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Da Captain Trips – Anechoic Chamber Outcomes I
L'analisi delle profondità del suono psichedelico dei Da Captain Trips necessitano delle più precise misurazioni, realizzabili in totale assenza di echi superflui che possano disturbarne la propagazione nello spazio aperto. Ecco spiegato il perché del titolo (la camera anecoica è proprio un ambiente "chiuso" di laboratorio strutturato per ricreare tali condizioni) e di conseguenza si può facilmente immaginare la proposta fluida e policromatica racchiusa nei solchi del primo full-length della band lombarda. "Leaving the Mainland Again", la nuova versione di "Merkfolk Ride" e "Floating" ci fanno galleggiare in un campo elettromagnetico privo di interferenze e asprezze, capace di portare la nostra visuale al di sopra di creste montuose dalle quali si erigono magnifiche guglie naturali. Il cambio di elemento è affidato invece con le acquatiche "Sargassian Way to Definitive Blue", "Old Man to the Sea" e "Siren's Call", avvincenti racconti in musica di immersioni nelle profondità color smeraldo, mentre proseguendo nell'ascolto trova spazio anche la danza in controluce di "Mar-Has-Kas" (pilotata da una grande solista). Lasciatevi trasportare dai Captain Trips. https://www.youtube.com/watch?v=aT3B4XNP3P4

Roberto Mattei

DADDY LONGHEAD – Supermasonic
Il leader dei Butthole Surfers, Jeff Pinkus, oltre che produttore di gruppi come i Dixie Witch, possiede un gruppo tutto suo autore di “Supermasonic” e “Classics”, i Daddy Longhead, power-trio che si può ritenere padre putativo di quello che è stato definito southern-stoner. Decisamente da rivalutare, visto che le influenze punk-noise li rendono molto originali e appetibili, e li affiancano ai grandi Fatso Jetson. Piace poi anche la loro vena sarcastica, che però non è certo una scusa per mascherare carenze tecniche, visto che Jimbo Youngue è un signor chitarrista, e tutti i brani pur durando 2/3 minuti sono di ottimo livello. La voce alcolica e roca di Pinkus (anche bassista) è adattissima a episodi come “Churn”, “Amlgam Eggs” e “Erson”, noisy e sudiste, e in “Shingles” e “Undertaker” fanno capolino qua e là i Black Oak Arkansas, ma il suono è sempre decisamente stoned. “Belize” anticipa in maniera più concisa Dixie Witch e Gideon Smith, “Grey Man” e “Happy Cow” sono dei blues sudisti di quelli che mandano fuori di testa chi adora il gruppo dei fratelli Lalli, e soprattutto “My Feet Are Smoking” è uno scatenato country rock eterodosso con tanto di violino elettrico. “Raisin”, “Just For A Day” e “2nd Hand Noose” sono all’apparenza più tradizionali, ma sfociano imprevedibilmente in fraseggi rumoristici e urticanti. Da nascondere ai puristi! Roberto Mattei
DÄTCHA MANDALA – Anâhata
Il simpatico sette pollici dei Dätcha Mandala, francesi di Bordeaux, vede il classico pezzo per lato nel migliore stile anni Sessanta, con due ipotetiche hit da demandare ai jukebox. Sul lato A abbiamo "Misery" che paradossalmente riporta alla mente l'Elton John dei Settanta con qualche accenno di Muse.
Dall'altro lato una più corposa e southern "Mojoy", quasi uno standard blues deragliante in protuberanze hard ZZ Top meets Wolfmother. Registra e produce rigorosamente in analogico Clive Martin (Queen, Tom Yorke, The Cure, Midnight Oil, Skunk Anansie), produce la MRS Red Sound, ovvero l'etichetta creata dai Mars Red Sky. A voi la scelta di approfondire: la band esiste da sette anni ed ha pubblicato prima di questo sette pollici un paio di EP. Eugenio Di Giacomantonio
Dave Catching – Shared Hallucinations Pt. 1: Sonic Salutations From the Venerable Vaults of Rancho de la Luna 1972-1984
Deus ex machina dei Queens of the Stone Age, fondatore della memorabile creatura desert stoner earthlings?, chitarrista degli Eagles of Death Metal, Dave Catching è una figura leggendaria. Non fosse altro perché è l’uomo che si cela dietro il Rancho de la Luna, lo studio di registrazione di Joshua Tree creato nel 1993 con il compianto Fred Drake. È in quel luogo magico che gente come Kyuss e Fu Manchu ha partorito i propri capolavori. Ma non siamo qui a celebrare un mito che non ha bisogno di essere osannato. Catching si è chiuso in studio con i suoi tanti amici e collaboratori e ha dato vita al miglior disco “stoner” (virgolette d’obbligo) del 2017. “Shared Hallucinations Pt. 1: Sonic Salutations From the Venerable Vaults of Rancho de la Luna 1972​-​1984”, edito da Dine Alone Records, è un happening tra amici, è una serata di baldoria e piacevoli ricordi, è quel cerchio magico di fratelli e sorelle che non vedi da anni ma poi è sempre come se fosse passato soltanto un giorno o due. L’approccio richiama inevitabilmente i QOTSA e le Desert Sessions. E a ragione: è Dave stesso che li ha plasmati. Catching, però, ci tiene a precisare che il suo riferimento sono le classiche compilation psichedeliche degli anni Sessanta, dai “Nuggets” ai “Pebbles”. Un pugno di collaboratori fidati, una dozzina di brani che funzionano a meraviglia, una valvola per dare sfogo alla propria creatività. Che siano i fantasiosi The Dreaded Lovelies (ricordate il primo studio album degli earthlings?) o i Mojave Lords (Bingo Richey è vicino di studio di Dave), il risultato non cambia. Questo disco è un concentrato di canzoni che rapiscono al primo ascolto. Basta ripassare “Ghost Stories”, “Electric Neon Feathered Hair” e “Overdrive”: tre gioielli robot rock costruiti su refrain a presa rapidissima e frizzanti giri di chitarra. È divertente ascoltare e fare una serie di considerazioni (oltre a divertirsi un mondo, ovvio). “Shake Shake Shake” suona come un girotondo intorno al Mondo Generator. “Your Daddy's Waitin'” sembra uscita da una jam con Brant Bjork e i suoi Operators. “C'mon Pt. 2” sarebbe stata perfetta su “Sounds of Liberation” dei Ché. Il blues alcolico e sbilenco di “Pretty Bird” sarebbe il ritorno che tutti i fan di Chris Goss e i Masters of Reality attendono da “Pine Cross Dover”. Ci si sente a casa persino quando i toni si fanno languidi (“Candy” potrebbe piacere a David Lynch) e dall’oltretomba spunta la voce di Mark Lanegan (“Ghost”). In effetti, a pensarci bene, in tutti questi progetti e tra tutti questi nomi c’è stato lo zampino di zio Dave. E così il cerchio di chiude. Attendiamo con impazienza “Shared Hallucinations Pt. 2”. [caption id="attachment_6038" align="aligncenter" width="640"]Dave Catching - Shared Hallucinations Pt. 1: Sonic Salutations From the Venerable Vaults of Rancho de la Luna 1972-1984 Dave Catching[/caption]   Alessandro Zoppo
DAVE HEUMANN – Here in the Deep
A Dave Heumann affiderei il destino dell'intera musica rock dell'avvenire. Il suo tocco speciale, la genuinità dell'artista e non ultimo il suo contributo con gli Arboretum, hanno contribuito a definire una nuova sensibilità espressiva a quello che oggi viene genericamente definito come rock di classe. Attenzione non solo Seventies rock o psychedelic rock, bensì rock a cui hanno dato un'anima e non soltanto ormoni. "Coming Out the Fog", l'ultima fatica degli Arboretum, ci ha portato fuori dalla foschia del bosco, verso le rilassanti rive di un fiume pacifico. Da lì abbiamo rimirato il sole, la luna, le stelle. E nella stessa direzione procede "Here in the Deep": una bucolica contemplazione della natura e del destino degli esseri umani.
La chitarra acustica è l'elemento predominante dell'intero mood del disco e, alla stessa maniera di Jason Simon, titolare dell'emerita ditta Dead Meadow, Dave ha dato voce alle composizioni che in un modo o nell'altro uscivano dal binario della band madre. Nelle punte più alte del disco si ha la sensazione di trovarsi al cospetto di Donovan, tanto è dolce il miele che viene profuso. La strumentale "Leave Underfoot" non è tanto distante dal primo Angelo Branduardi, per esempio. Ma il nostro è cresciuto anche con una valanga di distorsione nell'amplificatore: l'opener "Switchback", insieme a "Ends of the Heart" e "Greenwood Side", ribadisce che le radici non sono state dimenticate, seppur ammorbidite. Qualcosa del genere aveva fatto capolino nella discografia degli Arboretum nelle uscite a lato: "Covered in Leaves" e "A Gourd of Gold" esaltavano la vocazione di Dave a ricercare qualcosa di non convenzionale e ricco di pathos. Il resto naviga verso lidi finora inesplorati.
"Holly King on a Hill" si tinge della porpora mediorientale con quel suo incedere stonato e ammaliante. Molte volte si sentono arrangiamenti che utilizzano synth vintage, di ottantiana memoria, insieme a clarini e archi, come nella leggerissima "Cloud Mind" che sfiora i sensi senza appannarli. Tutto è omogeno, amalgamato ed organico. Per chi ama gli Arboretum, "Here in the Deep" è vivamente consigliato per arricchire la propria discografia nella sezione smoke one joint and relax. Per chi ha bisogno di adrenalina e cafonaggine, tenersi alla larga. Il nostro Dave potrebbe sembrare un vecchio zio rincoglionito. Eugenio Di Giacomantonio
DAVID LENCI & THE STARMAKERS – David Lenci & The Starmakers
David Lenci. Quante volte abbiamo avuto modo di vedere questo nome seguire la dicitura Engineered, Recorded, Mixed, Mastered, Produced by nelle note di copertina di dischi importanti della scena italiana underground? A considerare la pletora di band che hanno soggiornato nel RedHouse Studio di Senigallia, Ancona, sede operativa del nostro che ha visto passare il genio del male Steve Albini, possiamo rispondere che questo è il nome attraverso cui sono passate (e passano ancora oggi) molti gruppi che vanno alla ricerca di un suono, di un carattere, di una cultura. Cultura che in molti paesi hanno definito post rock, ma non solo. Gang, Vortice Cremisi, Song:ohia, Bartok, Ray Daytona, Alix, Dot Allison e Dead Elephant sono artisti che nel ribollito "post" non sono coerentemente a loro agio e che hanno avuto, nelle mani di Mr. Lenci, la possibilità di avere un suono riconoscibile. Dopo anni passati dietro la cabina di regia il nostro si è deciso a formare un gruppo, semplicemente David Lenci & The Starmakers, e di dare alle stampe un primo disco omonimo via Go Down Records, anno domini 2013. I quaranta minuti del lavoro sono introdotti da "Refugee" e "Heartattack" e si intuisce l'intento di riscoprire da subito un certo classicismo americano anni Novanta. La melodia e la bella scrittura sono predominanti alla maniera dei primi Screaming Trees e si paga qualche tributo allo stile di Mark Lanegan; emerge anche una vena dissonante simile agli Shellac post "At Action Park". Su questi umori predominanti seguono gli altri pezzi, andando a lambire malinconie elettriche ("Carlo", "A Matter of Choice"), punte grezze di diamante rock ("Beatine Hearts") e festeggiamenti ledzeppeliniani ("Sailing to a Dream", scelta come singolo apripista dell'intero lavoro). Al termine dell'ascolto rimane l'impressione di un lavoro fatto con molta cura e dedizione insieme agli amici con i quali dividere più di una passione. Che sia al di qua o al di là del mixer David Lenci dimostra di possedere una naturale inclinazione a dare forma compiuta e dignità artistica a quella massa misteriosa che si aggira nell'aria chiamata musica. Eugenio Di Giacomantonio
DAVOLINAS, THE – Edge of a new day
Arrivano al primo full length con l'appoggio della tedesca Nasoni Records i danesi Davolinas, trio dal tiro indiavolato che ha in Copenhagen la propria base operativa. Dopo un paio di demo editi nel 2003 ("Into the ocean" e "Your sleepy days are through"), la band giunge finalmente al traguardo del debutto sulla lunga distanza e si presenta all'audience internazionale con questo "Edge of a new day". Il sound proposto è un corposo heavy rock psichedelico, una sorta di ideale punto d'incrocio tra il passato dei Blue Cheer ed il 'presente' degli On Trial, ma come se ad eseguire il tutto ci fossero Josiah, Nebula o i primi Fu Manchu.Riff, wah-wah e solismi infuocati dunque, sorretti da una sezione ritmica possente e precisa (che vede Per alla batteria e l'ex The Great Escape/Sons of Kyuss Uwe al basso, sostituto di Torben, ex Magnified Eye) e dal cantato sinuoso della bella Lene, che si destreggia egregiamente anche alla chitarra. Ciò che manca ancora ai Davolinas è una certa versatilità in fase di songwriting, perché in 50 minuti di durata a volte si sbanda e ci si fossilizza spesso sulle medesime soluzioni compositive. Tuttavia considerando che siamo di fronte ad un'opera prima si tratta di un difetto che in futuro potrà essere arginato. In questo senso devono essere esemplari le variazioni che alcuni episodi apportano al piatto principale. Se brani come la title track, "I want you to burn with me" o "Stormy street" sono rasoiate hard dal piglio groovy, rabbioso e al tempo stesso dilatato, "Happiness is fragile" e "Gotta connect" sono ariosi momenti psichedelici che donano ampio respiro, la cui presenza risulta fondamentale nella riuscita complessiva del lavoro. Non a caso la conclusiva "Destiny" media perfettamente tra questi due estremi, ponendo fine a "Edge of a new day" con un distillato 'sabbathiano' di hard rock e heavy psych. Sono bravi i Davolinas, con un pizzico di personalità e voglia di osare in più al prossimo lavoro potranno fare il botto. Alessandro Zoppo
DAWNRIDER/WAR INJUN – Split 7″
Interessante split prodotto dalla portoghese Blood And Iron Records, la quale ci offre un assaggio di due interessanti realtà in ambito classic doom. I primi sono i connazionali Dawnrider, una relativamente nuova formazione alle prese con un Doom Metal dalle forte tinte heavy rock in cui groove e pesantezza si fondono egregiamente grazie ad un songwriting ben articolato ed efficace. Le coordinate dei portoghesi sono quelle della scena americana area Maryland di circa un decennio fa, mischiate con l’approccio heavy stoner di Spirit Caravan, più una certa venatura heavy di sicuro impatto.Col secondo lato del 7” ci spostiamo davvero nel Maryland, con la presentazione di una nuova band proveniente da questa prolifica (in ambito Doom) zona degli Stati Uniti. I War Injun sono una nuova band comprendete Kyle Van Steinburg degli Earthride e nella quale ha militato anche lo stesso Dave Sherman (Spirit Caravan e Earthride appunto). I due brani presenti risalgono al 2003 e sono stilisticamente non lontani dal sound delle band appena citate, in particolare dei granitici Earthride. Meno articolati e più diretti rispetto ai Dawnrider, i War Injun giocano più su rallentamenti e riff monolitici da cui emergono altre influenze di rilievo, dai Pentagram ai primi e sulfurei High On Fire. Un interessante split per due realtà assolutamente da tenere d’occhio sulla lunga distanza (quella del 12” ovviamente). Witchfinder
DEAD DOGS, THE – Demo 2005
Sludge core bardato metal e crossover proveniente da Napoli, è questa la strada intrapresa dai promettenti The Dead Dogs, quartetto che fa dell’aggressività violenta la sua cifra stilistica significativa. D’altronde Napoli in ambito rock e metal è stata all’apice proprio quando il disagio urbano partoriva grandi gruppi thrash, hardcore, death e crossover. I nostri appartengono a quest’ultima schiera ma il loro spettro d’azione abbraccia vari campi: non ci sono solo chitarre affilate e vocals brutali, c’è anche un gusto spiccato per tonnellate di groove al limite dello stoner e forti strizzatine d’occhio verso gli orpelli southern e sludge di Down, Alabama Thunderpussy, Crowbar e Corrosion Of Conformity.Se infatti in “Plastic face” e “Best friend” sono Pantera, Machine Head ed Entombed le influenze che balzano più all’orecchio (tonnellate di riff grezzi e tonanti, ritmiche trita tutto, growls incazzati, giusto qualche pausa per smorzare i toni e ripartire a pestare), “Red altert”, che è non a caso il brano meglio riuscito del dischetto, è impreziosita da un giro heavy blues che emana groove a più non posso. È dunque questo il terreno sul quale i Dead Dogs dovrebbero impegnarsi e proseguire per trarne i risultati migliori. Tanto è vero che la conclusiva “The blando” inciampa sul solito problema: picchiare giù duro o avvolgere con ossessive svisate elettriche? I Dead Dogs sembrano ancora indecisi su quale strada prendere. Dal nostro punto di vista non possiamo che augurar loro di andare là dove porta il groove… Alessandro Zoppo
DEAD DOGS, THE – Man or foreman
Avevamo recensito i napoletani The Dead Dogs già qualche tempo fa in occasione di una demo del 2005. Oggi i quattro ritornano con un nuovo promo che fa davvero scintille. Se in occasione della prima uscita rimproveravamo loro una certa indecisione su quale strada sonora intraprendere (southern sludge o crossover?), ora siamo felici di essere stati soddisfatti. I nuovi brani pigiano infatti sul versante targato Down/Crowbar/Black Label Society e lo fanno con potenza, efficacia e soprattutto buone capacità di scrittura.Alex (chitarra), Gigi (voce), Filo (basso) e Dario (batteria) pestano come dannati e fanno di Napoli una New Orleans tutta italiana. “Man or foreman” e “So many ways” sono due inni, dichiarazioni d’intenti di un modo di fare rock’n’roll autentico e senza compromessi. “Southern soul” è una bomba in stile Corrosion Of Conformity, con le chitarre e le ritmiche ad accompagnare il growl e le clean vocals di Gigi. “Only broken music” sta perfettamente a cavallo tra metal e hardcore (senza contare un handclapping super contagioso), “Chill out” porta in dote tonnellate di groove ed è la canzone perfetta per scuotere il vostro capoccione. Il messaggio è chiaro: fuori i deboli di cuore, qui c’è rabbia, potenza, sudiciume. Only broken music! Alessandro Zoppo
DEAD IN THE WATER – Echoes… In The Ruin
Vengono da Hämeenlinna, Finlandia, e si fanno portatori di un moderno death/doom sound infarcito di atmosfere post core, divagazioni post rock e tanta desolazione, la desolazione tipica della loro bellissima terra. Parliamo dei Dead In The Water, band fondata nel 2000 e con alle spalle un Ep/7’’ e un Mcd/10’’ rispettivamente datati 2002 e 2003, qui al primo full length dal titolo “Echoes... in the ruin”.Le note di piano iniziali sono un sogno premonitore che ci conduce dritto verso il baratro. “The silent will carry on” è una marcia disperata verso la riscoperta di se stessi attraverso la solitudine. Maestosi riff funerei nella seguente “Darken the skies”, nella quale sono presenti tutte le variazioni musicali di cui sopra e nella quale screaming e growling vocals si scambiano spesso di ruolo, ricordando in diversi punti i connazionali Swallow The Sun, influenza che farà capolino diverse volte nel corso dell’album. Il gelo si prende una piccola pausa, il tempo di un breve intermezzo strumentale separa le precedenti tracce dagli ultimi tre brani dell’album. “In disguises” rappresenta il brano in cui emergono maggiormente le influenze degli Isis, soprattutto nel riffing di chitarra, spesso molto vicino alla band di Aaron Turner. La successiva “Emptiness inside” trova la sua anima migliore nelle ampie zone di respiro ritagliate sapientemente tra urla strazianti e incedere asfissiante. Chiude il cerchio la sempre-grigia “Burden”, che procede sulla scia delle altre song, monotona ed oscura. In definitiva un lavoro ben riuscito, capace di amalgamare diverse influenze in modo discreto. Tuttavia si ha l’impressione che in diversi punti ci sia un lavoro particolarmente manieristico, ma è solo questione di tempo... e di maturità. Davide Straccione
DEAD MAN – Euphoria
Un Taraxacum officinale bianco su campo color senape, la semplicità della natura al servizio della comunicazione e dell'arte visiva, si staglia orgoglioso ed al contempo leggiadro nella copertina dell'ultimo lavoro degli svedesi Dead Man.La band di Örebro torna con grande personalità a distanza di due anni dall'esordio, disco di psichedelia, folk e musica di matrice settantiana che aveva riscosso così tanto successo, ed assolutamente meritato. La ricetta di questo nuovo lavoro migliora come l'idromele lasciato ad attendere le stagioni, arricchendosi di sapore e nuove sfumature; il flower power e la placidità hippie non è mai andata via, perchè fioriscono come i soffioni di campo , spargendosi al vento di marzo, con un erbario composto di folk, psichedelia di matrice americana (Jefferson Airplane, Grateful dead), ma anche hard rock e acid più sostanzioso (Blue Cheer, Black Sabbath), sebbene il tutto con una visione più avvolgente e rilassante. Si assiste alla celebrazione del matrimonio tra il folk americano e un certo gusto retrò che ha fatto le fortune di band quali Witchcraft, Graveyard, Black Mountain e Dead Meadow, soprattutto questi ultimi due hanno diversi punti di contatto con Euphoria dei Dead man. E proprio l'euforia, quel'esplosione di gioia briosa e solare, colpisce l'ascoltatore e lo rilassa, massaggiandogli le tempie con un balsamo di tigre fatto di chitarre acustiche, arpeggi e riff che ora si fanno vicini ai vecchi Cream-Blue Cheer (“I must be blind”), ora invece sono più legati ad un hard rock venato di ottima psichedelia e progressive (“Light vast corridors”), trascorrendo il tempo tra una ballad (“today”) ed un brano strumentale (“from a window”). Insomma, un disco che consiglio caldamente, per le serate autunnali, ma anche per i placidi viaggi, un disco che emoziona e tiene compagnia. Gabriele "Sgabrioz" Mureddu
DEAD MEADOW – Howls from the hills
Sognante e cadenzato, arriva il secondo album dei folletti Dead Meadow che avevamo molto apprezzato nel loro primo omonimo lavoro, un concentrato di pura psichedelìa americana che lasciava intravedere la voglia di riscoprire le radici folk da cui il movimento psichedelico di trent’anni fa era sorto e si era evoluto. Una nuova ripartenza. Con Howls From the Hills la destrutturazione del linguaggio musicale americano si fa consapevole intenzione e costituisce la base da cui i Dead Meadow partono per il loro trip. Al suon di droni e sitar si apre la iniziale Drifting Down Stream, una lunga, siderale distesa analogica condotta dal riconoscibilissimo timbro nasale di Jason Simon ( non l’avrei detto, Ozzy ha fatto scuola anche in questo!); i Led Zeppelin fanno capolino nella seguente Dusty Nothing, una delle due mosche bianche più rock insieme a Everything’s Goin’On, perchè il resto del disco è un intenso viaggio psichedelico che sprizza acidità nel suo scorrere lento e seziona la musica tradizionale a stelle e strisce contorcendola, avvolgendola, allungandola fino a creare un effetto di beato stordimento. Trasuda di country-folk The White Worm e delta- blues il tema principale di The Breeze Always Blows ma sorprende profondamente il folk di The One I Don’t Know: le accordature aperte delle chitarre tessono assieme al sitar melodie agresti vissute su una sedia a dondolo e sussurrate al vento che spira sull’immenso nulla della prateria americana. In una parola, roots! I Dead Meadow si confermano tra le nuove leve neotradizionaliste fuori dal coro che partendo dal cuore della musica popolare del loro paese cercano nuovi orizzonti. ‘Howls From the Hills’ accompagnerà le notti di chi vorrà viaggiare solitario senza muoversi da casa. Non si può chiedere altro! Francesco Imperato
Dead Meadow – Old Growth
Se apprezzate i soliti Dead Meadow, forse rimarrete delusi dall'ascolto dell'ultima fatica del terzetto. Non perché il disco non sia oggettivamente ben suonato o privo di idee, ma semplicemente perché non è un disco di heavy psych - o psichedelia lisergica e distorta che dir si voglia - a cui ci aveva abituato il gruppo di Washington DC. O meglio, la psichedelia è presente ma non è preponderante e uber alles, come accadeva in 'Feathers' o in 'Shivering King and Others', o addirittura nel disco omonimo: tutti grandi lavori che erano stati capaci di piazzare i Dead Meadow ai vertici delle band psichedeliche moderne e attuali, senza sfigurare affianco a band di grandissimo livello come i Colour Haze o i 35007. Quello che manca in 'Old Growth' è proprio la prevalenza di una psichedelia acida, figlia dei 70 e dei 60, ma mai derivativa o ripropositiva di sonorità forse ammuffite e già ben realizzate dai Pink Floyd barrettiani o dai 13th Floor Elevators. No, manca quella capacità di manifestare attraverso la musica immagini, colori e sensazioni reali come sfrenate corse nelle praterie americane, guidati da un totem indiano. Mancano quelle folgoranti melodie che permettevano l'obnubilamento della coscienza, alleggerivano la testa e non ossigenavano perfettamente i nostri centri nervosi centrali, visto che la percezione sensoriale appariva distorta e poco attinente alla realtà. Ma, hey, non è tutto perduto. Questo è un gran bel disco: da viaggio, ma solo fisico e non più un bel trip da mescalina. Niente welcome to Tijuana, giusto un welcome to Yellowstone. Un ottimo album da viaggio on the road, o una splendida colonna sonora per avventure e giornate passate a contatto con la natura, cosa che peraltro invoglia la splendida copertina. Bene, descritto cosa non troverete, passiamo a elencare i pregi di questo disco: ha un'ottima melodia, con dei ritornelli molto orecchiabili e perfettamente godibili. Non ci sarà mai nulla di così intricato da risultare indigesto. La psichedelia è ancora presente, soprattutto nelle canzoni più lunghe ("Ain't Got Nothing (To Go Wrong)", "The Queen of All Returns"), così come la presenza del sitar in "Seven Seers". Un rock che si lega di più alla struttura canzone, con un numero maggiore di brani e con una minore durata: il massimo sono i circa 6 minuti circa di "Ain't Got Nothing (To Go Wrong)", mentre gli altri vanno dai 2 ai 4-5 minuti. Un disco breve, ma con una sua identità. Le deviazioni sono verso un garage blues americano, più folk cantautorale che punk-Detroit style. Prendete con le pinze quest'affermazione: hanno qualche punto di contatto con Howl dei Black Rebel Motorcycle Club. Sarà il tipo di voce, più trascinata e figlia di Dylan-Reed, o l'uso di una chitarra acustica di grande atmosfera. Insomma, un lavoro che si guadagna un sette tondo e gustoso, un disco delicato e molto maturo, ma non certo il più psichedelico della band. https://www.youtube.com/watch?v=gTXf0Rtp98s Gabriele "Sgabrioz" Mureddu
Dead Meadow – Feathers
Tra le legioni di nuovi psych rockers degli anni '90-'00, i Dead Meadow hanno saputo diligentemente ritagliarsi il loro spazio. Obiettivo raggiunto (anche) tenendosi fuori dalla carovana psych stoner e pensando invece a maturare uno stile proprio, che si è evoluto parecchio dal devasto fuzz dell'esordio omonimo. Rispetto alle precedenti prove su disco, "Feathers" presenta alcune novità. La line-up è completata dall'ingresso di un secondo chitarrista che si affianca al singer Jason Simon. Ciò aggiunge coesione ad un sound già sperimentato: solidi riff sabbathiani con ampie aperture psichedeliche, voce lontana e distante, elettricità e fuzz a volontà. Sessanta e Settanta sono dietro l'angolo, ma si capisce che l'intento del gruppo non è quello di suonare come un mero clone. In "Feathers" si avverte subito una maggiore attenzione alla melodia: gli arrangiamenti risultano più curati e lavorati, più forma-canzone e più Syd Barrett (in particolare l'apertura di "At Her Open Door", dove la citazione è evidente). Questo non comporta però aperture al mercato o compromessi: pur rinunciando a fuzz e distorsioni, il sound risulta avvolgente, se possibile ancora più acido ed elettrico che in passato. In alcuni episodi la vicinanza a band come Soundtrack of Our Lives e Spritualized è notevole. Dalla loro i Dead Meadow hanno forse più fantasia e creatività stilistica; dall'altra parte bisogna segnalare forse un eccessivo appiattimento dell'espressività vocale del singer Simon, al di fuori di poche eccezioni ("Stacy's Song"). È forse questa l'unica piccola critica che ci sentiamo di muovere al gruppo americano: i brani sono quasi tutti degni di menzione, ma anche tutti sullo stesso standard. Come dire, il gruppo è conscio delle proprie potenzialità e propone quasi solo quello che gli riesce meglio. Segnaliamo comunque "Let's Jump In", dove una voce interplanetaria danza su una base che più psichedelica non si può; "Eyeless Gaze All Eye", ballata lenta e rarefatta, ideale complemento di una serata estiva a base di hashish; "Sleepy Silver Door", tema già presente nel primo disco, qui rivisitato estensivamente (13 minuti) in chiave ancora più space. Dead Meadow: una delle vie alla psichedelia. Rimediate "Feathers" e suonatelo ad alto volume per 46 minuti di iperspazio. https://www.youtube.com/watch?v=Q1e1d8oi_Z0   Sergio Aureliano Pizzarro
Dead Meadow – Shivering King and Others
La classe non è acqua e questo i Dead Meadow lo sanno molto bene. Il nuovo album “Shivering King and Others”, terzo disco della loro carriera dopo l’esordio omonimo ed il secondo “Howls from the Hills” (senza contare il live “Got Live If You Want It!”), è il capitolo più allucinato e compiuto della loro saga artistica. Per l’uscita non poteva essere scelto periodo migliore che una torrida estate: il senso di stasi che l’album comunica è la perfetta colonna sonora per un trip in campagne sperdute, il cui silenzio è frantumato da un sole cocente e da incredibili bagliori psichedelici. Perché di psichedelia nella sua essenza più pura si tratta: i Dead Meadow sono degli artigiani della materia psicotropa, plasmata su misura per tutti quelli che dalla musica desiderano avere un senso di estasi permanente. Dodici canzoni per sessanta minuti di heavy psych d’annata, lento ed esteso fino all’inverosimile, asfissiante ma sempre liquido, incentrato sull’alternarsi di vigorose sterzate elettriche che riempiono l’aria di vibrante tensione e tenui colori pastello dipinti a meraviglia da sapienti pennellate acustiche. Insomma, un incrocio ideale tra Led Zeppelin e Blue Cheer, statico e visionario quanto basta, ad alto effetto lisergico. Un viaggio al rallentatore lungo percorsi tortuosi e stranianti, lungo sentieri che se imboccati con il giusto stato d’animo producono una preoccupante quanto piacevole dipendenza. L’avvio cadenzato di “I Love You Too” è la semplice dimostrazione di quanto detto: fuzz e riff corposi cadono uno dopo l’altro, le ritmiche seguono a ruota fino a quando non fanno il loro ingresso le vocals, il cui tono passionale e inacidito è come una ventata d’aria fresca che ritempra il nostro cervello. I tempi cadenzati hanno il sopravvento (basta ascoltare l’organo oscuro e le chitarre avvolgenti di “Everything’s Going On” o l’atmosfera fumosa della ballata elettroacustica “Golden Cloud”), sporadiche accelerazioni prendono vita qua e là come nel caso della ruvida “Bubbling Flower”, della lasciva “The Whirlings” e del gioiello “Good Moanin’”, oltre sei minuti di pura delizia mesmerica, giocati sui contrappunti di un piano sospeso nel nulla e di chitarre distorte fino allo sfinimento. Come vuole la tradizione, non mancano i soliti episodi acustici dal gusto folk (le brevi “Wayfarers All” e “She’s Mine” e la bucolica “Shivering King”), ma dove il disco guadagna i punti che lo qualificano come capolavoro è in frangenti del calibro di “Me and the Devil Blues”, luciferino rigurgito di straziante heavy blues, e “Heaven”, vellutato tassello da alterazione cerebrale. L’avventura termina in modo maestoso con “Raise the Sails”, epilogo incentrato su ambientazioni dal sapore mistico e riflessivo, degna conclusione di un ascolto affascinante e stordente. Giunti a tal punto non si può far altro che notare come l’assuefazione sia completa. https://www.youtube.com/watch?v=QlPpDtD1Cqo&ab_channel=DeadMeadow-Topic

Alessandro Zoppo

Dead Meadow – Force Form Free
Solo i Dead Meadow possono superare i Dead Meadow. La band di Washington è giunta con “Force Form Free” all’ottavo album in studio e sforna, senza mezzi termini, il suo capolavoro. Qualcosa è profondamente cambiato. Qualcosa è notevolmente cresciuto. Jason Simon ha dato atto, nel corso della sua carriera (Dead Meadow su tutti, ma anche un terzetto di album a suo nome – senza dimenticare la meteora Old Testament), di essere uno musicista ispirato. Beh, qui ci sono i suoi pezzi migliori. E pensare che canta pochissimo. E la sua band ha un marchio di fabbrica riconoscibile e consolidato. Però… qui c’è qualcosa che non riconosciamo subito come tipicamente loro, qualcosa che ci sfugge. Ma andiamo con ordine e esaminiamo un pezzo alla volta. L’iniziale “The Left Hand Path” è una introduzione ieratica e pesante, un mono tono che si muove minaccioso dentro una coltre nubi distorte e lente. Sono i Dead Meadow che conosciamo, quelli stoner, quelli che affondano il colpo con il fuzz, quelli di “Sleepy Silver Door”. Poi il pezzo si apre in una melodia consolatoria e pacificata. E qui si segna il corso dell’intero album: aprire il proprio stile a sofisticatezze leggere. “The Lure of the Next Peak” è un viaggio liquido verso gli astri dettato da suoni sintetici. Un perdersi dentro ad armonie circolari e ripetitive, dove l’inalazione di erbe mediche deve costituire un rito spirituale, un’espansione dei propri sensi. La terza “Valmont's Pad” è una sorpresa. Puro Morricone vintage, nelle colonne sonore di Silvano Agosti (da recuperare alcune sue gemme come “Il giardino delle delizie”, 1967). Un beat epocale in cui la chitarra di Jason accarezza e miagola con un wah-wah sofisticato, in combutta con le tastiere che citano apertamente i fine Anni 60. Siamo lì, a ballare davanti a scenografie optical, inebriati da sostanze illegali. Che delizia! Ed ecco la voce di Jason, dopo un quarto d’ora dall’inizio dell’album, in “To Let the Time Go By”. Il pezzo vive nelle trame acustiche tipiche dei suoi album solisti e ci proiettano sui monti Appalachi, davanti ad un fuoco, mentre fuori cade, silenziosa, la neve. Nella title track ritorna protagonista il Big Muff su un riff che ricorda i tempi di “Shivering King and Others”. Anche qui siamo al cospetto di un brano strumentale. Sembra che l’estetica di tutto l’album sia proprio questa: togliere il superfluo. Rimanere con la sintesi della prima idea musicale. Non allungare. Non annacquare. Così, nella conclusiva “Binah”, si torna a sentire la voce di Jason, in un pezzo che sembra evocare i tramonti indiani visti dai Fab Four ai tempi del “White Album”. Una delizia mielosa che vede la chitarra un passo indietro, per lasciare il proscenio agli altri strumenti. Dicevamo che sono i Dead Meadow possono superare i Dead Meadow. Così è! https://www.youtube.com/watch?v=xgxUvSjLudU&ab_channel=BluesFuneralRecordings

Eugenio Di Giacomantonio

DEAD PEACH – Old fuzz generation
Ennesima piacevole sorpresa viene fuori dal vivaio dell’heavy rock italiano con questo “Old fuzz generation” dei Dead Peach. Si tratta di un power trio proveniente da Cattolica, a quanto pare (non c’è nessuna notizia biografica allegata al disco) in giro sin dal lontano 1993. Il lavoro in questione è un 7” composto da tre brani che ben evidenziano la natura rawk’n’roll della band: siamo di fronte ad un rock selvaggio che si muove in bilico tra garage e fraseggi blues, basato soprattutto sui fuzz straripanti di Giovanni (chitarra e voce) e su una frizzante velocità d’esecuzione (merito della sezione ritmica composta da Stefano al basso e Michele alla batteria). “Since we were rock’n roll stars”, song di apertura, è emblematica per comprendere lo stile del gruppo: due minuti scarsi di garage punk dominato da chitarre fuzz e ritmiche forsennate, un insieme altamente tossico di vapori drogati che richiama alla mente il sound depravato dei primi Mudhoney. “Dead man knock on the door” è il pezzo più stoner del lotto, l’esplosivo riff portante è ben messo in evidenza, manca qualcosa alle vocals ma il feeling settantiano che trasuda dai solchi ci fa immergere in un bagno acido tra il passato dei Blue Cheer ed il presente chiamato Nebula. La conclusiva “Americano” è invece un garage rock’n’roll di tradizione Fuzztones, sempre con qualche pecca nelle parti vocali ma vivace e spensierato quanto basta. Semplici, energici, essenziali: questi sono i Dead Peach. Disco indicato per chi è in cerca delle forti sensazioni del tempo che fu… Alessandro Zoppo
DEAD PEACH – Psychle
In the name of fuzz.Questa recensione potrebbe finire qui. E invece no, perché i Deadpeach, dopo l’ep “Old fuzz generation”, al primo tiro colpiscono nel segno. Un disco di sette brani prodotto dalla Go Down e denso di sonorità calde, pastose, colonna sonora perfetta di una torrida estate. Ruvido garage rock, psichedelia visionaria, attitudine punk, fuzz a iosa. Questo è “Psycle”, un concentrato di musica ad alto potenziale lisergico, che attraversa 30 anni di musica psichedelica, partendo dai ’60/’70 (Blue Cheer, Jimi Hendrix, The Stooges e MC5 su tutti), attraversando gli ’80 (dai Chrome agli Spaceman 3) per arrivare ai nostri giorni (chi ha detto Mudhoney, The Heads, Dead Meadow e Nebula?). “Orange buzz” è un inno al fuzz, “Family and lies” fa del garage rock il proprio credo, “Silver house” è una giocata hard psych da fuoriclasse, roba degna dei migliori Dead Meadow, se non superiore… La potenza delle ritmiche (Stefano al basso, Michele alla batteria) sostiene i deliri di Giovanni (chitarra, voce), un vortice di fuzz, riff e wah-wah da levare il respiro. Come accade nel caso di “Dewo” e “Benares”, due matasse dannatamente psichedeliche ma anche oscure, malinconiche, una vena che arricchisce un piatto già ricco. E se “In the power of the road” ci catapulta ubriachi per strada (o in un bordello, fate un po’ voi), la conclusiva “Stars” è l’ideale per prendersi una pausa (magari in spiaggia, di notte, in compagnia della propria bella) e terminare la giornata in relax, prima di riattaccare la spina e accendere il fuzz. Orange buzz, gimme more fuzz. Orange way, pull me away… Alessandro Zoppo
DEADPEACH – Aurum
Fuzz addicted di tutto il globo, è arrivato "Aurum". Il terzo disco dei romagnoli Deadpeach lancia un segnale forte e chiaro: con il fuzz non si scherza. Dopo una promettente serie di demo, l'ottimo esordio "Psycle" ed il meno riuscito "2" (complice il cantato in italiano, poco adatto a questo genere), l'Universo 7 risplende con cinque tracce che irrobustiscono l'high energy fuzzed rock della band di luminosa psichedelia. Formazione ampliata a quattro (la new entry è il chitarrista Daniele Bartoli) e uscita in vinile con l'agguerrita label berlinese Nasoni Records (splendido l'artwork di Neil Williams) per un prodotto che non ha nulla da invidiare a ben più blasonate e sponsorizzate formazioni heavy psych europee ed americane.
La scrittura della mente acida Giovanni Giovannini ha ampliato gli orizzonti dei Deadpeach verso un modello di psichedelia ipnotico-esoterica. Le strutture dei brani, prima scarne e dirette, figlie del modello Blue Cheer e MC5 versione Mudhoney, sono ora profonde, rarefatte, rinnovate da sfumature oniriche e dilatate. Prevale la componente strumentale, le vocals hanno assunto carattere mistico ed evocativo. Lo dimostrano i dieci minuti dell'iniziale "Calcutta", un trip circolare e senza ritorno che lancia la volata al trionfo totale e totalizzante del fuzz, dominatore di "Gold" e "The Line", belle mazzate assestate tra capo e collo, in bilico tra stoner e garage. L'atmosfera è slow & cool, meno frenetica del solito: compare persino un assolo di batteria nella lussureggiante "Stomper", mentre il finale affidato a "Traffic" odora di progressive, California e lotte di strada. È innegabile: con "Aurum" i Deadpeach ci hanno consegnato il loro lavoro più compiuto e maturo. Alessandro Zoppo
DEAF FLOW – The Tesla Complex
Devo ammettere le mie perplessità. Fondamentalmente i Deaf Flow, in 15 mesi di Berlino... non li avevo mai sentiti nominare. Ho dato uno sguardo alla loro pagina Facebook e ho notato che hanno condiviso i palchi cittadini con amici e conoscenti indigeni e non. My fault, presumo. Non averli sentiti manco di striscio nominare in un anno, pur vivendo nella stessa città e frequentando gli stessi posti – intendo.
Ascolto con piacere il loro EP "The Tesla Complex" (che bel titolo, mi viene in mente David Bowie che si traveste da Nikola in "The Prestige"), sebbene non lo trovi particolarmente sconvolgente. I riferimenti ai classici degli anni 2000 sono evidenti: Queens of the Stone Age presenti in maniera massiva tra le righe di tutto il lavoro (tripudio dell'età della pietra manco a dirlo... "Black Mountain" e "Saturn Queen") e System of a Down, ampiamente citati nel brano di apertura "Gods and Giants". Il sound è a tratti un po' confuso, ma grosso, grasso e d'impatto. Le influenze della band sono molteplici e questa versatilità di gusto rappresenta un punto a loro favore. Facendo un salto indietro nel tempo durante l'ascolto, si arriva ai Pantera e a quel filone Glassjaw perduto (il primo periodo dei secondi) nelle decadi. Ogni tanto spunta anche un assolo, che ci ricorda che siamo tutti in un modo o nell'altro figli dell'heavy metal, anche se non lo vogliamo ammettere.
La promozione i Deaf Flow se la prendono, giocandosela discretamente su un campo al momento abbastanza saturo. E la meritano, ma non troppo di più: spero di riuscire a vederli dal vivo e voglio riporre fiducia in una creatività ancora embrionale. Vedremo. In fede, S.H. Palmer
DEEP SPACE DESTRUCTORS – II
Oulu, Finlandia settentrionale, crepuscolare terra di ghiaccio e di black, gothic e death metal... Ma non solo. Da lì arrivano infatti i Deep Space Destructors, terzetto che ama definire la propria musica "progressive doomsday spacerock" e che a fine 2012 ha pubblicato il secondo album, intitolato semplicemente "II". Quattro brani di lunga durata per quasi 40 minuti complessivi che si sviluppano secondo la classica struttura progressive space rock, incentrata su repentini cambi di ritmo e reprise e permeata da granitico stoner doom.Il primo brano, "Beneath the Black Star", cupo e oscuro come il titolo, è una discesa nello spazio profondo che non offre possibilità di risalita, e le poche pause in pieno stile progressive vengono spazzate via dagli onnipresenti e possenti riff doom che accompagnano l'ascoltare verso l'oblio. "Deserted Planet 2078" inizia invece con un sorprendente ed avvolgente basso funk che conduce dritto a repentini, mutevoli cambi di ritmo tipicamente prog, prima della conclusiva sfuriata heavy space rock. E qui non possono non venire in mente gli argentini Poseidotica. "Spacy Phantasy", è forse il brano più riuscito e racchiude in pieno l'essenza di questo "II" e della musica del trio finlandese: space e progressive rock miscelati abilmente con lo stoner doom e l'hard rock che fu, in un continuum circolare non certo originale ma assolutamente mai banale. Davvero un gran pezzo questo! Il disco si chiude con "Sykli", l'unico brano cantato in finlandese e sicuramente il più melodico e psichedelico, prima dell'ovvia immancabile esplosione stoner a metà pezzo e della conclusiva cavalcata hard rock progressivo che ricorda da vicino i californiani Astra. "II" è un album da ascoltare ed approfondire: i Deep Space Destructors sono ragazzi da tenere assolutamente d'occhio! Infine, menzione speciale per l'artwork: davvero bello! Alessandro Mattonai
DEFILERS, THE – Metal Mountains
In attesa di una prossima uscita, segnaliamo “Metal Mountains”, secondo disco (dopo l’ep omonimo d’esordio) dei The Defilers. Provenienti da Louisville, i quattro (Scott - batteria -, Aaron - basso e voce -, Joe - chitarra -, Scott - chitarra e voce -) ci sbattono in faccia nove pezzi di furioso stoner rock’n’roll, unto di punk e hard rock lisergico. Una miscela che riesce bene a questi ragazzi del Kentucky, cresciuti a pane e MC5 e vogliosi di emergere in un panorama underground sempre più fertile.I riferimenti che vengono subito in mente sono Bible Of The Devil, Milligram, Red Giant e The Glasspack. Tuttavia i Defilers elaborano le proprie influenze con personalità e buon piglio. Da migliorare sono la produzione e l’incisività dei singoli brani, per il resto le scelte stilistiche della band funzionano alla grande. Se il misto di stoner e metal su una melodia zuccherosa dell’iniziale “Come on” lascia piuttosto perplessi, a convincere ci pensano “One more time”, “Dog bite” e “Travel bottle”, bordate che alternano punk e hard rock in modo davvero sfrenato. “7 thunders” e “War time” sono i migliori brani del lotto, focoso heavy psych trainato da riff boogie che levano il fiato. “Slave” è un episodio stoner’n’roll dai sapori ‘70s, mentre “Please ease me” viaggia sui binari del rock sballato e godereccio di stampo Stooges. A confermare la giusta attitudine ci pensa la cover di un classico dei Pentagram, “20 buck spin”, riproposta in maniera forte e vigorosa. Un doveroso tributo ad una band fondamentale, uno sguardo al futuro guardando al passato. Alessandro Zoppo
DEFLORE – hUMAN indu[B]strial
Dai meandri di una città fantasma, tutta androidi, fumo nero ed acciaio, arrivano i Deflore. Vi piacerebbe, eh? In realtà arrivano da Roma, il che è ancor più sconvolgente. Undici tracce di puro marasma industriale, di metallo marziale e martellante, dannatamente oscure. Come se i Godflesh incontrassero gli Ufomammut, mentre gli Isis osservano la scena da lontano lanciando occhiate di esaltata approvazione. I Deflore sono un viaggio nel buio più profondo, biglietto di sola andata ovviamente. La qualità media dei pezzi è elevata, così come quella della produzione, sarebbe quindi inopportuno soffermarsi su una traccia piuttosto che un altra, perchè questo implicherebbe citarle tutte. Metal, industrial, dub, post-rock, post-core, stoner, doom, gothic, sono solo alcuni degli elementi presenti in questo favoloso platter; impossibile rimanere a bocca asciutta quindi. Emiliano e Christo, le due uniche menti che si celano dietro questo ambizioso progetto, manipolano le nostre menti con l’ausilio di drum machine, campionatori, synth, suoni d’ambiente, loop ipnotici, basso e chitarra. I suoni di chitarra sono presenti e possenti, unica fonte di calore in un ambientazione tanto gelida e desolata, meccanica ed alienante, dominata dall’incessante incedere robotico della batteria artificiale e dal delirio elettronico strettamente connesso. Se chiudo gli occhi sembra di essere catapultato in quel capolavoro visionario di Fritz Lang chiamato “Metropolis”.Prima release per la giovane e promettente label Subsound Records ed obiettivo centrato in pieno. I Deflore hanno realmente la capacità di deflorarvi! Davide Straccione
DEFUSE – Defuse
Strana uscita in casa Go Down, che in effetti si occupa solo della distribuzione dell’esordio dei Defuse. La band nasce nel 2000 ad Helsinki e dopo la solita gavetta (svariati concerti, il singolo “Someday” e il mini “Inside the frame”) giunge all’esordio con questo album omonimo. Disco ‘strano’ per l’etichetta italiana visto il sound proposto dal gruppo: un heavy rock tosto e melodico, prodotto in modo impeccabile e dai suoni cristallini, molto moderni rispetto ai crismi vintage cui la Go Down ci ha abituati.Ma i Defuse sono senza dubbio dei ragazzi promettenti e questo lavoro non mancherà di soddisfare le esigenze di diversi tipi di pubblico. Le ragazze sbaveranno per l’appeal dei cinque, gli amanti del crossover troveranno pane per i loro denti e anche chi richiede qualcosa in più della semplice forma canzone verrà accontentato. Non sempre la formula riesce ma l’ascolto del cd coinvolge e non annoia, anche se in futuro saranno necessari i dovuti accorgimenti in fase di songwriting per non cadere nel dimenticatoio. Per ora apprezziamo soprattutto la voce di Hyltzy e gli intrecci delle due chitarre, ben supportati dal lavoro della sezione ritmica. I brani che trascinano di più sono senza dubbio “Shot down” e “MTF”, macigni i cui riff si rifanno chiaramente alla scuola Pepper Keenan fase Down. “Straight in two”, il singolo “Killing another tear” e “D.I.B.” sono canzoni potenti, che uniscono groove e melodia (fin troppo appiccicosa). “Circle”, “Fall apart” e “Break the rules” odorano invece del freddo delle terre scandinave, con quell’approccio heavy e pop che ha caratterizzato le ultime produzioni di In Flames e Amorphis. Molto notturna e sentita è la semi ballad “Back and forward”, mentre “Someday” ha un irritate piglio punk e “Swallow your shadow” la furia rock’n’roll dei recenti, malandati Monster Magnet. Insomma, una eterogeneità che strizza l’occhio a diverse soluzioni, senza trovare sempre il giusto guizzo. Le potenzialità per sfondare ci sono tutte, bisogna migliorarle osando ancora qualcosa in più. Alessandro Zoppo
DEINONYCHUS – Insomnia
Nuovo capitolo della saga Deinonychus (progetto solista di Marco Kehren), una delle prime band a cimentarsi in un genere in voga in questi ultimi anni, il cosiddetto depressive doom/black metal. “Insomnia” arriva a due anni di distanza dal precedente “Mournument” (pubblicato nel 2002 sempre per l’etichetta italiana My Kingdom Music), il quale rappresentava un vero e proprio manifesto d’arte funebre sonora.Registrato ai The Outer Sound Studios di Roma (con l’apporto, anche in vesti di batterista, di Giuseppe Orlando dei Novembre) questo nuovo disco prosegue musicalmente il discorso del precedente lavoro, presentandosi comunque sotto una veste nuova. Complice infatti la perfetta e cristallina produzione, “Insomnia” risulta meno cupo e claustrofobico di “Mournument”, mantenendone comunque invariate le coordinate sonore. Cinque lunghi brani (9 minuti di media l’uno) vi catapulteranno in un oceano d’emozioni nere, sommersi dalla carica negativa e pessimista che aleggia in ogni secondo di questo “Insomnia”. Alcuni break veloci stemperano un attimo la sensazione di cappa opprimente, ma sono porzioni in un lentissimo impasto sonoro. La seconda traccia “We have uncovered…” credo rappresenti al meglio quanto contenuto nell’album, in assoluto una delle migliori canzoni in ambito depressive mai sentite da chi scrive. Se siete fan di questi suoni, fatevi sotto; non ve ne pentirete. Marco Cavallini
DELICIOUS – Delicious
Una ragazza dallo sguardo assorto con una stella rossa impressa sulla fronte. Idea quantomeno bizzarra la copertina del disco omonimo dei Delicious. Di trovate strane in realtà ne è pieno tutto il lavoro, una collezione di atmosfere ostiche da comprendere al primo impatto ma altrettanto affascinanti. Il trio proveniente dal North Carolina (nato nel 1999 e al debutto ufficiale) fa delle visioni surreali la propria arma segreta. Musica strumentale, tre soli brani per un totale di 33 minuti. Già questo potrebbe bastare per comprendere le coordinate logiche della band. Ma sarebbe riduttivo. Tanto quanto cercare di ingabbiare lo stile dei tre nelle pastoie delle definizioni. Diciamo soltanto che quanto proposto si pone esattamente a metà strada tra la psichedelia, il post rock ed il noise. Citare band come Kinski, 35007, Pelican, Karma To Burn o Don Caballero quali referenti principali è del tutto inutile. Ciò che occorre è riconoscere l'assoluta personalità del gruppo e la capacità di risultare stimolanti nonostante la difficile accessibilità della musica. Prendete i quasi 12 minuti di "Identity" ad esempio: inizia con rumori e spinte ritmiche inquietanti, si placa in vibrazioni psicotrope ed infine esplode in crude deflagrazioni elettriche, scostanti e sostenute. Si può mai citare un punto di riferimento in tale circostanza? Davvero difficile. E certamente i restanti due pezzi non sono da meno. "Nasty bitch roll" viaggia sospesa su placide linee di chitarra e si concede schizzate aperture noise solo quando l'aria è completamente drogata. "Chameleon" gioca con la psych music più fumosa cavalcandone le sensazioni stranianti ed infiltrando al suo interno spigolosi frammenti indie rock. Capacità ed innovazione quindi. Sono queste le parole d'ordine dei Delicious. Are you ready for a trancedelic rock explosion? Alessandro Zoppo
Demetra Sine Die – A Quiet Land of Fear
C'è una grandezza da concept album dietro A Quiet Land of Fear dei liguri Demetra Sine Die. Non solo per l'intro recitato da Silvia Sassola tratto da Song of Innocence and Experience di Sir William Blake, ma soprattutto per il flusso di continuità in cui nuotano le canzoni. Come prepararsi ad un lungo viaggio verso l'ignoto sapendo sin dall'inizio che non ci sarà ritorno, così ogni cosa osservata godrà della nostra corrispondenza una volta sola. Dando uno sguardo ai titoli si intuisce che il tema del viaggio, introspettivo e celebrale, è il focus dell'intero progetto. 0 Kilometers to Nothing, la title track, Distances sono unità di misura delle peregrinazioni intellettuali. Guardare oltre l'infinito dell'universo può essere il modello buono per scoprire cosa abita dentro l'essere umano. E la musica, da parte sua, offre il giusto corredo sonoro per accompagnare l'ascoltatore a questo lungo viaggio. Il minutaggio è quasi sempre esteso perché le canzoni devono dipanarsi ognuna con il proprio respiro interiore: 0 Kilometers to Nothing e Black Swan offrono la possibilità di associare grandi pattern di diverso registro proprio per mettere in contrasto diverse e distanti reazioni emotive. A contrasto, Ancestral Silence e Inanis sono gli unici due intervalli strumentali di breve durata che vogliono, per un attimo, trattenere il respiro prima di affondare il colpo, come quello definitivo e mortale di That Day I Will Disappear Into the Sun che tra dolci e amari mette fine alla maestosità del disco. Parlare di influenze e di stile per i nostri è un peccato, tanta è l'originalità e la consapevolezza di Marco, Adriano, Marcello e Matteo di aver fatto une bel lavoro. Si sappia che chi affronterà A Quiet Land of Fear si troverà nelle stesse condizioni emotive provate durante l'ascolto di Aenima dei Tool, Australasia dei Pelican o A Sun That Never Sets dei Neurosis: nuovi punti di riferimento per nuove concezioni musicali. https://www.youtube.com/watch?v=BHZQE1wa2PE   Eugenio Di Giacomantonio  
Desert Hype – Swep
Sanno costruire il pathos nell'ascoltatore i Desert Hype da Cagliari. Si definiscono power trio junk rock e fanno bene. Sanno maneggiare la materia psych alla maniera di macellai pieni di anfetamina e il loro stile guarda sia al post stoner di gente come Queens of the Stone Age, Masters of Reality e Fatso Jetson, che ai classici mastermind del genere come Monster Magnet e Colour Haze. Hanno qualcosa tipicamente divertente e giocoso ("Joint & Wine Superballad 3000": chissà quale sarà la loro fonte di ispirazione?), altro smaccatamente ortodosso ("Flying Shit") ed altro ancora simpaticamente straniante ("Spider in the Floor Tom") ma il risultato è un sound corposo e cicciotto come piace a noi desert riders. "Swep" si presenta ed è un album ricco di belle espressioni hard & heavy ed ha la capacità di contagiare chi ascolta, mettendolo di buon umore. Come si fa a non amare una band che titola un pezzo "Ponies Over Olympics Opening Ceremony 2012"? Marco Nieddu, deux ex machina della Electric Valley Records, da sempre attento alle realtà della sua regione, questa volta ha licenziato un album al pari dei grandi dello stoner italiano come That's All Folks! e Anuseye, Pater Nembrot e Da Captain Trips. Avanti così, verso altre piccole gemme da scoprire. https://www.youtube.com/watch?v=10HkgXCnBnI   Eugenio Di Giacomantonio  
Desert Hype – Samufire
Avevamo conosciuto i cagliaritani Desert Hype con Swep, disco del 2016 (dopo un EP, la serie Sgattagheis e uno split con i Raikinas) che ci aveva lasciato un ottimo retrogusto in bocca. La portata torna ricca in tavola con il nuovo Samufire, undici pezzi di classicismo stoner non ben allineati. Pooleega – non lasciatevi influenzare dagli inglesismi, noi maschietti conosciamo bene di che arte si tratta: qui in dialetto cagliaritano – è la canzone che i Queen of the Stone Age non sono più riusciti a scrivere dopo lo split con i Beaver (azzardo, sperimentazione e non ancora una reputazione da osservare in maniera ortodossa). La title track, Bones e Last Minuteman (Hives featuring Josh Homme?) sono razzi sparati nell’orbita desert psych con un certo hype, dove la scrittura creativa e il divertimento emergono prepotenti. Merito anche della produzione, affidata a Simo Lo Nardo (registrazione e mix) e a Giuseppe Melis (master), ma possiamo confermare la qualità di molte produzioni uscite negli ultimi anni nel Belpaese, segno di una certa abilità e buon gusto raggiunta dai ragazzi appassionati di musica. Non solo post Queens e Kyuss, come tengono a precisare The More You Know, rarefatta incursione nella musica che una volta definivamo alternative, la marziale e sintetica Nightwalker (che fa il paio con la conclusiva Daycrawler, almeno nel titolo) e Dead Creepy Guy, infarcita di leggere aromatizzazioni post-Wave anni Ottanta (non come gli Interpol però, meglio). Ottimo divertissement è 3PM, dieci minuti che sembrano proprio la descrizione del cammino verso la spiaggia di Chia, alle tre di pomeriggio di un qualsiasi giorno di agosto, quando il sole ti fa bestemmiare e il cannone ti sta facendo rimpiangere le ultime decisioni prese. Niente altro da dichiarare, come all’uscita di un processo per atti osceni in luogo pubblico. https://www.youtube.com/watch?v=ciZkyTmHoXM   Eugenio Di Giacomantonio
DESERT MONKEY – Water damage
È sempre un piacere trovarsi a recensire dischi di band inglesi. In fondo buona parte delle sonorità hard & heavy sono nate lì ed è necessario avere una giusta visione d’insieme circa ciò che accade in Gran Bretagna al giorno d’oggi. I Desert Monkey si dimostrano un ottimo gruppo: il loro heavy rock convince perché mai derivativo o stantio. Il sound di “Water damage” è infatti ricco di svariate influenze e sfumature. L’iniziale “Known to be cynics” ad esempio è stoner rock tirato e travolgente, mentre la successiva “Two” mescola psichedelia, toni heavy blues e una soffusa melodia.La title track poggia su un riff corposo e su atmosfere piovose da Seattle sound, in “Run along” e nella conclusiva “Volume phrasing” confluiscono il mood oscuro e avvolgente dei Tool e bordate hard toste come il granito. Insomma, un buon inizio questo mini. L’unico appunto è che queste registrazioni risalgono al 2004, ci auguriamo che in questi 3 anni i Desert Monkey non si siano dissolti ma tornino presto con un nuovo, avvincente prodotto. Alessandro Zoppo
DESERT RIDER – Echoes of the Big Sand
Si sono ispirati al ciclo di "Dune" (Frank Herbert) i perugini Desert Rider per realizzare le musiche e le lyrics del loro esordio discografico, "Echoes of the Big Sand". Quella polvere, quell'ambientazione inospitale di Arrakis, quelle idee fantastiche e fantascientifiche riemergono nella trama sonora creata dal quartetto e ci fanno viaggiare immersi nello spazio profondo. I sette pezzi prendono in prestito il modello nord-europeo di band come Dozer, Spiritual Beggars, Lowrider, Sunrider, i primi Grand Magus e lo mischiano sapientemente alla lezione data da Clutch, Fireball Ministry e Dixie Witch dall’altra sponda dell'oceano. In altre parole: High Energy Riff Factory. Se andate cercando il colpo di classe, la giocata inaspettata, l'estro del genio, girate alla larga. Qui c'è un rock vitaminico carico di testosterone e volume.
Sin dall'iniziale "Beginning" si spara la manopola del gain al massimo e via giù di scapocciamento. Seguono le toste "Spice Traveler", "Seeds", "The Prophet" e "Riding the Sand Worm", spostando ogni volta la mira, ma centrando sempre il bersaglio. Con "Equilibrium" si hanno dei rallentamenti di tempo e viene allungato il minutaggio, creando nell'ascoltatore una frizione piacevole con quello che ha ascoltato finora. Chiude "The Golden Path" nella maniera più congeniale: riff schiacciasassi e voce incantatoria. Bene così. Avanti tutta. Eugenio Di Giacomantonio
DESERT SESSIONS – Volume 9 & 10
Signore e signori, rieccoci a presentarvi il genio del rock: Mr. Josh Homme! Inutile spendere ulteriori fiumi di parole su quanto possa essere ispirato quest'uomo. Di fronte ci ritroviamo il capitolo 9 e 10 della saga delle Desert Sessions, jam partite nel 1997 e che periodicamente richiamano sotto il tetto del Rancho De La Luna, per una sola settimana, artisti di tutto rispetto. Non ci è lecito sapere cosa succede esattamente in quella sperduta località del deserto californiano, quello che è certo è che tutto ciò che ne scaturisce ha il sapore del sublime e dell'innovativo. Il Rancho rappresenta un po' la fucina di tutte quelle band con attributi quadratissimi. Basti pensare ai Fatso Jetson o agli Orquesta del Desierto...
DESERT SONS – 100 Miles
Osservando il sito e il look degli olandesi Desert Sons non ci si può proprio sbagliare: il loro è stoner rock desertico e ruvido come un rotolo di carta vetrata, fatto del solito immaginario di automobili oblunghe e spaziose, risse alla pompa di benzina e polvere che penetra nei polmoni. Il fatto che optino per questo suono classicamente grezzo, che abbraccia i Kyuss più diretti, gli storici stoners australiani Buffalo, i Dozer e i Five Horse Johnson, non deve inficiarli rispetto a gruppi heavy-psych più evoluti dell’ultima generazione come Astrosoniq e Wallrus, visto che “100 Miles” non fa gridare al miracolo, ma l’attitudine dei nostri non è farsesca, e ci sono spunti buoni che faranno passare quaranta minuti piacevoli a chi gradisce queste sonorità. Poi d’altronde se esistono migliaia di cloni in tutti i generi musicali, perché parlar male di un gruppo come i Desert Sons, che almeno spinge a tavoletta, e pur non raggiungendo i bolidi di cui sopra, riesce almeno a non farsi doppiare in curva? “My Machine” è la consueta apologia stoner-on-the-road, molto trascinante, e si sente che il gruppo è nato con questa musica, adorandone sia i capostipiti che centinaia di nomi che hanno scritto le pagine dell’underground. “Misery Gone” è più molossoide e ingombrante, con i riff del rude (ma risoluto) Jimi che fanno veramente male, e la voce di Ome Sake non ha mai il minimo cedimento. “In Town” ricalca tutti gli stereotipi: inizio e finale Kyuss/Roadsaw, con nel mezzo dilatate fasi strumentali, ma risulta nel complesso piacevole. “Where’s My Man” e “Feel Your Body” sembrano rapinate da dischi come “Madre De Dios”, “Latin Lover” e “Ode To Io”, con in più una certa influenza proto-hard rock, e paradossalmente è proprio questo che riesce a rendere i Desert Sons attuali e convincenti. “Desert Sun” è il loro brano più articolato e visionario, ed è una specie di obolo offerto all’immaginario desertico, così come “100 Miles” fa quasi venire voglia di indossare cappellaccio, poncho e stivaloni. Sembrerà assurdo, ma alla fine “100 Miles” fa venire la smania di riascoltarlo e portarselo in macchina. Roberto Mattei
DESERT SUN – American sound normal
Devono essere cresciuti a pane, Kyuss e Queens Of The Stone Age i tedeschi Desert Sun, giunti con questo nuovo "American sound normal" alla prima uscita ufficiale dopo un ep di quattro brani edito nel 2000 e varie partecipazioni a diverse compilation. Erano in molti a porre alte aspettative nei confronti dei quattro (Ru, Steffen, Helfi e Tom), aspettative che in quest'occasione vengono rispettate solo in parte.I Desert Sun hanno infatti un buon approccio alla forma canzone, sanno scrivere pezzi ben congegnati, onesti e diretti. Ma mancano ancora di una identità precisa, andando a cozzare spesso e volentieri contro lo spettro (piuttosto ingombrante) di Josh Homme, tanto in versione Kyuss quanto in quella nuova delle sue 'regine'. Insomma, ciò che fuoriesce da "American sound normal" è un sincero prodotto di genere, che si posiziona sull'asse di gruppi come Dozer e Astroqueen, Duster69 e Calamus, giusto per rimanere in ambito teutonico. Non un disco da buttar via, ma neanche qualcosa di eccezionale. La prima parte del lavoro è quella che convince di più, soprattutto la tripletta iniziale di composizioni ("Fortified", "You lose" e "The line"), schegge melodiche e roboanti, erette su muri di chitarre e ritmiche granitiche, tenendo sempre ben presente la linea catchy che sia d'impatto e appiccicosa a dovere. Fin quando si tratta di qualche brano la formula funziona, ma a lungo andare il sistema rischia di stancare. Così a partire da "The end" il ritmo cala, si fa fatica a distinguere tra una track e l'altra e la lunga durata (50 minuti) appesantisce la resa finale. Solo il tiro esagitato di "Cannelloni ride" (bel titolo) e la dilatazione psichedelica di "Once" e "Comedown" (nei quali emerge anche un certo spirito dark, evidenziato da un cantato in stile Danzig) donano piacevoli scossoni in un'atmosfera di torpore generale. Non è certo una realtà da bocciare quella dei Desert Sun. Diciamo solo che alla prossima uscita una maggiore personalità e delle idee in più saranno assolutamente necessarie. Per ora qualche inserto di sitar non basta a movimentare la situazione. Alessandro Zoppo
DESERT WIZARDS – Promo 2008
Stregoni elettrici crescono (nel deserto). Giungono da Ravenna i Desert Wizards e si presentano nel panorama heavy psichedelico italiano con questo promo di sei brani. Mambo (basso, chitarra, voce), Gito (chitarre, voce), Anna (tastiere) e Dallas (batteria) si rifanno ai classici stoner psych, con ampi riferimenti al magico universo hard mutuato dai 70. Ovvio allora ascoltare passato e presente incrociarsi tra riff fumosi e ritmiche paralizzanti, echi di Led Zeppelin e Black Mountain, Jimi Hendrix e Om, Kyuss e Monster Magnet.Preceduta dall’intro “The Evil Revenge”, “Aquarian” spiazza con la sua delicata voluttuosità, divisa tra oscurità stile Sleep e frastornanti porzioni acide marchiate Dead Meadow. “Last Call to Saturn” è una strumentale intrigante dal piglio space rock, “Club 54” ricalca l’aura buia che ha resto memorabili gioielli del calibro di Black Widow e Sir Lord Baltimore. “Dog Day Afternoon” ci fa tornare alla mente Sidney Lumet, Al Pacino e John Cazale, chitarre alla meno invece dei fucili e Atomic Bitchwax in cuffia. A chiudere il dischetto “Angel of the Desert”, heavy sound in chiave esotica, roba che fa dischiudere la mente tra spazi immensi e vuoti cosmici. Mancano ancora una migliore coesione tra le parti (spesso i suoni risultato scollati tra di loro) e una registrazione che doni maggiore corposità alle sezioni. Per il momento però non ci si può lamentare, i Desert Wizards sono l’ennesima dimostrazione di come in Italia si stia muovendo qualcosa. Qualcosa di grosso, un gigante che si risveglia dal torpore ed inizia implacabile a colpire. Alessandro Zoppo
DESERT WIZARDS – Ravens
Un nome, Desert Wizards, i maghi del deserto. Una copertina coloratissima, con caratteri Sixties alla 13th Floor Elevators. E l'intro del primo brano - il dialogo cult tra Jack Nicholson e Dennis Hopper in "Easy Rider" ("All we represent to them, man, is somebody needs a haircut" "Oh no. What you represent to them is freedom" "What the hell's wrong with freedom, man? That's what it's all about" "Oh yeah, that's right, that's what it's all about, all right"). La domanda sorge spontanea: sarà il solito disco di pura psichedelia desertica di quattro ragazzi senza idee che pensano di vivere nella decade sbagliata e che tirano fuori l'ennesimo banale revival del glorioso psychedelic rock degli anni Sessanta? No, niente di più sbagliato! I Desert Wizards, quattro ragazzi ravennati (Mambo, Gito, Anna e Dallas) attivi dal 2007, con questo "Ravens", pubblicato nel 2013 dall'italiana Black Widow Records, dimostrano di andare ben oltre la riproposizione pedissequa delle sonorità psichedeliche inglesi e West-Coastiane dei 60, e confezionano un disco di hard rock di gran classe, articolato e soprattutto fluido: è davvero difficile trovare dieci tracce – per oltre un'ora di musica impreziosita dal doppio cantato in inglese – che scorrono così fluentemente senza stancare l'ascoltatore. "Ravens" è un album variegato e ben miscelato, contraddistinto da un sound dove si incontrano la psichedelia à la Pink Floyd e The Doors e l'hard rock dei decenni successivi alla Uriah Heep, Deep Purple, Atomic Rooster, Pentagram o Witchfinder General (con un pizzico di doom, gothic e stoner qua e là), arricchito da arrangiamenti davvero efficaci e curatissimi e sul quale si elevano liriche decadenti ed oniriche. Non può non venire in mente l'heavy psych dei canadesi Black Mountain o il doom ancestrale dei francesi Northwinds! Un lavoro formidabile, fresco e destinato a crescere con gli ascolti. Dei dieci brani che compongono l'album sono assolutamente da segnalare l'iniziale "Freedom Ride" che parte in puro stile hard rock per poi sfumare in una digressione psichedelica degna dei Samsara Blues Experiment più dilatati; la melodica "Babilonya" con il bellissimo assolo conclusivo; l'eterea "Back to Blue" in puro stile floydiano; "Blackbird", da considerarsi vera "summa" dell'album così in bilico tra hard rock e psichedelia; "Dick Allen's Blues" che richiama moltissimo i Black Mountain di "In the Future" e soprattutto il gioiello "Vampires Queen" con il suo meraviglioso intreccio di piano e chitarra, senza tralasciare la conclusiva cover di "Childhood's End" dei Pink Floyd, a ribadire ancora una volta l'amore della band per le prime sonorità floydiane. Un disco davvero notevole, da ascoltare ed assorbire, senza soluzione di continuità.   Alessandro Mattonai  
Desert Wizards – Beyond the Gates of the Cosmic Kingdom
Sgrossate le angolosità goticheggianti del debutto, in Ravens i Desert Wizards cominciavano a camminare con passo più sciolto, a testa alta, seppur con l’occhio sempre attento alle orme lasciate dai pionieri progressivo-psichedelici dell’epoca aurea. Lasciando a terra buona parte delle zavorre sabbathiane, a quattro anni di distanza gli stregoni sono pronti a varcare “le porte del regno cosmico” per la terza avventura sotto l’egida della Black Widow Records. Dune già percorse, ma sempre mutevoli, delineano un paesaggio famigliare e allo stesso tempo costantemente rinnovato da venti ora forti ora deboli che spirano dal passato e portano con sé sentori di Hawkwind, Pink Floyd e altre glorie. L’album decolla sulle ali di Astral Master, specchio della maturità raggiunta dai ravennati, mantenuta in quota dalla chitarra pastosa di Marco Goti e dalla batteria asciutta di Silvio Dalla Valle. Dogstar stende un tappeto folk velato di polvere interstellare, che presto l’organo di Anna Fabbri scuote con un’inquietudine a tinte heavy prog. La voce “sdoppiata” di Marco Mambelli (anche al basso) riecheggia lo stile di Dave Brock e il brano va a sciogliersi in un calderone acido di fuzz e wah-wah. La formazione fa quadrato nella granitica Born Loser, che assimila la lezione di Crane/Du Cann senza tuttavia trarne i massimi risultati. I ranghi tornano a rompersi in Red Sun, 10 minuti di delirio in cui la materia gira attorno a un centro di gravità che si rafforza e s’indebolisce a fasi alterne, mutandone la velocità rotatoria. Ed ecco che si giunge a quello che forse è il punto più drammatico del viaggio, The Man Who Rode the Time (di cui è disponibile anche un video clip). Nell’atmosfera placidamente malinconica riverberano tante sagome del passato, dai Camel agli Alphataurus, con un finale mozzafiato in cui il pathos vola alto sulla voce dell’ospite Suzanne Omgba Atangana. Distant Memories è un altro buon episodio in cui gli stregoni dispiegano sia l’arsenale progressivo sinfonico sia le lame affilate dell’heavy rock, mentre Snakes si apre come una sorta di garage psicotico infestato dallo spettro di Dave Wyndorf e finisce col liquefarsi in una poltiglia space-doom. In chiusura al pellegrinaggio ultracosmico, Light in the Fog avvolge le orecchie nel velluto. L’arpeggio di chitarra, il passo disteso della batteria e l’armonia di voci maschile e femminile ci cullano, mentre il sassofono di Alberto Pompignoli si fa luce nella foschia onirica per ricondurci a casa. Nel corso degli anni i Desert Wizards hanno lasciato sobbollire il loro intruglio di hard prog/psych fino a ricavarne una pozione densa ed efficace, tant’è che nei suoi 48 minuti Beyond the Gates of the Cosmic Kingdom riesce ad avere una maggiore pregnanza di significato rispetto al precedente – valido, ma ben più lungo – Ravens. Gli arrangiamenti vocali sono maturati, così come l’interazione tra gli strumenti e la stesura stessa dei brani. A voler trovare una pecca, manca un po’ di convinzione nei tratti più duri, ma l’album resta un ascolto gradevolissimo. Grazie per questi nuovi filtri magici, stregoni del deserto! https://www.youtube.com/watch?v=1ivPoL7lOqw   Davide Trovò  
DEUIL – Acceptance / Rebuild
Partono diretti e massicci questi ragazzi belgi, di Liegi precisamente, che sotto il monicker Deuil, arrivano a pubblicare il loro primo full-lenght: "Acceptance / Rebuild". Composto di sole due tracce che vanno di pari passo, il lavoro – considerando che si tratta di un esordio – risulta gradevole e compatto. "Acceptance" parte funerea, una batteria poderosa e una chitarra granitica sciorinano un doom melmoso ed incredibilmente denso che scema in un pesante break atmosferico che prelude la parte principale, il cuore del brano. Una sferzata black metal in pieno stile USBM (Weakling, Ash Borer, Fell Voices) che tra blast beat martellante e chitarre magniloquenti occupa gran parte dei 17 minuti di durata di "Acceptance". Il finale ci riporta ad un mid-tempo che chiude in maniera non meno incisiva. "Rebuild" segue la falsariga della traccia precedente, partenza in sordina, innestata da quello che sembra un canto funebre per poi sfociare in una mitragliata poderosa e monolitica. Non c'è che dire, convincono da subito questi ragazzi, hanno le idee chiare e si inseriscono in quella scena che sta portando lo sludge verso versanti sempre più atmosferici ed estremi con commistioni black e noise. L'unica pecca è forse la qualità delle registrazioni che non rende onore ai quattro e alle loro composizioni. Giuseppe Aversano
DEVIL TO PAY – Thirty pieces of silver
I Devil To Pay sono una band nata agli inizi del 2002. Provenienti da Indianapolis, sono riusciti ad imporsi tra le band locali riuscendo a vincere il primo premio in un concorso locale che gli ha fruttato la onorevole cifra di 10.000 $. Grazie a questa entrata sono riusciti a produrre immediatamente il loro primo album. Il sound partorito dai quattro è sanguigno e possente. Una miscelanea di heavy rock e metal, con spruzzate stoner qua e là. Il groove che viene creato è di sicuro impatto e l'opener ("Mouthful of spite"), ne è la dimostrazione lampante. Distorsioni calde per un brano interamente strumentale. "The lamb" ci presenta la voce di Steve Janiak, che è anche chitarrista assieme a Rob Secrist. Il pezzo si snoda su vari cambi di tempo, con una parte centrale molto doom e oscura, dove appunto la voce, assume toni più sofferti. Si prosegue con la monolitica e metallica "Dinosaur steps", mentre "Whores of Babylon" ci mostra l'aspetto più stoner della band. Un mid tempo dal sapore amaro. Un lento progredire verso oscure figure. Tempi molto più sincopati in "Angular shapes" dove viene messa in evidenza la bravura tecnica del batterista Chad Prifogle. "Tractor fuckin' trailer" e ancor di più "Swathe", colano grunge da ogni nota. Anche il cantato appare un po' diverso rispetto ai brani precedenti. Con "The new black" si ritorna ai cupi scenari dello stilema doom con riffoni pesanti e grassi e voce lenta e sofferta, mentre "Lowest common denominator" è quanto di più scontato si possa ascoltare. Sicuramente il brano meno riuscito per costruzione metrica troppo prevedibile, e per melodie che sanno veramente di già sentito. Sicuramente più graffianti appaiono "Toreador" e la conclusiva "Valley of the dogs". Se la prima si accosta al sound dei Corrosion Of Conformity, l'ultima paga tributo agli Alice in Chains. I Devil To Pay ci consegnano un buon prodotto, sicuramente più vicino a sonorità metal che non a quelle consuete della nostra webzine. La produzione è di notevole spessore. Anche la voce risulta sempre chiara e distinguibile, mai urlata a dispetto della stragrande maggioranza delle band di questo calibro, e percepibile in ogni parola. Provate a buttarci un orecchio. Qualcosa sicuramente vi piacerà. Peppe Perkele
DEVILLAC – Three Hours To Coma
Attivi sin dal lontano 2000, i finlandesi Devillac arrivano al debutto (autoprodotto) solo ora. E possiamo anche dire che si sente... infatti le sonorità a cui si rifanno questi ragazzi vanno ricercate nei primi lavori dei Queens Of The Stone Age, vero punto di riferimento per i Devillac."Three Hours To Coma" è un album solido, pieno di pezzi incisivi e che fanno sbattere la testa ed il piede a ritmo. Quello che forse disturba un pò è un continuo rimando ad altri nomi che rende un pò meno godiurioso l'ascolto (fatte le dovute proporzioni possiamo parlarne come dei Dozer di Finlandia?). Peccato perchè in alcuni frangenti, quando la personalità salta fuori e ci si affranca dai propri riferimenti, le sorprese non mancano (cfr. la conclusica "Gainer" o i due episodi di "raccordo" strumentali). Detto questo i pezzi girano e anche bene: "Winchester" con il suo incedere kyussiano, le derive Fumanchiane di "White Knuckle Drive" ed i desertici e bollenti sette minuti e passa della conclusiva "Gainer", posta alla fine ma miglior disco della raccolta a mani basse! Un ascolto non imprescindibile ma senz'altro piacevole per una sorta di antologia del genere "alla Qotsa" pre "Lullaby to Paralyze". Davide Perletti
DEVILLE – Hydra
I Deville appartengono a quella ondata di band che nei primi anni del 2000 introducono una massiccia dose di ormoni dentro la scatola dello stoner rock. Mannhai, The Quill, Dozer, hanno abbandonato le dilatazioni liquide e circolari dello space, esasperando la componente hard and heavy e dirottando il sound verso arricchimenti metal. Con "Hydra" i Deville seguono lo stesso percorso e danno alle stampe, via Small Stone Records (etichetta che tra alti e bassi consegna una varietà di band veramente notevole), un lavoro compiuto.L'estetica è sempre quella: andare dritto al sodo. Lasciare da parte qualsiasi decoro o deviazione particolare e suonare i riff nella maniera più massiccia possibile. E il risultato non manca. Siamo vicini a certi Orange Goblin periodo "Coup de Grace" ("Lava" e "Over the Edge"), agli Slo Burn ("Iron Feed", "The Knife" e "Imperial") e Danko Jones ("Blood Crown" e "In Vain"). Il tutto fila liscio come un sorso di birra nel bel mezzo del deserto e questi album non promettono niente di più di quello che mantengono: una sana mezz'oretta di divertimento. Se invece volete innovazione, sperimentazione ed azzardo bisogna guardare da qualche altra parte. Eugenio Di Giacomantonio
DEVILS SON IN LAW – Devils son in law
Gradita sorpresa l'EP di debutto dei Devils' Son In Law (gran bel nome…), terzetto americano che giunge all'esordio con un dischetto di cinque pezzi. Quanto proposto suscita sensazioni particolari nel cuore dell'ascoltatore: navigano di fronte alle nostre orecchie frammenti di heavy rock, sludge, stoner e post core. Un mosaico in salsa totalmente strumentale, interrotto solo da alcuni samples che danno un sapore cinematografico al tutto.Giusto per far capire su quali terreni si muove questa strana entità, potremmo citare Zebulon Pike, Karma To Burn, Pelican, Keelhaul o Stinking Lizaveta. Insomma, un calderone eccentrico ed estremo, dove si incontrano/scontrano generi e stili differenti. Tuttavia, se le intenzioni sono da lodare (è evidente quanto di buono ci sia nel songwriting del gruppo), l'esecuzione non è pienamente riuscita. Si ravvisa una certa confusione, come se i tre (Boris alla chitarra, MF al basso e Slurmz alla batteria) non sapessero ancora bene su quali sentieri indirizzare la proprio contorta creatività. Complice in questo anche una produzione non all'altezza che inficia la qualità complessiva delle composizioni. Non per questo i cinque brani dell'EP sono da buttare. L'iniziale "Smell of blood", pur se scheletrica e minimale all'eccesso, produce un agghiacciante senso di saturazione elettrica. "Gibraltar #2" è cupa e ossessiva (anche troppo…), "La Termedia" picchia duro senza alcun compromesso, grazie soprattutto ai riff di chitarra che cadono massicci e copiosi. L'intermezzo ansiogeno di "Rollo (Interludes)" prepara la chiusura affidata a "The black sea", alternanza caotica di ritmiche grasse e brusche ripartenze. Occorre migliorare la registrazione per ottenere un prodotto che sia competitivo e pienamente completo. Per ora i Devils' Son In Law dimostrano capacità e buone intenzioni, attendiamo nuovi segnali per avere tra le mani un cd meno dispersivo e più messo a fuoco. Alessandro Zoppo
DEXTER JONES’ CIRCUS ORCHESTRA – Side by side
Sembrano un branco di freaks appena sbucati dagli anni ’70. In realtà si cibano di oltre trent’anni di rock e lo fanno con una personalità che sorprende non poco. Parliamo della Dexter Jones’ Circus Orchestra, band a torto inserita nel calderone stoner, che in verità ha poco o nulla da spartire con il genere heavy psichedelico. Diversi ep e un disco già alle spalle (“The losers are back in town”, uscito su Freebird Records nel 2003), recenti cambi di formazione e ora il contratto con la Fuzzorama. Palcoscenico che si fa interessante per questi cinque strani soggetti di Umeä: “Side by side” è infatti un album particolare, sfaccettato, coinvolgente dalla prima all’ultima nota.Definire il loro suono è impresa ardua. C’è dentro un po’ di tutto: hard rock, folk, blues, psichedelia, southern, prog, Canterbury sound. A parlare sono questi dieci splendidi brani, per i quali si sono sprecati confronti e paragoni. I Queens of the Stone Age che jammano con la Allman Brothers Band, gli ZZ Top in studio con i Masters of Reality, i Soft Machine che incrociano Frank Zappa per le strade di San Francisco. Tutte stronzate, ciò che colpisce è una varietà stilistica precisa e mai confusionaria, che va dal rock sghembo e melodico di “Lock the cage” e “Conceptual ways” al retro boogie di “We don’t care”, passando per il groove di “In front of you all”, gli ammiccamenti sexy della notturna “Feel the cold” e il climax emotivo della sentita “Expectations”. Meraviglia l’attenzione per le fasi strumentali, la delicatezza di certe soluzioni (ascoltare “Sensation” per credere) e soprattutto l’amalgama tra i membri del gruppo, capaci di creare fantastiche armonie vocali. Un collettivo davvero particolare l’orchestra da circo di Dexter Jones. Uno dei gruppi più particolari che possiamo vantare nell’attuale panorama rock europeo. Che lo spettacolo abbia inizio! Alessandro Zoppo
DEXTER JONES’ CIRCUS ORCHESTRA – The losers are back in town
Lasciare senza contratto una band come la folle Dexter Jones’ Cricus Orchestra sarebbe stato un delitto: lo avevamo detto in occasione del loro primo demo e la Free Bird Records sembra averci dato retta. La label olandese infatti è rimasta affascinata dalle sonorità dei cinque ragazzi svedesi e ha offerto loro un contratto per questo 7” (arricchito nella copia promozionale in mio possesso da altri due brani tratti dalle New York Sessions) e per un full lenght di imminente uscita. Non poteva essere altrimenti vista la qualità di questo gruppo così fuori da ogni schema: la loro musica è un misto di psichedelia, hard rock e progressive, curato negli arrangiamenti, stralunato nell’incedere ed impreziosito da una raffinata ricerca armonica. Emblematico è l’indirizzo preso in un pezzo come “Should have known”, dove una melodia sotterranea si insinua immediatamente nella nostra testa, aiutata nell’impresa da un crescendo emotivo sottolineato dalle chitarre ficcanti di David, Hakan e Kent. “The losers are back in town” ha invece quel feeling simpatico e diretto che la imparenta a certo rock rude degli anni ’80 (gli Stray Cats su tutti). Le sessions registrate a New York hanno prodotto due brani fortissimi come “A farewell…” e “Freakshow”: la prima è giocata sulle melodie vocali di Tia che nell’alternanza con le svisate di chitarra costruiscono un’atmosfera molto settantiana; la seconda potrebbe essere la summa del sound targato Dexter Jones’, con la solita armonia a presa rapida che si adagia su strutture variegate e lisergiche. Finalmente qualcuno si è accorto di loro, quindi i nostri complimenti alla Free Bird per aver dato la possibilità a questa grande band di esprimersi. Ora non ci resta che pazientare e attendere un disco d’esordio convincente come i quattro pezzi qui proposti. Alessandro Zoppo
DHARMA – Barriere d’aria
Un nuovo tassello si aggiunge al sempre più florido panorama heavy psych italiano. Il suo nome è Dharma e la provenienza è Ivrea. Animano questa splendida creatura il mentore Davide (voce, chitarra) ed i compagni di viaggio Omar (batteria) e Marco (basso). “Barriere d’aria” è il disco d’esordio ufficiale (giunto dopo due autoproduzioni tra il 2000 e il 2002), un ep di cinque brani che fotografa una band in pieno stato di grazia.Lo stile del power trio viene infatti messo al servizio di uno stoner rock caldo e pastoso, ma impostato sulla chiave ruvida, spigolosa e malinconica del rock alternativo made in Italy. Esempi del genere li abbiamo già avuti da Mesas e Il Pasto Nudo, perfetti interpreti di questa mescolanza che se ben amalgamata risulta ricca di piacevoli suggestioni. I Dharma ne sono altri meritevoli esecutori, anzi, al primo colpo vengono fuori con un dischetto molto professionale, curato nella registrazione, nella compattezza dei suoni, nella veste grafica e soprattutto nella proposta. Testi in italiano, un sound magmatico, ora diretto ora dilatato, una capacità tecnico esecutiva indiscutibile. Fondamentale quando si è alle prese con un suono ibrido, perché il rischio di non saper bene quale direzione intraprendere è sempre dietro l’angolo. I tre invece sanno ciò che vogliono e lo dimostrano con questa manciata di ottimi brani. “Nulla oltre un bel colore” e “Barriere d’aria” sono i più stoner del lotto: chitarre spesse e voluttuose, ritmiche incessanti, melodie a presa rapida. Fuzz e groove si susseguono a tutto spiano, l’estasi sonora passa per il deserto dei Kyuss (ascoltare il wah-wah della title track per credere) e l’Inghilterra stoner degli Orange Goblin. Cosa volere di meglio… “Immobile” e “Troppo facile” sono invece animate da un certo sapore alternative, elaborato con suoni heavy psych ma giostrato su soluzioni compositive ricche e cangianti (il piano rhodes nella prima, la melodia pop della seconda). Mentre la coda psichedelica di “Rigamonti Lounge Beach” chiude il lavoro con la giusta dose lisergica, apertura verso nuovi orizzonti che non mancheranno di riservare succose sorprese. Alessandro Zoppo
DHUNE – Medusa
Difficile trovare band che in un solo disco riescono a fondere metal moderno (e non), stoner e gothic, in una fusione singolare ed accattivante. Infatti i Dhune suonano alquanto originali alle mie orecchie, la miscela inedita di tali influenze li rende freschi e facilmente fruibili. Le tracce sono intrise di un costante alone dark, accentuato dalle atmosfere create dalle tastiere – tuttavia mai invadenti – e, mentre le chitarre ribassate architettano riff imponenti e colossali, le voci (Davide e Cinzia) si alternano in maniera egregia, lui dotato di corde possenti e ben istruite (lo stile si avvicina talvolta a quello di Mr. Warrel Dane), lei anima candida e soave (in veste di corista).Ottima partenza affidata a “Fading truth”, chitarre robuste e ritornello catchy, caratteristica tipica del combo piacentino. Riffoni alla Zakk Wylde ci tengono compagnia nelle seguenti “The Reason” e “Fly Away”, sempre accompagnati dal buon ritornellone. Un tuffo nel gothic metal con “Medusa”, inno di malinconia e solitudine, evocativa ed affascinante. Tornano alla mente quei capolavori di metà anni ’90 come “Wildhoney” dei Tiamat o “Draconian Times” dei Paradise Lost, tanto per citarne alcuni, ma con una spiccata sensibilità tipica dei Nevermore più intimisti. Con “We Are Divine” penso invece ai Charon di “Tearstained” in quanto a semplicità e carica emotiva, mentre con “The Storm” ci troviamo di fronte ad un pezzo stoner moderno, grondante groove e con dei riff davvero notevoli (e con dei ritornelli davvero ruffiani). Un orecchio poco attento potrebbe giungere alla conclusione che i Dhune sono solo una mera accozzaglia di generi troppo distanti tra loro per andare d’accordo, io invece sono convinto del contrario. Bisogna sempre tener conto di come si portano avanti certe contaminazioni, e nel caso dei Dhune sono espresse in maniera del tutto intelligente. Possiamo forse parlare di stoner gothic metal? Se non vi piace possiamo tranquillamente togliere ogni tipo di etichetta, ma l’invito a scoprire questa promettente band rimane. Davide Straccione
DIEGRINDER – Goin’ down
Una band che viene da Detroit non può che suonare rock’n’roll nel senso più puro del termine e i Diegrinder non fanno alcuna eccezione: nel loro ep d’esordio sciorinano cinque pezzi (più una ghost song che altro non è se non una riuscita cover di “Rock against ass” dei favolosi Turbonegro) di heavy rock influenzato dai numi tutelari MC5 ma anche da fenomeni contemporanei come Alabama Thunder Pussy, Dozer e gli amici Disengage. Il modo di suonare di John (batteria), Steve (chitarra), Adam (voce e chitarra) e Hank (basso) è sporco ma ammaliante, libera concessioni melodiche solo nell’iniziale “How long” e nella coinvolgente “The blood”, si macchia di spirito punk nella costruzione dei brani e fa esplodere energia sonica allo stato puro. Produzione e artwork sono ben curati, dimostrazione della voglia di lasciare un segno nel mondo del music business odierno, senza perdere un solo grammo della potenza e della compattezza che contraddistinguono il loro sound. Se però le due tracce suddette convincono in pieno, soprattutto nelle linee vocali graffianti e negli intrecci delle sei corde, i restanti pezzi si attestano sulla sufficienza, mostrando una band cattiva, perversa (l’inizio slabbrato di “Fantasize”), vogliosa di emergere, ma ancora con alcuni punti (dinamicità delle composizioni e maggiore personalità) da mettere a fuoco in fase di songwriting. Certo è che legnate come “Under my skin” e “Last ride” lasciano presagire un futuro roseo per i quattro. Ma soprattutto si apre uno spiraglio per una città come Detroit, era da tempo che dalla “Motor city” non veniva fuori una band così cazzuta e rabbiosa… Alessandro Zoppo
DIESELBUNNY – M-A-N
Mi risulta sempre molto difficile essere obiettivo quando ho a che fare con recensioni di band finlandesi. Un Paese ricco di rocce, acqua e foreste non può che continuare a partorire band legate all'universo del rock. In uno humus culturalmente così ricco in ambito musicale non poteva mancare una dignitosa rappresentanza legata alle sonorità heavy psych. I Dieselbunny nascono al sorgere del terzo millennio e arrivano alla produzione di questo EP solamente tre anni dopo. Cambi di formazione e progetti paralleli ne hanno rallentato la crescita. Peccato, perchè il prodotto che ci è stato consegnato è di sicuro spessore tecnico e ci presenta un combo con indubbie capacità creative. Ma entriamo nell'analisi di questo EP. Il brano introduttivo ("Good intentions"), si apre con un fuzz guitar di matrice stoner. Ciò che immediatamente colpisce è la voce di Arttu Parkkinen permeata sulle tonalità di Geoff Tate dei mai dimenticati Queensryche. "Floating boy" ci ripropone lo stesso clichè: la chitarra sporca e calda di Antti Keränen e la melodia vocale di Arttu. Forse in quest'ultimo episodio la voce risulta un po' più staccata rispetto agli altri strumenti. Sicuramente una timbrica alla Garcia avrebbe suonato molto più familiare nell'insieme, ma non avrebbe avuto senso cadere nello scontato... Ad accelerare i ritmi ci pensa "King". Il brano più metal tra i cinque proposti. Riff taglienti e base ritmica marcata, sostenuta dal basso di Tony Niemelä e dalla batteria di Teemu Hautaniemi. "Sweet fever" appare molto più scanzonata. Un raw'n'roll stradaiolo che ben si addice a serate alcoliche. Il pezzo conclusivo è affidato a "Heyman burning", assalto frontale con un muro fuzz quasi invalicabile. I Dieselbunny hanno le carte in regola per far bene. Le sonorità espresse dalla chitarra di Antti Keränen trasudano stoner da ogni nota. Se riusciranno a scrollarsi di dosso parte della corazza metal che per esperienze passate si portano dietro, potranno dire la loro nell'ambito della scena stoner scandinava. Alkaa poikat! Peppe Perkele
Dining With Dogs – The Problem With Friends
The Problem With Friends è il primo lavoro per i Dining With Dogs, band texana composta da membri di The Dead See e BLK OPS, crocevia di crossover, sludge e noise rock. Nella loro biografia, il gruppo scomoda anche il doom metal, ma l’approccio qui è ben lontano dalla cupezza che caratterizza il genere. Oddly Shaped Skull mette a nudo la prima costante che affiorerà in più di un’occasione, ovvero l’interconnessione tra Clutch e Unsane, principalmente nell’utilizzo di voci e ritmiche. Si procede tra chitarre sature e basso incalzante, batteria secca e frammentata, echi di Mastodon (Puzzled) e ancora Clutch (Snowflake), influenze di Today Is The Day sparse qua e là. La band, tuttavia, riesce a dare il meglio di sé negli sporadici passaggi atmosferici, come nella parte finale della canzone che dà il titolo all’album, in cui sembra di ascoltare una versione più cruda nei Neurosis, e dove anche la voce riesce a svincolarsi per qualche minuto dalla scuola Fallon-iana. Va citato pure il noise/sludge-core di Spreading Thin tra le migliori tracce di questo debutto, così come il buon lavoro sulle dissonanze in Fruit of the Poison Tree. Gli inserti di synth di Craig Delony rappresentano sicuramente un valore aggiunto. Craig è responsabile delle registrazioni del disco, mentre il missagio è stato affidato a Brendan Tobin (Red Sparowes, Made Out Babies) e il mastering a Brad Boatright presso l’Audiosiege (Integrity, Primitive Man). Il lavoro della sezione ritmica è organico e molto live, un aspetto davvero apprezzabile e adatto al genere: le dieci tracce suonano mediamente bene ma forse non sono impeccabili dal punto di vista dell’esecuzione. Non resta da augurarsi che The Problem With Friends sia il primo passo verso una ricerca maggiore e possa trovare un suo seguito non appena ci butteremo alle spalle tutta questa storia del Covid-19. https://www.youtube.com/watch?v=fVH4ZxvHZIQ

Davide Straccione

DIRTY BIRD/GRAVITRON/BIRDWING – The Black Wing EP
La 4Walls Records è una etichetta nata nell’Illinois durante il maggio del 2003. Nella sua scuderia trovano posto Gravitron, Dirty Bird, Birdwing ed in parte The Glasspack (in parte perché la label si è occupata della ristampa in vinile di “American exhaust”). Ad un anno dall’inizio della propria attività la boss Laura Kelly e soci festeggiano l’evento dando alle stampe questo split diviso in tre e limitato a sole 375 copie.Già a partire dall’artwork è evidente che ci troviamo dinanzi a qualcosa di molto particolare e fuori di testa: opera di un artista di Chicago di nome H (originariamente si trattava di una scultura che è poi stata fotografata e trasferita sulla cover del cd), la confezione presenta una sorta di digipack cartonato con una piuma nera all’interno, mentre sul cd sono impresse sullo sfondo nero delle gocce rosse in rilievo. Alquanto bizzarro, ne converrete… Passando alla musica troviamo argomenti ancora più concreti. Si inizia alla grande con i due pezzi dei Dirty Bird, progetto nato dalla mente (instabile) di Dirty Dave Johnson dei Glasspack e che vede coinvolti Leland Thurman alla voce, Josh Cramer alla chitarra e Brian Evans alla batteria. Il basso in queste tracce è suonato da Bob Pantella, già all’opera dietro la consolle per Monster Magnet e Raging Slab. Che genere suonano i Dirty Bird? Boh! Il loro è un folle miscuglio di sludge, stoner, garage e rock’n’roll, qualcosa di assolutamente fuori di senno. L’iniziale “Brains” ha ritmiche lente e quadrate sulle quali si adagiano vocals schizoidi che sembrano uscire da una fogna. “Little girl” ha invece un maggiore impatto melodico ed è un episodio perfettamente riuscito: se il disco d’esordio (la cui uscita è prevista per il prossimo autunno, ovviamente su 4Walls) sarà tutto su questi livelli dobbiamo aspettarcene delle belle. I Gravitron sono ormai una vecchia conoscenza dato che li avevamo apprezzati con il loro esordio “Dawning of the finite moment of now”. Il gruppo di Dave Gebhardt e Kevin Kapala prosegue sulla scia stramba e pazzoide del debutto e ci propone due tracce molto singolari (che tra l’altro erano originariamente state registrate come demos). “The black wing interceptors” è una sorta di space sludge metal che unisce ritmiche sudice ad effetti stranianti. Un viaggio nella parte più oscura e perversa del cosmo. “The young lads of Olde” è invece un razzo rock’n’roll dal gran tiro, pieno di distorsioni e libidinoso al punto giusto. Due brani che rendono bene l’idea di ciò che sono i Gravitron, in attesa del secondo lavoro che uscirà verso la fine del 2004. Chiudere il cd spetta infine ai Birdwing, trio heavy fuzz sludge di Louisville che farà la felicità di tutti i cultori di questo sound. Sembra di ascoltare un misto di Black Sabbath, Blue Cheer, Melvins e Mudhoney! “’69 Firebird” ha potenza accecante, la giusta lentezza melodia e un tasso di malattia che rende il tutto ancora più appetitoso. “Let them know” coniuga invece un impatto armonico in pieno contrasto con il rumorismo forsennato delle chitarre e delle ritmiche. Sono ancora un po’ acerbi questi Birdwing ma la strada intrapresa è quella giusta. Vista la quantità limitata di copie e la particolarità della release, l’invito è quello di accaparrarsi al più presto questo cd. Fate in fretta, lo diciamo per voi! Alessandro Zoppo
DIRTY SANCHEZ – Subtitles For The Blind
Dopo due demo e una partecipazione ad una colonna sonora, i Dirty Sanchez approdano al primo album (sempre autoprodotto), "Subtitles For The Blind", un crepuscolare pastiche di rock psichedelico, indie e post rock dalle venature progressive, decisamente influenzato da Godspeed You Black Emperor!, Sigur Ros e Mogway, e rafforzato da una discreta dose di chitarrismo tipico di Pelican e Red Sparowes.Si tratta di un disco quasi completamente strumentale (tranne qualche sporadico chorus) dai brani ben concepiti, autoconclusivi e suonati con l'anima, come già dimostra lo struggente e delicato inizio di "Wouldn't It Be So Hilarious?", orchestrata con ottimo pathos, a cui segue forse l'episodio che condensa la filosofia del gruppo, "Chocolate Bass Player", brano duro e trasognato che agisce in penombra, unendo un po' tutte le sfumature del nuovo rock. L'assieme dell'album, sufficientemente variegato, pare contemplare per sezioni definite, umori, passioni e contrasti a diversa gradazione luminosa, grazie anche al piano di Luca e al violino di Giulia, che ampliano con facilità il range emozionale, donando un vago profumo impressionista, tra rosse escrescenze arboree e annodate variazioni strumentali. Tra gli intermezzi acustico/pianistici di "Fragments part 1 & 2", troviamo "Better Take Cover", un'affascinante e parca ballata indie che risente anche di Slint e Motorpsycho, e la scheggiata, impulsiva, malinconia elettrica di "Subtitle". Si continua poi con le concessioni pseudo-sinfoniche di "How You Want", gli aspri contrasti atmosferici di "Drowning Daphne" e le conteplazioni acustiche di "Clorofilla" che spurgano in un epico finale. Se cercate atmosfere di un rock che si sforza di non essere la fotocopia di modelli preesistenti, potete plaudere tranquillamente ai Dirty Sanchez. Roberto Mattei
DIXIE WITCH – Into the Sun
Dopo i riscontri positivi ottenuti da un piccolo gioiello come “One bird, two stones”, la Small Stone ha avuto la splendida idea di ristampare e remasterizzare il primo disco dei texani Dixie Witch, quel “Into the sun” edito nel 2001 dalla Brainticket Records che i fans della scena heavy rock underground avevano apprezzato ed amato sin dai primi ascolti. La gioia di riscoprire il primo passo musicale del trio americano (composto da Clayton Mills alla chitarra, Trinidad Leal alla batteria e alla voce e Curt Christenson al basso) diventa finalmente anche nostra: “Into the sun”, pur non raggiungendo i picchi del suo successore, è un distillato di stoner e southern rock possente e roccioso, incentrato sulle chitarre graffianti di Mills e le ritmiche forsennate della premiata ditta Leal/Christenson. Il riff circolare della title track (presente anche in una trascinante versione live) parla da solo, è un macigno che vi farà scuotere dalla prima all’ultima nota! Assoli vibranti e vocals passionali completano il quadro, consentendo alla band di spiccare il volo in pezzi massicci e corposi come “Throwin’ Shapes” e “CC”, bollenti rasoiate cariche di groove incessante. Se “Thunderfoot” e “Makin’ time” proseguono su questa stessa scia (ritmo scatenato, atmosfere torride e tanto, tanto sudore…), le vere sorprese sono due perle come “Freewheel Rollin’” e “The Bomber” (cover dei James Gang): la componente più tirata e roboante viene messa momentaneamente da parte per lasciare spazio ad una vena psichedelica e delicata, sottolineata da sognanti arpeggi di chitarra acustica, lunghe divagazioni lisergiche, esplosioni, rallentamenti e ripartenze che vi faranno girare la testa! “Into the sun” è dunque un altro prezioso tassello che non deve mancare nella collezione di chi apprezza quell’animo retrò che la musica di oggi sembra aver completamente smarrito. Alessandro Zoppo
DIXIE WITCH – One bird two stones
Un disco registrato in Texas nell'arco di sette giorni e sette notti. Un'aquila che sputa fuoco e volteggia su delle carcasse in un luogo arido e desolato. Già da queste premesse si intuisce su quali binari viaggia il nuovo lavoro dei Dixie Witch: quasi cinquanta minuti di heavy southern rock sanguigno e passionale, dieci ribollenti tracce che pagano dazio a miti degli anni '70 come Mountain, Grand Funk, Blackfoot e soprattutto Lynyrd Skynyrd, uno dei nomi d'obbligo quando di parla di rock sudista. Ma i Dixie Witch, alla loro seconda uscita dopo il già convincente esordio "Into the sun", sanno andare oltre: è stupefacente come il sound di "One bird two stones" suoni maledettamente seventies, ancora più anni '70 dei gruppi stessi dei '70! Le innumerevoli esibizioni live (addirittura ben oltre cento concerti tra il 2001 e il 2002) e il lavoro pastoso e "sudato" in fase di produzione ad opera di JD Pinkus (ex Butthole Surfer e attuale bassista degli Honky) hanno contribuito a rendere il songwriting della band maturo e delineato, consapevole delle proprie qualità e amalgamato con la compattezza di quanto proposto. Southern rock dicevamo, di quello coriaceo e sentimentale come la gente del Sud, sempre guidato dalle chitarre ruvide di Clayton Mills che si impregnano di fuzz, slide e riff ciccioni sui quali si innestano la sezione ritmica (Trinidad Leal alla batteria, Curt Christenson al basso) e la voce trascinante dello stesso Trinidad. Una sequenza di canzoni una più travolgente dell'altra, a partire dall'iniziale "Get busy" (non esisterà persona che rimarrà ferma dinanzi al suo groove smisurato…) per arrivare alla conclusiva "Traveler", orgia di sonorità settantiane dove sembra di ascoltare Jimmy Page in acido che si cimenta in una jam con gli Skynyrd, prima di un finale acustico da brivido lungo la pelle. Nel mezzo invece trovano posto tanto song anthemiche come il manifesto programmatico "Goin' south", l'intricata "More of a woman" e l'afosa "On my way", quanto ballate del calibro di "The wheel", "Drifting lady" e "Here today gone tomorrow", giocate sui contrappunti di chitarra, voce e parti acustiche. La vera natura dei Dixie Witch è però quella animosa e torrida che esce allo scoperto in episodi quali la languida "Makes me crazy" (grandiosi il suo stacco centrale e gli assoli indiavolati di Clayton) e "Turbo wing", un treno in corsa che ci sbatte in faccia tutta la sua folle velocità… Un tuffo nel passato quello di "One bird two stones", concepito e suonato con gusto e sensibilità, senza risultare derivativo o sterilmente retrò. Dixie Witch: back to the future! Alessandro Zoppo
DOCTOR CYCLOPS – Borgofondo
I Doctor Cyclops sono una delle più liete sorprese del recente heavy psych nostrano. Nati nel 2007 a Bosmenso, Oltrepò Pavese, si sono fatti le ossa tra prove, concerti ed un paio di uscite sotterranee (la demo "The Flying Machines Burning" ed il primo EP omonimo). Christian (chitarra, voce), Francesco (basso) e Alessandro (batteria) riprendono in pieno l'immaginario 70's che da Led Zeppelin, Black Sabbath, Mountain e Leaf Hound ha portato a Firebird, Spiritual Beggars, Witchcraft e Graveyard. E lo fanno adattando canzoni e sonorità ad uno stile contemporaneo, senza registrazioni maniacalmente analogiche o attitudini forzatamente retrò. Il risultato è "Borgofondo", sette brani che stuzzicheranno le fantasie di tutti gli appassionati di Captain Beyond e pantaloni a zampa."Night Flyer" mette subito le cose in chiaro con un riff degno dei migliori Bill Steer e Mike Amott, super Seventies hard rock che fa immediatamente crescere baffi irti e setosi. "Cyclop's Claim" suona come un macigno che rotola da un dirupo travolgendo qualsiasi resistenza sul proprio cammino, salvo aprirsi in un intermezzo dilatato di psichedelia zuccherosa e bluesy davvero azzeccato. "Giants of the Mountain" raccoglie la complessità compositiva del dark sound (ospite al flauto Alia O'Brien dei Blood Ceremony), puntando su suoni ed esecuzione modernisti, che non scalfiscono di un grammo il fascino oscuro dei padri . In tal senso la chiusura in crescendo con tanto di sax allegro e spensierato è un tocco di classe inaspettato e coraggioso. "Eileen O'Flaherty" è groove-driven boogie'n'roll, roba incendiaria tra Cream e Truth and Janey, mentre "Madness Show" si agita tra umori hendrixiani e graffianti muri di watt che spingono senza obiezioni verso il marchio Witchcraft. "My Revolution" coinvolge per aggressività, ritmiche granitiche e delicatezze acustiche, preparando il terreno alla conclusiva "The Unquiet Garden", fumoso incrocio proggy swing che fa emergere l'estro chitarristico di Christian. Birra, sonno, fiumi e boschi. La trimurti dei Doctor Cyclops è infallibile. In fondo, a chi non piace la parte più marcia del rock'n'roll? Alessandro Zoppo
DOCTOR CYCLOPS – Oscuropasso
Secondo atto per i Doctor Cyclops dopo l'ottimo "Borgofondo", l'album che aveva imposto il terzetto pavese all'attenzione degli appassionati dello stoner rock e dell'hard '70, a onor del vero più fuori dai confini nazionali che in patria. Il nuovo sforzo dei ciclopi non muta di coordinate, ossia stoner blueseggiante di scuola Firebird/Spiritual Beggars, con un tocco di doom alla Cathedral e dosi non trascurabili di riottosi classici come Grand Funk, Sabbath e Sir Lord Baltimore, oltre a una pletora di cult band da conoscitori.La World in Sound svolge un lavoro accurato che valorizza a dovere la registrazione, così dagli speakers fuoriescono una serie di brani calibrati e immersi totalmente nell'atmosfera della proposta, senza particolari esitazioni di sorta. Una caratteristica poi dei Doctor Cyclops è quella di preferire brani articolati e dalla durata piuttosto estesa, come si evince sin dall'apertura di "Waterfalls", col basso a ricucire costantemente un brano denso e caparbio. Il prologo jazz/blues di "The Monk" lascia spazio a riff pesanti, vocals ispirate e soliste sulfuree, un brano proto-metal che potrebbe ricordare una versione maggiormente Seventies della band di Lee Dorrian; successivamente non si perdono colpi con l'energica e variopinta "Angel Saviour in the Cannibal House", decorata tra l'altro da tastiere evocative, e dall'altrettanto solida "Cobweb Hands". Chiusura con i quasi 16 minuti di "Rotten Trolls", gioiello che esalta le capacità dei Doctor Cyclops, in una sorta di lungo e brividoso compendio tutto da scoprire. Roberto Mattei
DOCTOR CYCLOPS – The Flying Machines Burning
The Flying Bunrning Machines è il primo lavoro, rigorosamente prodotto in maniera artigianale e genuina, da tre ragazzi provenienti dalla zona di Bosmenso, un piccolo paese nella zona collinare appenninica, nell'Oltrepò Pavese. Per sfuggire alla monotonia e al grigiore di una realtà periferica, degna di quel Piccolo Mondo Antico di Fogazzaro, decidono di fare quello che centinai di ragazzi hanno sempre scelto da anni: mettere su una band. Tra il 2004 ed il 2005 Christian Draghi (voce, chitarra) e Francesco Filippini (basso) iniziano a comporre avendo come punto di riferimento il grunge sofisticato - e spesso sottovalutato - di una grande band come gli Screaming Trees di Mark Lanegan. Ma è solo con l'innesto di Luca Dedomenici alla batteria, che i Doctor Cyclops prendono la forma di un vero e proprio power trio, capace di dar vita ad un'esplosiva combinazione di hard rock, stoner n elle sue frange più “heavy”, come nel caso di bands quali Firebird e Cathedral.Ed è proprio l'amore per il gruppo di Bill Steer (ex Napalm Death), scoppiato nel giugno 2005, a convincere la band a cambiare direzione e iniziare a dedicarsi ad un rock adrenalico, che ha delle virate anche con quello stile della fine degli anni sessanta a cui dobbiamo tutto. The Fyling Machines Burning è un ottimo inizio, perchè in poco più di un quarto d'ora riesce a concentrare due brani originali e due cover, tra l'altro un'ottima scelta. Night Flyer è il pezzo più “lungo (si parla di 3:56)e allo stesso tempo tiratissimo, con la voglia di mettere in mostra tutto il repertorio dell'hard rocker provetto: un gran bel riff polveroso, un altrettanto validissimo giro di batteria – cattivo e potente – condito da un basso che sa come ci si comporta in presenza del ROCK. Perchè questi ragazzi si meritano tranquillamente che quella magica parolina venga scritta a caratteri cubitali. La prova di Christian se ineccepibile alla sei corde, è meritevolissima di rispetto nelle parti vocali, con un timbro squillante e dalla stile tipicamente americano hard rock. In Eileen o'Fleherty, in soli due minuti, riescono a infilarci tutto quello che dovrebbe esistere in una canzone rock: evitiamo orpelli e inutili addobbi, evitiamo la fetta di limone lavorata a forma di orchidea o il contorno da vero gourmet. Accontentiamoci di una bella bistecca fiorentina, cotta al sangue, che ispira fame e voglia di divorare anche il cameriere che ce la porta sotto le fauci; da sottolineare anche una frase bellissima e maledettamente vera:” Eileen speaking on the grave/about the beauty and its fake”. Born to die in Berlin è una cover di Dee Dee Ramon, ma molto più tirata, oscura e malsana, in pratica se tutto il punk suonasse così, io non ascolterei stoner. Freelance Fiend è uno dei brani più anticipatori del movimento stoner, perchè fu scritto nel 1971 da un grande – ma sottovalutato – gruppo come i Leaf Hound, con la differenza che, nel brano originale, la chitarra suona più acida. In sostanza, un ep tirato, condensato e godibilissimo. A voi le cuffie. Ah, Il nome del gruppo deriva da una serie di fantascienza della fine degli anni '30. Grabriele "Sgabrioz" Mureddu
DOGS FOR BREAKFAST – Rose Lane Was Tucker’s Girlfriend
I Dogs for Breakfast vengono da Cuneo (nuova capitale del suono storto?) e picchiano duro. Piccoli fabbri del rumore, ci danno dentro a più non posso. Nati dalle ceneri degli Slaiver, "Rose Lane Was Tucker's Girlfriend" è il loro ep di debutto: cinque brani per 22 minuti di furia iconoclasta e (auto)distruttiva, pastone fangoso di noise e metal core di una potenza davvero notevole. Merito della produzione di Giulio Favero (un nome una garanzia) e del muro impenetrabile che Paolo (chitarra), Andrea (batteria) e Fabio (basso, voce) erigono a protezione del loro fortino.Cinque capitoli di violenza incontrollata e incontrollabile che si snodano lungo la vicenda di Rose Lane, condannata al peccato, alla ricerca della vendetta e avviata alla redenzione. Una disperazione che forgia un sound oscuro, magmatico, corrosivo. "The Beginning", "Blood River" e "Your God Is Gone" sono composizioni arrembanti, senza tregua, drammatiche. Sembra che Unsane e Botch si siano trasferiti sulle Langhe. I rallentamenti neurotici di "I'll Guide Your Soul" fanno male per la perizia con cui sono orchestrati; la conclusiva "Three Steps to Salvation" vede il sax di Luca T. Mai (Zu) infliggere tagli profondi sulla nostra pelle, ormai destinata alla putrefazione. La pretesa adesso è legittima: avere insieme sullo stesso palco Dogs for Breakfast, Cani Sciorrì, Treehorn, Ruggine, Dead Elephant e Io Monade Stanca. Abbiamo tutti voglia di sanguinare. Alessandro Zoppo
DOGS OF POMPEI – Unleashed
Ennesimo gruppo svedese, ennesima ottima prova. Parliamo dei Dogs Of Pompei (bellissimo nome), quattro ragazzi (David, Joel, Petri e Anders) che ci propongono sei brani di compatto e convincente stoner rock. Nulla di particolarmente originale, sia chiaro, ma questo ormai è un ‘difetto’ che tutte le band svedesi pagano da diversi anni a questa parte.In questo caso la matrice sonora è quella targata Dozer, The Awesome Machine, Sunride e El Caco. Stoner dunque, fumoso quanto basta, melodico senza essere mieloso, ben suonato e registrato. Piacciono soprattutto gli intrecci delle chitarre e la voce tosta e vibrante, vero punto di forza del sound. A partire dall’iniziale “Prison of mine” fino a “One person crowd”, song che azzecca un giro davvero coinvolgente. Molto sentito è anche il chorus di “Unfortunately for you”, mentre “Here’s Johnny!” è una mazzata dall’alto tasso di groove da assaporare a tutta velocità, alla guida di un bolide su una strada deserta. Oltre questi quattro pezzi sono presenti sul dischetto anche due bonus track, caratterizzate purtroppo da una produzione non all’altezza delle altre composizioni. Nonostante questo aspetto “Wake up” e “Hate song” si fanno apprezzare lo stesso: la prima per la carica heavy, la seconda grazie alla sua vena psichedelica molto notturna e ‘piovosa’. Insomma, i Dogs Of Pompei ci sanno fare e lo dimostrano in pieno. La Svezia continua a sfornare band a getto continuo. Se la qualità rimane sempre su questi livelli ben venga tale affollamento… Alessandro Zoppo
DOLORIAN – Voidwards
Certe cose, si sa, hanno bisogno del loro tempo. Non importano i perché e i per come, è così e basta. E il campo musicale non fa eccezione. Bisogna saper aspettare, attendere l’ispirazione e trovare le giuste motivazioni prima di comporre, registrare e pubblicare un album. Di gruppi che timbrano il cartellino ogni anno e se ne escono con dischi fotocopia del precedente la scena ne è già satura. Tutte queste parole per annunciare il ritorno dei Dolorian, uno dei gruppi fondamentali per la scena doom degli ultimi anni. I Dolorian non sono i Metallica, ma hanno comunque atteso sei lunghi anni prima di dare un successore al precedente omonimo album; in tanti davano il duo finlandese per morto, dato il silenzio assoluto che aleggiava intorno al loro nome e alla loro attività (fatta eccezione per un fantomatico split 7” ep condiviso con gli Shining, pubblicato nel 2004, ma di cui pochissimi, o meglio nessuno, ne aveva mai visto la pubblicazione/distribuzione). In questi anni nessuna notizia era trapelata, ma oggi arriva “Voidwards”, il grande ritorno del duo finnico, un disco che rigetta nel più totale sconforto, proseguendo il discorso dei due precedenti lavori.
DOMADORA – The Violent Mystical Sukuma
Una cascata di note improvvisate e ricche di umore sanguigno. Domadora (nome spagnolo per designare la figura femminile che nel circo ammaestra i leoni) è un trio impro/space/psych di stanza a Parigi che ha scelto un nome azzeccato per descrivere il loro approccio alla musica free form. Siamo dalle parti di Earthless, Tia Carrera, Stinking Lizaveta, con qualcosa di più rude e impattante del concetto sviluppato dai 35007 e qualcosa in meno della balordaggine dei Karma to Burn. "Hypnosis" in apertura descrive bene dove vogliono andare a parare i nostri: quasi 12 minuti di strati su strati di lava heavy psych a solidificare una cattedrale sonora inespugnabile. Nelle successive "Indian Depression" e "Rocking Crash Hero" la forma canzone riemerge con tanto di vocals affidate al chitarrista Belwil e sembra di sconfinare nella tratta che nei Novanta collegava Seattle con New York, se vogliamo un grunge più intellettuale: più cervello, meno eroina.
"Solarium" riprende il discorso iniziale fatto di trance ipnotica, anche se stavolta siamo sui sedici minuti e la parte centrale si slabbra e rallenta, riuscendo ad essere evocativa con piccoli tocchi sugli strumenti. Le finali "Girl with a Pearl Earring" e "Jack Tripping", nove e otto minuti rispettivamente, riportano alla mente i gentili tocchi dei Causa Sui: psichedelia soft che gira attorno ad un pattern unico riempendolo o sgonfiandolo secondo le pulsioni della jam. Il verbo dell'improvvisazione, del lasciarsi andare alla creatività istantanea, dell'espressione musicale indeterminata, trova ogni volta i suoi seguaci che lo declinano secondo le proprie gioie. Una parte di band deve rimanere fedele a questa linea se vogliamo avere il piacere di una musica libera in ogni senso. Eugenio Di Giacomantonio
DOME LA MUERTE AND THE DIGGERS – Supersadobabi
Dalla parte dei caveman. Sempre e per sempre. Dome la Muerte è il nostro Link Protudi. Ma anche qualcosa di più. È il nostro Sky Saxon, Iggy Pop, Mick Jagger. Rocker di razza che nella vita sanno fare una cosa sola: rock'n'roll. Con i suoi Diggers nel 2014 sforna un altro album (il centocinquantottesimo della sua carriera, se non sbaglio) improponibile, pieno di tutti quei sottogeneri hard che noi born loser conosciamo bene. Eppure "Supersadobabi" suona da paura. Completo e perfetto nella sua magniloquenza. Partiamo dalla fine: "We'll Ride Untile the End" è proprio come il titolo, una cavalcata surf strumentale appassionata che mischia Dick Dale, Ventures e Animals alla grande. "If You Fight" è Turbonegro al 100% con carica depravata al seguito. "Your Favourite Obsession" è proprio la nostra voglia di scapocciare sul ritornello street glam e birra in mano. Slide guitar a riportare tutto in southern comfort. Sullo stesso registro biblico risuona "Woman in Trouble" che si pone interrogativi arcaici. Visioni liquide all'LSD tra Vibravoid e Liquid Sound Company è la sorprendente "Broken Chains", che rispolvera il sopito amore per il Sixties sound drug addicted tra code wah-wah e phaser supersonici. Ma ogni viaggio in acido vuole il ritorno, così ci pensa il "Bad Trip Blues Again" che tra sferragli di treno merci ed accordi ruspanti riporta tutto a casa, alle radici blues. C'è anche il tempo di omaggiare un paio di band amate con due cover ad hoc: "Little Doll" che se non sapete a chi appartiene, questa recensione non fa per voi e "The Shape of Things to Come" di Barry Mann & Cynthia Weil, sconosciuto duo compositivo, sempre dei Sessanta. Se volete un disco per i party rock di quest'estate che tarda ad arrivare, munitevi di "Supersadobabi" e solo di quello. Le ragazze vi cadranno tra le braccia. Lunga vita a Dome! Eugenio Di Giacomantonio
DOMES OF SILENCE, THE – Mescaline
Oxford non è solo sede di una delle università più prestigiose e rinomate nel mondo, è anche luogo di provenienza dei Domes of Silence, quintetto giunto all’esordio con “Mescaline”. Di peyote i cinque ne devono aver preso per aver partorito un disco del genere: tre quarti d’ora di puro rock psichedelico, influenzato a detta della band (e dell’etichetta che li promuove, la Shifty Disco) da Black Sabbath, Primal Scream, The Fall, Neil Diamond e Led Zeppelin. In realtà tra i microsolchi di questo lavoro si percepisce una certa nostalgia per quel suono neo psichedelico partorito nei primi anni ’90 in Inghilterra (Dreamgrinder, Tubilah Dog) e negli Stati Uniti (Dragline, Flaming Lips, Voodoo Gearshift). Un rock lisergico, visionario, che alterna a terribili sfuriate elettriche soavi armonie ‘beatlesiane’.È questa la strada percorsa da Sean (voce), Carl (chitarra), Charlie (basso), Tony (chitarra) e Alex (batteria). Luci abbaglianti e pillole psicotrope, trip magici in dirigibili fatati e stati di trance apparente. Brani come “Silver Buddha”, “Lost Weekend” o la bellissima “Jenna” (dedicata a Jenna Jameson?) volano alti nel cielo della psichedelica, accomunando la band inglese a colossi odierni come Dead Meadow e The Black Angels – pur con le dovute differenze di stile. “Tarnished Evidence”, “Trying to Get you” e “Twilight” puntano sul lato melodico (anche se ‘sporcato’ da una certa oscurità di fondo), mentre un riff cattivissimo come quello che traina “Utopia” ci getta in faccia una ruvidità tutta garage. Sono momenti come questi a fare di “Mescaline” un album completo e da godere sotto ogni punto di vista. D’altronde come si fa a rimanere impassibili di fronte alle atmosfere liquide create da chitarre, hammond e piano fender che la title track e “Selfless” mettono in mostra. È una piacevole utopia ma vale davvero la pena viverla fino in fondo. Restando in doveroso silenzio. Alessandro Zoppo
DOMMENGANG – Everybody’s Boogie
I Dommengang rappresentano la punta di diamante dello squadrone d'attacco heavy psych della Thrill Jockey. Insieme a Pontiak, Arbouretum e White Hills, stanno riscrivendo i paradigmi della musica espansa del 21° secolo. Si ha qualcosa di prettamente ludico, come nei Freak, band all stars nata per esaudire i desideri di indipendenza e libera espressione. Così, sia nel suono che nel concetto, i Dommengang liberano la loro musica nella maniera più naturale possibile. Ce ne accorgiamo in "Hats Off to Magic", stomp blues al fulmicotone che spezza la quiete introdotta dall'iniziale titletrack. La voce, quando c'è, è indolente alla maniera di un Jim Morrison in acido. Quindi East Coast anni Sessanta e viaggioni a non finire.
Anche se l'aspetto blues riemerge prepotentemente in più occasioni: "Her Blues" – che se vi dicessero uscita dalla penna di Dave Heuman degli Arbouretum ci credereste – e "CC", un dodici battute al valium nella stessa maniera con cui i Killing Joke avrebbero potuto concepire un omaggio ai padri fonadatori del rock'n'roll. Al contempo troviamo una leggera brezza del deserto proveniente da Palm Springs (l'uno/due di "Extra Slim Boogie" e "Burning Off the Years" è di spiazzante bellezza) che si intreccia piacevolmente con la bravura del chitarrista, sintetico e settantiano, dal tocco delicato e convincente. Come agli inizi della scena stoner, proto punk, hard e space rock sono a braccetto per creare una miscela gradita. Fuori dagli schemi. Lost My Way, come recita il pezzo finale dilatato, buono per i joint dell'estate che si sta avvicinando. Nota di demerito per la cover art: agghiacciante come l'attesa delle vittime di Anton Chigurh (Javier Bardem) in "Non è un paese per vecchi" dei fratelli Coen a cui sembra ispirarsi. Eugenio Di Giacomantonio
DONKEY BREEDER – Ergot
Un altro interessante gruppo di post-psichedelia sono i Donkey Breeder, quartetto modenese all'esordio con "Ergot", Ep autoprodotto di oltre 35 minuti che si differenzia un po' dal resto dell'attuale panorama per la robusta connotazione prog. La prima "Five Quarters Collapse" è uno showcase ben allestito (e ben suonato) di numerose variazioni che pescano dai Don Caballero ai Pelican, date in mano ai Rush (e in parte ai Tool, ormai praticamente onnipresenti), e si contraddistingue positivamente anche per gusto e mood sensoriale."Yorkshire" ripropone avvolgente rifferama e introspettive partiture acustiche, riuscendo a ricreare atmosfere evocative supportate dal feeling della solista. L'attacco di "Kala-azar" è orchestrato dall'ottimo basso di Vale e dischiude forse il pezzo più incisivo, giocato su acri contrasti heavy e fusion. Nella seconda parte del dischetto "Incaged" e "Empty Cores" uniscono il post-rock arioso dei primi anni 2000 e i Crimson più spigolosi, e va da sè che molte parti non sono certamente a livello dello stratosferico combo di Fripp, ma nel complesso sono brani che si difendono facendo la loro figura. Una menzione a parte va all'ultima "Unexpected Waterfall Effects" che pare scatenare tutte le forze della natura, grazie all'ultra-epico riff portante e i solismi in delay della chitarra di Alessio, influenzata in parte pure da Porcupine Tree, Motorpsycho e Red Sparowes. Le premesse sono solide, magari una maggiore concisione avrebbe giovato ulteriormente, ma ciò non toglie che i Donkey Breeder posseggano già un imprinting personale, perciò vanno senz'altro ascoltati. Già appetibili, con un' ulteriore maturazione potrebbero farne sentire delle belle, anche a gruppi più blasonati. Roberto Mattei
DONNAL – Like the sun
L’avventura discografica della Black Venus Records non poteva cominciare in modo migliore: dopo aver assestato buoni colpi con B-Movie, Mastica e Bad Action la piccola ma agguerrita label italiana piazza la stoccata vincente con questi DonnaL. Garage rock’n’roll grezzo e sparato a mille, ma pur sempre ragionato e con belle melodie in vista. La formula veneta funziona alla perfezione, merito delle chitarre sporche e della voce ruvida di Dario, accompagnato da una base ritmica (Andrea alla batteria e Luca al basso) che picchia più duro di un cazzotto sferrato da Mike Tyson… Rock lurido e veloce dicevamo, rinvigorito da un cantato vizioso che fa tanto Iggy Pop ma a tratti è influenzato da certi slanci lirici che richiamano alla mente la scena di Seattle. A partire dal riff blues immerso nell’acido dell’iniziale “Like the sun” è un susseguirsi di emozioni ad alta velocità e soprattutto ad alto tasso alcolico, come se Jon Spencer jammasse con gli MC5 e i Black Rebel Motorcycle Club fossero lì a spiarli… “My trip” pigia ancora di più sull’acceleratore e sembra materializzarsi lo spettro dei Mudhoney, mentre “Rock & roll (for me)” è il vero e proprio manifesto programmatico dei DonnaL: chitarra attaccata all’amplificatore, basso e batteria iniziano a pestare, volumi sparati al massimo e via, il gioco è fatto… Ci pensa “Shining dream” ad inserire un po’ di zucchero tra gli ingredienti con una melodia appiccicaticcia che trasforma un episodio rawk’n’roll in una sbandata ballata lisergica. Chiude il lavoro sulla stessa scia “Too wild”, melodia “facile” e rapidità punk à la Ash per l’urlo finale che conclude in modo magistrale un lavoro da tenere d’occhio. Ma d’altra parte già a partire dalla copertina si era capito che si trattasse di musica adatta ai veri amanti del rock… Alessandro Zoppo
DONNIE’S LEACH 88 – Replacing Moments
Donnie's Leach 88 è un progetto nato dall'unione di Francesco Lenzi, chitarra, e Alessandro Bucci, tastiere. Ispirati dal film Donnie Darko, regia di Richard Kelly del 2001, il duo prova a mettere insieme elettronica, ambient, chitarre distorte, improvvisazione, free form e tutto quello che gli passa per la mente. Il risultato sembra stare al confine tra le colonne sonore dei film horror anni Ottanta (una strada simile la sta percorrendo l'americano Umberto, ma con un focus più preciso) e la musica astratta di Dylan Carlson, al netto della sua impronta doom/noir.
Affrontare l'ascolto con la mente e le orecchie bene aperte è un obbligo in questi casi: ci si lascia andare agli echi orientaleggianti di "R.S.U." e "Orbital Rabbits", al drone box di "Slow Thunder", "The Final Decision" e "P.H.M.", all'ambient glaciale e chitarristico di "Go to the Cinema with Frank" e al divertimento puro e semplice di "Entrapped in a Nightmare". Se si cercasse qualcosa di più concreto ed ortodosso il duo potrebbe spiazzare oltre che innervosire, ma con una buona di partecipazione da parte dell'ascoltatore si potrebbero dipingere scenari fantastici oltre il confine delle proprie preferenze musicali. Qualcosa deve ancora crescere e maturare e qualcos'altro brilla dell'intuizione geniale, ma il progetto potrebbe riservare piacevoli sorprese per il futuro. Leggendo il loro curriculum si capisce che sono due personaggi navigati nel mare nostrum della musica indipendente. Eugenio Di Giacomantonio
DOOMENICUS – Sacred
Riff ferali e sanguinanti, voce lunare che indossa il peplo della tragedia umana, atmosfere notturne e pietrificate nell’oscurità, attaccamento al verbo di Solitude Aeternus, Warning, Revelation, Paul Chain e tutto il sabba del doom tradizionale degli ultimi tre decenni: i Doomenicus approdano meritatamente al primo full-length dopo la consueta trafila di demo. In realtà non si tratta di ultimi arrivati: il gruppo di Domenico Caruso esiste già dal 2000, e ne risente positivamente l’approccio, fatto di coerenza assoluta e dedizione ferrea.I primi solchi di “Sacred” garantiscono una sequenza di nere gemme quali “Cold Embrace, “You Are Nothing” e “Remember November” (quest’ultimo è anche il monicker dei uno dei vari side-project che vede coinvolti i membri del gruppo pugliese). Lo spirito di Wino e del doom più asfittico aleggiano sull’ultra raggelante (e riuscita) title-track, mentre la solenni “She Haunts You” e “Mercy and Forgiveness” quadrano il cerchio magico tracciato da statue d’alabastro. Un ottimo album insomma, se siete amanti del doom incontaminato e dei ‘liberatori’ effetti catatonici non lasciatevelo sfuggire. E non fate caso al fatto che questo disco sia autoprodotto (in modo professionale tra l’altro, sia nel suono che nel formato): per poterlo offrire al pubblico va benissimo così. Peccato che il chitarrista Murnau (non poteva scegliere nome migliore... N.d.A.) abbia dovuto lasciare, rimpiazzato da Malphas, ma la strada dei Doomenicus sarà capace di proseguire inesorabile, ne siamo sicuri. Roberto Mattei
DOOMRAISER – Erasing the Remembrance
‘Erasing the Remembrance’, cancellare il ricordo. La memoria di giorni oscuri, soli pallidi, corvi minacciosi, bambini che giocano in apparenza innocenti, bellezze che svaniscono, fiumi sudici che scorrono nella nostra mente. Si presentano così i Doomraiser al traguardo del secondo disco, sostenuti per l’occasione dalla premiata accoppiata Bloodrock Records e Black Widow. Sette brani (nove nella versione in vinile) che fungono da manifesto: come suonare doom metal nell’anno di grazia 2009. E non basta sventolare il vessillo di Cathedral e Reverend Bizarre per esserne alfieri. Se l’esordio ‘Lords of Mercy’ era già una precisa dichiarazione d’intenti, questo nuovo disco approfondisce la materia e la esplora con grazia e ulteriore cattiveria. Basta ascoltare il flauto che attraversa maligno le melodie e i riff imbevuti d’acido di “Another Black Day under the Dead Sun”, inizio travolgente per classe e minacciosità. Ormai i Doomraiser hanno trovato un proprio stile, che poggia sulle tonanti ritmiche di BJ (basso) e Pinna (batteria), valica i confini psichedelici grazie alle chitarre di Drugo e Molestius, fa leva sull’intensa, drammatica, eccezionale voce di Cynar. Lo dimostrano “The Raven” e “C.O.V. (Oblivion)”: la prima impreziosita da un organo liquido che apre agli intrecci delle chitarre (e suona come se gli Slayer si fossero messi in testa di rendere omaggio ai Black Sabbath); la seconda esasperata da riff a dir poco catacombali. I quindici minuti di “Vanitas” sono però il picco dell’album. Ancora una volta il flauto apre ad una partenza a razzo, grezza e devastante. Nel mezzo, un crescendo ricco di groove e veleno che riporta, come un flusso circolare, alla mazzata d’origine. La grande croce destino rende così sacrificio al potere della Natura, dove la bellezza scompare e incontra l’oblio. Infine, l’atto conclusivo con l’inno “Rotten River”, una bomba in stile Goatsnake che confluisce in un finale dilatato ed esoterico, memore degli ultimi Electric Wizard. Occhio poi alle due bonus track presenti nell’edizione in vinile: “Dune Messiah” è una rivisitazione pachidermica di un classico degli australiani Buffalo; “Caves, Mountains and Monolith” l’ennesima dimostrazione di forza che fa dei Doomraiser uno dei migliori gruppi attualmente in circolazione. The new doom marches across the world! Alessandro Zoppo
DOOMRAISER – Heavy drunken doom
Il nero vessillo del doom torna ad issarsi alto nel cielo grazie ai capitolini DoomRaiser. Formazione davvero incredibile per la coesione, la personalità e la compattezza di quanto proposto. E siamo appena al primo demo…Nati dall'estro creativo di BJ (bassista noto ai più per il suo lavoro con i IV Luna), il quintetto ha trovato la sua stabilità grazie al possente lavoro ritmico di Pinna (batteria), ai riff catacombali della coppia formata da Drugo e Valerio (membro dei Green Sasquatch), e soprattutto al talento vocale di Cynar, vero asso nella manica della band romana. La sua voce infatti convince su tutti i fronti, sia quando si tratta di declamare oscure elegie alla musica del destino, sia quando i tratti si fanno più tirati ed occorre iniziare ad aggredire. Ma è il risultato nel complesso a sorprendere, un misto di doom classico in stile Cathedral, Penance e Solitude Aeternus unito a certe spigolosità sludgy che rendono il piatto veramente ghiotto. Se si pensa che le composizioni hanno anche una durata media che si aggira sui dieci minuti (senza mai stancare) comprendiamo bene come l'entità DoomRaiser sia pronta per il salto definitivo nel mondo discografico. Lo dimostra sin da subito la stupenda "The age of Christ", lunga apertura strutturata secondo i più cinerei canoni doom: strofa lenta e soffocante, vibranti wah-wah di chitarra, pause lugubri e il chorus intonato magnificamente da Cynar. Un biglietto da visita che lascia a bocca aperta, provare per credere. La successiva "Lords of mercy" è puro doom catacombale, nero, funesto, poche concessioni melodiche, il basso frastornante di BJ a dettar legge e le solita vocals imponenti a far quadrare il cerchio. Chiude il dischetto "The man that ride the past erasing the remembrance", colosso che si sposta su un versante più sludge, decisamente marcio, rigenerato solo nel finale da un'azzeccata pausa psichedelica. Insieme a Green Sasquatch, Misantropus e Grace Killing i DoomRaiser hanno creato un universo unito e coeso. La fratellanza doom non ha confini e i DoomRaiser ne sono la prova. Heavy drunken doom, uh yeah! Alessandro Zoppo
DOOMRAISER – Mountains of Madness
Giungono al terzo album (pubblicato sempre dalla genovese BloodRock Records) i romani Doomraiser, tra i gruppi di punta della scena doom italiana sviluppatasi negli ultimi anni. Fin dai loro esordi i Doomraiser ricordano gli Electrc Wizard del primo omonimo album, ovvero quelli ancora "sani" (i trip sarebbero arrivati dopo) nel loro miscelare doom metal a lisergico space heavy rock, intingendo sovente il tutto in un vortice psichedelico dall'umore nero."Mountains of Madness" (come esplicato nel titolo, un disco dedicato all'arte letteraria del mitico H.P. Lovecraft) non cambia le carte in tavola, proponendo cinque lunghi pezzi articolati dove i cambi di ritmo ed atmosfere (la bellissima "Phoenix") fanno spesso il loro ingresso nell'economia dei brani, spezzando un attimo la cappa nera che il gruppo costruisce quando avanza con le delicatezza ed il passo di un mammut (eloquenti a tal proposito la title track e la demoniaca "Like a Ghost"). Il quintetto dimostra di conoscere a fondo il genere affrontato, un denso doom metal dall'alto tasso "fumoso", una musica sovente nera aperta comunque anche a soluzioni più "colorate". Consigliatissimo! Marco Cavallini
Doomraiser – Lords of Mercy
Che l’olocausto alcolico abbia inizio. I Doomraiser si confermano una possente macchina da guerra e con il loro esordio ufficiale (edito da Iron Tyrant dopo una demo e il 7" The Old Man to the Child) celebrano un rito pagano nel sacro nome della musica del destino. Cinque brani per una durata complessiva di 58 minuti, una odissea nei meandri del doom, nero come la pece, vivo nelle sue mille sfaccettature, magico nel mettere in musica tutti i colori del buio. Cynar (voce), BJ (basso), Pinna (batteria), Valerio e Drugo (chitarre) hanno trovato un amalgama speciale, suonano come una macchina rodata da anni, la loro armonia è evidente dalla prima all’ultima nota del disco. Che prende inizio con quello che è ormai un classico della band, The Age of Christ: doom metal tosto e vibrante, con una melodia rocciosa che si stampa in mente fin dal primo ascolto. Perfetta colonna sonora di una sbronza colossale con gli amici. La produzione di Giuseppe Orlando agli Outer Sound Studios non fa che migliorare le cose, rendendo il sound ancora più granitico e possente. La mini suite The Old Man to the Child ne è esempio: aperta da un sample tratto da Il cielo sopra Berlino, è una matassa dal groove mozzafiato, profonda ed elaborata, con una coda evocativa che mette i brividi per intensità e fascino ancestrale. Doomraiser è un inno di battaglia, una canzone che coniuga impatto, melodia e un’avvolgente cappa psichedelica degna dei primi Orange Goblin. Funeree vibrazioni ‘sabbathiane’ caratterizzano Metamorphosis, colosso che dà il via alla conclusiva, monumentale Doomalcoholocaust, orgia sonora che celebra con lentezza asfissiante la conclusione di un fantastico, onirico, devastante, alcolico trip. Per coerenza, attitudine, passione e – diciamocelo – un pizzico di campanilismo, Lords of Mercy è il nostro disco doom dell’anno. https://www.youtube.com/watch?v=V1pateiW9EU Alessandro Zoppo
DOPE BODY – Saturday
Dopo il debutto su Drag City nel 2012 con "Natural History", tornano i Dope Body con un EP intitolato "Saturday". La proposta dei quattro ragazzotti del Maryland è sempre la stessa. Un noise rock sgranato in chiave Ampethamine Reptile, addolcito da sferzate melodiche. Si parte al fulmicotone con "Leather Head", riff sgraziato di chitarra, batteria obliqua e voce sguaiata. I Jesus Lizard (che paragone!) in chiave melodica. Il secondo e ultimo pezzo, "Youth Relic", è un punk ipertrofico e ipersaturo con quel basso ultradistorto che dà una spinta notevole al brano. Due tracce sintetiche ma non per questo prive di significato che inquadrano ulteriormente il percorso dei noisers di Baltimora. Attendiamo ansioni il secondo full-length. Giuseppe Aversano
DOT LEGACY – Dot Legacy
I Dot Legacy sono quattro ruspanti giovanotti della capitale francese che hanno voglia di fare quello che vogliono con il rock 'n roll. Sono cresciuti con l'hard nordeuropeo e si sente. Sarà per quei fraseggi di chitarra stile Glucifer/Hellacopters/Hives ma l'influenza del sound made in Sweden è maggiore di quello made in UK. Inoltre, hanno dimostrato di essere interessati alla musica indipendente degli ultimi vent'anni, quella che si affaccia al davanzale maistream di Faith No More, Red Hot Chili Peppers, System of a Down (soprattutto nell'amalgama chitarrina arpeggiata e vocalizzo "romantico") e questo dona al primo omonimo disco una melodia di facile suggestione.
Alcune volte Damien, il cantante e bassista, si lancia in emulazioni alla Anthony Kiedis ("Pyramid") fuori tempo massimo per risultare efficaci, ma nel contempo sa usare la voce in diversi registri e questo dona una freschezza all'esecuzione generale. Le cose migliori si avvertono quando il tempo rallenta e si vedono i primi miraggi desertici fuori l'orizzonte metropolitano ("Gorilla Train Station": titolo spettacolare!) o quando le parti strumentali si lanciano in jam dissociate come in "The Midnight Weirdos". Altre volte forzature come stop-and-go e accelerazioni metal, come nell'iniziale "Kennedy", o cori Spanish funzionano meno alla pace interiore dell'ascoltatore, ma alla fine della fiera i conti tornano a loro favore. D'altra parte che male fanno questi quattro ruspanti giovanotti che hanno voglia fare quello che vogliono con il rock 'n roll? Assolutamente nulla. Eugenio Di Giacomantonio
DOTZAUER – Deep
Dato il proliferare indisturbato di band cloni di Isis, Neurosis, Cult of Luna, Rosetta e via dicendo, c'è sempre un po' di scetticismo riguardo i gruppi post-metal che si affacciano alla scena, poiché oramai sembra che il filone, nei suoi risvolti più canonici, abbia già detto tutto. Proprio post-metal si definiscono i trevigiani Dotzauer che debuttano con "Deep" sotto l'egida della Red Sound Records. E seppur rimangono fedeli agli stilemi del genere, ci regalano un album valido e forte di una discreta personalità, complici anche la registrazione ai Red Sound Studio ed il mastering griffato James Plotkin. "Organic Silver", brano che apre il disco, si pregia dell'ottimo lavoro della chitarra e si struttura grazie al gioco delle dinamiche. "Water Buries the Skyline" mischia un po' le carte in tavola, sopratutto grazie all'intro jazzato che fa da contraltare alle più classiche esplosioni sludge che seguono. "Deepster" è un sinistro intermezzo ambient/drone e fa da preludio a "Air Hunger", composizione che si spoglia almeno per un attimo delle atmosfere plumbee ed opprimenti e parte in maniera sognante con una voce pulita, ma l'incanto dura poco e si ritorna a pestare furiosamente nella maniera più prevedibile. Aggressione senza esclusione di colpi anche in "Shreds of Consciousness", pezzo tra i più tirati, con cavalcata atmosferica nel finale. Chiude "When the Soul and the Abyss Wave to Each Other", che ricalca la struttura di "Air Hunger". Al di là delle perplessità legate alla doppia edizione di "Deep", una con le parti vocali e una strumentale, che sembra più un manierismo che altro, ci si trova di fronte ad un prodotto che pur nella sua totale ascrivibilità ai canoni più classici del post-metal risulta godibile, ben suonato e ben prodotto. Avanti così. Giuseppe Aversano
DOVE – Dove
Qualcuno parlando dei Dove ha ricordato i tempi in cui i gruppi hardcore iniziavano a scoprire i vecchi "dinosauri" che negli anni '70 crearono l'hard rock. Riflessione azzeccata se si ascolta questo dischetto, tra l'altro proveniente da una band già nota in passato per la militanza dei suoi membri (il cantante e chitarrista Henry Wilson) nei Floor (ormai sciolti) e nei Cavity.Il primo disco omonimo dei Dove è un continuo assalto dove l'energia e la forza sono gli elementi cruciali. Il songwriting spesso è acerbo, non a caso l'unico difetto riscontrabile è la ripetitività che fa capolino in alcune fasi. Nonostante questo limite, poco più di mezz'ora basta per rendere l'idea di cosa ci si trova di fronte. Heavy psych rock plumbeo e tonante, slabbrato e dal taglio doomy. Sono evidenti le radici hardcore (la bordata "Goes without saying" è eloquente…) ma risultano ben mescolate con un suono cupo e asciutto, di chiara ascendenza 'sabbathiana'. Per certi versi sono presenti delle assonanze con gli High On Fire di Matt Pike: l'aggressività delle chitarre, le ritmiche compresse, il cantato sofferto e rabbioso. Per altri aspetti invece vengono alla mente gruppi come Mastodon e Keelhaul, gente senza compromessi, che ha fatto evolvere l'hardcore verso nuove forme, contorte e contaminate. Lo dimostrano le costruzioni ardite sulle quali poggiano brani come "This you can trust" o "You and I". Altrove invece sono i riff pieni e debordanti di Wilson a prevalere, creando autentici vortici caliginosi del calibro di "Twenty three twelve" (un forsennato rullo compressore!), "Without warning" e "Sight and seen". Un ottimo disco dunque questo esordio dei Dove. Piacerà sicuramente ad ampie fasce di pubblico: gli amanti dell'heavy rock e del doom ma anche chi cerca nuovi stimoli dai canoni ristretti dell'hardcore. Alessandro Zoppo
DOWN – III: Over The Under
Charles Baudelaire, Paul Verlaine, Gabriele D'Annunzio e i Down. Il punto di contatto tra questi tre poeti e la band della Louisiana? Potremmo dire che il simbolismo abbia “metaforicamente” ispirato la band nella composizione del loro terzo lavoro in studio, perchè nel simbolismo la natura invia segnali interpretabili dal solo poeta, il quale era capace di decifrare i messaggi della natura e decifrarli per il “cieco” spettatore. Potrebbe, ma alla fine si tratterebbe esclusivamente di un'ipotesi malsana, ma non così peregrina ed assurda: la natura ha realmente ispirato i Down, si è ammantata da musa ed ha indicato loro parte della strada da seguire in questo Over the Under.Il riferimento è diretto ai terribili eventi del 2005, quando l'uragano Katrina colpì in maniera catastrofica la costa pacifica degli Stati Uniti, in particolar modo New Orleans, la città in cui vivono i ragazzi. Nel momento in cui la tua vita viene sconvolta da un avvenimento del genere, nulla è come prima in ogni caso. La più grande disfatta economica, una delle più gravi per il numero di morti, interi quartieri sommersi dall'acqua e dal fango, senza la possibilità di trovare un colpevole, un responsabile, un capro espiatorio. Puoi solo piangere e risorgere, combattere e faticare per cercare di salvare il salvabile, sperando in tempi di recupero ridotti. Ma puoi ricostruire e rimettere in sesto la tua casa, la tua attività commerciale, uscire di casa a distanza di mesi dall'uragano e rientrare nello stesso bar in cui eri seduto quando è scoppiato fuori quell'inferno liquido. Potrai ricominciare da capo, ma sarai inesorabilmente segnato nella tua anima, sentendo ancora bruciare i tuoi occhi per le lacrime e la rabbai, le vene pulsare impazzite come se ti fossi fatto uno speedball di nitroglicerina e adrenalina misto a paura ed LSD. E' il peso del mondo che ti schiaccia, quando la tua bella casa nel quartiere residenziale assomiglia alle case di fango alla periferia di San Paolo. E' l'urlo in gola che ti ha scartavetrato l'anima, esplodendo come se potessi contrastare quel disastro naturale con la tua voce, con la tua rabbia e con la dimostrazione che l'uomo sarà sempre capace di una ultima risorsa inestinguibile, da centinaia di anni. Riemergere quando si è toccato il fondo, riemergere lottando per risalire e tornare a galla. Sopra il minimo, Over The Under. Certo, il secondo disco mancava da cinque anni (come il secondo è stato pubblicato ben sette anni dall'esordio, N.O.L.A. Del 1995), per cui è assolutamente ovvio pensare che alcune tracce fossero già presenti, magari proposte nell'immensa attività concertistica della band. Ma è stato questo natural distaster (per citare gli Anathema) che ha rafforzato l'intento di creare una nuova colonna dsetinata a sorreggere l'architrave dello stile down, un marchio di fabbrica che ha conquistato sempre più proseliti, al punto tale da riuscire ad appassionare anche chi non ascolta necessariamente sludge o è appassionato dei progetti da cui provengono i vari musicisti (Crowbar, Pantera, Corrosion Of Conformity, Eyehategod e gli altri meno famosi, come i Mistyk Krewe Of Clearlight, Superjoint Ritual, Viking Crown, necrophagia o Christ Inversion). Tuttavia c'è da dire che questo disco è diverso dai precedenti, senza ombra di dubbio all'ascoltatore dotato di buon orecchio non sfuggiranno alcune novità ed elementi che, pur avendo a che fare con influenze che spuntano dal passato, sono sicuramente diversi rispetto agli altri due dischi. I brani nel tipico stile del gruppo ci sono e sono, anche numerosi, rassicurando l'ascoltatore e l'affezionato che il cambiamento non sarà mai eccessivo e l'attitudine non cambia (3 suns and 1 star, N.O.D., The Path), già dalle prime battute. La premiata ditta Windstein/Keenan continua a sfornare ottimi riffs ed assolit, con alcuni passaggi in cui osannano Iommi; ma sicuramente la prestazione migliore del disco è fornita da Phil Anselmo, che riesce a ritrovare quella potenza e personalità, che lo aveva reso famoso ai tempi d'oro dei Pantera. La voce è il vero valore aggiunto perchè diventa interpretazione sentita ed ispirata, costruita sapientemente per ogni singolo brano, cercando di sviluppare quelle sfumature e quei particolari che intensificano e valorizzano la melodia. I tempi di Nola sono realtivamente passati, perchè questa volta gli amici si riuniscono per dare voce e suoni alla loro paura e rabbia, musicando e dando forma a qualcosa che alberga dentro di loro e che non può essere compreso, se non lo si vive direttamente. Tornando al discorso novità, questo disco appare come il più maturo e sentito, con brani-frontiera che evidenziano il cambiamento mano mano che si scorre nell'ascolto : da “on march the saints”, scelto come singolo perchè il più orecchiabile e accattivante ad un immediato ascolto, si apre la stagione del grande blues e del lato più “sperimentale” della band, in cui si abbandonano talvolta le virate più sludge/metal (che continuano ad essere presente, come in Mourn, Pyllamid) per dedicarsi a momenti di intimo e appassionante blues (Never Try), misto ad un mood anni '70 , capace di sfociare addirittura nella psichedelia come His Majesty the Desert. La second aparte è caratterizzata da brani molto più lunghi, più curati e studiati, ma senza necessariamente perdere l'aggressività, alternandosi in un gioco di piano-forte come in un sistema di scatole cinesi. In sintesi i Down can't do no wrong, questo è appurato. Forse qualcuno dirà che non siamo ai livelli di Nola, visto che sono irraggiungibili. Ma ricordatevi che ogni disco dei Down è un mondo a parte, con i suoi crismi e le sue regole, incapace di essere confrontato con gli altri due. Dedico questo disco a tutti coloro che hanno perso qualcosa a New Orleans nel 2005 e nella zona di Cagliari il 22 ottobre di quest anno. Io tre giorni dopo stavo dando una mano, immerso nel fango fino alle caviglie, cercando di dare il mio aiuto anche se non certamente non conoscevo i proprietari di quella casa. Posso capire cosa vuol dire perdere tutto e lottare per salvare quello che rimane, nulla è definitivamente perduto finchè non si smette di provarci. Gabriele "Sgabrioz" Mureddu
Dozer – Beyond Colossal
Colossale potrebbe essere l'aggettivo adatto per qualificare questo lavoro, seguito di quel “Through the Eyes of the Heathens” che tre anni fa divise appassionati e critica riguardo ai Dozer. La formazione svedese, attiva dal 1995, ha indubbiamente percorso una strada che le ha permesso di divenire una delle band più interessanti ed importanti del panorama stoner, garantendosi il piazzamento affianco alle vecchie e nuove glorie. In “Beyond Colossal” si conclude quel ciclo di mutazione e metamorfosi da Kyuss-band (ai limiti del clone, bisogna ammetterlo, nei primissimi tempi di “In the Tail of a Comet”) con grande potenziale ad una formazione con una propria identità, in un percorso graduale che ha messo a fuoco nuovi stili e nuovi linguaggi. Potrebbero aver sbagliato qualche cosa, magari azzardando qualche passo troppo coraggioso (è il caso di “Through”, comunque un buon disco), ma siamo arrivati a quello che potrebbe essere il definitivo capolavoro. Almeno fino a questo 2008, i Dozer avevano pubblicato lavori di grande qualità, ma quest'ultimo li supera tutti per personalità, varietà, attitudine e grande capacità di coniugare una forma mentis del rocker stoner con la gradevolezza di un record in cui siano presenti canzoni efficaci, godibili e assolutamente accattivanti. Questo non significa tuttavia che si tratti di un lavoro semplicistico, mirato a piazzare una sequela di singoli e di brani di impatto immediato: questo è uno degli aspetti di “Beyond Colossal”, la sua facilità di circolazione e di transito nelle diverse playlist settimanali e impianti in macchina. Ma è sostanzialmente la capacità di poter affermare che i Dozer siano arrivati al Big Kahuna, il disco che non si può sbagliare e che loro non hanno certamente sbagliato. Già dalle note di The Flood si capisce come i quattro ragazzi di Borlänge abbiano capito tutto di come si scriva e si incida una canzone rock a tutti gli effetti: grande riff, ottima melodia, bella voce solida e rocciosa, eccellente sezione ritmica e superba orecchiabilità del tutto. Ogni singola tessera è al suo posto, senza fronzoli ma contemporaneamente rendendo ricca e prelibata la portata. Il discorso sulle linee vocali è assolutamente necessario perché questo è uno dei punti di forza del disco, vuoi anche grazie alla grandiosa partecipazione, di Neil Fallon, massiccia ugola dei Clutch (Empire's End, Two Coins for Eyes), vuoi anche per l'eterogeneità dei timbri e degli stili utilizzati, a volte più epici e tirati, altre volte più riflessivi e disincantati. Tra la prima traccia e l'ultima scorre un abisso, perché nessuno si aspetterebbe di assistere ad un brano come Bound for Greatness, tributo agli anni '70, atmosferico e con un hammond che è da commuoversi. Per il resto è un album incredibilmente denso di sonorità, canzoni e passaggi da applausi a scena aperta, uno dei migliori dischi degli ultimi 5 anni, usciti nella scena stoner. Sarebbe privo di utilità indicare una canzone migliore dell'altra, sono tutte sullo stesso livello, cioè di eccellenza. https://www.youtube.com/watch?v=SnZYVitckRo

Gabriele "Sgabrioz" Mureddu

Dozer – Call It Conspiracy
...sempre rock è. Avevamo conosciuto i Dozer per lo split con gli Unida, ‘Coming Down the Mountain/The Best of Wayne Gro’ (1998, Meteorcity), per il primo album ‘In the Tail of a Comet’ (2000, Man’s Ruin) e il secondo ‘Madre de Dios’ (Molten Universe, 2001). E con il passare degli anni quel sound grasso, fuzzy, potente che all’inizio guardava a Nebula e Fu Manchu è migliorato parecchio fino a una decisa maturità. La loro personalità comincia a venir fuori, poco ci manca per fare un gran disco, speriamo il prossimo. I Dozer di Call It Conspiracy cambiano completamente il tiro in alcuni episodi, più ragionati, e rinnovano la fede al loro sound in altri. Rispetto ai lavori precedenti troviamo una produzione decisamente migliore, frutto del lavoro di Chips K. (Hellacopters, Nomads) che fa decollare un songwriting più mirato a colpire l'ascoltatore su diversi livelli. Il risultato è un disco fresco e godibile che può farvi passare un bellissimo quarto d’ora. The Hill Have Eyes è una partenza classica sorretta da un riff blues rock carichissimo di energia e melodia. Stesso discorso di grande impatto per The Exit e Glorified, lo stile è un po’ più raffinato di quello dei Fu Manchu. Le immancabili tendenze psichedeliche non sono mai portate a completo compimento, tranne che nella splendida Lighting Stalker. Way of Redemption è tra i numeri più interessanti perché prendendo un po' dai Soundgarden, un po' dai Kyuss di ‘Blues for the Red Sun’, per certo percussivismo tribale portato all’acidità, riesce comunque ad essere profonda e diretta. Da segnalare ancora Black Light Revolution, tipica stoner rock song basata su un cantato cornelliano e una progressiva elefantiaca accelerazione bruscamente interrotta nel mezzo da cadenze doom-soul. In conclusione, 'Call It Conspiracy' è un disco ampiamente sufficiente che pur non inventando ancora niente di totalmente nuovo è tremendamente contagioso. E poi, è un deciso passo avanti per i Dozer, band svedese tra le più interessanti in questo ambito. Dovrebbe bastare per attirare l’attenzione degli hard-stoner fans. https://www.youtube.com/watch?v=_Enpt5RmHoU

Francesco Imperato

Dozer – In the Tail of a Comet
Reduci dallo storico e sorprendente split CD con quei mostri sacri degli Unida datato 1998, l'anno successivo gli svedesi Dozer si ritrovano alla ribalta del nascente movimento stoner europeo e sono pronti a registrare il primo loro full-length. Nel 2000 esce per Man's Ruin (che in campo stoner equivale al papa per i cristiani; potrei già chiudere qui la recensione!) "In the Tail of a Comet" e le intenzioni sono chiare: vincere la sana competizione venutasi a creare con la scena stoner rock olandese (memore di gruppi del calibro di 35007, Beaver, Celestial Season, 7Zuma7). Se i connazionali Spiritual Beggars e The Quill tendevano sin dagli esordi a un eccessivo 'settantianismo' di fondo, i Dozer sono il gruppo che meglio ha saputo reinterpretare la lezione dei Kyuss (capitoli: "Blues for the Red Sun" e "Sky Valley") riuscendo tuttavia a imporre col tempo un proprio marchio di fabbrica col tempo ben distinguibile. Spogliato dei voli pindarici psichedelici di Josh Homme (come invece ricalca la clone-band Lowrider), il chitarrismo di Frederik e Tommi punta maggiormente all'efficacia fuzzy di portentose bordate heavy che a tratti rimandano agli Unida ("Supersoul", "Speeder" e "Cupola") e, perché no, agli Orange Goblin più scurrili ("Lighthyears Ahead"). Certo, l'influenza dei Kyuss è ben marcata per tutta la durata dell'album, in particolare quando il fattore emozionale ha il sopravvento, traducendosi nelle accattivanti allucinazioni di "Riding the Machine"o "Grand Dragon". Qui la voce di Frederik nonostante gli evidenti accostamenti a 'mammasantissima' John Garcia, sa ritagliarsi un suo spazio e dimostra già discreta personalità; per i 40 minuti scarsi di durata del disco non si assiste a cali di tensione ed è la magica alchimia dello stoner, con i suoi tipici cambiamenti d'umore e di atmosfere, a farla da padrone. In poche parole: un album fondamentale per capire come un genere di nicchia abbia saputo affermarsi nel vecchio continente. https://www.youtube.com/watch?v=0ruWUi_HOpg

Giacomo Corradi

Dozer – Through the Eyes of the Heathens
Diciamolo subito: questo nuovo album degli svedesi Dozer rappresenta una cocente delusione, soprattutto alla luce di quanto i nostri erano riusciti a proporre nel precedente, bellissimo “Call It Conspiracy”, pubblicato nel 2003. I Dozer sono uno dei primissimi gruppi che seguì la strada tracciata dai seminali Kyuss, ergendosi a gruppo faro della colonia scandinava che nel biennio 1999/2000 invase (in senso positivo, ma anche negativo) letteralmente la scena, saturando il mercato con gruppi/dischi molto simili (per usare un eufemismo…) uno con l’altro. Col precedente album, i Dozer erano parzialmente riusciti a scrollarsi di dosso la pesante influenza ‘kyussiana’, proponendo un incendiario super heavy rock e, soprattutto, azzeccando 12 brani su 12 (mica poco, vero?).Questo nuovo “Through the Eyes of the Heathens” riporta invece indietro il quartetto, ritornato alle prese con un sound pesantemente di marca Kyuss (specialmente nel guitar work del pur bravo Tommi Holappa) e vede i nostri cimentarsi in un classico stoner rock alternante bordate rock a brani più riflessivi/psichedelici. Si ergono sulle altre l’evocativa “Until Man Exits No More” (bello il giro di chitarra) e la seguente “Days of Future Past”, dal gusto catchy ma anche con l’ombra dei Kyuss ad opprimerne il potenziale. L’ottima “Big Sky Theory” conclude invece in chiave lisergica il disco, essendo una lunga ballata stoner/hard dove pesantissime porzioni rock s’incastrano a meraviglia con vellutate pause psichedeliche. Da sempre i Dozer hanno questa caratteristica di chiudere i loro lavori con canzoni su questo stile, e visti i risultati consigliamo alla band di espandere maggiormente questa soluzione. D’altro canto, canzoni come “Man of Fire” e “Drawning Dead” promettono sfracelli quando saranno suonate dal vivo, forti di una carica dinamitarda, ma il punto non è questo. Il punto è che da un gruppo arrivato al quarto disco (e soprattutto visti i risultati raggiunti col precedente lavoro) era lecito attendersi qualcosa di più di quanto contenuto in questo “Through the Eyes of the Heathens”: una minestra riscaldata, suonata con grinta e classe, certo, ma sempre di minestra riscaldata si tratta. https://www.youtube.com/watch?v=fyX1PKBibjM

Marco Cavallini

DRAGONAUTA – CabraMacabra
Posesos de Grito Primal, Supremo Arte, Transmutar! È l’urlo mefistofelico che apre “CabraMacabra”, nuova fatica degli argentini Dragonauta. Che si confermano band di lusso dopo l’esordio “Luciferatu” e gli split in compagnia di Los Natas e Abdullah. Se il debutto dei cinque era un mix di diverse esperienze ed influenze (doom, progressive, jazz, hard rock), questa uscita va ancora oltre, unendo a doom, jazz e prog ampie dosi di metal classico e thrash. Una evoluzione ulteriore che si poteva già assaporare tra i microsolchi di “Ramera del diablo”, “Revolución luciferiana” e “Letargo espiritual”, i tre brani presenti nel cd diviso con gli Adbullah.Il vocalist Federico è sempre gran cerimoniere rituale, un colosso che con la sua voce possente ci introduce in un mondo ossessivo e tenebroso. Strepitoso è il lavoro ritmico di Martín (basso) e Ariel (batteria), così come quello delle due chitarre Daniel e Hernán. I Dragonauta hanno grande padronanza tecnica e in questo caso lasciano da parte l’approccio più diretto scrivendo canzoni dure, intricate, difficili da assimilare ad un primo ascolto. Ma il doom in stile Cathedral misto al thrash più tirato di brani come “Transmutado” e “Dioses del Submundo” non mancherà di mietere vittime. Lo stesso si può dire di “El Festín” o della strumentale “Marcha del Dragonauta”, heavy metal oscuro e funereo, davvero travolgente ed inquietante. Ovviamente non manca il doom classico che farà felici tutti gli adepti di Lee Dorrian e compagni. Esemplari sono a tal proposito “Necrogalaxia” e “Arcana Premonición”, psycho doom sparatissimo, roba da arresto cardiaco, o “Experienciar”, song dal groove mozzafiato, con riff che entrano nella pelle e non lasciano scampo. Sorprendono invece le fantastiche ed evocative melodie psichedeliche che caratterizzano le elettro acustiche “Funeral Mágico (Parte II)” e “En el Futuro ya no habrá Piedad”. Mentre il finale è un ritorno alle sonorità del primo album con il jazz doom progressivo che scuote “Abducido” e “El Megalito”. Una conclusione ‘macabra’ per un disco che ci rinchiude in un universo magico. Alessandro Zoppo
DRAGONAUTA – Luciferatu
Dopo le positive premesse create nell’underground stoner e doom grazie allo split in compagnia dei Los Natas, finalmente giunge il momento del primo full lenght sulla lunga distanza per i Dragonauta, formazione argentina che in questo “Luciferatu” sfodera una prova davvero degna di nota. Messi da parte i problemi avuti in seno alla line up, la band capitanata da Federico Wolman volta pagina e ci propone oltre 50 minuti di doom eclettico e visionario, dove si mescolano sonorità intricate e atmosfere lugubri. I Dragonauta ormai sono un gruppo maturo, non hanno più bisogno di stantii punti di riferimento: il loro doom sa essere avvolgente e al tempo stesso gelido, incentrato su una perizia tecnica notevole che consente ai cinque di passare da stacchi jazz a costruzioni progressive, senza disdegnare incursioni in campi sonori prettamente metal. La base ritmica composta da Ariel alla batteria e Martin al basso crea tappeti pulsanti sui quali si adagiano le chitarre ora cupe ora ariose di Daniel e Hernàn (in realtà entrato nella band dopo le registrazioni) e la voce cavernosa di Federico, epigono del più demoniaco di tutti i cantanti doom, Mr. Lee Dorrian. Già l’iniziale “Bruta-Vu (Nijo del Diablo)” lascia presagire quanto ci attende nell’arco dell’ascolto: vocalizzi strazianti uniti a riff tirati e compatti che si placano solo per lasciare spazio a incredibili aperture psichedeliche prima di riprendere a macinare come un carro armato. E’ come se Black Sabbath, King Crimson, Angel Witch, Saint Vitus, Cathedral ed Electric Wizard si unissero in un circolo maligno e dessero vita a brani come la successiva “TomegaPentagram”, il cui incipit sognante, tra il blues ed il progressive, cede il passo ad una colata di lava bollente che unisce doom e metal classico. Stralunate sequenze jazzate, chitarre affilate e fughe oniriche dal sapore latino rendono “Vidrio negro” veramente sorprendente, mentre “The SuperChrist” ci trascina in una dimensione lovecraftiana dopo averci estasiato con un’ampia dose di psichedelia lisergica. Il colosso centrale “Antologia de un ombre santo” (quasi 10 minuti di durata) può essere considerato la summa del sound targato Dragonauta: arpeggi delicati e riff ossessivi, destrutturazioni prog e ritmiche quadrate, è un susseguirsi di grandi emozioni che culmina in un roboante assolo di batteria, un vero tuffo negli anni ’70! Senza poter essere tacciati di sterile revisionismo, i cinque argentini proseguono la loro marcia infernale con “Powerchild”, oscura invocazione alle forze del male dove il cantato di Federico si divide tra parti melodiche ed altre evocative. Terrificante è l’unico aggettivo che può essere utilizzato per definire “Funeral magico”, altro episodio di doom psichedelico che fa da preludio alla conclusiva, angosciosa “N.J.G.”, sigillo finale di un’opera che tutti i fan della musica del destino hanno il dovere di fare propria. Da segnalare che nel cd è inclusa una ricca sezione multimediale che comprende anche un video di circa 20 minuti. Se qualcuno avesse ancora qualche dubbio se lo faccia passare presto… Come on now, let’s fuckin’ doom! Alessandro Zoppo
DRIED BY THE SUN – Three of a Perfect Nuclear
Ecco qui i bolognesi Dried by the Sun, con il loro secondo lavoro datato aprile 2012 ed intitolato "Three of a Perfect Nuclear", primo full lenght dopo l'EP del 2011 "Three of a Perfect Hate". Il nome del progetto e dell'album già lasciano immaginare che ci si trova davanti ad atmosfere brucianti ed essiccate, che fanno da contorno a temi fantascientifici e radioattivi, come vengono presentati dall'introduzione "One of a Perfect Nuclear: When Worlds Collide", capace di creare un violento impatto antecedendo i ritmi statuari, alternati ad attimi trascendentali del primo vero pezzo, "Cyborg's Revenge". Un inizio che mette subito in chiaro due cose: 1. che i ragazzi ci sanno fare; 2. Nuke 'em All! – ascoltate per capire."Three of a Perfect Nuclear" procede con "One of a Perfect Nuclear: The Day After", che riprende l'intro finendo in un'esplosione atomica, e "Nuke 'em All" appunto, che concentra tutta la carica sludge postnucleare in 1.22 minuti, lasciando l'ascoltatore in balia di una sirena e versi non chiaramente definibili come risate o colpi di tosse o urla. Il ritorno con "One of a Perfect Nuclear: The Omega Man" prende in considerazione gli altri due pezzi del perfetto nucleare, lasciandoci stavolta con un tocco di malinconia. È sul finale che troviamo le due vere hit del disco: "Once Beyond" vi trascinerà oltre utilizzando un tripudio di fuzz e riff morbidi e monolitici allo stesso tempo; "Aeon (X: the Man with the X-Ray Eyes)" vi sorprenderà piacevolmente con un'ottima prova in pulito che rasenta il post rock pur non stonando in alcun modo con l'atmosfera del disco, ma rappresentando a tutti gli effetti una chiusura ben più che adeguata ai 26.07 minuti di durata dell'album. Consigliatissimo per chi ricerca un mix di calore termonucleare, malinconia futuristica e lande desolate capaci di far scoppiare contatori Geiger. Gianmarco Morea
DRIVE BY SHOOTING – Big nuts
Nuove devastanti emissioni soniche giungono dalla Germania grazie all'operato del B.e.a.p. Managment, abile talent scout di band dedite a suoni ruvidi e grintosi. Questa volta a scaldare le nostre orecchie ci pensano i Drive By Shooting, giunti al debutto discografico nel 2002 con questo minicd "Big nuts". La proposta di questi tre scalmanati è qualcosa di veramente folle: nel loro sound confluiscono eccitanti vibrazioni stoner punk e spruzzate di garage rock, un mix di quanto fatto in passato da MC5 e The Stooges e riportato oggi in auge da gente del calibro di The Glasspack e Smoke Blow. Gli otto pezzi qui presenti spaccano che è un piacere, giostrati a meraviglia dalla voce sguaiata e dalla chitarra sgraziata di Angel, accompagnato al basso da Timo e alla batteria da Brumm. Ritmiche travolgenti e feedback assordanti inondano le casse dello stereo, brani brevi e compatti (l'iniziale "Big nuts", "Six seven eight one" o "U got 2 rock"), con qualche eccezione nel caso dei tempi dilatati della bellissima "Give me" e nelle variazioni psycho blues di "Mind movin' day" (con tanto di armonica a rendere il tutto ancora più groovy…). Per il resto si susseguono l'una dietro l'altra schegge veloci e incazzate, tempi rapidi e vocals al vetriolo, insomma un rock senza compromessi che farà la gioia di chi adora i fasti della gloriosa scena di Detroit. Un dieci pollici in compagnia dei Rotor (altra band stoner della scuderia B.e.a.p.) ha aperto il 2003 dei Drive By Shooting nel migliore dei modi. A questo punto attendiamo solo di vederli dal vivo qui in Italia per testare on stage la loro carica dinamitarda… Alessandro Zoppo
DRIVE BY SHOOTING – Problem child
Dopo una serie di split, 7” e 10”, promo e infuocati live set è finalmente arrivato il debutto ufficiale dei Drive By Shooting. Per chi non li conoscesse, si tratta di un trio tedesco (Angel, Brumm e Timo) che porta alta la bandiera del rock’n’roll sfrenato e godereccio. Li avevamo ammirati nel disco diviso con Stonedudes e Rotor, ora li apprezziamo in questo “Problem child”, dodici pezzi che in 32 minuti sintetizzano al meglio la loro attitudine. Testimoniata anche dai due video presenti nel cd, “Morning call” (uno spasso!) e “Jimmy, Jonny and you”, indemoniata esibizione dal vivo.I manifesti dei Drive By Shooting sono di sicuro pezzi come “Blooze”, “Der alte sack”, “I don’t care” e “You”, garage punk abrasivo e sporco, suoni secchi, ridotti all’osso e una volontà rock nel cuore e nell’animo. Ovvio pensare all’hard primordiale e aggressivo targato Detroit, scuola The Stooges/MC5 (“Morning call”, “High above”) o al super fuzz dei Mudhoney, condito con una sana dose di malsana follia (The Glasspack?). La title track e “Trust core” vanno oltre, perché al gran groove si aggiunge la presenza incandescente di un organo, mentre al puro impeto punk di “Monday morning” si contrappongono “Kanal 3”, “Mind movin’ day” e “Shock the brave”, hard blues molto sexy, caratterizzato da assoli ficcanti e anche da una certa vena melodica che rende i chorus accattivanti. Con tutto il rispetto dovuto ad un personaggio simpatico, onesto e sopra le righe come Jess Hughes, se volete ascoltare del vero, zozzo, eccitante rock gustatevi i Drive By Shooting, altro che Eagles Of Death Metal... Alessandro Zoppo
DRUNKEN CROCODILES – Drunken Crocodiles
La voce cavernosa di Elo potrebbe tranne in inganno e far considerare i Drunken Crocodiles di Parma un gruppo sludge tout court. Invece il sottostrato musicale si agita tra classicismi hard che stanno tra Motorhead, Nashville Pussy, Fireball Ministry, Clutch e il primissimo heavy metal dei Settanta.
I cinque pezzi del loro primo omonimo EP di venti minuti circa ci mostrano una band in salute e piena di cattiveria, ma con un cuore: "Mate" e "Tricky Quiet" staccano per un attimo la furia belluina e il pedalino del distorsore, scoprendo un songwriting limpido. Ma la natura essenziale del gruppo sta nelle fangose "Drunken Crocodile", "Pillar" e "We Hope", dove riff over riff demoliscono la resistenza dell'ascoltatore abituato a monoliti come Bongzilla, Weedeater e Iron Bong, i numi tutelari dei nostri ragazzi. Un buon primo episodio che dimostra attaccamento e devozione alla bandiera. Eugenio Di Giacomantonio
DRYSEAS – Dryseafication
"Dryseafication" dei Dryseas ricorda per molti aspetti un album dei Masters of Reality, creatura di Chris Goss abile nel plasmare il suono stoner rock, ma allo stesso tempo puntuale nel prendere le distanze da esso. Come dava lustro e sostanza al suono dei Kyuss, così sperimentava altri generi nella sua creatura. In questo senso, il quartetto romano è una formazione di impronta tipicamente stoner ma con qualcosa di diametralmente opposto, più ampio. Saranno le atmosfere noir di "Too Late" o "Dryseafication", ma il concetto esposto è molto trasversale.
Più di un pegno è pagato verso le melodie grunge, a partire dai Soundgarden fino ad arrivare ai (pericolosissimi) primi Alice In Chains. C'è inoltre qualcosa di romantico e classico che ci fa dimenticare di essere davanti ad una lurida rock'n'roll band (la riuscita "The Ballad of Lost Reason" e l'intro cinematica di "Into the White Desert"). Ovviamente il primo amore (Queens of the Stone Age) non si scorda mai ed esce fuori a gamba tesa in "Delicious". Il timbro della solista di Carlo è debitore dello stile di Josh Homme, ma il risultato finale risulta essere compatto e coerente. Facendo un altro tipo di paragone, è lo stesso viaggio compiuto dagli ultimi QOTSA in cerca di affrancamento dall'etichetta di band heavy psych. Coraggio e determinazione pagheranno ancora. Come sempre. Eugenio Di Giacomantonio
DSW – Dust Storm Warning
Non solo pizzica e taranta. Il Salento produce ben altro, oltre alla più nota musica folkloristica. D'altra parte, se dovessimo pensare al deserto, quale parte migliore dell'Italia si presterebbe a visioni di dune e miraggi di oasi? Ecco: il deserto. L'ambiente naturale in cui sviluppano le loro escursioni sonore i DSW, al primo full leght edito dalla neonata Acid Cosmonaut, dopo l'EP autoprodotto "Down Storm Watchers" del 2011 (disponibile in free download qui: http://www.jamendo.com/it/list/a87882/dawn-storm-watchers-ep se volete farvi un'idea). Il riff che introduce il disco parla di Unida, Orange Goblin, Kyuss e Spiritual Beggars, ovvero l'olimpo della psichedelia heavy. "Out Run" accelera laddove "Space Cubeship" ci fa viaggiare sui mid tempo di memoria Monster Magnet ed è subito amore a primo ascolto. Derivativi quanto vogliamo, ma se alla voce del Wolf (Ben Ward e Spice sono cugini diretti!) ci abbiniamo un sezione ritmica come quella di Fabio e Stefano, corroborata dal rifframa di Marco, allora è sempre un piacere riascoltare la musica che ci esalta, specie quando è prodotta da sincero coinvolgimento.Non tutto, però, gode di luce riflessa: "Dune", come esplicato dalla didascalia stessa, è instrumental jam session: liberi da vincoli strutturali a forma canzone, i DSW danno il meglio. Riesce ad emergere una sintesi prettamente latina, alla maniera dei Los Natas, dove melodia e melancolia vanno a braccetto con la gli orizzonti de las pampas. Concetto ribadito nella successiva "Lonely Coyote" dove i solos di chitarra di Marco vanno a stuzzicare il jazz senza diventare noiosi. Il centro dell'album diventa sempre più dilatato, introspettivo e di conseguenza più coinvolgente. Le trame si fanno lente e si ha la sensazione di stare ad ascoltare i Colour Haze italiani ("Sherpa"), tanta è la spiritualità indotta da certi caldi passaggi. "Monkey Woman" (qualche ragazza vi ha fatto soffrire? Bene, dedicatele questo pezzo), "Rise" e "Trippin the Drill" ripassano sui territori dei bellissimi "Mantra III" e "Another Way to Shine" degli Spiritual Beggars senza macchiarsi di autocompiacimento e poi il finale è tutto della bellissima "Requiem" preceduta dalla terza ed ultima instrumental jam session "Wasteland". La passionalità del grunge lambisce il songwriting e il lupo per la prima volta nel disco, non va dritto di gola, ma offre all'ascoltatore altre sfumature del suo personalissimo pentagramma. Bene. Peccato che il disco sia finito proprio ora. Ma si può sempre rimetterlo da capo. O, altrimenti, soffermarsi sui disegni del libretto che accompagnano con un'illustrazione ogni singola canzone. Potreste conoscere soggeti interessantissimi come "The Devil", "Sherpa" e "The Palnet". Merito tutto della combriccola Acid Cosmonaut Visions. La cosa inizia a farsi decisamente interessante. Bisogna approfondire. Eugenio Di Giacomantonio
DUNGEN – 4
Nonostante il numero quattro sia quello che intitola il nuovo lavoro, gli svedesi Dungen sono arrivati al quinto album. Il loro debutto risale infatti all’anno 2001 (l’omonimo a tiratura limitata) seguito poi da Stadsvandringar (forse è meglio dire Dungen 2..) uscito per la Virgin e contenente anche tre brani del precedente; fu poi la volta di “Ta Det Lungt” del 2004 ed infine il recente “Tio Bitar” dell’anno passato. Con l’ultimo fanno quindi cinque.Facendo una premessa diciamo che il rinnovamento in campo musicale è sempre stato un componente molto importante per poter durare a lungo nel tempo. Lo hanno fatto in passato i Beatles, i Led Zeppelin, i Pink Floyd. Anche i Dungen hanno optato per un cambiamento ma ad esempio rispetto al precedente “Tio Bitar”, un cambiamento un po’ troppo accentuato. Vediamo il perché. Se guardiamo indietro, i nostri hanno tralasciato in buona parte quelle trame folk rock psichedeliche scegliendo una via più melodica e malinconica. E fin qui niente di male. Il problema è che l’atmosfera, strada facendo, si fa più annebbiata perdendo in grinta e compattezza ed evitando così al disco di decollare. Non decolla la traccia d’apertura “Satt Att Se” con le percussioni che assumono un effetto narcotizzante e non lo fa “Maleras Finest” più o meno sulla scia della precedente mentre il pop ibrido di “Finns Det Nagon Mojlighet” parte bene per poi perdersi nel prosieguo. E così purtroppo il resto del disco. Gli unici brani da segnalare sono “Det Tar Tid” dove pare di sentire la vecchia magia dei Soft Machine, “Samtidigt 1” scheggia impazzita di suoni hendrixiano-psichedelici e “Samtidigt 2” con l’ombra di Santana dietro l’angolo. Un’occasione sicuramente persa dal gruppo se poi aggiungiamo la difficile fruibilità della lingua svedese... Sarà per un’altra volta? Cristiano "Stonerman 67"
DUNST – Archimedes Waffen
Se vi siete sentiti mancare alla notizia dello scioglimento dei Los Natas, i Dunst sono qui per colmare il vuoto interiore. Nel 2011 quattro ragazzacci tedeschi si dirigono al Big Snuff Studio di Berlino, con l'intento preciso di sghiacciare il clima nord-europeo con fiammeggianti iniezioni latin desert. Tre anni dopo il buon Chris della Electric Magic decide che il mondo deve sapere di loro e pubblica questo sei tracce strumentali donandoci, ancora una volta, il più genuino verbo heavy psych. Sin dall'iniziale "Kincha King" si scopre che ai nostri piace lavorare sulla lunga distanza. Prendono i loro tempi. Scrivono senza rincorrersi, placidamente, aspettando che la musica stessa crei la trama dove dipanarsi. E in questo guardano da vicino ai lavori dei 35007 e ci si riconoscono. In più c'è quel tocco degli strumenti a corde che ricorda sia l'approssimazione che il calore di Sergio Chotsourian, Walter Broide e Gonzalo Villagra. Un miracolo come a migliaia di chilometri alcuni ragazzi, di età e cultura diverse, vibrino per le stesse emozioni. Potere della musica. C'è anche una voglia di sperimentare con i suoni mantrici del medio oriente (nel bel mezzo di "Dhimahi Prachodayat") e non si retrocede quando bisogna tirare giù i muri con gli ampli ("Hammerhigh"). Ma in generale i toni sono quelli della ricerca, del sondare gli orizzonti perduti che non trovano mai. Un pugno di band, tra le quali molte con radici nel nostro Belpaese, stanno tentando la via psichedelica scegliendo la strada strumentale. Giù il cappello per il coraggio, la fantasia e la personalità che stanno dimostrando. Eugenio Di Giacomantonio
DUSTEROID – Tyrannosonor
Giunge da Londra il secondo full lenght dei Dusteroid. La provenienza del power trio dalla terra di sua Maestà va di pari passo con le influenze che dominano “Tyrannosonor”. I Dusteroid sono amanti di sonorità stoner aggressive e potenti, a metà strada tra il massiccio stoner da Route 66 e quello imbastardito e appesantito, che piace tanto ai fan di band come Orange Goblin e Firebird. Il gruppo britannico è capace e divertente, galvanizza l'ascoltatore con riff incendiari, ottimi ritornelli e melodie che incrociano l'amore per l'hard & heavy con la passione per il blues ed il rock.Le voce di Dimitris Blanos (voce e unica chitarra) è figlia di mostri sacri come Ben Ward e Neil Fallon, passando per qualche veloce intermezzo stile Lee Dorrian. Dietro la grafica dell'artwork catastrofista, un ottimo digipack disegnato dal bravo Rhys Wootoon (dal tratto americano), si nasconde una buonissima proposta, anche se spesso cade nel dazio da pagare per tutte le realtà underground. Infatti talvolta le soluzioni proposte sembrano molto simili agli originali (come nel caso di “Defy” o di “Imprisonement”); tuttavia ci sono anche dei momenti in cui si mette in mostra la personalità e l'appeal del gruppo. Tra tutti i brani spiccano tre tracce, le più interessanti del lotto: “Tomahawk Storm Troopers”, “Whiskey Overdose” e la conclusiva “Dusty Roads”. “Tomahawk Storm Troopers” è la vera chicca del disco, dall'intro che mette in luce un fraseggio molto coinvolgente e frizzante all'ottimo chorus, per un brano che è un vero e proprio colpo di ascia in piena fronte (a prescindere che si tratti di un missile o di un arma dei nativi americani, fa male lo stesso). “Whiskey Road” è una sbornia mal gestita, con stracciabudella di ultima qualità, tra i Black Sabbath, gli Orange Goblin ed una jam di blues acido e sporco. “Dusty Roads” ci accompagna per 13 minuti verso la conclusione del lavoro, ma si tratterebbe di due brani di cui il secondo è una delicata quanto piacevole improvvisazione acustica, un omaggio ai grandi gruppi dei seventies. Il resto del disco si snoda tra Clutch e Firebird, Black Sabbath e Cathedral più hard rock, tra Orange Goblin (periodo “Frequencies from Planet Ten”) e Alabama Thunderpussy. Anche se non cambierà le sorti della scena heavy psych, questa dei Dusteroid è una prova davvero convincente e soddisfacente. Un disco che ha il suo perché: dategli un’occasione. Gabriele 'Sgabrioz' Mureddu
DUSTIN WONG – Mediation of Ecstatic Energy
La delicatezza che avvolge "Mediation of Ecstatic Energy" di Dustin Wong è cosa rara. Pattern soavi, ripetuti, circolari si aprono verso l'energia estatica, cercata e trovata nella sinteticità di strumenti elettrici. Pezzo finale del trittico iniziato nel 2010 con "Infinite Love" e proseguito con "Dreams Say, View, Create, Shadow Leads" dello scorso anno, l'album si presenta compatto ed omogeneo nella costante ricerca di differenti soluzioni ritmiche. Il supporto è dato da "dieci dita, due piedi, e dalla sua fantasia senza fine" come recita il press kit della Thrill Jockey e non risulta difficile immaginare Dustin costruire passo dopo passo, sovrapposizione dopo sovrapposizione, il suo mondo sonoro, antico e moderno, espressione della formazione d'infanzia a Tokyo e della maturità in giro per il mondo. Formalmente i suoni vagano tra strutture progressive ("Out of the Crown Head" ha il pregio di farci sentire il suono PFM hic et nunc), lirismi à la Sigur Ros ("Tall Call Cold Sun") e meditazioni trascendentali di memoria kraut. Si ha la sensazione piacevole di ascoltare l'esperimento di un singolo personaggio che mette alla prova la sua tecnica per spingere avanti il suo personalissimo registro di scrittura melodica. E sotto questo punto di vita l'album è formidabile: scatti tra ritmi imprevedibili, poliritmie, anomalie e sincopi a braccetto con semplicità da videogame e ammiccamenti pop. Dal sol levante abbiamo sempre avuto prodotti che rimasticavano la cultura occidentale in maniera originale e bizzarra, con qualche piccola caduta verso la caricatura, ma qui assistiamo alla lenta creazione di uno stile riconoscibile e per certi versi unico. Coraggio e ammirazione per chi, col rischio del fallimento, tenta strade poco battute. Eugenio Di Giacomantonio
DYSKINESIA / CORPOPARASSITA – Split Ep
La scena italiana merita rispetto, è un suo diritto ed è un nostro dovere: ad ogni situazione di diritto corrisponde un simmetrico dovere, ad ogni posizione di potere equivale uno status di soggezione. Sono le basi del diritto, le basi della nostra società e senza questo gioco di specchi e di contrasti tutto l'equilibrio precario finirebbe nella dissoluzione. La scena italiana merita attenzione e noi non possiamo esimerci da quest'obbligo. Fossero tutti così piacevoli gli obblighi, allora l'Italia sarebbe il paese delle eccellenze. E in tema di eccellenze non si può non parlare della Frohike, dove il rooster e la cura dell'artwork rendono quasi obbligatorio l'acquisto dei loro lavori. La scelta di materiali di recupero e l'attitudine indie (in senso buono) e doityourself pescano a piene mani da ciò che ci circonda, utilizzando sughero e cartone, plastica e pvc in una via di mezzo tra National Geographic e Banksy. Questa volta alla giostra prendono parte due band del Nord Italia, provenienti da Alessandria e Piacenza, ma con uno stile che non può limitarsi a connotazioni spaziali e territoriali.Monickers che richiamo la biologia e la terminologia medica, come Dyskinesia e Corpoparassita, peraltro non auguriamo a nessuno di averci a che fare perché non sono assolutamente bucolici momenti di gioia ed armonia del nostro organismo. La sensazione che comunica lo split è la stessa che si potrebbe provare qualora fossimo rinchiusi in un sanitarium abbandonato, in un ospedale psichiatrico anteguerra dove tutto ormai è corroso dalla ruggine e dalla muffa. Apparecchiature per l'elettroshock, tavoli operatori macchiati da acidi e sangue, l'odore della formaldeide e l'eco delle urla soffocate in bavagli e morfina. Paesaggi dissoluti e distorti, creati dalle sonorità riverberate e destabilizzanti delle due band. Una scelta dei titoli che è perfettamente azzeccata, nel suo insolito bilanciamento tra l'approccio scientifico ed asettico ed il coinvolgimento emotivo. I Corpoparassita stendono tappeti di drone ambient, frammentato e soffocante: sono claustrofobici come gli OvO ma, a differenza di questi, puntano molto di più sulle atmosfere dilatate e prive di punti di riferimento. Depresizing yourself. I Dyskinesia si affacciano su scenari postapocalittici, territori dove l'alienazione è la diretta conseguenza di ciò che vediamo: baracche abbandonate, con la vernice scrostata e gli infissi cadenti, ruote panoramiche in disuso, cigolanti e polverose. Lo sludge che incontra la psichedelia ed il drone, sotto un cielo cremisi in cui le nuvole sono un ricordo e le scie chimiche ne hanno preso il posto. Tuttavia, perché perdere tempo con queste immagini pittoresche, così solari e vacanziere? Forse perché è molto più semplice descrivere così la musica, mutando l'uso primario dei sensi, piuttosto che descrivendo per filo e per segno i cinque brani (tra l'altro "Concetto falsificato di Dio" è uno dei titoli più belli del 2010). Promossi a pieni voti, in attesa di una ulteriore conferma. Gabriele "Sgabrioz" Mureddu

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