Despair". Se nel debutto la band mostrava un'attitudine distruttiva aizzandosi a paladini dell'extreme sludge crudo e grezzo, in questa seconda uscita il gruppo affina alcuni piccoli difetti palesati in passato mostrando una crescita tecnica e di songwriting. La musica dei Blood Red Water resta heavy e cupa ma con maggiore rilevanza nei particolari, seppure la crescita ci sia stata resta comunque un progetto alla ricerca di un'impronta definitiva. Dettaglio questo che i ragazzi non tarderanno a trovare. In "All the Ills of Mankind" il risultato non è per nulla disprezzabile: la band porta in dote cinque brani dai molti sapori. Il lavoro si snoda in momenti cui l'impronta sabbatthiana risulta essere un imperativo, non si parla di clonazione ma di innegabile influenza, momenti cui ci si addentra nello sludge piu rude e "classico" e che avvicina la formazione ad acts quali Electric Wizard, Burning Witch e Acid Witch – con questi ultimi sembra esserci più di un'affinità. I quattro hanno più di un'opzione poiché sanno misurarsi anche con forme stoner rock e southern doom, denotando inoltre un'effimera vocazione hardcore a tratti persino crust. Pur muovendosi essenzialmente in territori sludge stoner doom, i Blood Red Water mostrano anche un gusto retro rock di matrice 80's grazie all'influenza che i Motorhead hanno certamente esercitato sul background del combo veneziano. Ed inaspettamente arrivano a toccare suoni death rock in particolare nel brano che chiude l'EP, "Thundersnow in Venice" (un titolo un programma), grazie anche alle backing vocals di Fiorica che dona quel tocco gothic ad arricchire un dischetto di sicura presa e da notevoli spunti di interesse. "All the Ills of Mankind" è un buon EP, i Blood Red Water sono da tenere d'occhio. Antonio Fazio
BLOOD RED WATER – Tales of Addiction and Despair
Chemical imbalance and feedback dementia since 2010. Si presentano così i veneziani Blood Red Water ed in effetti la definizione calza a pennello. "Tales of Addiction and Despair" è il loro primo lavoro, un EP di cinque pezzi che mostra un gruppo in palla, a proprio agio con atmosfere da lagune melmose e complessi industriali in disfacimento. Sludge stoner doom for drug-addicted. Hardcore old-school metal for Xanax fans. Marghera diventa spettro per una proposta sonora rozza, non ancora del tutto personale, slabbrata il giusto e con ampi margini di miglioramento. In tal senso una produzione più incisiva e qualche variazione nelle composizioni (il groove, signori!) non potranno che giovare al futuro della band."Ungod" immerge subito nel marciume nero e dannato dello sludge, su quella linea sottile che dai Black Sabbath porta dritto a Eyehategod e Iron Monkey. "Considerations/Commiserations" è trianata da un riff cavernoso di marca Cavity, "Avoid the Relapse" ha un andamento punk death quasi allegro, "Modern Slave Blues" porta lo spirito di Bongzilla ed Entombed a definitiva saturazione alcolica. "The Perfect Mix" termina le danze (macabre) con una sfuriata lurida e perversa che sa di gin ed Electric Wizard. Alcohol, drugs, porno, paranoia & emotional distress. La ricetta dei Blood Red Water è decisamente più appetitosa di quelle di Benedetta Parodi. Alessandro Zoppo
BLOOD THIRSTY DEMONS – Mortal Remains
L'heavy metal merita di ritrovare considerazione, dopo che per troppi anni le derive bombastic - fatte di iperproduzioni fredde, goticismi edulcorati, estremismi claustrofobici quanto sterili, ed epos artefatto - hanno funestato la scena metallica, cosa che ha rischiato seriamente di alienare le simpatie di parecchi rockers sanguigni (e non per forza della vecchia scuola).Molti musicisti hanno saputo reagire con orgoglio dall'interno di questo mondo, senza piegarsi al conformismo imperante per compiacere il pubblico, e la riprova lampante ne è il riemergere di generi 'tradizionali' come l'epic e il thrash, rinvigoriti giurando fedeltà alla matrice originale: si è trattato solo di reinterpretare questa musica con la credibile convinzione e pathos finalmente ritrovato, apportando energie fresche che non possono che fare piacere. Tra i settori più interessanti c'è l'horror metal, quel particolare filone che interpreta le prelibate atmosfere del dark sound psichedelico 60/70 (Black Widow, Agony Bag, Atomic Rooster, Coven) secondo i canoni del power e del doom, e ricorrendo anche a folate thrashy quando necessario. I Blood Thirsty Demons hanno già una discografia sufficientemente copiosa al riguardo, e l'ultimo "Mortal Remains" non fa che confermare la loro totale dedizione ad atmosfere sepolcrali e demoniache, realizzando l'ennesimo disco che impasta i Death SS (periodo Heavy Demons) con Mercyful Fate, Pentagram, Megadeth (primi 3 album), Minotauri, Sarcofagus, qualcosa degli Annihilator, Ripper, Cathedral e Angel Witch. Dopo la classica maligna intro con tastiere liturgiche e voci sgomente, si può tranquillamente partire per un viaggio grand guignol senza ritorno, tra ululati, nitriti e voce narrante in pieno gothic movie sessantiano, che alzano il drappo a "Symphony of the Grave": arioso e spettrale (ma pesantemente heavy) traditional metal sabbathiano dotato di accelerazioni power thrash, con tastiere e basso molto dark, e insieme alla successiva "Time to Die" - il cui riff doom portante sembra estrapolata da un disco dei Sarcofagus - inquadrano già quasi completamente il sound del disco. "Deadly Sins", "End of Days" e "Welcome to My Funeral", seguono schemi decisamente consoni a quanto ci si possa attendere: riff taglienti e chorus grezzi ben adatti alla voce posseduta di Christian, arricchite di parti darkeggianti evocative. "Day By Day" si concede a melodie sulfuree con il bell'arpeggio iniziale, per poi incattivirsi con cadenzati fraseggi che portano al crescendo di aspra durezza. Un'altro intermezzo teatrale, fatto di scrosci di temporale e frasi impronunciabili, presenta uno dei pezzi più rapaci, ossia "Upon The Cross", seguita dall'ottima "Roads of Amenti", dark-metal molto intenso, con forse le parti solistiche (chitarra e tastiere) e il rifferama migliori dell'intero lotto. "Mortal Remains" è molto godibile, anche al di fuori della cerchia degli appassionati Roberto Mattei
BLOW BACK – Demo 2005
La Svezia si conferma fucina di talenti nell'odierno panorama heavy psych e non smette di sfornare band di ottimo livello. Ultimi arrivati sono i Blow Back (allusioni sessuali dietro questo nome?), quartetto di Orebro che debutta sulle scene con una demo cd di cinque pezzi veramente valida. C'è da dire innanzitutto che il gruppo non si discosta poi molto dalle classiche sonorità che hanno fatto la fortuna dello stoner rock. E che la registrazione non è proprio ottimale. Ma i quattro hanno dalla loro un certo gusto compositivo degno di nota e una piacevole vena hard rock tipicamente anni '70 che li eleva al di sopra della media.Le coordinate sonore riecheggiano infatti i fasti di Kyuss e Orange Goblin, ma spesso e volentieri vengono fuori richiami al fantastico mondo hard & heavy dei '70, specie nelle fasi di chitarra e voce. Ciò è evidente in particolare in un brano come "I've lost my mind", aperto da una introduzione acustica e condotto poi su sentieri psichedelici. Altrove invece risaltano le ondate stoner rocciose e coinvolgenti (l'iniziale "Screaming my name", la sulfurea "Troll"), mentre "Lady in black" fa tornare alla mente il lavoro svolto dai connazionali Generous Maria. La conclusiva "Insanity" chiude il cerchio con un riff sabbathiano virato al boogie, altro punto in più per i fantasiosi e massicci Blow Back. Siamo sicuri, di questo "risucchio" sentiremo presto parlare, non solo nei film porno. Alessandro Zoppo
BLUE CANTINA, THE – The Laguna Sessions
Potrei tranquillamente dire che questo ep è imbarazzante per bruttezza e la proposta musicale ha lo stesso apporto qualitativo dell'ultimo greatest hits di Gatto Panceri. Sempre che ne abbia fatto uno. Potrei dirlo e l'interessa di critica e sostenitori , per i The Blue Cantina, non si sposterebbe di un millimetro, alla luce del fatto che Rockerilla, Rockline, La Stampa, ondalternativa e non ricordo chi stravedano per questa band. Solo che se dicessi che sono una manica di pagliacci, sarei il primo a meritare l'appellativo di “pagliaccio”.In effetti i riconoscimenti vinti dalla band (MEI '04, Ravenna Big '01, Sanremo Rock '05, trend & Blues...tutti vincitori o comunque sul podio) sono dati obiettivi, così come l'esposizione mediatica ottima su canali nazionali (Raidue, Scalo 76, Sky, Sportitalia, RockTv, Italia) è sicuramente qualcosa da prendere in considerazione. Per non parlare del fatto che abbiano aperto spettacoli di vari artisti (Shandon, Toto & tarantula, Beppe Grillo), ed ultimo ma non ultimo che questo ep l'abbiano registrato al red House di Senigallia, dietro la supervisione di Andrea Venetis. In sintesi è anche noioso quando devi recensire un ep di un artista che è emergente solo a livello formale, perchè i The Blue Cantina sono un'ottimo quartetto proveniente da Ravenna, che si dedica anima e corpo a suonare del sano, datato (perchè oggettivamente non c'è innovazione, ma questo non è assolutamente una pecca), sudato e divertente Rock n' Roll. Nel vero senso del termine, divertente, perchè i cinque brani si caratterizzano per la loro melodia accattivante, per il fascino dell'easy listening, ma con gusto. Non vi dovreste sentire dei poser se vi accorgereste di apprezzare The Mosquito, open track dal riff accattivante, il ritornello incredibilmente piacevole e un banjo al bacio. Né dovreste chiedervi se state tradendo il Rock se apprezzate le note di Tight, o di Fakir. Canzoni gustosissime, con testi semplici e diretti. Questi quattro ragazzi – Filo, Burdo, Sym e Luigi – ormai hanno già sfondato ed io sarei felicissimo se le classifiche e le radio fossero invase dai loro brani con quest'appeal così genuino, solare, godereccio e sanguigno. Il Rock n 'roll vicino al blues e al country, per poter riportare un po' di aria pulita nelle frequenze nazionali. Gabriele "Sgabrioz" Mureddu
Blue Cheer – Vincebus Eruptum
Parlare di rock duro, heavy, saturo e fuckin' loud non ha senso se non si rende il giusto omaggio, tributo e riconoscimento al power trio di San Francisco: i Blue Cheer hanno avuto il grande merito di influenzare, molto prima di altri, l'intero panorama duro che vedremo fiorire dagli anni Settanta in poi. Chiamateli proto-stoner o proto-metal, hard rock, acid rock o come più vi aggrada: fatto sta che 'Vincebus Eruptum' è uno dei dischi più importanti della storia, sarebbe persino inutile dargli un voto perché qui si è scritta la storia. Non vedetelo come un disco, ma come un documento che palesa il desiderio di rompere le barriere e di proseguire il lavoro intrapreso da Cream e Jimi Hendrix Experience ma con una particolarità: elevare il volume, pompandolo verso limiti che all'epoca erano imprevedibili e considerati socialmente pericolosi. Le regole sono fatte per essere infrante: questo era il motto dei Blue Cheer, che non tollerarono mai la sigla "peace & love", tipica della cittadina californiana, pur essendo pacifisti e grandissimi consumatori di droghe leggere e pesanti. L'attacco di "Summertime Blues" è quanto di più cattivo, possente, ermetico ed impenetrabile possiate sentire nella fine dei '60: acido , devastante, spigoloso, destrutturato e pushato verso lidi sonori da cui non si può evadere, a meno che tu non ti chiami Papillon. Le sfuriate psicotrope, mischiavano il vecchio blues sul binario Clapton-Hendrix, prendevano la psichedelia e la imbottivano di steroidi sotto forma di riff grassi e saturi, il tutto con uno spirito garage-protopunk come vedremo meglio nella scuola di Detroit. "Rock Me Baby" è la seconda rivisitazione di un grande classico del blues americano, ma annichilendo ogni traccia della sofferenza iniziale, scegliendo la catarsi attraverso il pharmakon della distorsione e del feedback. "Doctor Please" è una canzone sull'uso delle droghe, concetto e universo esplorato dai Cheer in maniera completamente opposta a band dell'epoca come i Velvet Underground o i Jefferson Airplane. La vibrazione si fa costante, surclassando ogni tentativo di resistenza, concentrando nella forma canzone tutti gli effetti derivati dall'applicazione di dosi massicce di droghe sopra un brano che nasce blues ma si trasforma in un mostro mitologico e spaventoso, come il Leviatano. "Out of Focus" è la Magna Charta del suono appesantito e manipolato dagli effetti, carico del virus dell'hard rock e del metal alternando la grande prova canora del bassista Dan Patterson a ritmi serrati, creati dal batterista Paul Whaley, mentre le scorribande sonore della chitarra di Leigh Stephens compiono razzie e risultano dannose come uno sciame di locuste nelle fertili campagne africane. "Parchment Farm" e "Second Time Around" scolpiscono il nome del trio magico nei monumenti granitici della storia del rock, forti di una azzeccatissima combinazione di potenza, riff fulminanti, distorsioni strabordanti perché il lavoro splendido di ogni singolo musicista è perfettamente calibrato. Questa è la Bibbia del Rock. Non si sfugge. https://www.youtube.com/watch?v=as1NcX31szs

Gabriele "Sgabrioz" Mureddu

BLUE SHOE STRINGS – For a Bottle of Coke
Padova un po' come Clarksdale, è questo quello che ci vogliono far intendere i Blue Shoe Strings con il loro album di debutto "For a Bottle of Coke". Clarksdale perché appare evidente, sin dal titolo dell'album (una citazione riguardante il bluesman Son House) che dal sound, l'incredibile passione di questi ragazzi veneti per la musica del diavolo. Un amore, quello per il blues, che viene eviscerato lungo le undici tracce di questo solido album d'esordio. Si parte subito con "Get Lost" e "Heartquake", canzoni dal groove deciso e dai riff trascinanti, per poi prendere una piega più tradizionale con "Me o' My, Me o' Blues". "I Ain't" passa un po' come il momento di stanca ma si recupera subito con "The Knife", guidata da un riff di chitarra degno del miglior Tim Sult. Se "Dead's Love Tree" è la ballad, "The Strings Go" è il rock'n'roll più sfrenato. I momenti migliori però si hanno con il dittico "Kimberley Road Blues" e la classica "John the Revelator", vero e proprio standard del blues reso celebre da Blind Willie Johnson. Quello che traspare da questa opera prima è la sicurezza dei propri mezzi, e l'ambizione del quartetto padovano che tra rimandi classici (Son House, Mississippi Fred McDowell, Muddy Waters) e moderni (Clutch, Five Horse Johnson) cerca una via per creare un proprio sound. Pur non proponendo nulla di innovativo i Blue Shoe Strings riescono a confezionare un lavoro valido, forti di una sessione ritmica trascinante e di un impatto deciso. Giuseppe Aversano
BLUESTATION, THE – Over The Top
Secondo disco per i finlandesi The Bluestation e già dall'artwork si capisce che non si scherza affatto… il terzetto si fa immortalare in toni seppiati su una collinetta nelle seguenti pose plastiche: da destra a sinistra troviamo il chitarrista Mike imbracciare un bel fucile e una simpatica birretta mentre se la ride, al centro il bassista Z Rivers sempre con un fucile e con un sorriso da ebete stampato in faccia (abbassa le dosi!) e all'estrema sinistra la mente del gruppo, il batterista e cantante Jack Knight, sgamato nel nobile gesto di… scrostarsi una merda dalla scarpa. Idoli!Questo "Over The Top" mi ha piacevolmente sorpreso. Merito soprattutto di Jack Knight, abile batterista ma soprattutto cantante eccelso dal bellissimo timbro, caldo e avvolgente. Una sorta di C.Cornell meno sguaiato e più calibrato. Va da sé che una voce del genere colora molto bene dei solidi pezzi stoner che a volte prendono un sapore grunge. Il connubio fra questi due generi, soprattutto nei primi anni 90, non lo scopriamo certo noi e nemmeno questi simpatici finnici. Però ammetto che questo mix rende affascinante e fresca una proposta che altrimenti sarebbe da annoverare nel calderone del "bravi ma già sentiti". "Bigger Than Jesus" è bollente e si avvale di una prova vocale perfetta e di riff di chitarra mai fuori posto o "sgargianti" ma fottutamente funzionali alla canzone. "Pink Sneakers" e "Pour Hommes" ripropongono l'urgenza di certi Hermano spogli del sciamanico appeal di tal J.Garcia e una polverosa "Roadkill" ci conferma definitivamente come questi tre ragazzi sappiamo decisamente il fatto loro. Bel dischetto in definitiva, tutt'altro che pretenzioso e dall'alto coefficiente di divertimento e che si fa ascoltare molto volentieri. Davide Perletti
BLUTCH – Fra Diavolo
A quanto pare sono poche le band che in Belgio si confrontano con un certo tipo di musica estrema, ancora più nascoste quelle che prendono come fonte di ispirazione gente stonata come Sleep, Electric Wizard, Yob e Earth. Tra questi emergono i Blutch, trio che molti hanno potuto apprezzare dal vivo in Italia al fianco di altri folli di nome Bongzilla. Il loro “Fra Diavolo” segue il convincente esordio “Enjoy your flight” e si posiziona su quell’onda lunga che fa dello sludge doom stordente e assatanato il proprio cavallo di battaglia. Dunque ritmiche compresse, tempi ultra slow, vocals cavernose e chitarre che penetrano in ogni singolo centimetro dell’epidermide. Drone metal con i fiocchi, duro, slabbrato, stordente, a volte anche difficile da sopportare e mandare giù, ma assolutamente acido e cattivo come richiesto dai canoni del genere. A dimostrazione di una certa asprezza d’attitudine e compositiva, tutto il lavoro può essere fatto girare intorno al sesto brano, “Orchid”: 13 minuti di grande sludge ossessivo e squadrato, ricamato su distorsioni ferali e riff che sembrano uscire dall’antro di una sibilla… Ma d’altronde anche le iniziali “Introitus”, “Chromatic thoughts”, la strumentale “Broken breath” e “Bound” procedono come carri funebri in formato panzer che spazzano via ogni tipo di resistenza. A spezzare un po’ questa lunga soffocante litania ci pensano alcuni brani più tosti e veloci (“Light as an elephant”, “Into the pinball”, “A few second”), sempre costruiti su chitarre putride e vocalizzi da strangolo ma meno catatonici degli altri episodi. A completare il quadro concorrono invece alcuni momenti convulsi e paranoici lasciati volutamente in fondo al disco: gli otto, infiniti minuti di “Pedigree” (doom da macinare i testicoli…) e i dieci minuti primi di “Requiem”, feedback e ronzii insensati presi in prestito dagli dei Earth. T’Joens, Pascal e Gin sono dei ragazzi abbastanza disturbati. Non contenti della loro insanità hanno deciso di farla riverberare sui poveri ascoltatori. Cosa dire, se questi sono i risultati siamo felici di essere diventati pazzi… Alessandro Zoppo
BOMBER – The last place on earth
Chi ha amato i grandiosi psych rockers scandinavi Seid non potrà far altro che comprare ad occhi chiusi questo "The last place on earth", seconda uscita del progetto Bomber dopo l'esordio del 1999 "O brave adventurer". Alle tastiere troviamo il simpatico e bravo Organ Morgan, accompagnato per l'occasione da Erlend B. Havdal (basso, voce), Kai Washi (chitarra), Andy Torpedo (chitarra) e Jan Egil N.Olsen (batteria). È evidente, la simpatia qui è di casa. Ma non c'è solo questo: ci sono bravura tecnica e compositiva, una freschezza di sound che sorprende ed una incisività davvero graffiante.Il sound dei Bomber è corposo, tagliente, onirico. Heavy psichedelia è la definizione più corretta. Con ampi spruzzi di progressive e di hard rock. Un pezzo come "Keep an eye on them little devils" rimane impresso nella mente sin dai primi ascolti: l'organo di Morgan è oscuro, tenebroso, poggia su una melodia vocale a dir poco fantastica. Sono sequenze del genere che ci restituiscono l'intensità di una musica capace di andare oltre modi e mode imperanti. "Bewildered and cold" ha un riff epico che travolge come pochi, per esplodere nella parte centrale quando le due chitarre si incrociano nella migliore tradizione targata Thin Lizzy. "Burn for good" è un lungo incubo elettrico elaborato con cinerea perizia ed intelligenza sopraffina, mentre la conclusiva title track è un affresco romantico sinfonico che esalta il lavoro analogico delle tastiere. Quattro pezzi forse sono pochi per farsi un'idea precisa dei Bomber. Tuttavia abbiamo fiducia perché la qualità delle composizioni è davvero elevata. Attendiamo impaziente nuovo materiale. Nell'attesa ci lasciamo cullare dai loro sogni lisergici. Il dipinto di Turner in copertina è il giusto viatico. Alessandro Zoppo
BONE MAN – II
DIY. Do It Yourself. Fallo da solo. A pensarci bene ogni opera d'arte è fatta dal genio di un individuo solo. Ma nella musica le cose sono leggermente diverse. Se sei in una band "necessariamente" non puoi fare tutto da solo. Però il termine DIY in musica assume un significato speciale. Significa: organizzati con gli amici, trovatevi in sala prove, fate le vostre cose. E se nessuno vi aiuterà, non preoccupatevi: organizzatevi da voi la stampa di album e promuovete la vostra musica in giro per l'Europa semplicemente con l'aiuto di conoscenti mossi dalla stessa passione. E così hanno fatto i Bone Man. Hanno confezionato "II" finanziandosi di tasca propria e poi giù, in giro per il continente, a promuovere la loro idea di come debba suonare una rock band. Conosciuti a Il Locale nel bel mezzo del loro tour italiano, Marian, Otzi e Arne hanno fatto uscire il loro "II" per la Ozzy Records, in tiratura limitata a 500 copie.Nell'insieme l'album suona vario e compatto in ogni sua sfumatura, captando varie influenze nel corso dei due decenni che vanno dall'esplosione del grunge alla fine di questa prima decade del terzo millennio. C'è una vaga ombra dei System of a Down in più di un episodio ("Dead Weight" e "All Eyes on Me") soprattutto nella coralità delle lyrics e in quel mix di accoramento e passione dei ritornelli ululati sul finire del mondo. Alcune volte gli arrangiamenti si fanno sinuosi e speciali con l'aggiunta del synth che dona alle composizioni un respiro maggiore. Altre volte si spinge sull'acceleratore ("Stuck in the Mire" e "A New Breed") riportando tutto a casa Natas, Motorhead, Orange Goblin e in "Closer to the Sun" c'è la stessa grandeur ascoltata in capolavori come "Blues for the Red Sun", puro Kyuss style nella maniera più rustica immaginabile. Verso la metà del secondo lato i nostri puntano verso l'immaginazione e anche se c'è qualcosa di già sentito, il meglio è racchiuso proprio nel finale. Non c'è l'urgenza di dire tutto e subito e i tempi si fanno sospesi, come nell'arpeggio di "Hollow Promise" che lascia la curiosità di ascoltare i Bone Man nelle prossime future evoluzioni, come dei nuovi Pelican, quando "Australasia" era una sincera novità. Ben fatto. La terza generazione di stoner addicts promette bene. E, soprattutto, mantiene. Eugenio Di Giacomantonio
BONE MAN – Plastic Wasteland
Il nuovo album dei Bone Man è uno di quei dischi che non fanno prigionieri. Marian, Ötzi e Arne hanno fatto le cose per bene. Si sono lasciati alle spalle le influenze più dirette e sono andati avanti con le loro gambe. Il wall of sound che si ascolta mettendo la puntina sopra ai solchi del vinile è qualcosa di impressionante. Puro heavy psych con addizioni Seattle e voce romantica e ispirata. Proprio Marian, il cantante e chitarrista, sembra essere il punto focale. È lui che ha plasmato le canzoni con le espressioni più personali e direttamente collegate al suo mondo. Più di una volta si rimane incantati a seguirlo nei ricami che tratteggia sopra il pandemonio del basso e batteria ("Plastic Wasteland"). Altre volte è la sua chitarra a tratteggiare arabeschi delicati, come in "Old Brew", pezzo che, per pathos e coinvolgimento, ricorda le cose migliori dei primi System of a Down. Ma non tutto è in punta di fioretto: "Dry Habit" è un cortocircuito fantastico, pezzo tankard che mira a distruggere i neuroni dell'ascoltatore, come "Flashback" che brutalizza il concetto di stop & go. Alla fine dell'ascolto rimane una sensazione speciale. Un qualcosa è germogliato e splende nella sua bellezza. Anche a scapito del paesaggio metropolitano postapocalittico e distrutto che si contempla nella copertina. Ecco, la chiave di lettura è proprio nel contrasto che si ha quando due opposti si trovano vicini. I Bone Man lavorano proprio su questo concetto. Eugenio Di Giacomantonio
Bone Man – III
La vera qualità distintiva dei Bone Man, agguerrito trio di Kiel, Germania, è la nostalgia. Quel sentimento che ti prende come un dolce veleno e ti fa rimpiangere un passato come il tempo migliore della propria vita. “These Days Are Gone” è un piccolo capitolo/gioiello/sintesi di questo approccio. Un riff di chitarra di Marian su cui si innalzano liriche evocative che piangono appunto i giorni andati e l’arrangiamento procede dal grunge fino ad arrivare a certe intensità di fattura Metallica. Un urlo dolce di disperazione. E così si procede verso l’interno, analizzando e inglobando gli aspetti di questo sentimento dentro trame heavy rock. Otzi e Arne (batteria e basso) sono esemplari nello scandagliare ed indirizzare  le intuizioni di Marian verso stili diversi. Il trittico “Year of Sorrow”, “Wrecht Under the Sea” e “Zeitgeist” (dal finale acido) hanno un timbro metal  molto deciso, anche se nell’ottica proto-heavy di band Settanta come i Judas Priest. Mentre “Incognito” e “Cold Echo” sono una traversata dall’alternative in senso largo a quella che una volta si chiamava musica indipendente e la conclusiva “Amnesia” si riallaccia a “Pollyanna” in apertura per la voglia di mettere al centro la voce e lasciare il suono a ricamare classic roots rock americano (siamo prossimi ai Pearl Jam). Così è il senso di nostalgia per questi gentlemen del nord: quasi degli intellettuali prestati alla musica. [caption id="attachment_6034" align="aligncenter" width="640"]Bone Man Bone Man[/caption]   Eugenio Di Giacomantonio  
BONES & COMFORT – Mothersheep
Daniele, Alberto e Luca sono tre ragazzi veraci. Si sente dalla loro musica. Fedeli e coerenti con una idea di DIY viscerale e totalitaria. "Mothersheep", secondo disco della creatura Bones & Comfort edito dalla Go Down Records, è pura espressione di genuinità: un'escursione nei suoni "carne e patate" dell'America rock del confine, più volte citata anche nei titoli ("Tex Mex", "Road Pizza") e valicante le paludi della Lousiana alla ricerca di redneck per farsi una birra e l'ennesimo joint.Si parte con una scelta precisa: "We Choose Who Will Stand". Un richiamo alla famiglia, ai bickers, ai bevitori incalliti. Una sorta di Down song leggermente più groovie: i Loudmouth, per chi se li ricordasse, band del secolo scorso che applicava il verbo anselmiano a finezze in puro stile Chicago's sound. Un intro col botto. Colpisce in punta di fioretto con un ritornello da corna al cielo la bellissima "Tex Mex" e l'intenzione di unire vibes alla Tito & Tarantula con Clutch riffing è riuscita. Una bestemmia si sa, ma la cosa funziona perfettamente. Quando a metà pezzo il ponte reintroduce il chorus ci si sente proprio li, ad urlare sotto al palco "give me more beer!". Pazzesco. Scrittura felice anche quella della seguente "Isaac's Wife Song" che ribadisce il concetto di suoni grezzi applicate a strutture quasi street rock. "Unbalanced" è simpatico interludio rasente l'improvvisazione jazz che fa da controcanto a "Road Pizza", una celebrazione del mitico Wino e delle sue numerose creature (Spirit Caravan su tutte) tanta è la forza impressa nelle parti vocali e nei solos di chitarra. Concetto ribadito e rinforzato anche nella successiva "My Crusade", seppure lo sguardo si posi su qualche capitolo indietro, primi anni Novanta, scena del Maryland con band quali Iron Man, Wretched e The Obsessed: leggermente più doom, insomma. Con "Take Some Pills" si segue il consiglio dato e ci si adagia all'ombra delle palme, con chitarra acustica ad osservare l'orizzonte fumante. È un passaggio breve, perché "No Country for Musicians" riporta il ritmo accelerato ed il Southern Comfort, anche se si scontra frontalmente con le considerazioni espresse nel testo e nel finale un'aurea plumbea viene a strozzare l'allegria del mood iniziale. "Inhale" è bong formalmente stoner che insiste nel lato più tribale della faccenda e la conclusiva "Orange Blossoms and Four Swans" è una vecchia conoscenza dei più accorti, dato che è stata pubblicata in "Desert Sound vol. 4" circa un paio di mesi prima dell'uscita ufficiale. Pezzo ricco e brillantemente strutturato su una chitarra settantiana ai massimi livelli che fa twin con le vocals. Stupenda. Tutti gli ingredienti finora espressi confluiscono e si fondono in un finale con i fiocchi: il minutaggio cresce e l'espressione si articola. Si apre una porta verso la musica jam per eccelenza, il blues, e poi, di colpo, tutto finisce con cori maledettamente gospel a ripetere il titolo. Ottimo. Seconda prova brillante e riuscitissima questa dei Bones & Comfort. Godeteveli dal vivo, se potete e chiedete ai vostri spacciatori more pot and more beer, please... Eugenio Di Giacomantonio
Bongzilla – Stash
Natale: festa del consumismo. Consumismo: tutti in giro a far regali. Tutti in giro a far regali: strade piene di gente felice. Strade piene di gente felice: tanto traffico. Tanto traffico: macchina a passo d'uomo. Macchina a passo d'uomo: possibilità di finestrini aperti. Possibilità di cristalli laterali aperti, la musica che tu ascolti dallo stereo si diffonde nelle strade. E come sono le strade? Piene di gente felice. E come reagisce la gente felice alla musica che tu diffondi tramite apertura dei cristalli laterali? Al 90% dei casi, male. E se la gente ci rimane male, cosa organo_riproduttore_maschile ne strasbatte al tuo contenitore_testicolare? Niente. Ergo: Bongzilla. Doom? Beh sì, doom di cognome, stoner di nome. Sludge? Anche, sì: riffone soprappeso, distorto ma distinguibile, e basso al seguito per un binomio bulldozer. Psych? Anche, sì: assoli puliti, batteria in controtempo, arpeggi pulitissimi e melodici in sovraincisione al riffone di cui sopra, sovraincisione - in aggiunta - di documentari sul: consumo di droghe leggere nel mondo - benefici sul consumo di droghe leggere nel mondo - malefici sul consumo di droghe leggere nel mondo - utilizzi vari delle droghe leggere - consigli sull'ottimizzazione delle droghe leggere. Tutto questo sempre da documentario, con voce tranquilla e pacata "di chi ne sa", sempre sovrainciso sulla musica di cui sopra. Ed ovviamente - sempre sovrainciso - registrazioni di bong-session della band con relativi ribollii, risate ed incitazioni del tipo: shot long, shot long… yeah… risate. Testi? "Load bongs, not guns. If you want to blow sky high, take another hit, let's fly". Bello, no? Sì, beh, stupendo, organo_riproduttore_maschile senza la o finale sostituita da un "arola". Ergo: Bongzilla, Babbo Natale, Gesù Bambino, gli Angeli in Colonna (no, nel traffico di cui sopra), la Madonna sotto l'albero. Per tutto il resto, c'è guttalax. Ed un abbraccio alla Befana, che non è mica colpa sua se…. https://youtu.be/HbhjjJctyNQ

Pier "porra" Paolo

BORGO PASS – Slightly damaged
Il nuovo disco dei Down è stato senza subbio uno dei capolavori del 2002, una di quelle pietre miliari nella musica di oggi da non dimenticare facilmente. I newyorkesi Borgo Pass, al loro secondo disco dopo l'esordio "Powered by sludge", sembrano aver fatto dono delle progressioni melodiche e delle ruvidità sludge della premiata ditta Anselmo/Keenan e in questo ep di cinque pezzi sfoderano delle ottime intuizioni che spaziano dallo stoner più canonico a bordate lerce in stile Black Label Society e Corrosion Of Conformity, arricchendo questo caleidoscopio sonoro con ampie puntatine doom e fraseggi in pieno Seattle sound.
Boris – Amplifier Worship
Continua l'opera di diffusione di cult band in ambito extreme doom da parte della Southern Lord e questa volta tocca alla seconda ristampa dedicata ai giapponesi Boris. Per chi non li conoscesse, si tratta di un trio attivo sin dai primi anni '90 con diversi dischi alle spalle usciti solo in Giappone (tra cui il terrificante esordio "Absolutego", composto da un unico brano di 65 minuti e ristampato nel 2001 dalla stessa Southern Lord), dedito ad una forma contorta e malata di sludge doom contaminato con asprezze noise, accenni punk e divagazione psichedeliche di stampo rumorista. "Amplifier Worship" è il secondo capitolo della loro discografia, edito nel 1998 e giunto alle nostre orecchie soltanto oggi. Le influenze di Melvins e Earth sono sempre palpabili, ma i tre (Wata alla chitarra, Takeshi al basso e Atsuo diviso tra batteria e voce) rielaborano il tutto con un elevato tasso di grinta e malsana cattiveria che li porta a martoriare i propri strumenti come in preda a straripanti raptus schizofrenici. Basta ascoltare un monolito come "Kuruimizu" (15 minuti dove si alternano sfuriate punk, rallentamenti sludge e un bizzarro finale elettro-acustico) per rendersi conto di che pasta sono fatti questi folli ragazzi, capaci di mischiare con somma abilità chitarre distorte, bassi saturi e ritmiche paralizzanti. L'intricata "Ganbow-ki" non lascia mai trasparire un barlume di luce, incentrata com'è su trame space lisergiche ed infiltrazioni tribali, stesso trattamento adottato da "Huge", song che tartassa le nostre cellule cerebrali con uno slow tempo di chiara matrice sludge. "Hama" sembra precedere addirittura il discorso portato avanti dagli High On Fire (ascoltare le chitarre rugginose e le ritmiche al limite del metal per credere), mentre la conclusiva "Vomitself" chiude questo trip ossessivo con un riff selvaggio e svariati rumori sinistri ripetuti all'infinito, fino allo sfinimento. Se siete alla ricerca di un viaggio nel profondo degli abissi, qui dentro troverete di sicuro pane per i vostri denti. Chi non è preparato, invece, è gentilmente invitato a starne alla larga. https://www.youtube.com/watch?v=nEir3wanYR8

Alessandro Zoppo

Boris – Heavy Rocks
Dopo dieci anni dalla formazione, i giapponesi Boris tornano sotto i riflettori con il quarto album in studio: 'Heavy Rocks'. Un disco che potrà lasciare spiazzati molti ascoltatori abituati a sentirli per lo più in scarne vesti noise adornate da elementi drone, chini su sperimentazioni folli che li hanno portati – fra le altre cose – ad una apparizione con i compagni di merende sunn 0))) nell'album 'Altar', uscito poi nel 2006. Le pietre sono pesanti e rotolano, eccome se rotolano. I brani si fanno più definiti, l'incisività stoner si fa sentire e paralizza sotto ad un sole cocente, ricordando a tratti i Fu Manchu, e servendosi di chitarre pesanti come non mai, riff convincenti ed assoli ridondanti che strisciano taglienti fra le scariche d'adrenalina e fra una voce rauca ed energica. Dopo un inizio vagamente noiseggiante, i nostri Boris iniziano il riscaldamento per tutta la lunghezza di 'Heavy Friends', pezzo d'apertura che mette subito in chiaro l'intenzione della band di uscire dai classici canoni a cui ci aveva abituati, spiazzando senza mai deludere. Si dia inizio al braciere, dunque. 'Korosu' attacca rabbiosa nel migliore dei modi e ormai restare immobili è diventato impossibile, l'adrenalina viscerale ha ormai plasmato i nostri muscoli e c'è poco da dire: il trio ci sa davvero fare. 'Soft Edge' e la sua chitarra psichedelica ci ammalia in un vortice di non ritorno, stridendo e dilaniando silenzio, dopo che 'Dyna-Soar' l'aveva minuziosamente chiamato a sé colpendolo a tradimento dietro alla nuca, ridendo della sua smorfia di dolore dopo la caduta, guardandolo a terra tramortito ed in cerca di una ragione. Chi ha bisogno di una ragione quando ha nelle orecchie la furiosa carica di un buon disco? Un giro di basso si divincola e si fa seguire nella valle della morte attraverso tutta 'Death Valley', come in un denso inseguimento dove la vittoria dei Boris su di noi è decretata già dalle prime note. 'Heavy Rocks' è un album piuttosto immediato rispetto ai precedenti, accessibile anche a chi non mastica molto lo stoner, ma che potrà suscitare quell'attimo di delusione in coloro che alla vena hard rock preferiscono quella sperimentale di questo interessantissimo trio. Un viaggio rosso/arancio nella furia di un recipiente infuocato. https://www.youtube.com/watch?v=Wz_S8mgezLM

Annet

BRAIN PYRAMID – Chasma Hideout
I Brain Pyramid sono un'autentica bomba. Sul filo elettrico che passa tra Radio Moscow, Blues Pills e i mai dimenticati Josiah, si piazzano loro, in perfetto equilibrio tra aggressività e classe. Come diceva qualcuno, "il tuo è culo, la mia è classe!" e la loro è quella classe simile ad un Bud Spencer, per rimanere in ambito cinematografico: non di forma, ma di assoluta sostanza. Di carne al fuoco ce n'è parecchia in "Chasma Hideout", sin dal trittico iniziale dove tra riff affilati con l'acido e base percussiva stile Gran Funk siamo di ritorno da Woodstock infangati e strafatti.
Tornano in mente i giorni in cui caricavamo il bong a ritmo di Orange Goblin, Nebula e Atomic Bitchwax. Gran bel pezzo di storia. Ma i nostri il bong lo hanno sicuramente caricato mentre partivano per la tangenziale con gli Sleep: "Lucifer" è doom, lenta e ipnotica come una buona erba. Ma è solo un passaggio, un momento di rilassamento dei nervi che ritornano tesi con "Into the Lightspeed" che come droga preferisce lo speed al THC: cavalcata su puledro indomabile ed incazzato.
La migliore qualità è data dall'uso modico della voce, mai sopra le righe, sempre in funzione del pezzo, e dall'arricchimento compositivo in fase di arrangiamento dei pezzi. In più di un'occasione emergono dal marasma fuzz/psych della chitarra e del basso un moog e delle keyboards che creano una dilatazione space meravigliosa. Se avete in mente come possa suonare un gruppo di biker cresciuti a heavy psych piuttosto che a rockabilly, avete in mente cosa succede in casa Brain Pyramid. Scorpio Rising diceva qualcuno, il secolo scorso. Eugenio Di Giacomantonio
BRAIN WASHING MACHINE, THE – Rocket on music
Quattro ragazzi della provincia di Padova con tanta grinta da vendere, questa in breve la descrizione dei The Brain Washing Machine, band fondata nell’estate del 2005, con alle spalle esperienze con Hu:t, Traccia Mnestica, As No One, Stoneflowers, ecc.Il primo demo della band veneta porta il nome di “Rocket On Music” ed è un concentrato di stoner liquido, memorie grunge, groove crossover ed impatto metal. Niente male! Più che ai capostipiti Kyuss, la proposta dei Nostri è maggiormente accostabile agli svedesi Dozer, e pezzi come la breve “Trust in you” e la potente e gustosissima “Tv, the brain washing machine” risultano essere i punti cardine del dischetto. Tuttavia le restanti song non sono da meno, “Ritual” con i suoi cori facili ed incisivi, “Trust in you” con le sue atmosfere alla Qotsa, “Turn and shake” con il suo ritornello azzeccato, contribuiscono a rendere questo lavoro un episodio tutto sommato ben riuscito. Il sound generale è buono, belli i suoni di chitarra e davvero notevoli alcuni riff, anche se la linea generale predilige un approccio semplice e diretto nel songwriting, che saltuariamente tende ad essere un po’ scontato. La voce di Baldo è ruvida e tagliente, forse di estrazione grunge, in ogni caso sempre all’altezza e capace di distribuire ottime melodie in diversi frangenti. Ripeto, questo è il primo demo, quindi il tempo per affinare le piccole pecche finora emerse c’è tutto, e gioca a favore della band. Siete pronti per il lavaggio del cervello? Davide Straccione
Brant Bjork – Keep Your Cool
Ormai Brant Bjork sembra averci preso gusto ed ecco che la sua carriera solista si arricchisce dell’ennesimo tassello con questo nuovo “Keep Your Cool”. Non pago di aver scritto pagine fondamentali dello stoner rock con Kyuss e Fu Manchu (senza contare le sue partecipazioni alle Desert Sessions, l’aiuto fornito all’amico Nick Oliveri nei Mondo Generator e il progetto Ché), il buon Brant giunge al terzo capitolo della propria saga, continuando sullo stesso percorso già intrapreso nei dischi precedenti (“Jalamanta” e “Brant Bjork and The Operators”) e cioè un rilassante e gradevole mix di desert rock, cool jazz, break beat, soul, funk e grooves latini. Avendo dato vita ad una label personale (la Duna Records) che gli consente massima libertà creativa, il suo rock venato di pop sa essere fresco e spontaneo. Certo, non siamo di fronte ad un disco essenziale o altamente originale, ma il piacere di jammare che emerge dai microsolchi di “Keep Your Cool” è segno dell’insanabile voglia di Brant di staccare la spina e godersi la gioia dell’improvvisazione, dell’attimo che vuole fuggire eppure riesce a rimanere impresso. La strada dell’emancipazioni da certi canoni tipicamente stoner è ormai tracciata, non ha la potenza e la spinta geniale del compagno di vecchia data Josh Homme nei QOTSA ma si fa apprezzare per la sua spontaneità e la sua freschezza. Le capacità di scrittura rimangono le stesse: meno tastiere rispetto al lavoro precedente, ma un pieno di divagazioni latine che fanno pensare al Santana dei bei vecchi tempi (“Hey, Monkey Boy”, “Keep Your Cool”), sapori desertici giocati su tappeti di wah-wah e melodie “piacione” (“Johnny Called”, “Gonna Make the Scene”, “My Soul”), suoni polverosi di chiara matrice stelle e strisce (“Rock-N-Rol’e”), feeling pop molto ottantiano (“I Miss My Chick”, song dal testo divertentissimo…) e qualche spruzzata di rock robotico, sempre rilassato e divertito (“Searchin’”). Un disco da assaporare in tutta tranquillità, insomma, magari sdraiati all’ombra durante una calda giornata estiva con un buon drink ghiacciato in mano. Oppure in un fumoso locale di quart’ordine in qualche sperduta zona di mare californiana.   Alessandro Zoppo
Brant Bjork – Brant Bjork
Ciò che stupisce nell'ascolto di questo nuovo album omonimo di Brant Bjork è la caratteristica dell'autore di essere alla ricerca della canzone perfetta. Arrivato in questo strano 2020 al tredicesimo lavoro solista (ad appena un anno da Jacoozzi), Brant cesella di fino: compone e ricompone i suoi riff, struttura i passaggi melodici e toglie il superfluo, sempre nell'ottica di un'evoluzione del proprio percorso musicale post Kyuss. Non è importante che qualche passaggio, come nel caso di Mary (You're Such a Lady), ricordi altri suoi vecchi pezzi: l'importante è tenere in vita la fiamma del Monkey Boy per eccellenza. Anche se nei suoi dischi troviamo nomi diversi e svariate band d'accompagnamento (Brant Bjork & The Operators,  Brant Bjork and The Low Desert Punk Band, Brant Bjork and The Bros), il risultato è sempre il prodotto genuino della sua ispirazione. Come non amarlo quando riesce ad intitolare un pezzo Jesus Was a Bluesman? O la già menzionata Mary (You're Such a Lady), esplicita dichiarazione d'amore verso la pianta che tutti noi conosciamo ed apprezziamo? Brant è così: prendere o lasciare. Qualcuno che ha diviso la sua esperienza musicale con pezzi da novanta come Josh Homme, John Garcia, Nick Olivieri, Scott Reeder, Eddie Glass, Scott Hill e moltissimi altri, riuscendo ad invecchiare bene e meglio di alcuni tra questi. L'album è comunque bellissimo. Tra i passaggi sospesi di Duke of Dynamite, le incursioni funk di Stardust & Diamond Eyes, il blues di Shitkickin' Now e il finale acustico di Been So Long, l'ex batterista di Kyuss e Fu Manchu riesce a tenerci per mano con sicurezza, portandoci tra i cactus del Rancho de la Luna (in questo caso con il boss della psichedelia ed ex Monster Magnet, John McBain) a rollare un joint (niente tabacco: guardate il bel documentario su di lui con il titolo in italiano Sabbia) come un caro amico, che ogni anno torna a trovarci. https://www.youtube.com/watch?v=EtdegFOYBxE

Eugenio Di Giacomantonio

Brant Bjork – Jacoozzi
È un vero piacere riascoltare il buon vecchio Brant Bjork con un nuovo album prettamente strumentale (o quasi) come Jacoozzi. Dai tempi di Jalamanta del 1999 non risentivamo una tale genuina ispirazione dare sfogo a composizioni rilassate e jammose che sono la vera esistenza di Bjork. Il suo modo di comporre per strati, iniziando da un’intuizione semplice, aggiungendo tocco dopo tocco un arrangiamento aperto, è la vera rivoluzione che possiamo assumere in ambito desert rock. Brant è così: spontaneo e solare. Ce lo immaginiamo sereno lasciare i Fu Manchu e i Kyuss per seguire la sua stella, anche se meno remunerativa in termini di fama. Ma chi lo segue lo sa: da lui ci aspettiamo solo musica meravigliosa. Come già accaduto per il recente Mankind Woman. Il suo modo di suonare la chitarra è unico. Per qualche verso lo possiamo accostare a John Frusciante, a causa dell’abbandono di tutte le sovrastrutture e condizionamenti, per mostrarsi a nervi scoperti.

Brant Bjork: Jacoozzi e desert rock

Can't Out Run the Sun ci dice proprio questo e non sono passati vent’anni invano. Brant è ancora là, a rollarsi un joint al Rancho de la Luna (lo potete vedere nel bel film Sabbia, di qualche tempo fa) pronto a suonare a qualsiasi ora del giorno. E questo ci arriva diretto dall’ascolto dell’album attraverso una produzione che ci fa assistere al processo esecutivo e di registrazione, in un colpo solo. Sembra quasi di sentire i fruscii dai microfoni e le voci a fine sessions. Mexico City Blues è sospesa e sinuosa, Guerrilla Funk è sleazy & dirty come se Brant per un momento diventasse l’erede di Curtis Mayfield. Bjork è l’unico che può permettersi di mettere su un disco una frase di batteria e dagli il titolo di una canzone: Five Hundred Thousand Dollars! Mixed Nuts sembra uscita da qualche Italian library collection su film con Adolfo Celi e Gastone Moschin, Lost in Race è Santana al 100% (a proposito, quando gli verrà riconosciuta l’importanza dei suoi dischi dei Settanta nella scena heavy psych?), Polarized un delirio in acido costruito sul banco mixer e la finale Do You Love Your World?, unica ad essere cantata, è il risultato della frequentazione dei salotti artistici allestiti dalla moglie Zaina Alwan nella proprietà di Zainaland. Bentornato Brant. Che la tua stella ti guidi sempre più in alto. https://www.youtube.com/watch?v=gFSrJj3e980 Eugenio Di Giacomantonio
Brant Bjork – Mankind Woman
Altro bel colpo piazzato dalla romana Heavy Psych Sounds: dopo The Revolt Against Tired Noises degli Yawning Man arriva Mankind Woman, tredicesimo album in studio di Brant Bjork, un ragazzo che genuinamente rappresenta la parte migliore, incontaminata e spirituale di tutta la scena desert psych americana. Sia negli album dei gruppi maggiori (Kyuss, Fu Manchu, Vista Chino) che dei minori (oltre agli splendidi Ché e Ten East il nostro ha suonato tra Desert Sessions, Fatso Jetson, Mondo Generator e nella meteora che fu Yellow #5), Brant ha donato il suo stile black flower power senza condizionamenti. Ogni volta che sentiamo il suo tocco, il suo modo di interpretare un pezzo, quello che viene fuori è pura anima. Andiamo un passo indietro a risentire Tres Dias o Local Angel, album privi o quasi di elettricità: qualcosa di simile ad una preghiera, un colloquio con la parte magica e trascendente della vita. Quando ha iniziato a realizzare i suoi album solisti si respirava un'aria famigliare e domestica; uno scorcio casalingo sul suo modo di suonare e registrare lontano dalla confusione e dalle contaminazioni altrui (Jalamanta, edito dalla Man's Ruin nel 1999, o Keep Your Cool del 2003). Negli anni Bjork ha aperto il ventaglio delle collaborazioni ad amici vicini e lontani: ne son venuti fuori album come Brant Bjork and The Operators (con Mathias Schneeberger e Mario Lalli), Saved by Magic (Brant Bjork e i The Bros.) e Somera Sol (con la Low Desert Punk Band) che nonostante gli arrangiamenti più elaborati non riuscivano a schiacciare il presupposto originario di Brant: lasciare la musica spontanea. Negli ultimi album, da Black Flower Power del 2014 ad oggi, il fatto di essere in una band sempre più stabile ha condizionato il nostro portandolo verso un songwriting meno autoriflessivo ed inclusivo delle varie sensibilità degli altri elementi in studio. Così è anche quest'ultimo Mankind Woman, che se da un lato manca degli aspetti più emotivi del suo autore, dall'altro mette sul tavolo un album ben scritto e ben suonato. Compartecipe alla scrittura è il chitarrista della Low Desert Punk Band, Bubba Dupree, e per la prima volta assistiamo alla performace di Sean Wheeler alla voce in alcuni pezzi (Nation of Indica, Somebody e Pretty Hairy). Il mood sleazy di Brant esce fuori in pezzi soulful come la doppietta Lazy Wizard e Pisces, in cui il suono della chitarra, quel suono specifico unito al suo caldo timbro vocale, manda l'ascoltatore in un'altra dimensione. Altre volte la visione originale del nostro viene contaminata dai suoi ascolti (a tal proposito c'è da ricordare la scena in cui Brant sfoglia la sua collezione di dischi nel film Sabbia del 2006 per comprendere in quali e tali direzioni proviene la sua espressione artistica) come nella title track, che parte da un riff hendrixiano per scontrarsi frontalmente con lo stile dei Deep Purple. Ottime anche 1968 e Brand New Old Times, quest' ultima dolce e scanzonata con un riff circolare che si imprime nella testa, mentre la prima è un urlo primitivo che descrive il tempo distopico che vive il nostro. Brant Bjork è patrimonio dell'umanità: un artista come lui ogni cinquant'anni e la musica sarebbe salva per sempre. https://www.youtube.com/watch?v=Olm6G3-0sr0   Eugenio Di Giacomantonio
Brant Bjork and The Operators – Brant Bjork and The Operators
Anche Brant Bjork, come Josh Homme nei QOTSA, cerca una via personale alla musica rock per emanciparsi definitivamente dall'etichetta stoner. Se però l'ex chitarrista dei Kyuss al momento c'è riuscito egregiamente, non è lo stesso per l'ex batterista che aggiunge alle chitarre distorte orecchiabilità e furbizia squisitamente pop non sempre centrando il bersaglio. Accompagnato per l'occasione dagli invisibili The Operators - in verità solo Mario Lalli dei Fatso Jetson e Franz Stahl dei Wool - il secondo disco solista di Bjork è basato su una manciata di canzoni rock dirette e semplici e composizioni strumentali di più ampio respiro che ricordano quelle delle Desert Sessions. La formula è quella del pop-rock 'alternative' tipicamente americano, godibile da ascoltare alla radio (Smarty Pants), appiccicoso ai primi ascolti ma poco sostanzioso come i brani dei Foo Fighters (My Ghettoblaster e From the Ground Up), pieno di ritornelli aperti da cantare in macchina con volume a palla e, perché no, anche sanamente cazzone (Cheap Wine). Joey's Radio racchiude tutte queste caratteristiche ed è per questo che è uno dei brani più riusciti del disco. L'eclettismo di Bjork raggiunge i risultati migliori dove la musica prende il sopravvento rappresentando a conti fatti la parte migliore. La strumentale Electric Lalliland è un bellissimo esercizio di prog-psichedelia con tempi dispari, chitarre al contrario e bleep elettronici; con Cocoa Butter ci si immerge nel lounge esotico, molto vicino ad alcuni momenti dei Tortoise di TNT o dei Mr. Bungle in chill out; la conclusiva Hinda 65 (Return Flight) profuma invece di soul da piano bar americano di periferia, fumoso e lugubre, andamento vellutato - smooth direbbero negli Usa - retto da un legnoso basso funky ed abbellito da svisate di piano elettrico in serata di grazia. Brant Bjork and The Operators ha diviso parecchio i fan ed estimatori dello stoner - a giudicare dagli interventi su un paio di newsletter e forum "che contano" - tra chi lo considera un disco messo su per gioco e chi invece sembra aver capito ed apprezzato il vento di cambio radicale che vi soffia attraverso. Condivisibile quest'ultimo giudizio ma bisogna anche mediare su diverse posizioni. È considerevole il fatto che Bjork si dimostri uno dei musicisti più aperti ed ispirati della scena però mettendo le orecchie fuori dal genere di roba così se ne trova a bizzeffe e per di più questa suona già fuori tempo massimo. Ideale per mettersi di buon umore, a volte serve anche questo, ma nulla di più.   Francesco Imperato
BRETUS – Demo
Nelle parole del leader Ghenez (riff-mastermind e chitarrista ritmico) i Bretus nascono per omaggiare l'adorato genere doom e non (almeno per ora) come live band. Ci sentiamo di dire che trascurare questa seconda parte potrebbe rivelarsi un errore, visto che il quartetto calabrese è una realtà da tenere in netta considerazione, almeno a giudicare dalle quattro tracce del loro primo demo: un'eruzione di fiotti di magma che assumono le forme di pesi massimi come Corrosion of Conformity, Cathedral, Bongzilla, Year Zero, Orange Goblin, Entombed, Goatsnake e Down, cioè un'incandescente massa di minerali fusi pronta a cospargersi nell'ambiente circostante.Dunque dalle faglie più inaccessibili del nostro sottosuolo arrivano altri musicisti riottosi, consacrati ad un assalto stoner-doom dalla corteccia primitiva, ma che gode di un'esecuzione potentissima e un songwriting maturo, e soprattutto quel perverso feeling di annerito blues metallico, genuino condensato di forza d'urto crusty e dinamismo ritmico. La registrazione è bella grezza ma sempre godibilissima, e sputa dritta in faccia ad ogni menzognero ritocco che pretenderebbe di addomesticare l'incontrollata risposta degli amplificatori, permettendo di seguire a dovere le linee strumentali nella loro frenesia heavy, proprio come quei platter stoner-doom di formazioni misconosciute che spremevano il cervello degli ascoltatori nella seconda parte degli anni 90, quando la ricerca dell'esaltazione dell'individuo era sublimata nell'elettricità di acidi riff post-sabbathiani e durissimo sostrato psichedelico. "Vision" e "Survive Now" ci catapultano in un universo arcigno e rabbioso, fatto di riff basilari e incorruttibile sezione ritmica, scivolamenti mesmerici e continui break, con il ruggito di Marko che mette i brividi, magari non il massimo della perfezione formale, ma di sicuro efficace nel donare l'appeal adatto col suo screaming ribassato. Il pezzo da applausi è comunque la misantropica, tirata e avvolgente "You know the People" in cui i nostri si lanciano a mille lungo un infernale doom psicotico che include sequenze da trip, con la massa umana stipata lungo le rive dello Stige in attesa del giusto supplizio, e "Fight Your Pain" è l'ultima tempesta mentale che materializza l'immondo Yog-Sothoth, tra bassi distorti, strofe cavernose e letali solismi psych. Non si inventa nulla di nuovo anche se il gruppo è decisamente valido, molte soluzioni sono già state scolpite indelebilmente nello scorso decennio e pure con più classe dai colossi del genere, ma che ci siano dei riconoscimenti per i Bretus. Roberto Mattei
Bretus – In Onirica
Catanzaro Doom City. "In Onirica", disco d'esordio dei calabresi Bretus, è uno dei migliori prodotti partoriti nel settore psychedelic stoner doom in questo fertile ed apocalittico 2012. Sette brani che sono una goduria totale per chi ha nel cuore e nelle orecchie Pentagram, Saint Vitus, Cathedral, Spirit Caravan e Earthride. Edito dall'ucraina Arx Productions e disponibile in vinile tramite BloodRock Records, il lavoro del gruppo guidato da Ghenes (basso, low guitars) è esplosivo, oscuro, coinvolgente. La voce di Zagarus è stentorea e magmatica, da titano che si staglia su un orizzonte infinito. Ottimi anche Faunus alle chitarre e Striges alla batteria: attendiamo di vederli da vivo per averne conferma definitiva. Tra riff a spirale di marca Hellhound e infiltrazioni progressive da Cathedral nel deserto, "Insomnia" rapisce sin dal primo ascolto. "The Dawn Bleeds" fa ancora meglio con una costruzione à la Electric Wizard ed un feeling melodico che solo in pochi (Al Morris e i suoi Iron Man?) riescono a trasmettere. "Down in the Hollow" è un carrarmato doom che macina riff su riff, "Leaves of Grass" un passaggio elettroacustico ammaliante e dopato, "Escape" un moloch che richiede il sacrificio della nostra anima con wah-wah corrosivi e ritmiche paralizzanti. "Forest of Pain" è un compendio di epica possenza e lancia in volata le meraviglie della conclusiva "The Black Sleep", strumentale in bilico tra Atomic Rooster e Goblin che si anima nel finale di cromatismi metal e asprezze progressive. No poseurs please, this is fucking loud music! Il messaggio dei Bretus è chiaro. Il culto di Cthulhu può continuare a vivere. https://www.youtube.com/watch?v=cQPeDG5Iazk   Alessandro Zoppo
BREWMASTER – Whiskey god
Dediti alla birra e ad ogni tipo di superalcolici, nel loro promo d’esordio gli svedesi Brewmaster ci propongono tre tracce di scoppiettante heavy rock. Quindici minuti scarsi sono pochi per giudicare ma stando al ritmo e alla dinamicità espressa questi tre ragazzi dimostrano proprio di saperci fare.Chitarre sputa fuoco, vocals abrasive, base ritmica compatta, buon senso melodico. Sono questi i punti forti della band, il cui potenziale alcolico viene espresso in pieno in brani grezzi e potenti. “Whiskey god” parte con un riff serratissimo, roba da levare il fiato! Si sviluppa poi su territori cari agli ultimi Entombed, con un bel vocione roco a dettare la strada (etilica) da seguire. “Into you” ha invece un taglio più stoner, evidente soprattutto nella linea di basso (pieno stile Sleep) e nelle chitarre a tratti granitiche a tratti melliflue, che ben si sposano con l’atmosfera ubriaca del pezzo. A chiudere il dischetto ci pensa “Growin’ old”, sorprendente brano acustico che mostra anche la vena più riflessiva e malinconica di questi “dannati” rockers svedesi. Una piacevole rivelazione questo “Whiskey god”. Con queste premesse i Brewmaster hanno tutti le caratteristiche per ambire ad un futuro degno di attenzione. Alessandro Zoppo
BRIAN JONESTOWN MASSACRE – Who Killed Sgt. Pepper?
Dopo essersela presa con Paul Mc Cartney (in un brano del disco precedente), Anton Newcombe ha pensato bene di citare i Fab Four anche per quanto riguarda il titolo del nuovo album. Evidentemente c’è un sottile filo conduttore che lo lega alla leggendaria band di Liverpool. Per "Who Killed Sgt. Pepper?", registrato in parte a Berlino ed in parte in Islanda, il folle Newcombe si è avvalso della collaborazione di alcuni illustri ospiti come Will Carruthers degli Spacemen 3 mentre si registra anche il reintegro in formazione di Matt Hollywood. L'album è probabilmente uno dei più eclettici della ormai disseminata discografia dei Brian Jonestown Massacre (si parla della decima o undicesima uscita, ormai abbiamo perso il conto...) in quanto presenta una varietà di stili mai ascoltata prima.Si avvertono piacevoli avvisaglie pop, atmosfere "danzerecce", nenie allucinate (ed allucinogene), sonorità tribali percussive ed incursioni dal gusto esotico senza dimenticare il tessuto psichedelico da sempre nel DNA di Newcombe. E i brani? Tutti da scoprire attentamente. Ci sentiamo di citare la dance sperimentale di "Let's Go Fucking Mental", il post punk di "This Is the One Thing We Did Not Want to Happen" (chiaro omaggio ai Joy Division di "She's Lost Control"), l'adrenalinica "The One" con una bella chitarra distorta in stile shoegaze, e "Super Fucked" che riporta in vita i Primal Scream più creativi. Ancora una volta Newcombe ci ha spiazzati con un lavoro ostico ed imprevedibile come è d’altronde nel suo stile. Il prossimo passo sarà ancora differente, ne siamo convinti. Il viaggio continua. Incontenibile Anton! Cristiano Roversi
BRIAN JONESTOWN MASSACRE, THE – My Bloody Underground
Ormai dovreste conoscere Anton Newcombe. Vive in un mondo tutto suo fatto di Stones e Velvet. Credo di aver perso il conto di tutti i lavori che ha pubblicato; da “Spacegirl & Other Favorites” a “We are the Radio” sono circa una dozzina (se si escludono ristampe e compilation varie) ma nel complesso si tratta di tanti piccoli gioielli di psichedelica americana deviata.Ma Newcombe è un grande appassionato anche di shoegaze di stampo britannico. Infatti nella sua musica ci sono sonorità care tanto ai Jesus & Mary Chain quanto a My Bloody Valentine e Spacemen Three. Gruppi come Warlocks, Dandy Warhols ed i ben più famosi Black Rebel Motorcycle Club penso gli debbano essere debitori. Noterete che parlo al singolare, poiché i BJM sono un progetto esclusivo di Newcombe. Egli ha cambiato, strada facendo, praticamente tutti gli elementi (circa quaranta musicisti!) rimanendo il solo a tenere alta la bandiera del suo folle e ambizioso progetto in tutti questi anni. Si è parlato di Velvet ed in effetti il nuovo disco potrebbe essere dedicato proprio a loro. Ma probabilmente la dedica va estesa anche ai già citati My Bloody Valentine. “Automatic Faggot for the People (dice niente il nome?) miscela le sonorità dei Valentine con la band dei fratelli Reid. E poi ancora il rock isolazionista di “Who Fucking Pissed”, il punk distorto di “Golden frost”, il riff ripetuto all’infinito di “Monkey powder” che rievoca magnificamente i Loop. Insomma ce n’è per tutti i gusti. Chiude il disco “Black Hole Symphony”, l’unico brano che si differenzia dal resto e che fa venire in mente perfino alcune tetre atmosfere dei SunnO))). Un album assolutamente “dopante” come del resto è nello stile di questo pazzo interprete, sicuramente complesso ma carico di un certo fascino obliquo. D’altronde, da uno che sbraita “Portatemi la testa di Paul Mc Cartney su un tavolo di legno” cosa si può pretendere? Cristiano "Stonerman 67"
BRONZE, THE – The bronze
Il primo impatto con i The Bronze è abbastanza strano, si è subito portati a pensare che devono aver fatto davvero un buon lavoro se il loro nuovo mini è stato prodotto da un guru come Jack Endino (e si sente…). Eppure in questi 8 pezzi che compongono il dischetto di sonorità aspre e spigolose non ce n’è nemmeno l’ombra. Il rock del trio americano (originario di Seattle ma ora in pianta stabile a Los Angeles) è infatti corposo e dinamico, segue i dettami dello stoner ma non si lascia mai prendere troppo dai canoni asfittici del genere, trasuda passione anni ’70 ed è tutto incentrato sulle chitarre affilate della coppia Craig Mueller (anche egregio vocalist) Tom Dower. L’assenza di un basso in formazione non si fa sentire, il drumming di Scott Jernigan è compatto e variegato e consente alle due asce di duellare a colpi di riff e assoli assassini. Batoste come le iniziali “Payload” e “Into the sun” fanno pensare ad un ibrido di Orange Goblin (quelli degli ultimi lavori tanto per intenderci) e Alabama Thunderpussy, un heavy rock grezzo e primitivo, ruspante ma levigato a dovere, con melodie azzeccate e feeling incendiario, un mix che va ascoltato a volume disumano per far esplodere le casse dello stereo… “Freedom seeker” ha invece un appeal psichedelico frutto di wah-wah e distorsioni stranianti che si adagiano su un tappeto ritmico compatto come il granito: senza dubbio uno degli episodi meglio riusciti dell’intero lavoro. Tra cadenze bluesy e sfuriate selvagge “& Motor”, “Angel” e “Supernova” tornano a picchiare duro trascinandoci di forza su strade impervie e polverose a cavallo di un bolide che corre ad incredibile velocità, mentre “Anthem” ha venature southern che si sposano a meraviglia con le vibrazioni alcoliche fin ora prodotte. Se tutto questo non bastasse ci pensa la conclusiva “Chromoly” (strumentale ad alto voltaggio heavy psych) a terminare un viaggio folle e spericolato. Grazie dunque ai The Bronze per averci fatto provare questa ebbrezza senza doverci muovere dalla poltrona di casa… Alessandro Zoppo
BROTHERS OF CONQUEST – All the colors of darkness
Rock and roll is under siege! Preparatevi ad un duro attacco, gente, questo è un disco che spacca! Adam "The rock n'roll outlaw" Neal (meglio conosciuto come ex membro di Nashville Pussy, Nine Pound Hammer e The Hookers) ha assemblato insieme ad altri quattro balordi un concentrato di rock selvaggio, metal, punk e southern da lasciare a bocca aperta! E' davvero incredibile la carica e l'eterogeneità che questo "All the colors of darkness" (titolo ispirato ad un film di Sergio Martino, ed infatti le tematiche e l'artwork sono costellati di morti, streghe, vichinghi e torture medievali…) sa dispensare: l'iniziale "Kill for rock n' roll" è esemplificativa della proposta, ricca com'è di chitarre heavy targate Judas Priest e Iron Maiden (opera di Tony Rivers e Ian Spiders), ritmiche e cori punk (ottimi il basso di Rodney Roads e il drumming di Z.Z. Priest) e la voce sguaiata e roca di Adam, introdotta in questo caso da lugubri rintocchi di campane. Recentemente mi era capitato di sentire qualcosa di simile solo dai Boulder, ma qui siamo su un terreno diverso, perché la band ha scaltrezza da vendere…questi cinque simpaticoni sanno mischiare le carte in tavola, passando agilmente da momenti southern-punk come "Holy trasformation", terreno di incontro tra Misfits e Dixie Witch, a bordate sudiste lerce e impregnate di whiskey come nella meravigliosa "Hot southern nights" (il titolo dice già tutto…), mid tempo esaltante in quanto a intensità e dal chorus da cantare lungo polverose highways in cerca di un bar in cui sgolarsi l'ennesima birra. "Curse of the witch" fa tornare di nuovo alla mente quel satanasso di Glenn Danzig, ma in questo caso le chitarre ricamano riff e assoli ricoperti di colate metalliche, stessa scia seguita da "Sweet little Connie", song dall'impatto mastodontico dove le vocals in formato carta vetrata di Neal sono anche capaci di creare un giusto impasto melodico, perfettamente mescolato all'ascia furibonda di Rivers. Quando cala il buio arriva "Evil realized" a tempestare i nostri sogni più oscuri con chitarre di marca Black Sabbath e un refrain dal mood punk, mentre "Monster creator" pigia maggiormente sull'acceleratore fondendo Saxon, MC5 e Antiseen…un cocktail da brivido! Già immagino punkers e metalheads seppellire la storica ascia di guerra che li divide e danzare furiosi su una track come "Higher", talmente anni '70 da non far rimpiangere quei bei tempi ormai passati, rinvigoriti solo dalla potenza massiccia che questi ragazzi sanno trasmettere…l'incipit di "Gravel roads" è puro metal, tirato e compatto, un episodio che trascina vorticosamente in un gorgo oscuro e selvaggio (grandiosi i dialoghi tra i due axemen!) prima della conclusione definitiva affidata a "Say goodbye", sentito saluto carico di passione, attitudine punk e assoli dannatamente coinvolgenti. Il rock sporco e cattivo è risorto e ciò è avvenuto grazie a questi nuovi messia, dei fuorilegge al di là di tutte le etichette e le categorie, unici e inconfondibili…Brothers Of Conquest want you to kill for rock n' roll! Buy or die! Alessandro Zoppo
BUDDHA SENTENZA – Semaphora
È un bel viaggio lungo tre quarti d'ora quello che i Buddha Sentenza ci fanno fare con il loro ultimo album, "Semaphora". Si prende il "Jet" ad inizio corsa ed è subito ignoto spazio profondo: 35007 meets un'antica classe purpleiana merito del Synth Maximus che opera nei più remoti stati di coscienza. "Greek Ancestry" parte con una bella frase di banjo e poi si arricchisce di sfumature di violino e chitarre alla Josh Homme: un interessante esperimento di come potrebbe suonare una combriccola folk alcolica infatuata di space rock e Queens of the Stone Age. E la cosa stranamente/fortunatamente funziona. "Kréèn (Patagonia Lights)" sembra cullarsi lievemente nell'assenza di gravità, con un sorriso sornione e frasi incomprensibili lanciate da qualche ominide incontrato nella galassia Tangerine Dream: i tempi rallentano ed è dolce rilassarsi in questo mare.
"Laika" ritorna alla grinta dei Deep Purple e all'hard rock Seventies. C'è più di una impressione occulta tra Sir Lord Baltimore e Captain Beyond, costituendo un vero e proprio piccolo gioiello classico. "Blood Rust" insiste sulla melodia epica e profonda, con numerosi variazioni di tempo, risultando il pezzo più articolato e la finale "The End Is Coming, We'll Take It From Here" – heavy, prog e psichedelica – è il giusto suggello ad un album bello e riuscito. I Buddha Sentenza da Heidelberg, Germania, hanno fatto sempre le cose con passione e sentimento, riuscendo a migliorare album dopo album nel verso di scrittura e di reputazione artistica. Potrebbero diventare, ma in parte già lo sono, dei classici del XXI secolo. Eugenio Di Giacomantonio
BUDDHA SENTENZA – South Western Lower Valley Rock
Dopo il bell'esordio del 2009 "Mode 0909" torna il quintetto strumentale dei Buddha Sentenza con "South Western Lower Valley Rock" a sintetizzare, fin dal titolo, la loro propensione per i suoi caldi del desert rock. I sette pezzi proposti hanno una curiosità: ognuno è anticipato da un breve intro nominato di volta in volta con una lettera dell'alfabeto greco. Se sia un semplice divertimento o un concept legato in qualche modo alla terra dei miti più antichi del mondo non è dato sapere, ma ciò che viene fuori dai 45 minuti pieni dell'album è che i nostri hanno voluto dare al popolo heavy psych un lavoro davvero notevole.I Buddha Sentenza si presentano come una comune freak à la Hawkwind che si trova a jammare con la testa piena di sostanze psicotrope alla deriva delle visioni più allucinanti ed intenti a trasportare nel vortice dell'espansione celebrale il pubblico che li segue. E ci riescono benissimo. Nel viaggio incrociamo sedimentazioni kraut (le band tedesche hanno questo vantaggio: sono portatrici sane dell'influenza che contagiò Faust, Can, Guru Guru, ecc.); passioni latine alla Los Natas, Colour Haze e Kyuss ("Spanish Revenge"); arrangiamenti sulla lunga distanza dei 35007 (mai un gruppo underground ha influenzato così tante band come gli olandesi); stati emozionali sospesi nell'assenza di gravità ("Debris Moon", bellissima e trascendente) e soprattutto una visione della materia chiamata rock che valica i confini di genere. Merito della strumentazione allargata verso i synth che più di una volta trasportano le canzoni oltre... Non c'è altro da aggiungere: bravissimi. Se qualcuno ha voglia di seguire la sentenza del Buddha basta andare sul loro sito ufficiale e troverete in bella evidenza il link dove scaricare l'album per intero a buona risoluzione. Siete pronti per i Viaggi Interstellari? Eugenio Di Giacomantonio
BUEY – Universe Bellowing
I Buey sono un power trio che mescola le menti di Rodrigo Villagràn (chitarra e voce), Guido Mezzinari (basso e voce) e Jordi Molina (batteria) con un risultato dal sapore squisitamente mediterraneo. Le influenze italiane e spagnole si sentono e anche se i ragazzi guardano da vicino il Rancho de la Luna, comunque non dimenticano i sapori e i colori dell'adolescenza; di conseguenza, ascoltando il loro primo album autoprodotto "Universe Bellowing" si ha la piacevole sensazione di vedere un equilibrio dinamico tra i Queens of the Stone Age e il primo underground rock (Litfiba e Heroes del Silencio soprattutto). I primi 3 prezzi sono esemplari in quanto ad espressione desertica legata ad una sensibilità latina, nel canto, nelle melodie e negli arrangiamenti.Le risposte date da "Earth's Answer" sono quelle di un amore genuino verso il songwriting di mr. Homme, senza limitare la propria devozione unicamente verso il plagio, ma affermando la propria identità con risvolti efficaci come in "Piping Down the Valleys Wild" dove si rimane in casa Palm Springs ma dalla parte degli Eagles of Death Metal. Altre volte viene toccato il registro più propriamente post metal ("Infant Sorrow") ma senza intralciare una vocazione sanguigna che celebra le canzoni come una corsa in dune buggy. La stessa operazione che fecero anni fa i mai dimenticati Mammoth Volume (o, per rimanere in ambito underground, i Joe Maple) che svolsero la materia cervellotica del rock verso una rilettura acida ed heavy psych con risultati eccezionali. In quanto a sfumature robot/circolari "Nostrils" è una vera goduria dove i fraseggi di chitarra di Rodrigo si scontrano frontalmente con la sezione ritmica alla maniera delle Desert Sessions della prima ora; "London" fa incontrare il riff a la Brant Bjork con un cantato prossimo al climax New Wave e sembra funzionare; "Not to See" vede Jordi alla voce ed è sfumatamente punk; "On His Head a Crown" chiude il disco con una indole riflessiva che evidenzia come i ragazzi abbiano amato anche il grunge di Seattle. Bisogna puntare su gruppi come i Buey: dimostrano una passione sincera in quello che stanno facendo e una ricerca della soluzione meno scontata che va sicuramente premiata. Come nel caso dei testi che «appartengono al poeta e incisore William Blake» [cit.]. Chapeau! Eugenio Di Giacomantonio
BUFFALO – Temporada de huracanes
La "brisa del desierto" continua a spirare in quel di Buenos Aires ma questa volta assume l'odore acre della pioggia e prende forma nel disco d'esordio dei Buffalo. "Temporada de huracanes" è infatti la prima emissione partorita dalla mente di Claudio, ex membro dei favolosi Natas, il quale in compagnia dei suoi vecchi compagni Alfredo (batteria) e Javier (basso) ha dato vita ad un disco pulsante vitalità e freschezza, proprio come un temporale che rinfresca l'aria pesante d'un giorno estivo. Si tratta anche della prima release della neonata etichetta Dias de Garage, come a voler affermare una precisa identità della scena argentina sia dal punto di vista produttivo che compositivo. Quanto fatto sentire infatti sembra una naturale prosecuzione del suono dei Natas, solo più appesantito, grasso e arricchito di elementi robusti e viscerali nella migliore tradizione passata (Black Sabbath, Led Zeppelin, Leafhound) e presente (Kyuss, Black Label Society, Dozer). Brani come "El peregrino", "Rio arriba" e "Angel de las espinas" mostrano vigore e potenza, integrati in una perfetta essenza di hard rock, stoner e metal. Le chitarre di Claudio tritano riff su riff, le sue melodie vocali sono amabili e suadenti, le ritmiche picchiano selvaggiamente, specie il drumming di Alfredo, incessante e sempre vario. Gli intermezzi radiofonici tra un pezzo e l'altro donano un tocco di stravaganza a composizioni rocciose e ben definite, heavy psych nella sua migliore forma insomma, non c'è che dire… Così, anche quando puntano su una maggiore varietà stilistica, i Buffalo tirano fuori dal cilindro splendidi episodi come "Sed de tormentas", degno dei migliori Queens Of The Stone Age, o "Pescando en la marea", uragano di fuzz guitars così fitte da levare il respiro. Altrove invece emergono variazioni di raffinata psichedelia ("Entonces…", "Y ahora", la conclusiva "Rasante") che giocano su cadenze "pinkfloydiane" e sapori latini. Come se tutto questo non bastasse il cd è completato da una ricca sezione multimediale che comprende video, foto e testi. Cosa aspettate allora, fate vostro questo disco ed immergetevi nella libertà che solo le atmosfere della Pampa sanno dare… Alessandro Zoppo
BUILT-IN OBSOLESCENCE – Abel
Band formatasi a Riccione nel 2010, i Built-In Obsolescence arrivano al debutto con "Abel", EP autoprodotto e registrato ai Go Down Studios di Savignano sul Rubicone. Il quintetto romagnolo almeno negli intenti vorrebbe proporre un post-metal aperto a ogni qualsivoglia contaminazione musicale, ma la realtà dei fatti è ben distante dai propositi. E se ci fosse qualche dubbio, dopo la veloce intro, è "Again" a mettere in chiaro che siamo di fronte a qualcosa di totalmente diverso. Purtroppo un arpeggione da spiaggia e una sfuriata post-grunge non sono il migliore dei biglietti da visita. "Biotronik" confonde ancora di più le acque: un inizio orientaleggiante, un break algido condito di synth e una chiusura in d-beat (!). "Escape" prova ad emergere pur rimanendo nell'anonimato, mentre "Liar" poggia su un ottimo attacco di chitarra di marca Mastodon, ma successivamente si perde nel marasma più totale, con delle parti vocali confusionarie. Chiude "Die Einstürzende der Müllverbrennungsanlage", interessante variazione folk/prog dal sapore bucolico ma ancora una volta inconcludente. La volontà c'è ma tocca ammettere che il primo tentativo dei Built-In Obsolescence è sicuramente mancato. Mancano le idee giuste da mettere a frutto e una capacità compositiva che renda "Abel" un lavoro interessante. Per scacciare lo spettro dello zero musicale, tocca approntare i giusti correttivi per il futuro. Attendiamo fiduciosi. Giuseppe Aversano
BULLFROG – Beggars & Losers
Il turbine psych che inonda l’Italia da parecchi anni non risparmia di certo le sonorità classicamente hard, e all’appello delle uscite più significative non poteva mancare il terzo album degli oramai storici Bullfrog. Il trio di Silvano Zago e Francesco e Michele Dalla Riva ci catapulta con freschezza nell’immortale suono dei primi Whitesnake, Cream e Mountain, oltre a citare in ordine sparso decine di nomi minori che affiorano con prepotenza lungo i 60 bollenti minuti del dischetto.Si può dire che i veronesi siano in larga misura influenzati dagli anni maturi dell’hard, quelli compresi tra il ’72 e il ’76, come dimostrano le varie “Over Again”, “F for Fool”, “Rat Kicking” e l’eccellente hard blues di “Rockin Ball”. L’ascolto si mantiene sempre a livelli alti, passando per le passionali “Detour” e “One for a Zero” (qui non possiamo non tracciare un parallelo con altri grandiosi esponenti della penisola come Electric Swan e Wicked Minds, soprattutto per l’uso durissimo delle tastiere e il focoso approccio al rock duro), la tirata “On Through the Night”, perfettamente calibrata tra furiosi riff e chorus melodici, e la ballata americaneggiante “Every Sunny Day”, che potrebbe essere estrapolata da un album dei Grand Funk o dei tardi Blue Cheer. Sempre in tema di mid-seventies (Ted Nugent, Skynyrd), le melodie di “Keep Me Smile” e “Easy on My Love” precedono la chiusura più dura, “Poor Man Cry”, dove stavolta è la componente british blues a predominare. Numerosi sono stati gli apprezzamenti per “Beggars & Losers” da parte di appassionati ed estimatori: di sicuro i Bullfrog sono uno dei fiori all’occhiello dell’Andromeda Relix. Roberto Mattei
BULLSEYE-POWERROCK – Attitude?!
L’Olanda sembra essere tornata ai fasti di un tempo, quando gruppi sbalorditivi e selvaggi come 7Zuma7, Beaver e Celestial Season primeggiavano nella scena rock europea. Così, dopo l’affermazione degli stupefacenti Astrosoniq, una nuova promessa giunge dal paese dei tulipani, i Bullseye-Powerrock. Questa volta però non siamo di fronte ad uno stoner più psichedelico o votato al sacro spirito del rock’n’roll, bensì ci troviamo al cospetto di un heavy rock sanguigno e coriaceo, influenzato spesso e volentieri dal metal e che per sonorità e possanza possiamo accostare a Corrosion Of Conformity e Black Label Society. Ecco dunque prendere il sopravvento i riff “spaccaorecchie” di Danny e Marco (anche ottimo vocalist, dal timbro roco e possente) e le ritmiche tritate e monolitiche di Edwin “Frog” (basso) e Eddy (batteria). Nessuno spazio a dilatazioni lisergiche, ciò che prevale è un sound quadrato e titanico, dove si inseriscono assoli carichi di groove e sapori southern stoner. Le composizioni sono lunghe e tirate (e questo è l’unico difetto, una maggiore brevità le avrebbe rese ancora più ficcanti), con aperture melodiche che rimangono in testa sin dal primo ascolto, come evidente nelle prime due tracce, “Misery instead” e “Craving in sorrow”. “Rolling thunder” capitalizza quanto detto in precedenza (chitarroni alla Zakk Wylde e belle melodie), aggiungendo al tutto un’attitudine libidinosa in tipico stile Monster Magnet (almeno quelli degli ultimi lavori…), mentre la conclusiva “Ain’t gonna beg” si rifà a certi canoni tipicamente anni ’70 in un misto di hard rock e southern condito da break asfittici e furiose ripartenze. Si rivelano una piacevole sorpresa i Bullseye-Powerrock: il mondo del rock ha bisogno di gruppi onesti e tosti come loro! Alessandro Zoppo
BULLSEYE-POWERROCK – Pulverize
"Attitude?!" è stato il disco d'esordio, datato 2003. Autoproduzione che lasciava intravedere ottime prospettive per gli olandesi Bullseye Powerrock. I quattro tornano alla carica in questo 2005 sempre più affollato di uscite con il nuovo "Pulverize", lavoro che capitalizza quanto fatto sentire nel debutto. Lo stile infatti rimane sempre quello: un heavy power rock tosto e vibrante, condito di sfumature southern e rifferama metallico. Un collage di suoni che richiama il mondo aggressivo e sudicio di Zakk Wylde e la sua Black Label Society. O quello di Pepper Keenan ed i suoi Corrosion Of Conformity.Rispetto al mini "Attitude?!" però, le cose non sempre funzionano bene per i Bullseye. Dinanzi a dieci tracce, il ritmo spesso cala, soprattutto nella parte centrale, dove c'è qualche flessione di troppo. Insomma, non sempre è necessario picchiare giù duro per essere efficaci. Occorre essere più scaltri per non annoiare e variare il piatto proposto con qualche soluzione maggiormente melodica o articolata. A ciò penserà comunque il tempo, perché per il resto come primo capitolo discografico "Pulverize" ha delle buone potenzialità. Pezzi come l'iniziale "W.M.G.I.", le bellissime "Another deathride" e "Rollin' thunder" uniscono qualità e quantità: tonnellate di riff dal groove pazzesco (il lavoro di Marco e Danny alle chitarre è eccellente) e ritmiche che non lasciano scampo. Quando anche le vocals, di solito grezze e possenti, si lasciano andare a toni malinconici ("The wages of sin") il gioco riesce perfettamente. E se "Ain't gonna beg" mischia l'hard southern con certo arena rock ottantiano, sono assolutamente da approfondire in futuro gli intrecci elettro acustici di "Broken & paralized", preludio alla ballata conclusiva "Home". Se si affrancheranno dal modello "wyldeiano" per i Bullseye Powerrock si prevede un futuro rassicurante. Con un pizzico di accortezza in fase di songwriting non avranno certo problemi a trovare un'etichetta. Teneteli d'occhio… Alessandro Zoppo
BURIED AT SEA – Ghost
Tornano i Buried At Sea di Sanford Parker, cervello dei Minsk nonché produttore (Unearthly Trance, Yakuza, Rwake, Lair of the Minotaur), qui in compagnia dei sodali di un tempo che sembrava avesse "abbandonato" per iniziare l'attività con quella che ora è la sua band primaria.Il disco, pubblicato il 23 ottobre, è distribuito dalla Neurot Recordings, sempre più garante di qualità (sembra uno scadente e squallido spot, ma ci sono dubbi in merito al valore dell'etichetta?). Segue l'ottimo "Migration", del 2003 ma distribuito in Europa nel 2006, e l'altro ep "She Lived For Others But Died For Us" (2004, un dodici pollici stampato in 539 copie su vinile grigio, con la partecipazione di Kevin Sharp dei Brutal Truth nella cover di "White Nigger" degli Eyehategod). Una stupenda copertina raffigurante una sorta di processione di incappucciati dai tratti sfumati in teschi, su sfondo di scarni alberi in una foresta innevata, presenta il disco: l'immagine descrive con pertinenza l'atmosfera che si respira. Si tratta di una composizione scaturita da registrazioni effettuate tra il 2005 e il 2006, caratterizzata da riferimenti ai Neurosis e gli Isis di "Celestial", pervasa da un plumbeo alone doom. Il disco inizia a intrigare tra trame intessute di sludge e disturbanti rumorismi elettronici finché, dopo circa 13 minuti, un improvviso passaggio ambient/drone, seguito da uno squarcio ferino nel quale hanno risalto le urla belluine di Parker e del bassista Brian Sowell, conduce a una strumentale discesa dentro le spire dell'inquietudine. Infine, un nuovo rabbioso assalto conclude l'opera. I trenta minuti del brano lasciano all'ascoltatore sensazioni di oppressione e ossessione (a tratti si può pensare anche a "Born Again" degli Overmars, che ha un approccio alquanto simile a "Ghost"), ma chiunque avrà la volontà di percepirle addentrandovisi spererà di vedere i quattro dal vivo, qualora decidano di non continuare a prediligere la condizione di "fantasmi". Raffaele Amelio
BURNING SAVIOUR – Burning Saviour
La prima cosa che viene in mente ascoltando gli svedesi Burning Saviour sono gli echi dei favolosi ed oscuri seventies, Sabbath e Pentagram in testa, seguiti a ruota da tutta quella frangia più mistica e darkeggiante del progressive rock. Questo è il loro disco di debutto e dimostrano di aver assimilato appieno la lezione dei loro maestri, perfezionandola con un tocco di attualità (non troppa…) e creando pezzi alquanto strutturati e ottimamente eseguiti ed arrangiati. Forse la ricercatezza di alcune parti fa perdere un po' l'immediatezza e che avrebbe conferito maggior calore ad alcuni pezzi, ma dopo ripetuti ascolti se ne cominciano ad apprezzare le sfumature e le molte qualità cominciano ad emergere, un po' come nell'ascolto di certo progressive rock. A spiccare lungo tutta la durata del full length è sicuramente la voce del singer (nonché chitarrista) Andrei Amartinesei, un riuscito incrocio tra quella di Bobby Liebling dei Pentagram e Zeeb Parkes dei Witchfinder General: voce curata e alquanto epica quindi, alle quale fanno da contrappunto gli intrecci delle due chitarre. Da segnalare la presenza del flauto in Tree And Stone nella quale, forse è un po' scontato, aleggia il fantasma dei Jethro Tull, rievocati in modo forse un po' più pesante e metallico pur senza esagerare.Una gradita sorpresa questi Burning Saviour, altro centro messo a segna dalla I Hate Records che sembra stia offrendo dell'ottimo doom in ogni sua sfumatura. The Bokal
BUSHMAN’S REVENGE – You Lost Me At Hello
Il progetto Bushman's Revenge ha tutto per attirare l'attenzione di una fascia di ascoltatori trasversale: free jazz, hard rock acido, stoner, noise... un calderone incredibilmente ben miscelato che nel giro di otto composizioni lascia quasi senza fiato. Capitanati dal chitarrista e mastermind Even Helte Hermansen, questi ragazzi norvegesi hanno dalla loro una tecnica invidiabile ed un gusto per le composizioni intricate dall'approccio "free" proprio del jazz. La chitarra di Even è un vortice impazzito che colora e riempie i pezzi in modo eccellente e viene coadiuvato da una sezione ritmica non particolarmente fantasiosa ma molto serrata e compatta. Esempio lampante di questo "modus operandi" è "Bølehøgda Rock City" dove un retrogusto noise ‘melvinsiano’ e concitato dona al tutto quel quid di pazzia e cacofonia che fa impennare l'indice di gradimento. È anche vero che a volte i nostri forse esagerano nel giocare con gli strumenti e sembra quasi di trovarsi di fronte ad una accozzaglia di suoni senza filo logico, sensazione che fa capolino ben più di una volta e che lascia un po’ straniti. Disco interamente strumentale, va sottolineato, cosa che screma se possibile ancor di più la proposta dei norvegesi che sa essere intricata ed ostica così come ammaliante ed intrigante. Una piccola rivelazione che consigliamo ai più curiosi. Davide Perletti
BUTTERED BACON BISCUITS – From the Solitary Woods
Esordio interamente autoprodotto, rilasciato per di più sotto licenza Creative Commons e dunque meritevole di rispetto, per gli italiani Buttered Bacon Biscuits. Quintetto non più giovanissimo, con tanta esperienza perché musicisti da anni sulle scene ed on stage, ma che ha l'energia e la voglia dei ventenni. Le atmosfere degli anni settanta sono cariche di ricordi e di grande musica, forse perché è il decennio che più di tutti ha forgiato la musica (relativamente) pesante e che ha segnato pesantemente il desiderio di cambiare e di sperimentare, passando dal prog all'hard rock, fino a giungere alle esperienze del movimento kraut.Dai primissimi minuti del full lenght traspare un irresistibile appeal per la melodia e per l'orecchiabilità dei brani: radio friendly che però è “nemica” delle classifiche degli ultimi anni. Se infatti anziché essere pubblicato nel 2009, fosse stato un vinile del 1975 allora non ci dovremmo stupire di trovare alcuni brani tra le decine di singoli che ancora oggi ascoltiamo con piacere e nostalgia. Il disco si snoda tra un hard rock con una forte matrice blues ed un prog dalle venature psichedeliche, cogliendo dai grandi del rock le sue influenze più forti. Questo non è assolutamente un difetto perché non si scade nel mero manierismo revival, ma in qualcosa che si è in debito ora con i Deep Purple ed ora con i Pink Floyd, ma lo fa rielaborando e “ristrutturando”. Si parte subito con l'ottima "Cross-eyed Jesus", intensa e catchy , uno dei brani migliori e più immediati. Segue "Losin' My Pride", con il suo cocktail invitante di stoner e hard rock, a cui si affiancano pian piano atmosfere oniriche e sognanti. "Another Secret in the Sun" e "Essaouira" rilassano e ci fanno sentire al sicuro, dei veri e propri safe place in cui riposare e sapere di essere protetti. "I Hope You're Feeling Bad" rincara la dose di energia galvanizzante e speziata, con un ritornello intrigante. Parlare di Allman Brothers, The Who, Black Sabbath, Led Zeppelin e Jimi Hendrix sarebbe noioso quanto banale perché sfidiamo qualunque hard rocker ad affermare di non avere una forma mentis legata a questi nomi. Chiude la tripletta "Into the Wild", "No Man's Land" e "State of Mind", dimostrazione di ottime idee, che permettono ai BBB di ambire ad una maggiore visibilità e vaste platee. Gabriele Sgabrioz Mureddu

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