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ICHABOD – Let the bad times roll
Un disco prodotto da Steve Austin dei Today Is The Day a cosa vi fa pensare? Esatto, un viaggio negli inferi, in un universo oscuro e perverso, nei meandri della follia umana. Gli Ichabod sono questo e non solo: nella loro proposta (ostica e difficile, questo va detto subito) convergono metal, hardcore, rock psichedelico, noise, sludge, doom, industrial e space rock, tutti uniti nel forgiare un sound unico, rabbioso, ricco di stimolanti chiaroscuri.E' proprio la coincidenza degli opposti ciò che rende particolare questa band proveniente da Boston: mentre l'iniziale "Inglorious" ci flagella con i suoi riff taglienti all'improvviso spuntano una chitarra acustica e una melodia sofferta a rendere l'ascolto meno tortuoso. Lo stesso accade in "Escape the lie", quando l'incipit dilatato e liquido lascia spazio a suoni cupi, a metà strada tra Neurosis e Melvins, senza mai perdere di vista un certo senso armonico che risulta sempre presente per tutta la durata del disco. Questa vena multiforme fa parte del background di ogni componente del gruppo, a partire dal vocalist Ken MacKay, capace di alternare vocalizzi puliti ad altri urlati, fino ad arrivare alla base ritmica (Phil MacKay alla batteria e Gred Dellaria al basso), passando per le chitarre ora uggiose ora feroci di Dave Iverson. Atmosfere claustrofobiche e improvvisi squarci di luce, tutto vive lungo questo parallelo: un'armonica ci sorprende in "Face down riverbed blues" prima che il brano esploda in un episodio degno dei migliori Down, accelerazioni perverse e una melodia sotterranea caratterizzano "Ceramic bulldog", ossessive trame ritmiche ci fanno trattenere il respiro durante "500 miles behind". Se pensate che "John rocker" è stata scelta come primo singolo viene da ridere immaginando un mucchio di sbarbati che ascoltano questa colata di lava bollente mista ad assurdi drones elettronici… Prima che cali il sipario le lunghe "World without end/Pig's mask" e "Break her neck before she breaks your heart" regalano le ultime perle di un disco pazzesco: è soprattutto la seconda a sbalordire chi ascolta grazie a psichedelici innesti di sitar che si mescolano con la rabbia sprigionata dalla chitarra e dalle ritmiche. Un lavoro che lascia allibiti, per qualità tecniche e doti compositive. Un trip da vivere assolutamente, magari a luci spente durante un temporale… Alessandro Zoppo
IDEAOSTILE – …Destabilizzazione in corso…
Amori vissuti tra ragione e sentimento, il tempo che passa inesorabile, pensieri che corrono e si perdono tra le nebbie dello spazio infinito. La copertina surreale di Angelo Feltrin ci introduce nel mondo degli IdeaOstile, quintetto di Belluno giunto all'esordio nel 2009 con '...Destabilizzazione in corso...'. Sette brani che propongono un gruppo abbastanza affiatato e sui generis, capace di unire suggestioni e sonorità piuttosto disparate. Nella mezz'ora del dischetto scorrono i ritmi e le ingenuità del rock italiano, l'approccio complesso e stratificato del progressive, le pulsioni oscure della vecchia dark wave, i tocchi sperimentali di certi King Crimson. Merito anche della scelta di dare particolare rilievo al violino tagliente di Daniele, che ben si accompagna alla voce profonda di Lollo. Decisione coraggiosa quella di far fuori la chitarra, per dare spazio ad una sezione ritmica composta da Stefano alla batteria e dai due bassi di Ervin e Massimo.In realtà, rispetto all'idea di base, la composizione degli IdeaOstile ci riporta ad uno stile pacato, ragionato, non così irrequieto, per certi versi sin troppo lineare. Brani come "La mia storia" e "Sulle labbra" risentono infatti di una forma canzone statica, debitrice dei primi Litfiba come dei primi Timoria e Yo Yo Mundi. L'approccio si fa complesso e nervoso nelle pulsanti (e decisamente migliori) "Il capitale" e "Scuse geometriche". "Taunus" è un rock agitato e scattante; suggestiva e dai rimandi orientali è invece la romantica "Lampada blu". È questo il mood giusto per la band bellunese. Per il futuro attendiamo segnali su questo (intricato) sentiero. Alessandro Zoppo
Il Babau e i maledetti cretini – La verità sul caso di Mr. Valdemar
Ha il sapore e l'odore delle storie di Edgar Allan Poe questo La verità sul caso di Mr. Valdemar, sia perché la storia che narra è proprio The Facts in the Case of M. Valdemar, racconto del terrore che Poe scrisse nel 1845, sia perché è fortemente incentrato sul parlato (viene, de facto, recitato il racconto). La tesi e l'intento dell'autore sono questi: sondare i limiti sfocati tra la vita e la morte. Il personaggio, Valdemar, malato di tubercolosi, accetta di provare sulla propria persona gli effetti del mesmerismo, visto, in prossimità della morte, come unico ed ultimo aggancio per rimanere in vita. Ovviamente l'intento dei medici è ben diverso: provare, attraverso quel misto di magia e pratica fortemente sperimentale (che ha dettato lo stile di E.A. Poe nella descrizione dei personaggi), gli effetti delle loro tesi su di un corpo umano. L'esperimento diventa quindi il mezzo per lo scrittore per aprire lo squarcio verso l'insondabile, per mostrarcelo in tutto il suo orrore, senza consolazione. Queste le basi, che vengono trattate da Il Babau e i maledetti cretini, già ammirati in versione Rinunci a Satana?, in maniera filologica, ma non solo. Damiano, Franz e Andrea si immergono nelle viscere della narrazione, divengono personaggi, curiosi ed attenti, presenti nella camera dove si pratica il mesmerismo e ce lo raccontano. Ottima la scelta di influire minimamente sul flusso di coscienza che pare catturare Franz, il quale recita il racconto, ed ottimi i risultati di straniamento che raggiungono l'ascoltatore. Facendo uno sforzo di immaginazione, possiamo affiancarli musicalmente al Battiato progressive di Fetus, Pollution, Sulle orme di Aries e Clic, ma non solo. Qualcosa di più strutturato appare a metà del disco, in Dormite sempre?, dove, in concomitanza del passaggio tra la vita e la morte del protagonista, i medici esplorano il terreno con domande frenetiche. Il resto è una riuscita composizione di effettistica analogica, ticchettii, rumori molesti, ambiente. Piccoli interventi in punta di piedi per non disturbare la diegetica (enorme, dobbiamo ammetterlo) della letteratura presa in prestito, con il risultato di farci compartecipi dell'orrore che il protagonista sta vivendo in prima persona. Non un disco per l'estate dunque, ma un preciso esperimento di libera uscita dalla forma canzone, per andare oltre. https://www.youtube.com/watch?v=gcfK9k83-WI

Eugenio Di Giacomantonio

IL MALPERTUGIO – Sunset Screaming
Il Malpertugio sono noti ai cultori dell'underground per il loro "The Blues Demon's Show", pregevole dischetto che lasciava presagire sviluppi ampiamente positivi grazie al loro rock pesante e abrasivo. Presa la decisione di autoprodursi l'album di esordio, si presentano finalmente sulla lunga distanza riproponendo quattro efficaci brani dell'EP ("Bugs", "Sunset Screaming", "Obsession", "Let the Shit In") assieme ad altri succosi inediti. Siamo sempre sulle stesse coordinate, quindi la formula sonica rimane inalterata: stoner rock mescolato con hard alternativo (di qualità), più scampoli di psichedelia dalle sottili venature noir che affiorano di tanto in tanto a condire il tutto.L'impatto frontale e groovoso è garantito dalle varie "Bugs", "Shotgun", "Let the Shit In" e "Obsession", ma non mancano episodi più tenebrosi e introversi come "Enmity" e "One Hour of Weakness", mentre le mazzate pregne di lucida follia di "In This Bloody Night", "Deranged" e della title-track sono l'ideale per farvi sobbalzare dalla sedia e catapultarvi in un incubo paranoide. Nota di merito alle convincenti vocals di Ivan Franzini, ma in generale tutti e cinque i componenti offrono una prova compatta, quindi affrettatevi a fare la conoscenza con un'altra convincente realtà della penisola. "Sunset Screaming" è ascoltabile interamente in streaming su http://www.ilmalpertugio.org/. Roberto Mattei
IL MALPERTUGIO – The Blues Demon’s Show
Stoner rock ancora dalla Campania, da Caserta per la precisione, con Il Malpertugio che ha realizzato il suo EP autoprodotto nel 2007, mezz'ora di crudi elettricismi che tributano Dozer, Soungarden, Kyuss, Roachpowder, Orange Goblin e in parte l'hard alternativo degli anni 90.Buona coesione strumentale per sei brani ispirati quanto basta per promuovere senza indugi la proposta di Ivan, Emilio, Antonio, Mario e Gianluca, completamente calati nella loro dimensione e che non risparmiano belle dosi di groove, pronte a far breccia tra i non pochi estimatori del genere. Nessuna facile concessione verso altri lidi confinanti e più di tendenza, con la parziale eccezione delle vocals di Ivan che oltre alla sua timbrica nettamente hard-psych, ricorre (ma senza esagerare) a qualche influenza 'crossoverista' (il concept circense del libretto è sintomatico in tal senso). Non è però il caso di lamentarsi: "Bugs" è forse l'unico pezzo stoner con qualche appiglio crossover rock, per il resto troviamo "Wrong Lane" dall'apertura acustica orientaleggiante che si rivela una succosa cavalcata con ficcanti velocizzazioni space e sincopati break tratti dall'alternative-psych. Si prosegue con la malefica "Sunset Screaming" dall'incipit bluesy che dà sfogo al pezzo più potente e articolato del lotto, "Obsession" (nettamente hard-oriented), poi "Let Shit In", a suo modo debitrice di Unida e primi Soundgarden. "Second Rate Man" è con ogni probabilità il pezzo più convincente in assoluto, stoner-psych che sarebbe potuto tranquillamente uscire dalle fucine nordeuropee di una dozzina di anni fa. Non è che dobbiamo scomodare capolavori e usare parole roboanti, anche perchè nel genere ci sono (e continuano ad esserci) campioni assoluti, però il livello è incoraggiante. Il Malpertugio sono degni del vostro interesse e possono essere attesi con fiducia alle prossime prove. Roberto Mattei
IL PASTO NUDO – 20.05
Attendevamo impazienti un nuovo lavoro targato Il Pasto Nudo, band della zona di Bari che ci aveva sorpreso positivamente con il promo dell'anno passato. Ora i quattro ragazzi (Tarcisio, Francesco, Pierluigi e Antonio) tornano alla ribalta con un nuovo dischetto che comprende la demo del 2004 più quattro pezzi nuovi di zecca. Per i primi vi rimandiamo alla recensione apposita, per questi ultimi il discorso va dovutamente approfondito.Il Pasto Nudo infatti ha sensibilmente migliorato professionalità e composizioni. Nonostante il tutto sia stato registrato nel giro di due giorni, la registrazione risulta ottima e non risente di alcun calo. I brani proposti hanno il giusto impatto e la dovuta grinta, mentre le capacità strumentali si fanno sempre più rifinite. A partire da "Passato di moda", impatto stoner punk e un'aggressività vocale che graffia e colpisce nel segno. Fino a giungere a "Il grande nulla", ancora un tappeto di chitarre e ritmiche di chiara derivazione Kyuss, spinto dall'abrasività delle vocals e da una vena indie che non dispiace affatto, anzi, rende Il Pasto Nudo un gruppo davvero singolare nel sound proposto. Nel mezzo ci sono invece quelle composizioni che pongono il gruppo sulla stessa scia di fenomeni come Mesas e Dharma. "Cancro (Specchio)" ha un giro kyussiano e una melodia appiccicosa in stile Afterhours/Six Minute War Madness, mentre "L'ultimo respiro" possiede un alone psichedelico che ammanta l'atmosfera, salvo poi aprirsi in un circolare vortice heavy noise minimale ma melodico. Il Pasto Nudo è duro e distorto, ha un suono che sa di alcol, valvole e deserto. Rabbia, groove e violenta disperazione: sono questi gli elementi che rendono i quattro ragazzi baresi un gruppo ben oltre la media. Alessandro Zoppo
IL PASTO NUDO – Deep Inside
Con una cover che fa sobbalzare ogni cultore dello stoner rock (stesso titolo e tema dell'immortale capolavoro dei 7zuma7 !) tornano i fratelli Tarcisio e Francesco Longobardi (col nuovo bassista Arduino Panaro) e lo fanno con la reincarnazione del Pasto Nudo, già autori di 3 demo (due dei quali ristampati dalla LM records) e formazione piuttosto attiva nel sottobosco heavy-psych tricolore. Per dovere (e giustizia) va detto che si tratta di musicisti inossidabili e esperti, il cui scopo precipuo è quello di portare il wattaggio dei propri amplificatori al massimo, come un torrente in piena che travolge l'audience durante un selvaggio headbanging: iniziano col progetto WORM a fine anni 80 scorazzando lungo la penisola col loro sound helmet/prong/voivod, poi subito dopo arriva il periodo del definitivo innamoramento per l'hard lisergico con cover di sabbath e kyuss (proprio ai tempi di "Blues for The Red Sun"), ma dato che tranne qualche setta esoterica nessuno avrebbe parlato di stoner rock per i prossimi due-tre anni - o pensava a costruire tantomeno una scena [come vi capisco fratelli, siamo coetanei ! N.d.A.] - i nostri si sono visti costretti a scegliere tra anni di anonimato o fare una svolta di sound elettronico e commerciale. Riconsegnati al sacro fuoco della psichedelia heavy, e migliorate finalmente le cose nel nostro underground psych, dai primi anni 2000 possono così tornare a calcare le scene con la loro vera musica.Dopo ulteriori periodi di assestamento, eccoli al quarto (!) lavoro autoprodotto, un promo di 6 pezzi registrato professionalmente (da considerare come un vero e proprio mini-Lp) e che scotta come una tanica di combustibile pronta ad essere versata su tutto ciò che può intralciare il cammino del Pasto Nudo. Stoner Rock psichedelico, trascinante, emozionale, ultra groovy e legittimo/bastardo/virulento erede dell'hard 70, senza troppe minchiate e declamazioni, suonato da gente che questa musica l'ha vissuta quando è nata, senza curarsi di responsi discografici e tantomeno di qualsiasi fighettismo. La rabbia e la convinzione del ritorno dei Pasto Nudo riporta a quegli anni di Fu Manchu, Kyuss e Monster Magnet, soprattutto i primi dell'elenco, i californiani di Scott Hill, che con una caparbietà, bravura e convinzione fuori dal comune sono diventati un gruppo leggendario, dopo aver vissuto i lunghissimi periodi degli esordi sfornando una pletora di singoli e sette pollici… Ragazzi, è solo un promo, ma l'ardore delle varie "Deep Inside", "Dead Man Walking", "My Heavy Way" gonfiano gli occhi… sì d'accordo, sono usciti "No One Rides For Free", "Action Is Go" e centinaia di altri dischi, ma i Pasto Nudo suonano come dio comanda e ci mettono del loro con soluzioni più prettamente heavy e 'moderne' (ma sempre alla larga da nu-metal e rimanendo totalmente ultra-fuzz !) di "Hot Black Water" e quelle invece tradizionaliste di "My Tied Eyes", per finire poi col capogiro di "Suffering". Chi criticava è tristemente scomparso dalla circolazione, mentre escono ancora dischetti chiamati "Deep Inside", sorbole. Stoooneeerrrrrrraaaaaawwwwwkkkk !!! Roberto Mattei
IL PASTO NUDO – Promo 2004
Davvero una bella sorpresa questo dischetto del Pasto Nudo, quartetto proveniente dalla provincia di Bari. Non solo per il luogo d’origine, ma anche (soprattutto…) per la proposta convincente e molto originale. Un sostrato di hard rock, stoner e heavy blues adagiato su coordinate alternative e liriche in italiano. Da un certo punto di vista si potrebbe paragonare il risultato ottenuto ai tentativi (per altro riusciti) che i milanesi Mesas stanno mettendo in piedi da diversi anni. Sotto un’altra prospettiva invece Pier Luigi (voce), Tarcisio (chitarra), Antonio (basso) e Francesco (batteria) osano una via più ardua, quella dell’heavy rock sgraziato e personale. Dieci sono i brani presenti in questo cd, diviso in due tra le composizioni “ufficiali” e quelle tratte dalle home recording demo. La registrazione delle prime è più che sufficiente, quella delle seconde lascia un po’ a desiderare. Ma ciò che importa sottolineare sono la grande spontaneità e la forza vigorosa che emanano i pezzi. Un rock duro ed inacidito impostato su chitarre rocciose, vocals urlate e ritmiche dinamiche. Come se tra Kyuss e Fu Manchu si frapponessero Afterhours, Fluxus e Six Minute War Madness… Emblematiche a tal proposito sono “Mai più me stesso” e “Legami di sangue”, non a caso migliori esemplari da esposizione: riff fumosi e devastanti, distorsioni valvolari ed un livore in corpo che graffia e fa sanguinare. “Fra me e la rabbia” guadagna in groove e melodia ma perde qualche punto in spontaneità, mentre “Pasto nudo” ha un impatto da cardiopalma che ben si amalgama con un impeto tipicamente punk. Tra le sessioni casalinghe, colpisce invece “L’ora del silenzio”, tanto ossessiva quanto straziante e melodica nella sua esasperazione ritmica. “Consumatore occidentale” ha una struttura sghemba in stile Queens Of The Stone Age, strada da esplorare in futuro anche per variare registro e sorprendere l’ascoltatore. La conclusiva “Non cambiare mai”, a parte un testo molto intelligente, ha una melodia azzeccata ma un andamento prevedibile. Il Pasto Nudo si dimostra un gruppo motivato ed ambizioso. Una promessa pronta ad esplodere per rendere ancora più bollente lo spettro sonoro italiano! Alessandro Zoppo
IL SEGNO DEL COMANDO – Il volto verde
Con Il Segno del Comando ci si addentra in quell'ala italiana di cui potersi sentire fieri: la nostra grande tradizione letteraria, culturale e musicale. Considerato l'irrefrenabile declino socio politico economico del paese, la musica e l'arte restano prerogative uniche e per le quali non occorre invidia nei confronti di altri paesi. Sebbene non possiamo vantarne la paternità (appannaggio dei britannici con Black Widow, DR. Z, High Tide, Zior, Monument e Black Sabbath), certo dark prog è tipicamente italiano. Nei 70's le band nostrane seppero approfondire e far propria questa forma di rock oscuro, arrivando a delineare quello che poi si è sviluppato come Italian occult rock, fino a divenire genere a sé stante grazie a nomi quali Jacula, Antonius Rex, Goblin, Il Balletto di Bronzo, Biglietto per l'Inferno ed altri coevi come Metamorfosi o i fugaci e sensazionali Circus 2000. Una grande tradizione proseguita tra gli 80 e 90 con Malombra, Standarte, Zess, Abiogenesi e tante altre eminenze oscure, senza tralasciare l'importante ruolo avuto dall'heavy dark doom di Paul Chain e The Black. Il Segno del Comando nasce a Genova nel 1995 da un'idea di Mercy e Diego Banchero, voce e basso dei Malombra, ispirati dall'omonimo romanzo di Giuseppe D'Agata dal quale nel 1971 la Rai adattò una fortunata trasposizione televisiva con Ugo Pagliai. Dopo due dischi e partecipazioni a compilation e tribute album, il gruppo si ripropone dopo un silenzio di ben 12 anni. "Il volto verde" è un concept basato sull'opera esoterica di Gustav Meyrink già rivisitata nel precedente "Der Golem" (2002). La novità piu eclatante di questo ritorno è l'assenza dello storico singer Mercy, deciso a seguire altre strade. Passata la leadership in mano a Banchero, il lavoro vede un ricco cast di celebri ospiti avvicendarsi ad altri ottimi musicisti, tra cui Claudio Simonetti dei Goblin, Gianni Leone del Balletto di Bronzo, Martin Grice dei Delirium, Freddy Delirio, Paul Nash, Sophya Baccini e Maethelyia. La musica è quanto di meglio ci si possa attendere da questi nomi e da Il Segno del Comando: rock esoterico dalle forti tinte gotiche con un approccio in bilico tra dark, jazz e rock. Sperimentalismo tra il grottesco, l'occulto, l'horror e l'onirismo, complici sferzate più hard ed altre più delicate, imbevute di synth e mellotron. Sogno e realtà si inseguino con momenti da soundtrack, senza mai cadere in banalità o in momenti minori e di stanca. Insomma, "Il volto verde" è un grande ritorno: l'attentissima Black Widow assesta un altro colpo memorabile. E tu vivrai nel terrore... Antonio Fazio
ILLOGO – When Liquids Stay Dry
Sarà ormai forse l'età, ma ricordo bene quel periodo in cui alcune formazioni del metal estremo iniziavano ad infrangere tabù nella musica 'pesante' dirigendosi verso la sperimentazione. Dobbiamo partire attorno alla metà degli anni 80 (diciamo grosso modo dopo le sfuriate nwobhm e post-punk), periodo in cui iniziano a compenetrarsi le culture del thrash/death, della musica industriale, del doom, del noise rock, del crust punk: da qui sgorgano i numerosi rivoli che porteranno alle definizioni di generi e sottogeneri che adesso si utilizzano regolarmente.Va da sè che ognuno è libero o meno di utilizzare certe terminologie, e probabilmente si tratta solo di uno schematismo intellettuale collocare in una fase temporale la nascita di qualcosa di nuovo, ma rimanendo nel nostro piccolo ambito musicale, la parabola del gruppo che usa come nome un'immagine impronunciabile (e per questo ribattezzata solo per comodità convenzionale Illogo) mi ha destato da un sogno. E ve lo spiego perchè: si sono formati nel '95 come band death/black metal, e come i loro precursori di 10 anni prima, erano già musicisti aperti e attenti a quello che ruotava oltre la loro proposta. Inizialmente si chiamavano Grendel's Cave e rilasciarono "Decadenza", poi il cambio di simbologia nel 2000 e la continua progressione verso la maturità, con in successione "R.A.M", "Cerebrale Scarlatta" e "Isteresi", finchè non si arriva al 2007 a "When Liquids Stay Dry", partorito via Alkemist Fanatix/Uk Division, un album semplicemente superlativo. Non cercate tecnica (che c'è) sopraffina, non cercate sperimentazione (ce n'è parecchia) per il gusto di spostare ad oltranza un ipotetico limite, e non cercate la pesantezza (e c'è pure questa) cinica dell'ultima battaglia campale della Loudness War. E' uno di quei dischi ermetici che nascono da un'esigenza artistica, espressiva e basta. "Ogiva" è una intro misterica di basse frequenze pronta allo scandaglio psicologico che si arresta di fronte all'impenetrabile (e splendida) mescola di "Inaudita Altera Parte", ossia death progressivo, sludge, post core e avantgarde rumoristica dalle vocals grind (sia in screaming che in growl). La title-track è uno dei numerosi masterpiece di questo dischetto, e affoga i Neurosis di 'Times of Grace' nei liquami death/sludge di un'umanità sconfitta a cui non rimane che l'isolazionismo come unica oasi per fuggire dal terrore... se non fossero altro che gli innesti del narrato e gli equilibri post rock-psichedelici ad alimentare la tensione! "Retina-Scan" è un esemplare brano di post-doom tribale/sperimentale, e gli Illogo sono magistrali nel visualizzare in soggettiva affreschi industriali; dopo "Impercettibile" - effettato intermezzo con voci che scaturiscono da un ipotetico 'doppio' di Hoffmann (scegliete voi se Albert o Ernst Theodore Amadeus) - "Krome Anagram and Silver Bodies" cementifica ancora il noise con il post/deathcore (ma senza sfuriate di claustrofobica velocità). L'avantgarde doom di "Stellar" ci trascina sulla superficie di Kadath, unica dimora che permette alla mente di essere la padrona assoluta, e in "Cenere" lo sperimentalismo tocca l'apice del disco, con le sue fluttuanti nenie etniche in lingua siciliana. Ci sono ancora "Agonia delle Intenzioni" (death/doom/sludge progressivo) e gli ultimi 8 minuti dei tribalismi cyber-psych di "Logica". Roberto Mattei
IMAAD WASIF – Strange Hexes
Imaad Wasif è un cantante e chitarrista nato a Vancouver ed attivo nel circuito underground losangelino come compositore e turnista (sua è la chitarra acustica, il basso e i synth nel tour 2006/2007 degli Yeah Yeah Yeahs). Nella sua discografia si contano un album omonimo, intimo ed acustico, edito da Kill Rock Stars nel 2006, un secondo album del 2007, "Strange Hexes", di cui ci occupiamo qui (ristampato per l'occasione dalla World In Sound), e un terzo album via Tee Pee Records del 2010 intitolato "The Voidist". Imaad è un artista e si sente, con una sensibilità tra il Syd Barrett degli album solisti e il Jason Simon (cantante e chitarrista dei favolosi Dead Meadow) più melodico.
In quest'occasione il suono è di una vera e propria band, i Two Part Beast, ossia Bobb Bruno al basso e Adam Garcia alla batteria, i quali donano un felling più compatto e maggiormente compatibile con le intenzioni dell'autore di realizzare un album compiutamente rock. Alcune volte si toccano delle corde emotive struggenti ("Seventh Sign", "Spell"), altre il pedalino del fuzz ringhia e sbruffa ("Unveiling", "Cloudlines", "Halcyon") portandoci nei dintorni di Arbouretum, Dead Meadow e Pontiak. Pastoralità e buon gusto compositivo: questo è in sintesi il concetto che ci trasferisce il disco, risultando un buon punto di contatto tra le asperità psichedeliche e l'urgenza di comunicare il proprio universo interiore. Da seguire come si seguono le personalità brillanti capaci di fare tutto e il contrario di tutto. Inequivocabilmente libere. Eugenio Di Giacomantonio
IMMENSE – Hidden between sleeves
Kerrang! e NME hanno incensato a non finire questo “Hidden between sleeves”, seconda fatica sulla lunga distanza per i britannici Immense. Forse tanto clamore è esagerato, ma in effetti le suddette riviste non hanno tutti i torti: la band di Bristol è infatti l’ennesima rivelazione di un movimento che a cavallo tra suoni analogici e digitali cerca di portare aria fresca nel mondo musicale odierno. I 9 brani che compongono l’album viaggiano a cavallo tra post rock, elettronica e psichedelia, strizzando molto spesso l’occhio alle avventure malinconiche e stranianti di Radiohead, Sigur Ros, Low e Godspeed You! Black Emperor. Melodie suadenti soffocate da intarsi cibernetici, rumori assordanti e frequenze disturbate bilanciati da tenui parti di piano ed archi. L’equilibrio tra passato e presente è davvero riuscito e se non fosse per l’eccessiva prolissità di qualche momento saremmo qui a parlare di un vero e proprio capolavoro. Alla fine dei conti non è così, ma l’emozione che si prova ascoltando un brano come “3-Year plan” è viva e pulsante, un senso di struggente tristezza che dipinge accesi colori autunnali. Ridotte all’osso le parti cantate, la glacialità dei momenti strumentali (esemplari a tal proposito “The bumper book of facts and knowledge” e “HMS Immense”) si insinua sotto pelle e dona piacevoli brividi che bloccano in una morsa paralizzante. L’atmosfera onirica di “The most dangerous part”, le ritmiche jazzate di “Shave the gong”, l’oscura tensione di “Track 20” e la contorta destrutturazione della title track (pezzo di chiusura del disco) rendono bene l’idea di un album ricco e completo sotto diversi punti di vista. Il difetto però è proprio questo: la carne messa al fuoco è stata troppa e così si rischia l’indigestione. Con una maggiore messa a fuoco il prossimo lavoro potrebbe veramente far gridare al miracolo. Alessandro Zoppo
IMOGENE – Imogene
Nel materiale promozionale che accompagna il disco d’esordio degli americani Imogene, la band si diverte ad auto definire il proprio sound. Escono fuori accostamenti simpatici del tipo Pink Sabbath, Doorphine o Radio Queens of the Stone Head. Citazioni che in realtà colgono solo alcune delle svariate sfumature che arricchiscono lo spettro sonoro presente in questo disco. Ad un ascolto approfondito infatti sono le lievi e stordenti derive neo psichedeliche di Masters of Reality, Dead Meadow e The Black Angels a risaltare di più nel magma della band di Los Angeles.Un rock trasversale, capace di rilassare e aggredire, far sognare e risvegliarci all’improvviso. Delicato quanto graffiante, dominato dalla pacatezza delle ritmiche (CJ Cevallos al basso, Andy Campanella alla batteria), dalle chitarre liquide e dalla voce vellutata di David Melbye e dal piano di Gabe Cohen. Ed è proprio il fender rhodes il tratto distintivo degli Imogene, elemento che rende le composizioni ancora più ‘morbide’ ed oniriche. Brani come “Happy communing”, “Wormwood raindrops” e “Dark room” fanno davvero rivivere lo spirito dei Pink Floyd aggiornandolo ai nostri tempi, nei quali rallentare i tempi invece di produrre e consumare appare impresa titanica. “Not to be” e “Wasteoids” strizzano l’occhio al pop con una serie di melodie catchy ma mai mielose, “Paper dolls” e “Daath” giocano invece la carta del riff ‘cavernoso’ tendente allo stoner, colpo che riesce alla perfezione. Ma dove gli Imogene dimostrano tutte le proprie qualità è in “Sunny day child” e “Tongue and groove”, le due song chiave del disco, dove emerge il miglior lato compositivo dei quattro: psichedelico, hard, groovy, armonico. È su questo tracciato che gli Imogene devono proseguire. La formula funziona e le atmosfere evocate sono tanto efficaci quanto magiche. Attendiamo fiduciosi un nuovo disco e, perché no, un tour in Europa. Alessandro Zoppo
IMPERO DELLE OMBRE, L’ – L’Impero delle Ombre
L’Impero delle Ombre è una delle grandi sorprese dell’anno appena trascorso. Una novità che sconvolgerà tutti gli amanti di un certo tipo di suoni e visioni. Anche se le menti che si celano dietro questo fantastico progetto gravitano nell’universo underground ormai da molto tempo. Il cantante e principale compositore, Giovanni Cardellino, è infatti in giro da molti anni e in questa nuova avventura è accompagnato dai fratelli Dario ed Enrico Caroli, basso e batteria degli storici Sabotage.La formazione è completata da Andrea, fratello di Giovanni, chitarrista dal sopraffino tocco hendrixiano, ma capace di svariare su più fronti, dall’hard blues classico al dark doom ossianico. L’Impero delle Ombre nasce così dalla precisa volontà di recuperare il progressive oscuro degli anni ’70, il dark sound di capisaldi come Black Widow, High Tide, Dr.Z, Coven e Black Sabbath ed unirlo al doom (Candlemass, Paul Chain, The Black) e all’ala funerea della NWOBHM (Angel Witch, Witchfynde, Witchfinder General). Il risultato è un disco a dir poco strabiliante, quasi 50 minuti di musica dal fascino magico, come le tematiche trattate nei testi, tra passione per l’occulto e suggestioni spirituali. La sempre attenta Black Widow di Genova non poteva lasciarsi sfuggire una band del genere, ecco dunque un esordio stupendo, un disco cinereo che seduce per la sua aura plumbea e per le immense capacità, di scrittura e d’esecuzione. Si inizia forte con “Condanna” (preceduta dalle note di piano dell’intro “Il canto del cigno”), doom progressivo dalle liriche cadenzate, cupa riflessione sui giochi del destino e le sconfitte che ci riserva. “Rituale” pigia sul tasto del groove, condendo la ricerca introspettiva sulla riacquisizione della libertà con una sarabanda di assoli al fulmicotone, riff affilati come lame e inserti di tastiere (ad opera del bravissimo Alexander) dal sapore barocco. “Tormento ed estasi (di anime inquiete attratte dal nero)” è la prima suite del lavoro: nove minuti davvero intensi, dove dominano chitarre spesse e ossessive, solismi strepitosi, melodie cineree e un hammond infuocato che fa ribollire il sangue nelle vene. Nel caso della seconda suite (“Ghost”), l’heavy dark si fonde con il doom e la psichedelia pinkfloydiana, generando un colosso di sofferenza cosmica dai livelli stratosferici. “Il giardino dei morti” è invece introdotto da un frammento di “Mortacci”, opera di Segio Citti, sul quale parte un riff terrificante dal taglio sabbathiano: i seguenti minuti sono estasi dark doom, con un finale che definire emozionante è poco. A chiudere il disco ci pensa poi “Corpus, animae et spiritus”, epitaffio strumentale affidato alle tastiere metafisiche del buon Alexander. Ultime news vogliono il gruppo in studio alle prese con la registrazione del capitolo successivo, un concept album basato sul serial francese del 1968 “I compagni di Baal”. Aspettiamo in trepida attesa. This pray of the men The freedom there We’ll raise our hands In freedom land Alessandro Zoppo
INDIAN – From All Purity
Un pugno nello stomaco. Può essere questa l'estrema (estremissima) sintesi di "From All Purity". Quinta release degli statunitensi Indian, band di Chicago oramai attiva da più di 10 anni. Se dopo il folgorante debutto nel 2005 con "The Unquiet Sky" sembravano aver perso smalto lungo gli album successivi, qualche miglioramento si era visto con l'entrata in formazione di Will Lindsay in "Guiltless" nel 2011, e la virata verso suoni più abrasivi e sperimentali. Ma è con "From All Purity" che i quattro raggiungono la quadratura dal cerchio. Per capirlo basta solo l'opener, "Rape", tonnellate di feedback e rumorismo, con una batteria a dir poco marziale. Una sorta di rituale dell'orrore portato avanti per 8 minuti. "The Impetus Bleeds" non allenta la presa, la batteria martella imperterrita, e se le chitarre si aprono verso la melodia, lo screaming lancinante rompe subito l'idillio. "Directional" porta avanti il discorso con uno sludge mefitico, ossessivo, figlio della disperazione. Stessa cosa dicasi per "Rhetoric of No", che si avvale di un incipit leggermente più dinamico. "Clarify" con i suoi 4.36 minuti di urla lancinanti e puro rumore tortura l'ascoltatore. "Disambiguation" chiude l'album: un finale gargantuesco e magniloquente, dove senza perdere un grammo di pesantezza la melodia riesce a farsi spazio dando un tono malinconico al tutto. Un album di un'opprimenza e una ferocia inaudite, gli Indian sono ritornati e lo hanno fatto in maniera devastante. Giuseppe Aversano
INFINITE LIGHT LTD. – Infinite Light Ltd.
Un paesaggio libero, malinconico e spettrale fotografato in giallo e nero da Christy Romanick. Così si presenta Infinite Light Ltd., progetto che vede coinvolti Aidan Baker (Nadja, Whisper Room, Arc), Mat Sweet (Boduf Songs) e Nathan Amundson (Rivulets). Il primo ci mette glitching noise e ambient dronica; il secondo quel tocco cantautoriale scarno e inquieto che ha fatto apprezzare album come "Lion Devours the Sun" e "How Shadows Chase the Balance"; il terzo le radici country folk intime e poetiche sospese tra il fantasma di Nick Drake e le derive slowcore dei Low. Il risultato è un disco di dieci brani dalla potenza notevole, un collage di suoni che affascina e attrae irresistibilmente proprio per la varietà diffusa di prospettive e scrittura.Il lavoro, edito dall'attenta Denovali Records, è stato registrato dai tre artisti nei rispettivi studi durante i freddi mesi dell'inverno del 2010. Successivamente assemblato e portato in vita. Questo mélange di stili e situazioni è restituito dalle composizioni, che non perdono mai in compattezza e coesione. Anzi, risplendono di una luce soffusa e tenue, quella di un inverno foriero di ispirazione e creatività.
"December 12" apre il disco con chitarre liquide e sospese, vocals delicate, rumori ed effetti che rimandano ad un fuoricampo lontano e misterioso. "Vision of God in a Cowbarn" e "(More) Weather" poggiano su sinuosi accordi acustici in punta di chitarra, dalla tradizione folk alla dissezione vocale che giunge al drone, all'elettronica sintetica e al noise ovattato di "Weather" e "Down Among the Mashers Part 4". "The Bullet Sent to Kill Me Is Already On Its Way" è uno dei vertici dell'album: splendida esecuzione psichedelica delle impalcature (post) rock che hanno reso June of '44, Codeine e Slint punti di riferimento. Un minimalismo di forma bilanciato da una ricchezza strumentale enorme, perché la pallottola è giunta a destinazione e ha trafitto il cuore. L'eco di alcune note di pianoforte perse nel vento ("Surprising Spectral Illusions Showing Ghosts Everywhere and of Any Colour") è interrotta dal tepore ambient di "Eyes of Snow", cui fa da contrappunto un impianto vocale tanto distante quanto labirintico e morbido. "The Sophic Putrefaction" è un cupo, ipnotico e astratto passaggio strumentale che lancia il blues ammaliante, sghembo e dissonante della conclusiva, meravigliosa "All Blues". La putrefazione sonora è giunta a compimento. Tutto si è scioto in una melanconia mai così necessaria. Alessandro Zoppo
INKARAKUA – La giostra dell’odio
Prima uscita ufficiale per la Wuck Records di Fabrizio Monni (nome sempre più attivo nella scena rock nostrana vista la sua attività in Clench e Black Hole Of Hulejira, in questo caso presente anche in veste di produttore), label che si occupa di generi piuttosto eterogenei, che vanno dallo stoner al crossover. E gli Inkarakùa (dal sardo, guardare senza essere visto) proprio in quest’ultimo settore vanno inquadrati: la loro proposta è un metalcore brutale e devastante, incentrato su ritmiche serrate (opera di Guido al basso e Paolo alla batteria), pesantissimi groove e vocals urlate e strazianti (ottimo il lavoro di Cristian, anche autore dei testi rigorosamente in italiano e decisamente antagonisti). Le chitarre di Vicenzo e Mauro sono ribassate e affilate come lame, come richiesto dal genere, ed evidenziano un certo gusto per il riffing feroce di Pantera e Machine Head. Pezzi come “Futuro=Regresso”, “Altalene deserte”, “Madre terra” e “Giorno per giorno” sono schegge di pura violenza che viaggiano incontrollate, il cui unico obiettivo è quello di spaccare i timpani di chi ascolta. Gli unici break sono concessi a livello lirico dal sadomasochismo di “Fjuver (explicit sex song)” e sul piano prettamente musicale da “Orda”, il cui inizio sperimentale potrebbe essere un punto su cui lavorare per poter evolvere in futuro. Come esordio dunque siamo già a buon punto, rabbia e tecnica ci sono, manca solo quel pizzico di esperienza in più necessaria ad emergere in un genere ormai ampliamente inflazionato come quello crossover. Avanti così! Alessandro Zoppo
INSIDER – Event Horizon
Dopo l'odissea di "Vibrations from the Tapes", che ci ha riconsegnato la navicella Insider perfettamente funzionale, la band di Marco (chitarra) e Piero Ranalli (basso) e Stefano Di Rito (batteria) è pronta a un nuovo viaggio da un milione di anni. Il tragitto si apre idealmente dalle operazioni di partenza, col duro start di "Escape Velocity", sintomatico in tal senso, fino alla remota conclusione siderale. Il sound si è fatto più progressivo e matematico, forte di numerosi riff che creano un effetto di risonanza metallica e spalancano un ascolto tumultuoso. "Magnetic Field Lines", "Gravitational Mass" e "Jet", sono space/progressive rock in continuo equilibrio tra passaggi impenetrabili e sinuose dilatazioni, abili comunque a conservare una propulsione dinamica. Decisamente potente e curata la produzione, che non consente di rilassarsi troppo, anche se le acustiche e gli effetti della title-track spezzano in qualche modo la tensione prima della seconda parte: qui troviamo infatti "Expansion of the Universe", giocata su enigmatici chiaroscuri, e la cattura dal destino ambivalente di "Black Hole" e "White Hole". Roberto Mattei
INSIDER – Jammin’ for smiling god
Il seguito di "Land of crystals" è del 2000 e si può tranquillamente affermare che siamo di fronte ad un minigioiello: “Jammin' for the smiling god” corregge il tiro, innanzitutto inserendo una drum machine così “vera” da sembrare suonata da un batterista in carne ed ossa (in fase di programmazione Piero ha davvero superato se stesso...), poi avvalendosi di una produzione ottima (unica pecca è l'artwork, un po’ bruttino...) e del supporto dell'agguerrita indie Beard of Stars. I confini si ampliano e le influenze sono le più disparate: dall'hard rock canonico di Sabbath e Hendrix all'heavypsych di Kyuss e Monster Magnet, passando per lo space rock di Hawkwind, Tangerine Dream e Ash Ra Temple e il progressive di Pink Floyd e Goblin. “Divine breath” apre le danze attraverso loop spaziali e un arpeggio orientale, che fanno da preludio all'esplosione di un wah-wah gigantesco e di un basso fragoroso. Le vocals di Sigly poi sono incisive, ben frapposte a parti di tastiere davvero di ampio respiro (grande Marco, ha rispolverato i suoni analogici dei seventies...). La seguente “Falling down” è comunque il brano più valido del lotto: ha grande impatto, una melodia di quelle che ti si appiccicano nel cervello, ma soprattutto unisce chitarre pachidermiche a trame di sintetizzatore e moog molto old-fashioned. Il trip entra nel vivo con “Blind and bloody quietness”, avventura cosmica dal taglio space-doom, molto oscura nelle vocals e viceversa trascinante nel finale, una vera e propria invasione di wah-wah ed effetti spaziali! Il dischetto termina con la lunga e semistrumentale title-track, summa dell'Insider sound: atmosfere orientaleggianti, chitarre ciccione, basso e batteria ipnotici e synths mesmerici...un viaggio unico! Ultime indiscrezioni vedono i fratelli Ranalli già da molto in studio per dare seguito a questo grande lavoro...speriamo di immergerci nuovamente in un'altra odissea sonora! Alessandro Zoppo
INSIDER – Land of crystals
L'Abruzzo è davvero una miniera inesauribile...dopo le divagazioni epiche del genio Mario"The Black"Di Donato, il progressive d'annata delle Distillerie Di Malto e la psichedelia trascinante dei Perizona Experiment, da Pescara arrivano gli Insider a inondare le nostre orecchie di cupa elettricità. “Land of crystals” è targato 1998, è il secondo album della band e già le premesse garantiscono la qualità del lavoro: artwork oscuro, testi d'ispirazione dark, ma soprattutto la collaborazione in fase di mixaggio e d'”ispirazione” (vedi “Bath Chian's Mary”) del guru Paul Chain. Si parte alla grande con “Children of mercy”, cascata di riff opprimenti, asfissianti, così doom da togliere il respiro! Le chitarre granitiche di Marco Ranalli, il basso pulsante del fratello Piero (anche programmatore della drum machine, unico punto debole dell'album...) e la voce graffiante di Eugenio Mucci chiariscono subito le loro intenzioni: siamo di fronte ad una fusione tra Black Sabbath, primi Cathedral e atmosfere ariose, quasi progressive, create dai tappeti tastieristici. “The second sight” ha un incipit mastodontico, che apre la strada alle urla di Eugenio per poi esplodere in un solo tutto feeling e wah-wah davvero stupendo, da brividi. A seguire c'è la title-track, pezzo lungo, dove il cantato si concede una vaga divagazione melodica, interrotta nella parte centrale da un break che pare uscire dalla mano di Tony Iommi, per poi riprendere in modo aggressivo in un finale vorticoso e trascinante. Ma è “Bath Chair's Mary” il picco creativo del disco: cover di un brano scritto da Mr.Paul Chain (presente su “Detaching from Satan”) e cantato da Marco in fonetica (esperimento portato a perfetto compimento da Paolo sui magmatici “Sign from space” e “Cosmic wind”) che unisce il doom alla melodia, le chitarre pesanti ad un cantato soffice, che si fa da parte solo per l'assolo finale, grezzo e flippante...un cult! “Circular walk” comincia con due riff intrecciati e si muove con passi da dinosauro alternando il cantato pulito ai growls che riportano alla mente i My Dying Bride del seminale “The angel and the dark river”; “Becoming” invece riprende i canoni sabbathiani e si concede anche ad influenze space negli effetti e al death-doom nelle vocals malate molto vicine al grande Lee Dorrian. In “Cosmic laws” le ritmiche sono più serrate, il wall of sound creato dalle chitarre si avvicina per certi versi ai Saint Vitus, mentre il break centrale risulta molto epico, una sorta di Candlemass più dilatati per intenderci...in pratica tutto il doom condensato in un solo pezzo! Chiude l'album la strumentale “The last voyage”, brano di grandissimo valore: tastiere oniriche, twin guitars lisergiche e effetti da crociera cosmica rendono il finale davvero intrippato. Alessandro Zoppo
INSIDER – Simple water drops
Semplici gocce d'acqua cadono sulla terra, provengono da antri oscuri delle galassie più remote. La luce del giorno apre squarci di luce, le tenebre finalmente scompaiono. Si resta in equilibrio su una sonda, lo spazio non è mai stato così vasto e misterioso. La terra dei cristalli è un miraggio lontano, le jam astrali per un dio sorridente continuano a risuonare nelle nostre menti. A farsene carico sono ancora loro, gli Insider, senza dubbio uno dei migliori gruppi heavy psych esistenti al giorno d'oggi, non solo in Europa.Tornano a cinque anni di distanza dal bellissimo "Jammin' for the smiling god" e lo fanno con un disco superlativo. Una delle migliori uscite di questo 2005. Un lavoro straordinario, per contenuti ed idee (hard e space rock che si uniscono alle asprezze dell'heavy psych e agli intrecci del progressive d'antan), nonché per esecuzione, registrazione e produzione. Avvenute ai nuovi Andruid Records Studios di Marco Ranalli, luogo che potrà rappresentare per l'Italia un punto di svolta, un nuovo centro sonoro nevralgico. Il suono che Marco è riuscito ad infondere all'album è infatti stupefacente: basso e batteria (rispettivamente il fratello Piero e la novità Gregorio Angelucci) pestano incessanti, le atmosfere elaborate dai synths creano il giusto tappeto da spazio siderale, le chitarre sono autentiche eruzioni vulcaniche che non lasciano un attimo di tregua. Sono soprattutto i wah-wah di Marco a lasciare a bocca aperta per freschezza e acida corrosività, un vortice cosmico al quale è davvero difficile resistere. Tutta questa carica viene fuori sin dai primi pezzi: la sarabanda elettrica della title track, i riff graffianti di "Hollow", il taglio doomy di "The silver book". Ma merita particolare menzione anche il cantato di Eugenio Mucci, timbro "ozzyano" e toni evocativi (ascoltate "I belong to the morning light" per credere), gusto espressivo per vocals dal piglio lisergico ("I remember") o per escursioni psichedeliche accompagnate da fuzz abrasivi e costruzioni armoniche elaborate e complesse ("Latest news from the satellite"). Altrove doom e space psych si mischiano con incredibile disinvoltura ("Remorseful times"), mentre la mazzata conclusiva ce la regala "The equilibrist" con un riff ultra groovy che apre le danze e una sarabanda di assoli e synths a chiudere il cerchio. "Simple water drops" regala sinuose movenze psichedeliche e avvolgenti matasse allucinogene. Lasciarsi scappare un disco del genere è un autentico reato. Tanto più che viene fuori da un gruppo italiano. Siete avvisati… Alessandro Zoppo
INSIDER – Vibrations from the Tapes
Il ritorno discografico degli Insider avviene in edizione limitata di 200 copie su indie Phonosphera, e si tratta di una serie di 5 brani strumentali registrati nell'autunno/inverno 2007 in forma di rehearsal analogiche totalmente improvvisate. Grazie alla masterizzazione di Gianmarco Iantaffi, quelle vibrazioni di qualche tempo fa assumono la fisionomia definitiva, rendendo l'ascolto dell'opera coerente coi precedenti "Simple Water Drops" e "Jammin' for Smiling God", gli album degli anni 2000 che resero molto apprezzato il nome della band nei circuiti psichedelici. La prima traccia, "Your Brainticket", parte direttamente senza preambolo alcuno, gettandosi in oltre 22 minuti di pura psichedelia chitarristica, formalmente debitrice sia della scena mitteleuropea che delle sonorità space inglesi, risolta però con piglio personale e dotata di una sua riconoscibilità. Dopo questa lunga session che incanala l'ascolto nella direzione voluta, "Killing Boredom" vira verso uno space rock energico e tirato che apre le porte all'onirismo di "Raga in the Sky", track opportunamente satura di spezie stellari. Il viaggio risolutivo prende forma nell'estesa narrazione di "First Steps": dai primordi della genesi dell'universo ci si dirige fino ai confini più inesplorati del cosmo, in un rocambolesco tragitto che oltrepassa beffardamente le regioni soggette alle grandi forze della vastità siderale. "Dark Age" conclude in modo quasi epico queste registrazioni grazie alla sempre fantasmagorica chitarra di Marco e il gran lavoro al basso di Piero e alla batteria di Stefano, con tanto di calibrate fasi effettistiche. Solida metafisica psych che gli appassionati non dovrebbero lasciarsi sfuggire. Roberto Mattei
INSTANT BONER – Perfect Sunday
Gli Instant Boner portano avanti la tradizione delle band psichedeliche provenienti dalla Grecia. Dopo gli splendidi Purple Overdose (consiglio: procuratevi l'intera discografia, sono in giro dagli anni Ottanta) e i più tradizionalisti 1000 Mods, ora viene fuori questo quintetto di Salonicco, pronto a smazzare le sue carte sulla scena. Imbevuti fino al midollo di suoni grassi post kyussiani, non si fermano sulla superficie del ben fatto. Scavano dentro le radici dell'hard sound e trovano germogli florescenti che guardano a stile limitrofi come l'heavy e, dall'altra parte, il jazz, nella maniera più delicata possibile.
C'è il sax di Orestis nella lunga e spericolata "Perfect Sunday" a donare quel guizzo in più che fa fare un passo avanti a tutta la band. Gli altri quattro pezzi di questo primo EP viaggiano in maniera coerente in compagnia di Orange Goblin, 7Zuma7, Dozer, Lowrider, Grand Magus degli albori e Spiritual Beggars: gente che sa fare il proprio mestiere egregiamente. Gli Instant Boner, alla fine della fiera, si divertono e sanno divertire. Eugenio Di Giacomantonio
INSTANT FLIGHT – Colour & lights
Bel colpo quello della nostrana Beard of Stars, etichetta ligure che ultimamente sta centellinando le uscite ma senza mai sbagliare un colpo. Questa volta ad essere messi sotto contratto sono stati gli inglesi Instant Flight, giunti al primo album ufficiale dopo aver girato per vari festival in Gran Bretagna ed in tutto il resto d'Europa. Tanto che la fama precedeva il gruppo: i quattro hanno infatti collaborato con una leggenda del rock acido di fine anni '60, il mitico Arthur Brown.Ora è giunto il momento tanto atteso del full lenght, la cui produzione è stata affidata ad un altro guru della scena psichedelica inglese, Gary Ramon dei Sun Dial. Con tali credenziali le sonorità proposte non potevano far altro che vertere sul classico psych rock di derivazione britannica, sia di matrice '60 che di ascendenza '70. Ecco dunque colori e luci che esplodono in fragorosi vortici, creati in maniera splendida dalle chitarre di Marco Magnani (italiano in terra d'albione, anche ottimo cantante), sostenuto nelle ritmiche da James Ovens (batteria) e Andrew Browning (basso). A completare la formazione (in look rigorosamente vintage, al passo con i suoni) c'è infine la bella Lucie Rejchrtova, i cui tappeti di tastiere donano un tocco ancora più lisergico ed esotico al tutto. Brani come l'iniziale "Running around", la suadente "Flowers on my grave", la strumentale "Tarantula" o l'incisiva "Such a slow way home" sono un incrocio acido e fluorescente di psych rock, garage e progressive. Ci si getta a capofitto nelle calde sonorità degli anni '60, tra chitarre solari, vocals lisergiche ed una solida base di organo e tastiere varie. Insomma, la gloriosa tradizione di Beatles, Blues Magoose, Velvett Fogg, Moody Blues e Arthur Brown (non a caso presente come ospite in "Freeway" e "Kites"). Di rimando è evidente quanta importanza abbia avuto per la band la nuova psichedelia dei vari Bevis Frond e Sun Dial, tanto è vero che Gary Ramon è presente sull'album anche con un guitar solo ispiratissimo in "Under the moonlight". E se "Top of the mountain" si apre a passaggi che rimandano all'universo spirituale ed evocativo che fu proprio di gruppi come i fantastici East Of Eden, altrove ("Her mystery", "Will you think of me?", la title track) sono melodie smaccatamente beatlesiane e sgargianti passaggi acustici a farla da padroni. Insomma, gli Instant Flight se la cavano davvero bene. Saranno pure anacronistici, ma ad avercene di gruppi così al giorno d'oggi… Alessandro Zoppo
INTAGLIO – Intaglio
Depressive funereal doom. Già, siamo ancora qui a recensire l’ennesima band dedita a questo (sotto)genere doom metal, un altro gruppo che si muove fra sonorità tristi, lentissime e malinconiche. Vi aspetterete quindi una stroncatura, e sinceramente eravamo partiti abbastanza prevenuti nei confronti di questo disco. Invece eccoci a parlarvi di una delle più liete sorprese di quest’ultimo periodo.Gli Intaglio (un duo russo composto da Evgeny Semenov e Maksim Mazin, a proposito spassosissime le loro foto interne, sembrano davvero prese direttamente dalle loro tombe future) mostrano una sincera convinzione nel genere che suonano e differenziano maggiormente i loro pezzi rispetto alla media dei gruppi devoti a questa musica. Ma, soprattutto, gli Intaglio si rifanno direttamente ai padri del genere, riportandolo al suo stile originario. “Intaglio” è infatti privo di tastiere gothic onnipresenti (i synth intervengono solo sporadicamente per supportare le chitarre, non il contrario) e, soprattutto, non si segnala la presenza di celestiali gorgheggi femminili. E allora, tornano in mente i creatori del genere, ovvero il duo finnico Thergothon e Unholy, le due band che per prime rallentarono all’inverosimile i riff doom e li adattarono al clima della loro terra, dando così origine ad una musica lentissima, fredda, malinconica e il più lontana possibile dalla luce. Alcune soluzioni rimandano ad un altro gruppo fondamentale, i Dolorian (anche loro, guardacaso, finlandesi), e ci riferiamo all’inserimento di tristissimi arpeggi (veri e propri echi di campane a morto trasmessi in note) che hanno il merito di rendere ancora più incisive le porzioni heavy. Altre parole non servono, “Intaglio” è semplicemente un funerale trasportato in musica; sta a voi decidere se prendervi parte o meno. Marco Cavallini
INTER ARMA – Sky Burial
Dopo tre anni– ed il passaggio ad una major come la Relapse – ritornano gli americani Inter Arma con il loro sophomore album, intitolato "Sky Burial". La ricetta presenta uno sludge a tinte southern contaminato da elementi black, doom e post-metal, sulla scia di gruppi come Thou e Kowloon Walled City. L'opener, "The Survival Fires", mette subito le cose in chiaro: un black metal anfetaminico e spaziale interrotto solo da un breve interludio per riprendere la sua corsa a folle velocità nel finale. "The Long Road Home" – introdotta dall'intermezzo acustico "The Long Road Home (Iron Gate)" – è il pezzo epico del lotto. Un incedere sommesso nella parte iniziale lascia spazio a una chitarra che diventa sempre più padrona del brano ricamando un solo a forti tinte oniriche e romantiche. Ma nel finale il sogno finisce e ritorniamo nella realtà, colpa dello schiaffo che ci da la sfuriata black che chiude la canzone.Una batteria sbilenca ci conduce nel principio di "'sblood": al loro ingresso le chitarre indugiano, si fermano, ripartono e creano atmosfere con dei droni liquidi intermezzati dalle urla infernali del cantante. "Westward" è il classico modello di sludge/post-metal atmosferico, incentrato su un riff portante di chiara matrice southern quasi EHG. "Love Absolute" è un breve intermezzo acustico che ci introduce all'ultima canzone, la title track "Sky Burial". Dall'alto dei suoi tredici minuti si propone come un compendio di ciò che fin ora i ragazzi della Virginia ci hanno detto in questo loro lavoro. Sicuramente il momento maggior riuscito del disco, quello dove le istanze sludge si fondono con le atmosfere tipiche del post-metal e con l'aggressività e la psichedelia del black metal moderno. "Sky Burial" è un disco di pregevole fattura e di buona personalità, sempre in bilico tra aggressività e riflessione, e fa prevedere un futuro roseo agli Inter Arma. Giuseppe Aversano
INTER ARMA – The Cavern
A distanza di solo un anno dall'acclamato "Sky Burial" tornano gli Inter Arma con il mastodontico EP (!) "The Cavern". Un'unica traccia di oltre quarantacinque minuti, una lunga, lenta e inesorabile discesa dentro l'abisso che rappresenta idealmente la caverna. Seppur non si può considerare il diretto seguito di "Sky Burial", essendo comunque una composizione scritta nel 2009, denota un importante passo in avanti a livello compositivo per il quintetto di Richmond. È nella titanica durata dell'EP che si consolida e prende forma un sound definito che riesce a miscelare bene tutte le fonti d'ispirazione cui il gruppo attinge. Si va dallo sludge/doom tout court, a sfuriate prog, passaggi in pieno stile americana e derive ambient/drone. È proprio con un attacco di synth e feedback che si parte, si innesta un leggero arpeggio dai toni bucolici e poi l'esplosione. Una riff magniloquente accompagnato da una batteria marziale (nota di merito per la prestazione di T. J. Childers dietro ai tamburi) deflagra e procede lungamente accompagnando lo screaming ultraterreno e sofferto di Mike Paparo. A scombinare l'ordine delle cose sono le sfuriate prog, evidente il tributo ai primi Mastodon e Baroness, che caricano dinamicamente ed emotivamente il pezzo. E sono proprio questi passaggi che legano le varie parti, i vari movimenti della canzone.
Passata la furia del primo movimento si arriva al breve interludio riflessivo dove fanno la loro comparsa gli archi, che malinconicamente si innestano nel solco lasciato dalla devastazione precedente. Un idillio che dura il tempo di un attimo, dato che si riparte con le scosse telluriche iniziali che riprendono il tema degli archi portandolo alla deflagrazione. E dalle macerie che si innalza la seconda parte: ritorna l'arpeggio iniziale e si evolve in un lungo prosieguo dal sapore floydiana e allo stesso tempo dalle forti connotazioni southern. Il tutto impreziosito dalla voce di Dorthia Cottrell, cantante dei Windhand, qui in veste di ospite insieme a Shibby Poole e Mikey Allred. A porre fine alla seconda parte s'incaricano idealmente Trey Dalton e Steven Russel alle chitarre, che tessono un lungo e articolato solo dal vago sapore retrò, debitore a più riprese dei grandi classici dell'hard 'n' heavy. Per chiudere quest'imponente opera, si ritorna a quello che ne è stato il pilastro portante, lo sludge granitico ed enfatico dell'inizio. Un'esperienza mesmerizzante quella di "The Cavern", che paradossalmente segna un punto di svolta per gli Inter Arma. Si possono raggiungere nuove vette compositive con materiale "vecchio" e messo da parte? A quanto pare, sì dato che la completezza e compattezza del sound è superiore a quanto fin'ora espresso dalla compagine americana. E sono proprio queste caratteristiche a rendere questo lavoro come una delle release più interessanti in ambito metal del 2014. Giuseppe Aversano
INTERNAL VOID – Matricide
E’ davvero un ritorno gradito quello degli Internal Void! Dopo i fasti del periodo passato alla Hellhound (purtroppo conclusi senza molta fortuna con il fallimento dell’etichetta) l’ultimo segnale di vita da parte della doom band del Maryland risaliva al 2000, anno d’uscita di “Unearthed”, secondo lavoro edito dalla Southern Lord di Greg Anderson. Oggi il leader Kelly Carmichael si è rimboccato le maniche e dopo aver collaborato con il mito Bobby Liebling per “Show ‘em how” (della partita è stato anche il bassista Adam Heinzmann) torna in pista con questo “Matricide”.Il lavoro con i Pentagram sembra aver dato una scossa al songwriting del gruppo americano: se già in “Unearthed” si intravedevano sapori 70’s, il nuovo lavoro esplora ancora più a fondo questa matrice, gettandosi a capofitto nelle trame acide e melliflue dell’hard rock psichedelico. Non che il doom sia messo da parte, anzi, ma sembra quasi che la passione di Bobby Liebling per il sound dei Blue Cheer abbia contagiato lo stesso Carmichael. Evidenti sono a tal proposito brani come l’iniziale “Family under”, la meravigliosa “Next time ‘round” (con un intermezzo acustico da brividi) e la lezione dei Pentagram applicata in “Heroes, enemies and earth”, tutti episodi che denotano un certo spirito d’improvvisazione e la voglia di immergere le composizioni nello spirito libero e visionario degli anni 70. Ovviamente non mancano colossi di acid doom dove sono le schitarrate a farla da padrone: la bellissima “World of doubt” e la lunga, intricata, monolitica “What the king bought”. Altrove invece (“Carried by six”, “All smoke and mirrors”) sembra di ascoltare gli Obsessed con Bobby Liebling alla voce, merito di ritmiche rocciose e della grande versatilità vocale di JD Williams, il cui contributo è stato fondamentale nella perfetta riuscita del disco. Va da se che senza il doom più puro ed incontaminato non ci si diverte e allora ecco la title track e “Window to hell” a correre in soccorso: chitarre toste in primo piano, atmosfere evocative, intesi e ricchi cambi d’atmosfera. Di più veramente non si può chiedere. Gli Internal Void hanno partorito un disco verace e ruspante. Segno che i tempi e le mode cambiano ma la vera musica rimane sempre la stessa. Alessandro Zoppo
INTIFADA – Fabbrica dell’odio
Abbandoniamo per un attimo i nostri amati lidi stoner, doom e psych e ci occupiamo di nuove tendenze sonore. Dopo un lavoro convincente come il precedente “Fuori controllo”, tornano infatti in pista gli Intifada, gruppo beneventano dedito ad una forma sonora che potremmo definire “crossover in opposition”. Gli ingredienti base della band sono infatti testi in italiano dichiaratamente politicizzati, uno stretto legame con il Centro Sociale Depistaggio, una rigorosa logica di autoproduzione e soprattutto un sound che si rifà al groove dei Rage Against The Machine grazie a riff corposi e ritmiche intricate. Rispetto a “Fuori controllo” però i quattro hanno elaborato notevolmente il proprio songwriting: le chitarre di Marcello oltre ai soliti richiami al guru Tom Morello (basta ascoltare le partiture dell’iniziale “RanCore”…) si arricchiscono di accenni jazz, giri funky e svisate cariche di wah-wah; la base ritmica (Davide alla batteria e Francesco al basso) regge il carico con tonnellate di groove mentre la voce di Armando viaggia su fasi alterne: se le parti melodiche e quelle rappate risultano azzeccate, i vari growls inseriti qua e là non convincono in pieno, ci sarebbe bisogno di una maggiore esercitazione su questo versante… Anche la registrazione non è il massimo, ma è un punto su cui è possibile sorvolare perché i vari strumenti sono tutti focalizzati e ben distinguibili l’uno dall’altro. L’intento di creare una sorta di tensione durante l’ascolto è comunque riuscito, i riff tirati di “Senza legami” e “Quello che ho dentro” si sposano bene ad aperture rallentate e dal taglio dub, evidente segno di crescita dal punto di vista compositivo. Sulle lyrics rimane qualche dubbio (se i contenuti ed il coraggio sono da lodare il rischio della retorica è sempre dietro l’angolo…) ma ciò che importa è la musica e qui ci sono grinta ed abilità da vendere. Lo dimostrano anche episodi come “…Assassini” e “Fabbrica dell’odio”, giostrati su samples e rumorismi vari che conferiscono una carica ancora più rabbiosa al tutto. Siamo sulla giusta strada, gli Intifada sono cresciuti e “Fabbrica dell’odio” lo dimostra in pieno: una realtà (in uno spoglio panorama quale quello sannita…) da tenere assolutamente d’occhio… Alessandro Zoppo
INTRONAUT – Prehistoricism
Parlare di un disco come “Prehistoricism” risulta molto complesso sia per la varietà delle influenze sia per la struttura intrinseca ad esso. Partiti con l’ottimo ep “Null”, gli Intronaut hanno esordito sulla lunga distanza con “Void” che, pur essendo un buon lavoro, non era esente da difetti e successivamente hanno pubblicato l’altro ep “The Challenger” che lasciava presagire interessanti sviluppi. Ora è appunto la volta di “Prehistoricism”.Il gruppo, strada facendo, è riuscito a scrollarsi di dosso l’etichetta di Mastodon-dipendente definendo meglio il proprio stile. Per di più sono una band molto tecnica, visionaria e dannatamente intensa soprattutto per via dei suoni stratificati e degli arrangiamenti complessi. Questo ha permesso loro di miscelare diversi generi. Si parlava di molteplici influenze; ed in effetti all’interno del disco troviamo il cyber metal dei Meshuggah, le aperture prog dei Death, la creatività dei Tool, le sperimentazioni dei Cynic e non ultimo certo free jazz. Ma non va dimenticata una band fondamentale che ha aperto la strada ad una forma nuova e moderna di fare metal: i Voivod. Gli Intronaut lo hanno capito e gliene rendono omaggio in vari momenti di questo lavoro. Lavoro che, va detto, parte con il freno tirato in special modo nei primi tre brani. Ciò non vuol dire che non siano degni di attenzione, ma si tratta di sonorità già sentite altre volte in ambito post. Il discorso cambia dalla titletrack in avanti. Qui vengono a galla le già citate influenze che si intersecano a meraviglia con una naturalezza disarmante. Vorrei citare in particolar modo “Sundial”, scheggia cyber prog con un finale degno del miglior Pat Metheny, “Australopithecus”, il brano più duro della raccolta ma sempre sotto una fulgida aura prog jazz e, ciliegina sulla torta, la fenomenale “Reptilian Brain”- totalmente strumentale – che in sedici minuti di raffinate e violente architetture sonore chiude l’album in modo sontuoso. In definitiva un disco che va ascoltato attentamente e che in seguito spiazza, sorprende e ammalia. Se cercate qualcosa di “nuovo” in questo settore sapete già dove rivolgervi. Garantito. Cristiano "Stonerman 67"
INUTILI – Inutili
Ascoltando l'EP degli Inutili – due tracce psichedeliche, la prima di circa un quarto d'ora e la seconda molto più breve – ci si mescola con il milieu, ci si incastra perfettamente con tutto ciò il mondo circostante. La psichedelia crowd and loud alla tedesca, per capirci. Band che non ha nulla da invidiare a ben più famose formazioni europee, si è presa le sue soddisfazioni: il 12" è sold out, ed è stato co-prodotto da Goodbye Boozy (caposaldo dell'underground che vanta tra le sue file Ty Segall, acidissimo e sempre al top) e dall'etichetta californiana Bat Shit Records."Satori", primo brano dell'EP, si presenta come l'usuale riflessione oscillatoria tra kundalini rmx e rock'n'roll basilare (come ben insegnano i My Sleeping Karma) regalando 14 minuti circa di movimento sussultorio pineale. La seconda tranche, molto più corta – quasi una canzone normale – si chiama "Useless Asshole": uno strano incrocio tra Pavement, Neurosis e tradizione sperimentale noise/elettronica, deliziosa e ridondante nella sua semplicità. Accendete il fuzz, dietro le orecchie. Come la migliore tradizione noise – tra oriente e occidente – c'ha insegnato negli ultimi 30 anni. S.H. Palmer
IRONBOSS – Hung like horses
Se lo spirito del rock più puro e verace continua a splendere inalterato il merito va anche a gruppi come gli Ironboss. Attivi sin dal 1994 nelle colline del Maryland, la band capitanata dal chitarrista/cantante Chris Rhoten (nella vita di tutti i giorni motociclista di professione…) giunge al quinto disco (uscito in realtà nel 2002 per Underdogma) dopo svariati album all’attivo nel corso degli anni (quattro per la precisione, “Age of gasoline”, “Rides again”, “Guns don't kill people...Ironboss does” e “Roll out the rock”). Il loro è un southern rock blues trascinante e lussurioso, un intruglio che “puzza” di birra, sudore e benzina. Nelle vene degli Ironboss scorre sangue sudista e l’influenza di Lynyrd Skynyrd, Black Oak Arkansas e Molly Hatchet è palese: tuttavia non si tratta di revisionismo o di archeologia musicale, è solo una questione di attitudine, è la voglia di suonare sporchi e passionali come solo gli uomini del Sud sanno essere. La voce di Chris è roca e possente, la sua chitarra si intreccia con quella di Matt Crocco e crea stupende trame degne dei Thin Lizzy dei tempi che furono, le ritmiche sono incessanti e reggono con grande disinvoltura l’intera intelaiatura sonora (merito del “re dei tatuaggi” Dave Waugh al basso e di Patrick Kennedy alla batteria). Cavalcate come “Jig is up” e “Chrome and gold” ci trascinano in locali fumosi e lerci, la strumentale “Z-50 Horizon” è la perfetta soundtrack di un motoraduno, “Back when i was a miner” e “Totem pole” sono tributi ai padri del blues, il primo in versione acustica, il secondo sotto forma elettrica, con tanto di giro d’armonica da brividi. E se non bastasse ci pensano le citazioni zeppeliniane di “Fuck it” e la sensualità di “Pussy on the corner” a rendere il piatto più che appetitoso. Gli Ironboss sono un bel pugno in faccia, una mazzata dritta dritta in pieno volto: lasciatevi centrare dalla potenza del boogie! Alessandro Zoppo
ISOLE – Forevermore
Liriche epiche pregne di drammaticità supportate da atmosfere alquanto gotiche, questo è quanto hanno da proporre questi Isole con il loro debutto Forevermore. Chiariamo subito che siamo dalle parti del doom tanto caro ai fan dei Candlemass o dei Solstice, come la stessa etichetta ammette: un doom quindi caratterizzato proprio dalle epiche melodie vocali e dall'impostazione metal delle parti strumentali. Il risultato è sicuramente quanto di più fedele ai riferimenti sopraccitati, peccando forse in scarsa originalità ma stupendo per la cura e la qualità con cui è stato confezionato in quanto sia la produzione che i musicisti si dimostrano più che buoni. Va ricordato a tal proposito che la band era già attiva fin dal 1990 con il nome FORLORN e che i membri del gruppo hanno militato e militano tutt'ora in altre band; particolarità alquanto inusuale di questi tempi è la gestione di tutte le parti vocali da parte del batterista Daniel Bryntse al quale va riconosciuto una certa bravura sia come drummer che come singer. Inutile segnalare alcuni pezzi in particolare, visto che tutto l'album si muove sulle sonorità molto omogenee e (ovviamente) su ritmiche alquanto lente dei 7 lunghi brani che lo caratterizzano.Concludendo,la band si conferma alquanto interessante e degna di nota, non molto originale forse, ma farà la felicità dei fan delle sonorità più epiche ed oscure. The Bokal
ITERATION – Moving Along X-Axis
Gli Iteration hanno una visione della loro musica. Sanno perfettamente quale registro stilistico adottare per esprimere al meglio la propria mappa emotiva. Sia nostalgia, passione, rabbia, trovano il modo giusto per parlarci con gli strumenti, senza voce, in un oceano di stratificazioni più post rock che spaziali, ma non solo... C'è qualcosa in più. Prendiamo "X Stands for Time": un incrocio magico tra Mogwai, Tool (nel trasmettere una certa suspense) e disincantati passaggi ambientali che non fanno a meno di restituirci uno spirito kraut rock primitivo. Nella successiva "Of Course" si ha la netta sensazione che ai nostri piace lavorare per addizione più che per sottrazione.
Qualcosa viene piantato nello spazio in punta di piedi; per attrazione gravitazionale le orbite raccolgono stralci minimi di armonie che pian piano consolidano il microcosmo. Viene in mente un'altra band abruzzese che ragiona e parla allo stesso modo: The Whirlings, con la differenza che, dove loro innalzavano onde psichedeliche, qui c'è una certa rilassatezza "post" niente male. Attenzione però. Questo non vuol dire che le chitarre spariscono, anzi. Tagliano l’aria con fendenti precisi e mortali. Come nella conclusiva "Pulsar", dove la lezione della gioventù sonica non viene dimenticata, per poi adagiarsi in andirivieni melanconici messi lì proprio per esaltare il contrasto tra le materie diverse. In questi casi si dice musica cinematica. Bene. Una musica da film dell'immaginazione. Eugenio Di Giacomantonio
IV LUNA – The Last Day of an Ordinary Life
Sono trascorsi sette anni da "D'incanto", ultima uscita dei IV Luna. Ne è passata di acqua sotto i ponti. I generi sono cambiati, il mercato musicale insieme ad essi. Immutata è rimasta la voglia del gruppo romano di fare musica. Per se stessi e per chi ne ha apprezzato le sonorità dai tempi dei primi bellissimi dischi, "Libera mente" (1999) e "D'incanto" (2003). Una commistione unica nel panorama italiano, crogiuolo di metal, dark sound, progressive rock e heavy psichedelia. Da tempo la band è in stand-by e i componenti sono impegnati in altri progetti (Andrea BJ Caminiti nei Doomraiser, Alex Giuliani nei Belladonna). "The Last Day of an Ordinary Life" è una sorta di rimpatriata, vecchi amici che si rivedono davanti ad un bicchiere di vino ascoltando e suonando buona musica. Passando in rassegna le tredici tracce del lavoro ci si rende conto che in realtà non è affatto così. I IV Luna del 2011 sono ancora spontanei, oscuri, creativi.Graffia e ammalia la voce di Mik Chessa, profonda come la chitarra di Laki Chessa e le ritmiche di BJ (basso) e Alex (batteria). Canzoni quali "September 28th, 2003", "In the Shade" e "Disappeared" sono il tipico marchio di fabbrica IV Luna: chitarre avvolgenti, basso pulsante, batteria potente e precisa, elementi che si fondono in contrasti. Quelli tra buio e luce, inquietudine e armonia, aggressività e dolcezza ("The Best Day"). In "I Realize" e "Last Days of My Ordinary Life" (le migliori tracce del lavoro), le guest vocals di Alice Pelle donano un tocco di grazia e leggerezza a trame intricate e magmatiche, dai sottotesti quasi jazz. Travolgente il groove heavy e al limite dello stoner di "Magic Room" e "Unsuitable". "La tua voce" vede il ritorno del cantato in italiano (ottimo e mai banale) per una ballata notturna che esplode in riff robusti, percorso battuto anche dalla bonus track "Tentativi", risalente al 2002 e ulteriore prezioso tassello per inquadrare il percorso sonoro del gruppo. Di fronte al marciume del neo gothic e alle derive piatte e scontate del progressive metal, un album come "The Last Day of an Ordinary Life" risulta una insperata ancora di salvataggio. Ancor più sottolineando che il disco è disponibile in download gratuito sul sito del gruppo ed in cd edizione limitata con bonus track. Il modo migliore per dire addio. O un semplice arrivederci? Alessandro Zoppo
IVY GARDEN OF THE DESERT – Limen
Dopo aver concluso la trilogia composta da "Docile", "Blood is Love" e "I Ate of the Plant, and It Was Good!" per la tedesca Nasoni Records, gli Ivy Garden of the Desert fanno rientro a casa (pubblica la benemerita Electric Valley Records from Ossi, Sardinia) con un pugno di canzoni "nate spontaneamente" e raccolte in questo "Limen". L'idea di far fluire il fiume della musica in maniera del tutto naturale, senza vincoli e scadenze di sorta, è un'idea vincente da sempre e anche in questo caso risulta efficace.
Ci sono le fantastiche bordate proto metal di "Life?" e "Behind the Curtain" insieme alle acustiche "Snapshots" e "The Path": quest'ultima incredibilmente capace di ricreare le atmosfere dei Death Angel di "Act III" quando ci hanno deliziato con melodie dalla spina staccata. Una sorpresa in conclusione, "Please", cinematica ed evocativa sulle note di un pianoforte dolce e rabbioso, dalla violenza trattenuta, che non scoppia neanche nel finale, quando le distorsioni invadono il campo. Potrebbe piacere ad uno come Jim Jarmusch se solo volgesse lo sguardo alla musica del nostro paese. Eugenio Di Giacomantonio
IVY GARDEN OF THE DESERT – Trilogia dell’Edera
«Gli Ivy Garden of the Desert nascono nel dicembre 2008 per suonare musica propria, senza regole nè compromessi». Con questo comunicato radicale si presenta il combo di stanza a Montebelluna, nel Valdobbiadene, contea del Triveneto ricca di sapori (soprattutto alcolici!) e di panorami meravigliosi. "La Trilogia dell'Edera" è il nome evocativo che hanno dato a tre EP pensati, registrati e promossi nel triennio 2011-2013 che ha visto l'interesse attivo di una etichetta di culto come la Nasoni Records che ha creduto in Diego, Paolo ed Alessandro, concentrando i propri sforzi nella produzione di tre vinili 12" da far conoscere al mondo intero. Il primo capitolo è "Docile", come il titolo che porta: quattro brani per circa tre quarti d'ora di musica dal passo lento e fiero che vive senza fretta il proprio decorso evolutivo e si presenta come frutto maturo. L'iniziale strumentale "Ivy" è la porta d'accesso al mondo dei nostri imbevuto di New Wave elegante, spirito introspettivo e heavy psichedelia pensante. C'è qualche tocco di grazia (il violino nell'acustica "Hang Glider"), una fuga esistenziale verso lidi immaginari ("Enchenting Odissey") e la presentazione del proprio ego: "I" finale riottoso, fermo e potente ed episodio prettamente stoner del lotto. Il passo successivo è "Blood is Love", EP di lunga durata, dove il battito cardiaco accelera i tempi e diventa prepotente ed incazzato. "Viscera" è il biglietto per accedere al circo dei buffoni, delle starlette e dei saltimbanchi. Il treno Dozer/Lowrider/Demon Cleaner è passato di qua. C'è dono di sintesi e robusto hard Seventies che va a bussare alle porte di certo post noise sicopato ("A Golden Rod for This Virgin") e rappresenta uno sguardo sul fenomeno grunge alternative degli inizi Novanta ("1991", appunto), alla stessa maniera in cui i cugini Pater Nembrot hanno guardato le band protagoniste di quegli anni. L'ultimo capitolo ("I Ate of the Plant, and It Was Good!", titolo che ricorda qualcosa/qualcuno…) presenta una novità significativa sin dalle primissime note: la maniera di cantare è diventata protagonista. Mentre nelle precedenti uscite le lyrics compaiono dopo che la musica ha costruito l'ambiente scenografico, qui sono protagoniste assolute. Segno che Diego ha avuto qualcosa di urgente da tirare fuori durante l'ideazione dell'epilogo della trilogia. Qualcosa cha ha l'aria di un urlo pacifico nello stile spirituale dei Tool (la title track) e vuole riappropriarsi di un rifferama post Kyuss ("Ohcysprotom") riuscendo a portare tutto a casa con la conclusiva "Ivy (Part II)". La vita è un cerchio. La musica pure. Gli Ivy Garden of the Desert continueranno a narrarci questo strano sogno che a tratti si manifesta in tutta la sua magniloquenza e a tratti sprofonda negli abissi più imperscrutabili. Eugenio Di Giacomantonio
IZŌ – Izō
I pugliesi Izō mostrano un amore sincero nei confronti della cultura tradizionale giapponese, oltre che nei riff mastodontici sorretti da una base ritmica impressionante. Maurizio, Paolo, Francesco e Luca hanno imbracciato gli strumenti – in questo caso due chitarre, un basso e una batteria – e hanno costruito uno dei concept album di stoner strumentale più interessanti del 2016. Lasciate stare chi cerca lo status di band di culto affannandosi sui social: qui ci sono quattro ragazzi seri, umili, concentrati sulla creazione di qualcosa di importante e di unico.
La bellezza è nascosta nei dettagli. Come nella distorsione che rompe i primi quattro minuti di dolcezze di "Kikusai", distribuendo nell'aria una quantità di riff micidiali e brutali come solo un Matt Pike potrebbe fare. O come gli arpeggi tooliani sparsi un po' ovunque che ci portano dentro la massa nera come la pece dell'universo delle emozioni umane. Spunti riflessivi creati apposta per esasperare il contrasto con il "forte" della trama sludge. Ma la potenza è nulla senza controllo, come recitava un riuscito payoff di qualche tempo fa. Ecco quindi la dichiarazione di sapere esattamente dove andare e saper conoscere i propri mezzi di "We Are What We Are", bella composizione ultrasatura dove le linee melodiche si intrecciano in maniera quasi barocca, donando al brano una leggerezza inaspettata. Monkey 3, Karma to Burn, 35007, Monomyth e Pelican masticati e risputati in magma incandescente. Bellissimo.
I ragazzi della Acid Cosmonauts ci hanno abituato a delle uscite di pregio. Con l'omonimo primo album degli Izō la traccia è perseguita e confermata. Avanti così. Eugenio Di Giacomantonio

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