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OAK’S MARY – Car Wash
Preceduto da un promo ep di quattro pezzi, arriva finalmente “Car wash”, secondo capitolo della saga Oak’s Mary dopo il debutto “Tamarindo” edito nel 2004. L’avventura della band piacentina procede di pari passo con quella della Desert Fox Records, intraprendente indie label che si sta facendo strada nel difficile mondo del music business italiano. Volontà e forza sono anche le caratteristiche degli Oak’s Mary, espresse in un lavoro fresco e compatto, che ci accompagnerà nelle bollenti giornate estive. Artwork e produzione sono ottimi, così come la scrittura e l’esecuzione dei brani. Non manca nulla ai quattro (Mark Purple - batteria, voce -, Mark White - basso, voce -, Pedar - voce, chitarre -, Cavitos - chitarre, voce -) per fare breccia nei cuori di chi ama il rock più crudo, melodico e selvaggio. Parti ben dosate di hard, rock’n’roll, stoner e desert sound si fondono per creare una miscela suadente, calda, sexy e dannatamente cool. Ci coinvolgono e ci turbano gli Oak’s Mary, come una bella ragazza che si spoglia davanti ai nostri occhi (sarà forse la “Spanish girl” invocata dalla band?) o una bottiglia di birra ghiacciata che ci aspetta quando fuori ci sono 40 gradi. In casi del genere non si può far altro che correre forte e veloci (“Cavalli’s square”, “Love inside”). Al limite ci si sdraia in amaca con un torrido e malandato blues (“Just bifore you died”) o si scappa con la mente lungo sentieri desertici e polverosi, lungo i quali le visioni di Brant Bjork (“America”) e dei Queens Of The Stone Age (“Top of the world”, “You got it”) iniziano a prendere forma. Se sentite qualche goccia di pioggia nessun problema, “Seattle sunshine” vi farà da ombrello, con quella sua isteria targata Mudhoney a bilanciare armonie mai sopite e piglio punk. Tutto questo sono gli Oak’s Mary: tosti e al tempo stesso gentili, solari e incazzati, travolgenti e malinconici. La chiusura affidata a “Rock me” è il loro manifesto. Un rock fottuto, vintage e graffiante. Alessandro Zoppo
OAK’S MARY – Mathilda
“Mathilda” è l’ultima creatura dei piacentini Oak’s Mary, seguito di “Car Wash” del 2006 e “Tamarindo” del 2003. Un biglietto da visiva encomiabile, che ci presenta una band oramai avviata e con un sound quadrato e ben collaudato. “Mathilda” è un disco caldo, avvolgente e davvero irresistibile nella sua freschezza compositiva e nel calore che riesce a sprigionare; un lavoro perfetto da ascoltare in giornate assolate. Come accennato poco sopra, il sound degli Oak’s Mary risulta oggi quanto mai coeso e centrato; perfetta è infatti la convivenza e la sintesi di hard rock, stoner e rock’n roll tradizionale.Piuttosto che compiere un’analisi track-by-track, ci piace segnalare la perpetua bontà del livello medio delle composizioni: non ci sono cali considerevoli, mentre i picchi qualitativi sono numerosi e costanti. Nel corso dei cinquanta minuti di questo lavoro si fanno apprezzare in particolar modo la notevole capacità melodico-interpretativa espressa nei vari ritornelli, tutti davvero irresistibili, e la perizia tecnico-esecutiva dei soli chitarristici. Se ci concentrassimo sui brani più meditati e tendenti alla psichedelia stoner, la title-track, “I Live No More” e “Inside My Head” tra le altre, o se invece ci soffermassimo sui brani più tirati, su tutti il marchio AC/DC di “Señorita”, il coinvolgimento emotivo rimarrebbe sempre notevole. È infatti la coesione strutturale di questo lavoro a permettere che le varie anime del sound degli Oak’s Mary convivano in maniera armonica, e che soprattutto l’ascolto risulti un piacere duraturo e mai si presenti la sensazione di pesantezza. Ed è proprio per questo motivo che risulta difficile segnalare le tracce migliori di “Mathilda”. È possibile solamente aggiungere alle tracce citate in precedenza gli otto minuti di raffinata psichedelia di “Clap My Hand”, una parentesi interessante che fonde psichedelia dei sixties a vibrazioni desertiche in un crescendo emotivo irresistibile. Per quanto riguarda l’aspetto più meramente tecnico del lavoro, i quattro musicisti emiliani forniscono una prova mai troppo sopra le righe, utilizzando pattern compositivi semplici quanto d’impatto immediato. Notevoli sono inoltre gli intrecci a due voci e la scelta delle melodie; pulite, raffinate e mai stucchevoli, favorite da un lavoro di produzione bilanciato e attento a mettere in risalto le singole componenti strumentali. In conclusione “Mathilda” è un disco decisamente maturo, ben strutturato e piacevolissimo da ascoltare, e ci consegna un’altra band da annoverare tra le più interessanti della scena nostrana. Questo lavoro ribadisce ancora una volta, se mai ce ne fosse bisogno (ma meglio insistere, viste le solite tendenze esterofile), i livelli qualitativi notevoli ed altamente competitivi raggiunti dai musicisti del nostro bel paese. Daniele “Born Too Late”
OAK’S MARY – Promo ep 2005
I tempi dell'esordio "Tamarindo" sembrano ormai lontani per i piacentini Oak's Mary. Il loro debutto era infatti un buon disco, ispirato e certamente ben suonato, ma ancora acerbo nella varietà del songwriting. Ora esce questo promo ep di quattro pezzi, riservato agli addetti ai lavori, succosa anticipazione di ciò che sarà il secondo lavoro della band, la cui uscita è prevista in autunno. E l'evoluzione sonora dei quattro sorprende non poco.Le coordinate hard e heavy blues, mischiate con l'indie ed il desert rock, rimangono salde e stabili. Ciò che muta è l'attitudine, lo stile, stavolta molto più definito, meglio messo a fuoco. Si percepiscono forti echi del movimento desertico legato alle sonorità indie psych: parliamo delle Desert Sessions, dei fantastici Earthlings? e Fatso Jetson, di tutto ciò che è stato post Kyuss, dai Queens Of The Stone Age ai lavori solisti di Brant Bjork, passando per i Che e l'Orquesta Del Desierto. Ma attenzione, qui non c'è alcuna sterile riproposizione. Anche perché gli Oak's Mary dimostrano una cultura musicale ampia, capace di cavalcare mondi sonori diversi e antitetici. Anche se l'impatto rimane rigorosamente "low desert punk": forti accelerazioni ritmiche, chitarre infuocate, una dimensione da viaggio ai limiti, lungo confini mai prestabiliti. "Love inside" azzecca la giusta melodia da accostare a riff isterici e fantasiosi (quanto hanno insegnato alle nuove generazioni i primi Queens Of The Stone Age…). "America" inserisce una bellissima coda psichedelica nel marasma indie noise della sua vorticosa struttura. "Spanish girl" sembra uscire da "Jalamanta" di Brant Bjork, con l'aggiunta di un chorus splendido esaltato dall'interpretazione vocale del singer Pietro Seghini. La conclusiva "Rock me" è puro rock'n'roll, tirato a lucido e trainato a cento kilometri all'ora. Gran prova questo ep degli Oak's Mary. Di sicuro è troppo presto per un giudizio definitivo, ma l'attesa del nuovo capitolo discografico è ampiamente soddisfatta. Alessandro Zoppo
OAK’S MARY – Tamarindo
Come detto in precedenza, gli Oak’s Mary viaggiano di pari passo con le emissioni sonore dei Mr.Man. Nati nel 2002 da un’idea di Pietro Seghini (voce e chitarra), dopo un demo uscito lo stesso anno la formazione si arricchisce grazie agli innesti di Riccardo “Cavitos” Cavicchia (chitarra, lap steel), Marco “Sarry” Sarracino (basso) e Marco “Deepu” Barbieri (batteria). “Tamarindo” è la loro opera prima e rispetto ai Mr.Man evidenzia un minore grado di varietà ed un tasso di compattezza più rigido. Il rock degli Oak’s Mary è infatti ruvido, sudato ed energetico: lo dimostrano momenti tirati come l’opener “Final love”, gli accenni heavy di “Trilogy” o pezzi distorti e molto indie come “One o’ clock” e “Goodnight my baby” (con torridi ed intelligenti inserti di lap steel). Si perde qualcosa in originalità perché i canoni dell’hard rock e dell’heavy blues sono rispettati in pieno, senza sgarrare di una virgola, ma la passione e la forza del gruppo non si discutono affatto. D’altronde alcuni passaggi al limite della psichedelia come “Another friend”, “Trilogy part three” e la strumentale “Tamarindo” coltivano variazioni sul tema che in futuro dovranno senza dubbio essere messe maggiormente a fuoco. Per ora ci accontentiamo ed in attesa dell’estate, quando spunterà il primo sole, godremo delle gioie funky di “Dance on my willy” o delle divagazioni psych della riuscitissima “Something’s wrong”, brano che non sfigurerebbe come break movimentato nel prossimo disco dei Dead Meadow… Alessandro Zoppo
OBIAT – Emotionally driven disturbulence
Gli Obiat, gruppo londinese ma polacco d’origine e oggi con bassista italiano, non suonano propriamente doom, o meglio lo suonano, ma filtrandolo con altre sonorità e stili, fondendo il tutto con impressionante maestria. Quando vuole il quartetto sa essere davvero pesante e lentissimo, ma i nostri hanno dalla loro una varietà e dinamicità nelle soluzioni (avete mai sentito note di sax e armonica in un disco doom?) che gli Electric Wizard non hanno mai (voluto?) dimostrato, adagiandosi sul loro pachidermico lysergic doom. Qui i riff doom e ultra slow & heavy sono invece incastrati con porzioni post rock, liquide pause arpeggiate e psichedeliche, ed il tutto è suonato con un’attitudine decisamente rock. Qualcuno (e non sbaglierebbe poi molto) potrebbe collocare gli Obiat nel (sotto)genere post doom rock, già interpretato con classe da band come Callisto, Pelican, Isis e compagnia. Ma il primo gruppo che a me viene in mente sono gli Acrimony e il loro capolavoro “Tumuli shromaroom”, il più grande esempio di fusione fra doom, stoner, blues e psichedelia.Gli Obiat riescono nell’impresa (cercata in questi anni da moltissime band, ma fallita da tutte) di rievocare la bellezza e soprattutto l’intento di quel disco, ovvero suonare doom con il gusto rock, immergendo tutto in un vortice di psichedelia blues. Due canzoni in particolare rappresentano al meglio quanto detto, le lunghe “Stare the distance” e “Disobey (pt.2)”, song nelle quali il gruppo rilegge con sorprendente disinvoltura quanto accaduto nella scena doom rock di questi ultimi dieci anni. Chitarre slide e acustiche, pause psichedeliche, debordanti assalti stoner rock e pesantissime porzioni doom si fondono come rarissime volte è capitato di sentire. Ottime anche l’iniziale “Angry water”, la dinamitarda “By the way I think…” (i Black Crowes che suonano doom?), e la conclusiva “The vessel”, un giro di giostra verso lidi lunari. Una delle più liete sorprese degli ultimi anni. Marco Cavallini
OBLIVIO – Dreams are distant memories
Malinconicamente fragile. Se si dovesse descrivere in due sole parole questo disco non ci sarebbero dubbi ad usare quelle appena citate. Perché questo è il contenuto sonoro ed emozionale di “Dreams are distant memories”: una musica dall’animo fragile e dal forte retro gusto dolce amaro tipico della malinconia. Nove canzoni che appaiono come acquarelli dai colori rarefatti e per certi versi “appannati”, atti a descrivere emozioni lontane e nostalgiche. È questo il sentimento preponderante di questo disco, una nostalgia vellutata che attraversa l’intero corso di “Dreams are distant memories” non lasciandolo mai.Oblivio appartengono a quella scuola di band (Novembre, Klimt 1918, i Katatonia del periodo di mezzo) che non vuole adagiarsi sugli abituali stereotipi del gothic sound, ma vuole portare all’interno di essi nuovi elementi, senza però perderne lo spleen di fondo; a ciò aggiungono una certa vena liquido/psichedelica che rimanda agli ultimi Porcupine Tree, e un mood rimandante alla wave degli anni ’80. E allora ecco nascere canzoni struggenti come “Overcome”, “No sense of me”, “The last illusion” (dominata dalla bella voce dell’ospite Francesca Iacorossi) e la splendida “Same sequence”, brani dalle mille sfumature atte ognuna a fondersi una con l’altra (non vi sono pause fra un brano e l’altro) come a formare un unico fiume nel quale scorrono fortissime emozioni. “F.B.R.” gioca con soluzioni shoegaze (se gli Slowdive si riformassero suonerebbero probabilmente così) e la conclusiva “Distant memories” (ospite Carmelo Orlando dei Novembre) prende la mano ed accompagna docilmente alla fine del disco col suo senso di infinito abbandono. Ottima la scelta di alternare il cantato italiano a quello inglese, dando anche un gusto “mediterraneo” alla propria musica; come recita un loro brano, “Perché aspettare questa notte per chiudere gli occhi per sognare?”. Lo possiamo fare immediatamente, ascoltando questo disco. Nel caso non l’aveste capito, siamo di fronte alla più lieta sorpresa italiana del panorama della musica malinconica di questo 2007. Marco cavallin
OBSCURE PATHS – At a Loss
Ci sono suoni o generi talvolta agli antipodi ma molto affini tra loro. È il caso del rock psichedelico e del post rock, espressioni giunte spesso a contatto, specie negli ultimi anni. Da una parte l'avanguardia e il minimalismo, dall'altra il pensiero free. Denominatore comune la sperimentazione e le aperture verso l'inusuale. Di questa corrente che potremmo chiamare experimental psychedelic instrumental post rock fanno parte gli Obscure Paths, quartetto che giunge da Molfetta (Bari) ed è attivo dal 2006. I quattro giungono al primo full lenght attraverso una ricerca/crescita/consapevolezza che li ha portati fino a "At a Loss", un viaggio iniziato in sordina e via via sviluppatosi fino al culmine. La band pugliese ha le idee chiare: nel disegno della formazione si delineano spunti riflessivi a dispetto di nome della band e dell'album, altresì si scorgono contenuti da profonde cognizioni psicologiche. "At a Loss" è un termine che gli inglesi usano per definire lo smarrimento ed anche il deficit, il disavanzo e l'atto estremo, la sconfitta. Con la musica degli Obscure Paths si entra in un mondo fatto di visioni surreali dall'apparenza reale: ci sono elementi chiave quali la negatività e la positività, il chiaro e lo scuro, il silenzio e il frastuono, la quiete e la tempesta. Non a caso i brani che aprono e chiudono l'immaginifico viaggio del disco sono "Zenith" e "Nadir", e se coerenza deve essere ciò non lo si traduce in musica, poiché i nostri amano misurarsi con varie forme che partono e si sviluppano dai generi citati in apertura attraversando anche (o accarezzando in taluni casi) altri modi di pensare la musica come vari attimi di free jazz, momenti in cui sussurri di progressive rock lasciano posto al desert rock e poi catapultano nello space, fino ad assaggiare istanti kraut sospinti da impulsi avantgarde. Grandi condimenti al post rock psichedelico di base che gli Obscure Paths offrono copiosamente. "At a Loss" è un ottimo album e possibile rivelazione del nostro tedioso paese. "At a Loss": sospensione. L'indecisione nel comunicare, decidere o fare qualcosa. Una discontinuità nel rapporto tra interno ed esterno. Sospensione che diventa energia nuova, diversa, potente. "At a Loss" è la nostra idea attuale di psichedelia. L'immagine di una macchia solare, l'apparente oscurità che la circonda, è enorme esplosione di energia non visibile. L'energia che ne scaturisce distrugge barriere artificiali e mentali. Antonio Fazio
OCEAN CHIEF – Sten
Avevamo perso di vista gli svedesi Ocean Chief da qualche anno, precisamente nel periodo successivo la release di "Tor" (pubblicato comunque con enorme ritardo rispetto a quanto originariamente previsto). Dopo l'uscita di "Den Förste" (2009) e la serie "The Northern Lights" (split con Runemagick e The Funeral Orchestra), li ritroviamo oggi col nuovo "Sten" e la loro proposta non si è spostata di un millimetro rispetto al passato. Un doom metal dove la lentezza e la pesantezza fanno continuamente a gara nel prevalere l'una sull'altra. Quattro lunghissimi brani che vanno a costruire un unico macigno/monolite davvero difficile da digerire. Sul finire degli anni 90/primi 2000, si era soliti (chi scrive non sfuggiva alla regola) definire un disco come questo con l'etichetta doom stoner o doom psych, perché l'effetto dato era spesso quello di stordire e "flippare" nel suo impatto così lento e pesante. Su un dinosauro come il sottoscritto, che ha passato la gioventù drogandosi con i vari "Dopethrone", "Jerusalem", "As Heaven Turns to Ash", "Elaborations of Carbon", "The Art of Self Defense" e via dopando, gli Ocean Chief appaiono noiosi già al secondo ascolto (e l'inserimento del minmoog nella conclusiva "Oden" non può certo poter rappresentare una novità assoluta per il genere). I nostri hanno imparato a memoria la lezione, e coi suoni, volumi e produzioni dei nostri tempi non avranno certo problemi a far effetto sulle giovani leve che conoscono oggi per la prima volta questo stile. Marco Cavallini
OCEAN CHIEF – The oden sessions
L’adesivo posto in copertina recita: “fan degli Sleep prendete nota: Ocean Chief, 4 canzoni per 63 minuti di puro doom svedese”. Inserito il CD nel lettore, per i primi 2 minuti un basso cavernoso avanza con passo pachidermico sino alla fragorosa esplosione di chitarra e batteria e allora il tutto appare molto chiaro. Questi Ocean Chief sono, semplicemente, gli Electric Wizard svedesi; stesse sono la paurosa pesantezza e la densità del suono, la lentezza pachidermica con la quale avanzano le composizioni, ricordando soprattutto “Dopethrone”, il capolavoro della band inglese. Raramente si è mai sentito un gruppo al debutto capace di un suono così mostruosamente pesante, in grado di abbattere ogni cosa gli si pari dinanzi.Gli Ocean Chief sono intelligenti nell’inserire pause psichedeliche/spaziali che, oltre a smorzare un attimo la cappa, hanno l’effetto di rendere ancora più pesanti le porzioni heavy. L’opener “Sword of justice” è esemplificativa in tal senso, alternando una prima parte ultra doom ad una pausa liquida dal sapore space rock e riprendendo poi il riffing iniziale appesantendolo ulteriormente. “Oden” è ancora meglio (o peggio, a seconda dei gusti), immergendoci in un lentissimo mantra di oltre 25 minuti e rimandando al mitico “Jeruslam” degli Sleep. Solo lo strumentale finale “The Ocean Chief rules my world” si mostra un pelo più umano, pur nella sua ossessiva lentezza/pesantezza. Il gruppo darà alle stampe (su etichetta 12th Records) il nuovo album “Tor”, descritto dalla band stessa come ancora più lento e pesante di questo “The oden session” (possibile?). Se adorate queste sonorità contattate subito la band, non ne rimarrete delusi. MARCO CAVALLINI
OFFICIUM TRISTE – Mors Viri
Ritorno per gli olandesi Officium Triste, gruppo ormai prossimo al ventesimo anno di attività e dedito ad un mix di doom death e gothic doom. Autori di 5 album, 2 EP e 3 split, arrivano a "Mors Viri" a 6 anni dall'ultimo full-length. La band si inserisce in quel filone che diede lustro a colossi quali My Dying Bride, Paradise Lost, Anathema, Type O Negative, Winter, Katatonia, The Gathering, (primi) Celestial Season e Asphyx. Un dato certo è che la formazione di Rotterdam se ne infischia altamente dei trend e va avanti dritta per la propria strada. Il sound è infatti old school, ancorato al death goth doom primordiale come fatto in precedenza, come fanno ora e con tutta probabilità come faranno in futuro, in un'era cui l'approccio romantico e decadente sembra aver segnato il passo e divenuto sorta di stile in disuso."Mors Viri" è un album onesto: è evidente come i sei propongano ciò che appassiona essi stessi per primi ed intendano accontentare quella fetta di pubblico che non vuole sentir parlare di innovazioni e mode del momento. Questo disco mostra dunque un gruppo dal lodevole sapore nostalgico, gli elementi sono quelli tipici e quelli che ti aspetti: melodie strazianti, decadenza, pessimismo, sofferenza, malinconia e solenne tristezza. Tra i momenti più intensi del lavoro, spiccano "Your Fall From Grace", "To the Gallows" e la conclusiva "Like Atlas". Insomma, gli Officium Triste ci fanno fare un bel balzo indietro di 20 anni. D'altronde, nel bel mezzo di miriadi di band che tornano indietro di 40 anni, perché ogni tanto non fermarsi ai primi 90? Antonio Fazio
OGRE – Dawn of the proto-man
Non brilleranno certo di originalità, ma quando si mettono e ci danno dentro gli Ogre sono una vera macchina da guerra… Parliamo di una band nata nel 1999 e che più che sul versante prettamente stoner è da annoverare tra i revivalisti dell’hard rock anni ’70. Ascoltando le sette tracce che compongono “Dawn of the proto-man” risultano palesi le influenze, da una parte, dell’ala più oscura e misteriosa del sound settantiano (Black Sabbath, Pentagram, Captain Beyond, Blue Oyster Cult) e dall’altra del suono ruvido e vibrante che a suo tempo rese unici Cactus, Budgie, Grand Funk, Mountain e Sir Lord Baltimore. Quanto offerto da Ed (basso e voce), Ross (chitarra) e Will (batteria) si pone proprio su questa scia: feeling in primo piano, riff indiavolati, sapori vintage e tanta grinta messa al servizio di un songwriting mai stantio o fine a sé stesso. Brani come le iniziali “Ogre” e “Colossus” convincono grazie al loro andamento travolgente, con ritmiche che pestano sull’acceleratore, chitarre ora aggressive ora sognanti e parti vocali a metà strada tra Ozzy e Bon Scott. Intuizioni più complesse escono fuori invece in “The jaded beast” e “Black death”, pezzi lunghi e complessi, divisi entrambi in due parti e dalle ossessive atmosfere dark, che nel primo caso strizzano l’occhio alla psichedelia, nel secondo formano una vera e propria orgia di umori sabbathiani. Ma a convincerci definitivamente della bontà del prodotto ci pensano anche gli altri episodi del disco: “78” è un boogie indiavolato che ci riporta indietro nel tempo, quando gli AC/DC muovevano i loro primi passi nel mondo del rock… “Skeletonized” è ancora una volta un tributo a tutto ciò che il mondo dell’hard rock ha prodotto tra il 1969 e il 1973, mentre la sorprendente “Suicide ride” si rifà agli stilemi della New Wave Of British Heavy Metal in un tripudio di esplosioni sonore che richiamano alla mente Saxon e Diamond Head. Con un pizzico di personalità in più gli Ogre avrebbero raggiunto il top già al primo colpo, ma non c’è certo di che preoccuparsi, con gli anni e la gavetta anche questo problema verrà risolto. Per ora indossiamo i nostri pantaloni a zampa d’elefante e tuffiamoci in “Dawn of the proto-man”, un bel salto indietro nel tempo ogni tanto non guasta… Alessandro Zoppo
OGRE – Secondhand Demons
Parziale ritorno sulle scene per gli Ogre, trio che giunge dal Maine ed è uno dei più sottovalutati gruppi degli ultimi dieci anni. Band attiva dal 1999 al 2009, si è riformata brevemente nel 2012 per alcuni live show assieme a cavalli di razza come Revelation e Iron Man. Attualmente ferma ai box, sembra che la formazione abbia in programma la realizzazione di un paio di nuove canzoni e la riedizione del loro ultimo album, "Plague of the Planet", edito nel 2008 e seguito della demo del 2000. L'esordio "Dawn of the Proto Man" del 2003 e "Seven Hells" del 2006 erano stati l'inizio ufficiale, nel mezzo "Unleashed from the Northeast" in compagnia di Blood Red e Upwards On Endtime."Secondhand Demons" è un parziale ritorno poiché l'album è una compilation di unrealesed live version, demos e cover. La band propone una forma di 70's hard rock doom, che porta avanti da tempi non sospetti, purtroppo senza mai riuscire ad emergere per qualche strano scherzo del destino. Se si pensa a quanto sia oggi fortunata e seguita la corrente retro rock – gli Ogre non sono certo dei messia del genere – qualche nota di merito al trio dovrebbe essergli riconusciuta. Questo disco ci mostra quanto seppero fare in passato i nostri, fautori di un robusto sound fatto di heavy riffing, fuzz, overdrive, wah wah, portentose linee di basso unitamente ad un vibrante e vivace drumming, il tutto unito ad un indubbia sagacia tecnica. La musica degli Ogre è certamente debitrice di quelle band che diedero il la all'epopea dell'heavy music, dai Black Sabbath ai Dust, da Sir Lord Baltimore, Blue Oyster Cult e Deep Purple fino a Budgie, Rush, Buffalo, Captain Beyond e via dicendo. Sono presenti nel sound anche elemti hard acid e doom: i tre non sono una doom band nel senso stretto seppure "Seven Hells" mostrava un'attitudine doom più che nelle altre release. I brani che compongono l'album sono le già edite "Age of Ice" e "God of Iron" (apparse sul già citato split EP) e "The River" (dalla demo del 2000). Uniche tracce totalmente inedite sono "The Centurion" e "Drive (single edit)"; completano il lavoro alcune interessanti cover quali "Mystic Lady" (Saint Vitus), "The Prophet" (Buffalo), le doppiette Sabbath ("Symptom of the Universe / Behind the Wall of Sleep") e Rush ("What You're Doing", "Working Man"), eseguite dal vivo, bene ma dalla scarna produzione. "Secondhand Demons" è un album consigliato a chi non conosce gli Ogre ma soprattutto a chi segue l'attuale ondata retro rock e proto doom, per capirne (almeno in parte) le radici. Antonio Fazio
OGRE – Seven Hells
Quando la storia di una band ha inizio dall’ascolto comune ed esaltato da parte dei suoi componenti di un disco dei Sir Lord Baltimore, nella promessa di mettere in piedi qualcosa in grado di riprendere la lezione impartita dai grandi maestri, è chiaro che si parte già col piede giusto e il futuro non può che riservare piacevoli sorprese. Certo non bastano aneddoti simili e sole buone intenzioni per dare vita ad una band valida, ma gli Ogre ci mostrano come, con tanta passione, idee chiare e una buona ispirazione, si possano creare grandi dischi come questo”Seven Hells”, secondo capitolo per la formazione americana. Fiutati abilmente dalla mirabile e sempre attiva Leaf Hound Records, i tre musicisti ricambiano le attenzioni dell’etichetta nipponica sfornando un disco di retro rock di tutto rispetto. Catapultati a metà degli anni Settanta ci si trova ad ascoltare un insieme di hard rock, proto metal e blues rock, a tratti dalle tinte oscure, a tratti violento e impulsivo, a tratti riflessivo e pacato, ma sempre caricato da una passione davvero genuina e da un gusto musicale impeccabile. Trascinati dalla voce dannatamente retrò di Ed Cunningham, impegnato anche al basso, e dal riffing divertente di Ross Markonish, gli Ogre si muovono agevolmente su linee che non possono non fare la gioia di tutti gli amanti delle sonorità del passato più puro e incontaminato del rock. Black Sabbath (non c’è manco da dirlo), Deep Purple, Pentagram, Buffalo, Bugie e Dust sono tra le principali band che gli Ogre riescono a riportare alla mente durante l’ascolto di questo “Seven Hells”, una vera chicca per gli amanti del sound incontaminato e senza tempo dei grandi nomi di cui sopra: kick out the jams, motherfucker! Marco Negonda
OJM – I got time 7”
Buone nuove dagli OJM, veterani della scena stoner'n'roll italiana. Ho avuto modo di vederli recentemente dal vivo rimanendone ben impressionato, concerto in occasione del quale ho ricevuto il promo del nuovo 7 pollici in uscita per la Go Down Records. Sette pollici fresco fresco e ricco di sorprese che andiamo a scoprire: la prima sorpresa la troviamo sul lato A dove la band si trova in compagnia del mitico Brant Bjork in veste di cantante e chitarrista: il pezzo (che da il titolo al vinile) con il suo incedere desertico ricorda molto le migliori produzioni del Bjork solista, caratteristica alla quale si abbina in perfetta simbiosi la componente sguaiata e vagamente melodica tipica delle ultime produzioni degli OJM. Sul lato B altra sorpresa: inizialmente la band sembra riprendere il discorso rock'n'roll lasciato in sospeso con l'ultimo Light Album ma si perde presto con ipnotico piacere nei meandri della psichedelica squisitamente visionaria dei tardi anni sessanta, per chiudere in crescendo su sonorità che definire stoner non è un'esagerazione.Intanto la band si è chiusa in studio col produttore Michael Davies (bassista dei seminali MC5) e presto avremo il nuovo full lenght… staremo a vedere, le premesso per un gran ritorno ci sono tutte! The Bokal
OJM – Heavy
Un gran disco di stoner italico questo Heavy dei trevigiani OJM. Benedetto il MEI per avermi dato la possibilità di entrare in possesso di questo desideratissimo dischetto. In questo primo full-lenght, successivo ad un EP di un paio di anni fa, gli OJM abbracciano un po' tutto lo spettro stoner: in The Sleeper e Revelations rockeggiano menando pugni allo stomaco come i Nebula, poi si arrampicano su volute psycho-blues-doom con una ottima You Come che degli Electric Wizard riprende l'acidissimo incedere e le invocazioni mefitiche. Rendono degnissimo omaggio ai loro padri putativi The Stooges (insieme a Blue Cheer) rileggendo T.V. Eye con una coda ad libitum. Un altro giro nello stoner più duro ce lo offre Mix-Up, un pezzo in tre quarti, con effetti 'from the outer space', small stone e fuzz a manetta, senza vocals, puro tritura-riff che... purtroppo dura poco! Si passa di palo in frasca con As I Know esempio di forma-canzone stoner finemente arrangiata, melodica e carica di vibrazioni. E poi c'è l'ibrido Strange Dreams con una prima parte serrata e dominata dagli strumenti, ed una seconda rallentata, ricca di brusche frenate alla Alice In Chains e inacidita da un solo sfuggente. A chiusura, l'immancabile, necessaria, pièce strumentale a nome Theorem che, appunto, ha uno svolgimento con ipotesi, tesi e conclusione che fa quadrare il cerchio. Come dicevamo all'inizio, un gran bel disco di stoner vario, mai scontato, con delle idee, buone, che possono aumentare nel tempo. Ultima precisazione: la produzione è perfetta e con Paul Chain non si poteva sbagliare. Gli OJM sono qui solo all'esordio ma si catapultano direttamente nel mondo del rock acido a testa alta. Teniamoli d'occhio. https://www.youtube.com/watch?v=gomul4QSXss

Francesco Imperato

OJM – I Got Time / Under the Thunder
Preceduto dall’uscita del 7” in edizione limitata “I Got Time” (nel quale presentano la flippante “Stars Shine” e “I Got Time”, dove a cantare e suonare la chitarra c’è un certo Brant Bjork), gli OJM tornano più carichi che mai. Li avevamo lasciati alla svolta di “The Light Album”, frizzante garage psych che segnava un punto di svolta rispetto ai monoliti stoner “Extended.Playing” e “Heavy”. Il nuovo “Under the Thunder” prosegue su quella stessa strada: garage rock’n’roll sporco e aggressivo, caratterizzato da un muro di suono sempre possente (è l’ultimo punto di contatto rimasto con le sonorità degli esordi) e da una produzione scintillante (effettuata non a caso da Michael Davis from MC5). Puntano al riconoscimento internazionale i quattro ragazzi di Treviso e a pieno merito. Questo nuovo disco infatti non ha nulla da invidiare ad altri prodotti simili che i mercati americano e britannico sfornano quotidianamente. Scuola MC5, The Stooges, Blue Cheer e Grand Funk ai massimi livelli, debordanti intervalli psichedelici, riff e ritmiche che puntano dritti allo stomaco. È questa la ricetta OJM, colorato caleidoscopio che partorisce gioielli super garage (ascoltare le bellissime “I’m Not an American”, “Lonelyness” e “Give Me Your Money” per credere), mazzate fuzz piazzate tra i denti (“Sixties”, “Stoned Love”, “Dirty Nights”), rallentamenti che travolgono per forza ed impeto (l’heavy psych ribollente che anima “M.C.I”) e grandissimi episodi psichedelici. Parliamo di “Starshine” – il deserto prima e dopo una tempesta di sabbia – e della conclusiva “Brant B”, tributo vivente al grande Brant Bjork, compagno di jam, viaggi e sbronze. Agli OJM manca soltanto la definitiva consacrazione per portare a compimento la propria opera. Che sia “Under the Thunder” il disco chiave? Glielo auguriamo di tutto cuore, nel nome del rock. https://www.youtube.com/watch?v=Aj88BzHVQww

Alessandro Zoppo

OJM – Live in France
Operazione coraggiosa da parte della Go Down Records: il primo live album degli OJM, band di punta dell'etichetta, esce in edizione limitata in vinile colorato e al contempo in free download tramite il sito della label. Un live registrato al Subsonic Club di Montpellier che ci mostra il solito gruppo tosto e in gran forma. Con un repertorio che pesca soprattutto dagli ultimi due dischi, 'The Light Album' (2004) e 'Under the Thunder' (2007). David (voce), Alex (chitarra), Andrea (basso) e Max (batteria) sono dei mastini, picchiano giù duro e ci sparano addosso nove brani ruvidi e selvaggi. Garage, psichedelia, stoner, rock'n'roll viaggiano di pari passo, in uno show che privilegia l'impatto e la grinta. Vengono eseguiti quelli che ormai sono i nuovi cavalli di battaglia del quartetto ("Give Me Your Money", "Sixties", "I'm Not an American") e impennate classiche che fanno capire dove si trovino le radici degli OJM: i Doors più visionari citati in "Dirty Nights", il tributo ai maestri MC5 in "Kick Out the Jams", gli influssi desert psych di "Desert" e della conclusiva "Montpellier Session". Un dischetto che sintetizza al meglio dieci anni di carriera (seppur qualche estratto da 'Heavy' non avrebbe guastato) e lancia il gruppo trevigiano nell'olimpo hard acido internazionale. Grande rock! https://www.youtube.com/watch?v=F3Iyt4FsG0o

Alessandro Zoppo

OJM – The Light Album
Il nuovo album dai veneti OJM arriva ora sul mercato internazionale con il suo carico di grezzo rock’n’roll dalle forti influenze retro-rock. Nove nuovi pezzi che fin dalla prime note mettono subito in chiaro il nuovo corso della band, che ha scelto di lasciarsi alle spalle le scorribande stoner-doom dell’album d’esordio per concentrarsi sul rock’n’roll più puro, con molte reminiscenze tardo Sixties ed una strizzatine d’occhio alla tendenza odierna dettata dal successo di Jet & company. La title track è molto incalzante ed accattivante nelle melodie che odorano molto di garage rock: due minuti di buonissimo ed onesto rock. "My Enemy" e" To Be a Woman" continuano sulla strada del rock roccioso, senza comunque ripercorrere i percorsi più heavy battuti in precedenza dalla band, mentre "A Spell On You" si mette in evidenza come uno dei pezzi più Sixties dell’intero lavoro tant’è che sembra uscire direttamente da quelle raccolte di culto che possono essere Nuggets o Pebbles, arricchita da un’armonica e da cori alquanto azzeccati. Con il suo ritmo nervoso e le sue sonorità più moderne "Strange Time" risulta essere aggressiva ma un po’ meno convincente dei precedenti pezzi, mentre con la successiva "Talkin’ About a Revolution" il ritmo rallenta e ci riporta dritto dritto nei Seventies con un mid-tempo melodico e rilassato nell’incedere, con momenti più decisi nei chorus e un buonissimo finale leggermente velato da armonie vocali e chitarre dal sapore psichedelico. Segue il rifacimento di quella "I’m Damn" che già figurava nell’ EP di debutto della band, qui rivisitato in chiave leggermente più leggera e garage, confermandosi comunque un gran bel pezzo. A chiudere l’album la buona "I’ve Got No Time to Waste", il pezzo Seventies che aveva visto gli OJM condividere un sette pollici con gli inglesi Gorilla, e la bella "Desert", sicuramente uno dei vertici di questo lavoro, con il suo particolare incedere e delle splendide chitarre, con belle melodie e una voce che sembra aver trovato definitivamente la sua nuova dimensione. Molto bello questo Album che porta gli OJM dalle parti di un garage rock assolutamente inedito nella loro discografia, il che forse farà storcere il naso a chi aveva amato le loro prime uscite ma che li conferma come una realtà molto interessante del panorama rock tricolore.

Bokal

Poco più di mezz’ora basta agli OJM per tornare in pista e sorprendere come non mai. Li avevamo lasciati allo split con i Gorilla e dopo la pubblicazione di due lavori molto convincenti come “Extended.Playing” e “Heavy”. Oggi riemergono con un nuovo album che lascerà a bocca aperta per solarità ed immediatezza. Lasciate da parte le sonorità stoner doom, i quattro si buttano a capofitto su un garage rock psichedelico che fa davvero faville. Qualcuno potrà storcere il naso e dire che prima erano meglio, che si sono venduti, che sono saltati sul carrozzone del trend e altre baggianate del genere. Dinanzi ad un album forte ed emozionante come questo sono pochi i commenti da fare. Per non dare adito ai maliziosi, possiamo subito notare come questa evoluzione (sì, di evoluzione si tratta) parta da lontano: ricordate “As I Know” e la cover di “T.V. Eye” su “Heavy”? Ricordate “I’ve Got No Time to Waste” (qui riproposta) nello split con i Gorilla? Erano semi (l’allusione a The Seeds calza a pennello) destinati a crescere e a germogliare rigogliosi. Matt Bordin è passato dal basso alla chitarra, gli altri rimangono sempre gli stessi: Max alla batteria, Frank alla chitarra, David alla voce. I bassi sono divisi con impeto psichedelico e lucida costanza. È il vigore che viene fuori a partire dalla travolgente “Break It All”, opener che rimane impressa nel cervello sin dal primo ascolto. Gli OJM devono aver ascoltato tutti i volumi dei “Nuggets”, le pepite del garage psych dalle quali emergevano splendidi esemplari come The Standells e The Electric Prunes. Filtrando questa “scoperta” sonora con la ruvidità degli esordi ciò che viene fuori è “The Light Album”. Luce abbagliante, fatta di melodie ammalianti (“My Enemy”, “Talkin’ About Revolution”), blues inaciditi di ascendenza “stonesiana” (“A Spell on You”), spore ultra psichedeliche (“I’m Damn” e “Desert”: due brani da pelle d’oca). C’è poco fa fare, quando la classe è classe non si deve neanche discutere. Gli OJM di impatto, freschezza, rabbia e creatività ne hanno a palate. Un suono tentacolare e multicolore quello di “The Light Album”, un caleidoscopio di vibrazioni e umori da assaporare fino in fondo. Lasciarsi sfuggire tutte queste sensazioni sarebbe un vero peccato, non credete? https://www.youtube.com/watch?v=QQtAdm-zqTg

Alessandro Zoppo

OJM – Volcano
Gli OJM sono come il vino di pregevole fattura, invecchiano bene. "Volcano" è il loro quinto album (compreso il primo, bellissimo EP "Extended Playing") e riesce nell'impresa di fondere tutte le anime del gruppo veneto. Ci sono dentro l'origine heavy stoner fumosa e diretta, le spruzzate garage colorate e orgogliosamente Sixties, la psichedelia che fa da collante e il super rock'n'roll granitico, stradaiolo e divertito. Se ci si aggiunge la griffe Red House Recordings di Senigallia e mix e mastering di Edmund Monsef e Dave Catching (tastiere e synth in quattro brani), il gioco è fatto. "Volcano" è un album spumeggiante e ispirato, ideale per animare feste o una guida annoiata. L'introduzione strumentale "Welcome" dà il benvenuto a suon di fuzz vorticosi, preludio ai ritmi garage retro rock di "Venus" e "Rainbow". Canzoni fresche, dalle ritmiche possenti e dai riff pungenti, con la voce di David sempre alla ricerca della melodia e del guizzo giusti. Più che in passato, e ciò è bene. Puro stile OJM insomma, e questo è un grande merito. "Ocean Hearts" osa di più in termini di songwriting e si rivela infatti il miglior brano del lavoro: southern psych acustico e sognante concluso da una svisata di organo che inneggia al sacro potere del groove. "Wolf" e "I'll Be Long" sono altre due bombe da spiaggia (o da beat club, fate un po' voi), "Cocksucker" e "Disorder" tracciano la sottile linea rossa che dai Rolling Stones conduce ai Queens of the Stone Age passando per gli MC5, il punk e i Fu Manchu. "Escort" lavora ai fianchi con una melodia appiccicosa e malinconica su tappeto space riff rock, mood notturno che caratterizza anche la conclusiva "2012", che ha il solo difetto di esser stata troncata sul più bello. Lavorando ancora di più sulla scrittura – il caso di "Ocean Hearts" deve essere preso come esempio –, gli OJM potranno davvero legittimare lo status di miglior band stoner/rock'n'roll d'Italia. D'altronde lavorare con Michael Davis, Brant Bjork e Dave Catching è un privilegio non da poco. Super rock is here to stay. https://www.youtube.com/watch?v=ffkaxiUhU7o

Alessandro Zoppo

OJM – Live at Rocket Club
Ricordo bene tutte le volte che ho visto dal vivo gli OJM. Quella volta con il chitarrista capellone in perfetto stile Jimmy Page, l’altra con il mitico Michael Davis, in età avanzata ma sempre pronto a dare la zampata del vecchio leone sulle cover degli MC5, l’altra ancora con il piano bass e Andrew Pozzy alla chitarra, come in questo Live at Rocket Club. Ricordo anche l’inizio di Heavy, album che non catturava perfettamente la rock‘n roll machine che erano, per tuffarli nel neonato calderone stoner italiano, in maniera impropria. E ricordo ai più giovani che nella band militava un certo Matt Bordin, pronto a sganciarsi dopo The Light Album per formare i Mojomatics (per non citare Squadra Omega e tanti altri). Faccio questi voli a ritroso per ricordarmi di come era una festa vedere il gruppo dal vivo, soprattutto adesso che sembra non tornare più un’occasione simile. E gli OJM spingevano di brutto: erano una band nata per i live, concessa solo occasionalmente alla sala di registrazione per immortalare un momento, un album, delle canzoni. Questo Live at Rocket Club li fotografa subito dopo l’uscita di Volcano del 2010 e ci restituisce una band in forma smagliante, lontana anni luce dal letargo in cui sarebbe caduta subito dopo. Ci mostra un live act come poteva essere negli anni 70, con le testate valvolari, assoli al vetriolo e tanta voglia di dimenare le anche. Diverso e allo stesso tempo uguale all’altro Live in France, uscito in uno splendido vinile colorato, a ridosso di Under the Thunder. Diverso perché la line up è diversa, anche se le due pietre miliari Dave Martin e Max Ear sono al loro posto. Uguale perché nonostante qualche variazione data dalla personalità degli strumentisti coinvolti, il risultato è sempre OJM al 100%. Segno questo che la band ha un marchio specifico ben riconoscibile. Prima di riuscire a tornare in strada per sentirli suonare dal vivo, questo disco è un bel documento per non perdere la memoria. Come si diceva una volta: no overdubs, just a great rock’n roll show. https://www.youtube.com/watch?v=cygTtcBZVlw

Eugenio Di Giacomantonio

OJO ROJO – Tunes from the wayout
Tante volte abbiamo analizzato i motivi per cui l’hard trova qualche difficoltà ad imporsi nella vasta Germania (primo mercato discografico europeo, ndr), e la risposte non sono poi così difficili, visto che risiedono proprio in motivi storicamente radicati: il pubblico e i musicisti teutoni, fieri e combattivi, hanno sempre preservato le loro tradizioni affidandosi a scuole maggioritarie come power metal, thrash e goth, e la psichedelia ha avuto in quel paese una connotazione particolare, identificandosi con l’immortale sound kraut-rock, di cui i Farflung, e soprattutto gli spettacolari Colour Haze, ne costituiscono la contemporanea eredità. Detto questo, dobbiamo osservare però che la scena musicale tedesca permette buone aperture, e un certo numero di band si dedicano allo stoner rock, al garage-rock’n’roll e al doom, già da tempo. Per questo ci fa veramente piacere ascoltare un gruppo come gli Ojo Rojo, che a dispetto del proprio monicker non risulta una macchina emulatrice degli autori di “In Search Of…”, magari lanciata su autostrade con severi limiti di velocità. Infatti – notevole sorpresa – i nostri si riallacciano piuttosto all’hard/crossover dei primi anni ‘90, che aveva dettato legge con gruppi di confine quali Helmet, Clutch, Life Of Agony, Corrosion Of Conformity e addirittura i leggendari Suicidal Tendencies, anche se ora ovviamente l’afflato del desert-rock risulta presente come un fattore consolidato. Da lodare il fatto poi come la stesura musicale quadrata e potente degli Ojo Rojo non risulti affatto tozza e macchinosa, e l’album fila bene in una sequenza poliedrica di brani che non perde la propria logica, con alte probabilità di esaltare gli estimatori del genere. Prendiamo “Run In Circles”: un riff bituminoso e tortuoso come una strada ad alta quota apre un pezzo col numero dei giri al massimo, e i bridge crossover trovano il climax in un refrain alla Clutch. In un ipotetico festival estivo suonato all’aperto, la degna successione spetterebbe a “Flies On Strings”, un brano che la congrega di Mike Muir non compone ormai da oltre 10 anni, visto che si tratta di un sabbatico hardcore da polveriera. Un brutale incontro tra i Fu Manchu di “The Action Is Go” e Suicidal Tendencies/Helmet spetta anche a “Drown” e “White Knuckle Ride”, mentre trascinanti e ispirati stonercore sono dati da “Ready 2 Go”, “Murder” e “Monkey Nation”, in cui non viene dimenticata la lezione dei Motorhead e del glorioso thrash di metà anni 80. “Sublime” è invece un pezzo che fa leva sui contrasti atmosferici, e si avvicina sia agli autori di “Betty” che ai Godsmack, e “Little Judas” è uno stoner autostradale con cui partire dalla propria maniacale officina per percorrere tutte le vie di comunicazione d’Europa in cerca di fumo e un paio di tette, almeno dove questo è legale! Una gigantesca sgommata accompagna poi uno spruzzo di catrame, e scorrazziamo da Porta Genova a Piazza Duomo sotto il frastuono di “Cazzo Milano”. “No Thrill” e “Borderline” sono due monumentali guglie di quel pantheon crossover, eretto non più nelle metropoli statunitensi, bensì nelle sconfinate lande delle dune e dei tramonti cremisi. Molto bello il congedo con l’ispirato e pacato strumentale rock-psych di “Linus”, emblematica sosta refrigerante per questi quattro guerrieri della strada, dalle palle fumanti come pneumatici, ma dal cuore gonfio e generoso. Complimenti, Ojo Rojo. Roberto Mattei
Old Mexico – Old Mexico
La storia degli Old Mexico e di questo disco, edito da Cardinal Fuzz, è davvero curiosa. Tutto nasce dalla volontà di Jason Simon, voce e chitarra dei Dead Meadow. Invitato a San Francisco per prendere parte al Family Folk Explosion (una sorta di mega concerto à la The Last Waltz organizzato da Trans Van Santos, ovvero Mark Matos), Simon porta in dote i suoi outtake rimasti fuori da Familiar Haunts, secondo album solista uscito dopo Old Testament. Jason suona questi brani con Trans Van Santos e Dave Mihaly alla batteria, noto soprattutto per il suo lavoro prima con Jolie Holland poi con The Shimmering Leaves Ensemble. Il tocco free jazz dei suoi compagni lo intriga e non fa altro che pensare a questi arrangiamenti quando torna a casa a Los Angeles. Il viaggio in auto da Frisco è tutto un rimuginare su quell'alchimia che ha reso un pezzo come Past the Western Wall un'esperienza unica, dilatata fino a 14 minuti, tra improvvisazioni jazz e la sua ricerca sulla musica tradizionale indiana, una rivoluzione poetica tutta da esplorare. Simon e Matos sono ormai grandi amici (tanto che i Dead Meadow avranno Trans Van Santos in apertura alle loro recenti date europee) e Jason riflette continuamente sulla proposta che Mark gli ha fatto: raggiungerlo a Joshua Tree per le sessioni di registrazione di TVS2. Passa un mese e Simon accetta l'invito. Si presenta agli HI Dez Recordings di Joshua Tree e suona la chitarra nei dieci brani di TVS2. Nelle settimane precedenti, però, ha letteralmente consumato i dischi di Dave Mihaly e gli viene naturale fare una contro-proposta a Matos: re-incidere i suoi brani solisti in trio. Il risultato è Old Mexico, un album registrato tra San Francisco e Los Angeles, nel profondo della California, al quale contribuiscono amici musicisti dei rispettivi progetti solisti. Il tutto registrato live, con pochissime sovraincisioni. Così vengono fuori quella versione magica di Past the Western Wall, il folk struggente di Steller Jay, la psichedelia ammaliante di Black Matador con quel sassofono (di Michael Bello) e quella voce (di Annie Lipetz) che ti penetrano sotto pelle. The Old Ones sembra uscire dritta da Feathers, con le atmosfere rarefatte impiastrate di spirit jazz, mentre Neon Tree è un desert folk gioioso e danzereccio. L'avventura si chiude con la strumentale Madeline Kahn, che suona come un malinconico congedo, di una nostalgia insinuante, come il rimpianto per qualcosa di unico che non si ripeterà. Noi ci auguriamo non sia così. Anzi, speriamo questo respiro possa vivere ancora, magari proprio nei Dead Meadow.   Alessandro Zoppo  
OLNEYA – Olneya
Olneya è il nome dietro al quale si cela Maurizio Morea, compositore e polistrumentista di Rimini che dentro il suo studio domestico ha prodotto questi cinque pezzi che formano il suo primo EP omonimo. Nelle parole dell'autore stesso, si sente che questo lavoro "è stato una vittoria" sulle vicissitudini che spingono molti gruppi a mollare. Ma Maurizio è determinato e caparbio nel raggiungere il suo obiettivo e le canzoni del dischetto dimostrano quanto sia dura ottenere dei buoni risultati. Spinto a fare tutto da solo dai continui abbandoni della sezione ritmica, si è chiuso in casa dando libero sfogo alle sue svariate influenze musicali che vanno dai Karma To Burn (forse il gruppo più vicino alla scrittura del nostro e non solo per l'oggettivo dato strumentale) ai Kyuss, da John Garcia (la finale e ispirata "Zerotre" sembra attendere – impunemente – l'ugola del più grande interprete dello stoner rock) al grunge di Seattle e a tutte quelle band che hanno mescolato sensibilità Settanta con hard dei Novanta.
"Zerouno" e "Zerodue" (anche nella numerazione dei brani Maurizio vuole omaggiare la band di Morgantown) stanno a dimostrare le qualità espressive del nostro anche se, ovviamente, c'è una maggiore attenzione nel produrre buoni fraseggi di chitarra, piuttosto che serrare la sezione ritmica. Ma questi limiti tecnici non scalfiscono minimamente il risultato finale. Passaggio interessante risulta essere anche "Road to Aokigahara", che stacca per un momento il rifferama per buttarsi in una visione onirica e sospesa del deserto. Continua così Maurizio e non mollare mai. Eugenio Di Giacomantonio
OM – God Is Good
Ok, forse non hanno così tanti fan qui in mezzo, comunque “God Is Good” è un disco clamoroso. Non sbaglia qualcuno quando lo definisce il miglior lavoro nella produzione degli Om, non è una sparata o un'iperbole ma una constatazione. Si pensava che il cambio della guardia, in un duo così assodato e collaudato, avrebbe potuto solo rappresentare l'epifania dell'ego cisnerosiano, che probabilmente sarà ancor più invigorito dalle ottime premesse del progetto Shrinebuilder. Ma come diceva qualcun altro, non è stata preso l'ultimo cialtrone disponibile, nemmeno una scimmia o un manichino da crash test. Il sostituto ha delle referenze che sono una garanzia e quella garanzia si chiama Grails, band fenomenale e iperproduttiva (l'anno scorso ha piazzato ben due dischi, differenti ed interessanti entrambi, anche se “Take Refuge” risulta più appassionante di “Doomsday’s Holiday”).Quattro brani, in uno stile che non solo riparte da quanto fatto vedere in “Pilgrimage” ma che ne colma le lacune, mette a fuoco l'Om-pensiero e ne palesa la voglia di sperimentazione e di contaminazione. Come un'ape vola di fiore in fiore, attraversa campi e città, scegliendo il nettare da punti distanti tra loro, così gli Om decidono di sdoganare il loro vecchio stile, che nell'ultimo lavoro aveva mostrato di tendere in alcuni punti alla ripetitività, arricchendolo di nuovi elementi. “Cremation Gath” è l'esempio più eclatante: erano anni che non sentivo la verve della psichedelia e del kraut al servizio del groove. Dire che sia tutta opera di Al Cisneros sarebbe non solo sbagliato, ma anche ingiusto nei confronti dell'incredibile Emil Amos, uno dei batteristi più equilibrati e magnetici in circolazione, autore di una prova eccellente diretto più ad affascinare ed ipnotizzare che scuotere e colpire in volto. E lo stesso Amos è artefice di questo parziale cambio di rotta, visto che l'esperienza dei Grails - soprattutto la loro ricerca di sonorità etnica e mediterranee, che profumano di sandalo e di incenso - si sente ed è anche evidente. Un altro elemento da non sottovalutare è la scelta di abbandonarsi all'uso di diversi strumenti, dal sitar al bouzuki, dal tambura alla scelta di inserire flauti e altri piccoli camei di gran classe. Non a caso questo lavoro è in linea con quest'estetica metafisica e transcendente, spirituale e che ha radici plurisecolari nella storia dell'uomo - non solo nell'occidente cristiano, come appariva più in “Pilgrimage”; qui si rimanda soprattutto alla meditazione e alla catarsi del vicino Oriente - e della tensione verso l'infinito e la presa di coscienza del proprio essere, come pan cosmico ed immateriale. L'altro tasselo fondamentale è la produzione, garantita al limone dal dottor Steve Albini: suoni saturi, corposi e ammalianti, allo stesso tempo suonano figli della kosmische music e del terzo millennio. L'anima prog e krauta di “Meditation” è la sposa perfetta dell'open track "Thebes" (che richiama la valle dei Re egiziana, il fascino misterico e proibito per la cultura della morte e della vita e di come si possa sconfiggere l'eternità), moloch di venti minuti, dove il mantra di Amos accompagna le litanie di Cisneros, elaborando un tappeto di suoni che va ben oltre il binomio basso-batteria. In sostanza “God Is Good” è uno dei migliori lavori nel settore, un nuovo modo di rivisitare la musica in un periodo in cui tutto è (praticamente) già stato detto ed i buoni gruppi si riconoscono dalla loro capacità di riadattare il vecchio con la scissione e la rielaborazione degli elementi vecchi in forme nuove ed innovative. Tra migliaia di gruppi che suonano come i Pink Floyd (nel senso di essere fac-similati e devoti ammanuensi del loro sound), trovarsi dinanzi ad uno che riesce a distanziarsi da loro con carattere ma facendoli immediatamente apparire con l'ascolto, non è roba da poco. Gabriele "Sgabrioz" Mureddu
OM – Pilgrimage
Il gruppo di Oakland, dopo aver abbandonato la Holy Mountain, firma per la Southern Lord Records e si ripresenta con un nuovo disco. Il primo shock è rappresentato dalla copertina, sulla quale campeggia una figura ispirata alla tipica iconografia cristiana (!): considerando però l'attenzione per lo spiritualismo che contraddistingue le tematiche affrontate dalla band, il cui stesso nome è la sillaba Hindu conosciuta come la "vibrazione naturale dell'universo" (e spesso usata come mantra), lo stupore del primo impatto si attenua.Resta tuttavia di “ardua” comprensibilità la scelta grafica. La storica sezione ritmica degli Sleep, Al Cisneros al basso (e voce) e Chris Hakius alla batteria, dopo "Variations on a theme" (2005), "Conference of the birds" e gli split con Current 93 e Six Organs Of Admittance (editi nel 2006), propone per l'ennesima volta la formula stilistica che è divenuta un marchio inconfondibile: reiterazione di pochi riffs di basso, nenia cantilenante di Cisneros, ritmiche cadenzate. Alla produzione, il genio di Steve Albini. Qualcuno potrebbe considerare un auto-affossamento la scelta dei due, ma può anche capitare che l'impressione sia contrastata o si rimanga interdetti: pur basandosi su un canovaccio che è ormai ritrito (non fosse altro che per le svariate pubblicazioni degli ultimi anni, sia pur di breve durata), la musica proposta continua a esercitare uno strano, evocativo fascino. I testi sono generati da riflessioni in merito a "processi della mente, realtà psichica, essenze astrali e causali, e la natura dell'anima" (dalle note di presentazione della Southern). L'album si apre con i 10 minuti e mezzo della titletrack, che può rammentare certe soluzioni ipnotiche e non contorte dei Tool (in "10000 Days") o dei Pink Floyd meno “venduti” e dediti alle canzoncine, rese però scarnificate dall'essenzialità della ritmica (e dall'assenza di chitarra, ovviamente). Il secondo brano "Unitive Knowledge of the Godhead" è più diretto, già a partire dalla durata (meno di 6 minuti), rielaborando atmosfere simili a quanto espresso nei due precedenti studio album: basso distorto (ma sempre le solite poche note), batteria in primo piano, simil-mantra vocale di Cisneros. "Bhima's Theme" (ispirata da un personaggio del Mahābhārata, uno dei due maggiori poemi epici in sanscrito dell'antica India, l'altro è il Ramayana) assume la forma di una summa dei primi due movimenti: inizio simile all'impostazione del secondo brano, intermezzo evocativo che richiama le atmosfere del primo (oltre che il loro picco compositivo, "At Giza", dal precedente "Conference of the Birds") per chiudersi, dopo quasi 12 minuti, con un nuovo passaggio "robusto". Il reprise di "Pilgrimage" pone fine al disco, in una sorta di spirale che ben può rappresentare l'ossessione degli Om per la ciclicità: chiunque cerchi dinamiche complesse, intricate soluzioni ritmiche o semplicemente irruente violenza stia lontano da questi solchi. Chi, invece, può gradire essere avvolto da un suono circolare e ripetitivo, non necessariamente esasperante, troverà un disco che può appagare proprio attraverso la reiterazione degli ascolti. Raffaele Amelio
OMEGA MASSIF – Geisterstadt
Gli Omega Massif sono un gruppo tedesco con all’attivo due dischi, entrambi usciti per etichette del circuito D.I.Y. In tutta sincerità, prima che un mio amico mi passasse il link al sito di questa band, ne ignoravo completamente l’esistenza. Mi è bastato un ascolto per colmare questa grave lacuna e acquistare Geisterstadt. Piccola descrizione della scena: arrivo a casa, sfilo il vinilozzo dalla confezione, lo poggio delicatamente sulla piastra, alzo il volume un poco, e immediatamente un monolite nero come la pece mi atterra tra le orecchie: doom-sludge di quelli più magmatici che non si può, frequenze basse a volontà, quasi che questi ragazzi volessero risvegliare tutti i cetacei del mare del nord. I brani sono lunghi, articolati, arrangiati in modo complesso ma mai virtuosistico. Ciò che ne emerge è un paesaggio sonoro quasi lunare per la desolazione e freddezza che trasmette: come esplorare una terra vulcanica ostile, fredda, senza vegetazione, solo qualche albero secco o bruciato, e enormi monoliti di lava nera. Matteo Castellini
OMEGA MASSIF – Karpatia
"Karpatia", il nuovo attesissimo disco dei tedeschi Omega Massif, si presenta sin da subito come un lavoro ricercato e carico di aspettative. Confezione cartonata con meraviglioso artwork opera di °Hummel | Grafik virato in nero e verde su luoghi notturni e misteriosi, foreste dei Carpazi rimbalzano contro architetture di interni ed esterni che rimandano ad un mondo antico. Un universo perduto che accentua il forte contrasto tra Natura e Cultura, conflitto che anima anche le composizioni del disco. Si prosegue sul sentiero del precedente, bellissimo "Geisterstadt" - uno dei pochi album "post core" ad aver unito negli entusiasmi malati di (sludge) doom, Neurosis, psych e post rock. Si ampliano gli orizzonti con una scrittura raffinata, poetica, ragionata, a tratti quasi drammatica.Andreas Schmittfull e Michael Melchers alle chitarre, Christof Rath alla batteria e Boris Bilic al basso. Formula strumentale non rivoluzionaria. Precisa e ariosa. La tensione è sempre alta, i saliscendi emotivi colpiscono nel segno. I Pelican di "Australasia" - da inserire di diritto tra i capolavori mai ritrovati e ripetuti nel metal dei 'mila, giova ripeterlo ogni tanto - sono uno spettro sempre presente, comodo riferimento per coloro che si trovano costretti a descrivere lo stile di un lavoro. Un fantasma lasciato comunque alle spalle, perché "Karpatia" ha vita propria. Un cuore pulsante che inizia a battere forte nelle ritmiche monolitiche, paralizzanti, grasse dell'iniziale "Aura", i cui riff sono un toccasana in quanto a mix di pesantezza, intensità e groove. Non c'è solo cuore, fatica e pancia. Il cervello si attiva dopo dieci minuti di sbornia: "Wölfe" comprime i tempi con l'indolenza di un riff smaccatamente metallico; "Ursus Arctos" ammanta di nebbia una fuga al ralenti d'antologia, passaggio sonoro che dal doom vira alla psichedelia trovando un'identità essenziale, primordiale. Il tutto senza mai risultare stancanti o stucchevoli, roba non da poco. Le cadenze sabbathiane di "Im Karst" procedono con passi da mammut. Un carrarmato monolitico impressionante che nella title track rallenta e dilata ulteriormente i toni, producendo un ipnotismo ambient che tiene con il fiato sospeso. Fino a sfociare in "Steinernes Meer", liquido saluto che entra nelle vene pian piano, come un batterio che spingerà finalmente il tasto off su dolori e brutture. L'instrumental downtempo ci salverà dal collasso. Con i loro intrecci strumentali gli Omega Massif mettono in musica scrosci di pioggia e sguardi nel vuoto. Poi, il buio. Alessandro Zoppo
Omega Sun – Opium For the Masses
C'era un tempo in cui i Kyuss facevano proseliti e folgorati sulla strada per la Sky Valley, migliaia di gruppi emulavano quel suono magico. Ce n'erano di buoni, comunque stroncati dalla stampa di settore (Dozer e Lowrider su tutti), e ce ne erano di pessimi, subito dimenticati quando ci si rese conto che lo stoner rock non sarebbe mai potuto diventare fenomeno alla moda. Gli Omega Sun da Koper, Slovenia, ci riportano a quegli anni. Il loro esordio, “Opium For the Masses”, potrebbe essere un disco del 1997. Sei brani stoner che più stoner non si può, anche se loro si definiscono mystic fuzz rock. I ragazzi devono avere i santini di Kyuss e Unida in casa, persino la registrazione suona aspra e semplice come quella di Circus e Coyote. Eppure, in questo pugno di canzoni scorre un'energia che raramente è capitato di ascoltare negli ultimi anni a chi frequenta il “genere”. Fuori moda e fuori formato, gli Omega Sun ci consegnano 35 minuti abbondanti di riff pachidermici, wah-wah acidi e fuzz afosi, accompagnati da ritmiche quadrate e vocals che neanche più John Garcia. Fotocopie di un genere appassito, d'accordo. Ma come si fa a non esaltarsi davanti ad un totem come “Despising What You See”, la canzone più stonerosa del 2017. Se “Burn Away” e “Diego” sono panzer giocati in slow play, “Kneel” pigia sul tasto super Sabbath e “No Time to Stay” è l’asso nella manica per scatenare l’headbanging dell'amico perennemente annoiato. Non bastasse tutto ciò, “Masquerade” butta dentro un oscuro feeling grunge con refrain a presa rapida che schiaccia il cervello sin dal primo ascolto. La macchina del tempo degli Omega Sun è così eccitante e gioiosa che gli si perdona anche la copertina a base di gnocca, cannone e funghetti. Paradossalmente, per chi è proprio stufo di occult e sludge da “disagio”, psichedelia fighetta e retro rock, questo disco suona come una boccata d'aria fresca. Follow the smoke and burn away! [caption id="attachment_6051" align="aligncenter" width="598"]Omega Sun Opium For the Masses Omega Sun[/caption]   Alessandro Zoppo  
OMEGALORD – Omegalord EP #2
Philadelphia è il luogo di provenienza di una nuova ed oscura entità chiamata Omegalord. L’ambito di riferimento è il doom, quello duro e puro di gruppi come The Obsessed, Spirit Caravan e Saint Vitus. Tuttavia nelle cinque tracce che compongono l’omonimo minicd d’esordio della band si respira anche una certa atmosfera fumosa derivata dallo stoner rock e alcune partiture così tirate da appartenere all’almanacco del metal. L’originalità non è certo il punto forte di questi cinque ragazzi, ma la carica plumbea che traspare dai brani qui presenti è senza dubbio meritevole di lode: si dimostrano all’altezza della situazione le chitarre granitiche della coppia Deebo e J.Sun, altrettanto corposa risulta la sezione ritmica (composta da Dirt al basso e Deadbrook alla batteria) così come la voce possente ed evocativa del singer The Reverend. Il miglior pezzo del lotto è di sicuro “Beatin’ the dead horse”: il giro di basso iniziale lascia subito il posto a riff asfissianti ed epici, mentre le parti vocali si fanno sempre più melodiche fino ad esplodere nel refrain condito da egregi assoli di chitarra. Per il resto una song come l’iniziale “21st century earth” dimostra tutto l’amore incondizionato della band per i padri Black Sabbath e per sonorità accelerate di chiara matrice metal, sempre con la voce roca del “reverendo” a disegnare lugubri paesaggi apocalittici. “Bury the sun” e “Living in chains” evocano invece le sonorità buie di Cathedral da una parte e Goatsnake dall’altra, con costanti tratteggi inquietanti nelle liriche e ossessivi nelle ritmiche. La conclusione è infine affidata a “Already dead”, song d’impatto che privilegia la velocità travolgente al lento decadentismo. Come biglietto da visita non c’è male, questo debutto degli Omegalord testimonia di una band preparata e decisa, che se in futuro agirà in misura migliore in fase di songwriting saprà certamente far parlare di sé. Alessandro Zoppo
ON TRIAL – Blinded by the sun
Ci sono dischi destinati a restare impressi in modo indelebile nel libro personale di ciascuno di noi,un po come delle piccole pietre preziose che vanno custodite gelosamente in uno scrigno."Blinded by the Sun", ultima fatica dei danesi On Trial è sicuramente uno di questi. Apparentemente può sembrare niente altro che buon sano r'n'r fatto col cuore e con le palle, e nulla più, eppure…se lo si ascolta con attenzione ci si accorge subito che non è "solo" questo. Più lo si ascolta e più ci si rende conto di trovarsi davanti ad un vero piccolo capolavoro. Sin dalle prime note della opening track, che da anche il titolo al disco, l'atmosfera che si respira è quella abrasiva ma allo stesso tempo melodica tipica del garage rock di stampo sixties… l'indimenticabile sound prodotto da band storiche e seminali quali 13th Floor Elevator, Flaming Groovies, Seeds... il tutto mescolato in modo superbo con escursioni in territori più vicini a noi nel tempo… il garage punk di Detroit, la psichedelia groovie dei Fuzztones, le chitarre jingle jangle alla R.E.M. Il disco prosegue su questa ottima strada, lanciato a forte velocità, lasciandosi dietro una scia di suoni graffianti e polverosi, fino al primo arresto… ma solo in senso metaforico… Con "Too Late", infatti, gli On Trial tirano fuori il loro lato più intimista, dimostrano di essere maestri anche in emozione, e ci deliziano con uno splendido episodo più soft, ma senza cadere nel banale e nel melenso... al contrario. Queste sono le vere "rock ballads"... brani capaci di essere struggenti ma "strong". Una citazione particolare merita la bellissima "So Close", sicuramente uno dei momenti più commoventi del disco..una song mid tempo tipicamente sixties, con tanto di arrangiamenti con strumenti a fiati alla Morricone, un omaggio alle storiche raccolte "Pebbles/Nuggets", citate anche da Nik nell'intervista che ci ha rilasciato. Il disco chiude in bellezza con tre pezzi in bilico tra psychedelia e space rock. "Slippin and Slidin", "Kolos" e "Kosmonaut" infatti sono una sorta di viaggio nel cosmo più lisergico ed onirico, con tempi dilatati e atmosfere da trip mentale. Gran finale in tutti i sensi. Il nord Europa si mostra sempre più un crogiuolo incandescente in grado di produrre energia allo stato puro, così come era accaduto alla fine degli anni 80 con la mitica invasione scandinava i cui esponenti rispondevano al nome di Nomads, Creeps, Watermelon Men… Bands come gli On Trial ci dimostrano come la scena rock scandinava sia sempre attiva, viva e produttiva, in netta contrapposizione con il clima e la tipica morfologia territoriale della loro regione…Calore e passione che nasce dal freddo più intenso..un mix decisamente affascinante! The Stoner Witch
ON TRIAL – Forever
Dopo averci regalato lavori meravigliosi come "Head entrance", "New day rising" e "Blinded by the sun", gli On Trial tornano da una momentanea pausa e lo fanno deliziandoci con "Forever". Cambio di etichetta per la band danese, passata con la connazionale Bad Afro. Un trust che porta ottimi frutti dato che il nuovo lavoro è l'ennesima prova di grandezza dei cinque. Quaranta minuti di garage rock psichedelico colorato ed emozionante, nella migliore tradizione targata Love e 13th Floor Elevators. Ma attenzione, c'è qualcosa di diverso rispetto alle precedenti uscite che tanto ci hanno fatto innamorare di loro.Se prima erano melodie immediate e a presa rapida a caratterizzare il sound della band, ora prevale una maggiore cura in fase di songwriting. Gli On Trial sono cresciuti ulteriormente, si concentrano sulla forma canzone, abbandonano anche le lunghe cavalcate psichedeliche per iniettare le loro dosi lisergiche in brani dalla breve durata. Tutto concentrato in un pugno di canzoni dal sublime fascino, frutto di una composizione lenta e matura, meno immediata e più intensa. Lo si nota a partire dall'operner (nonché singolo) "Mountain", song che mette i brividi per quanto è 'vissuta' e ben suonata. È il lavoro delle chitarre di Bjarni e Henrik ad essere protagonista, ben sostenuto nelle ritmiche da Nik (basso) e Anders (batteria). Poi c'è la solita, bellissima voce di Bo a farci sognare mondi fantastici. Gli On Trial sono questi, dolci e soavi ("Speaking of witch", "Black seagull" e "Blood river" rimarranno per sempre nei nostri cuori), psichedelici quanto basta ("Every new direction" e "Morning sun in Burg Herzberg" ci proiettano in universi lontani), aggressivi quando è il momento giusto (ascoltare i fuzz assassini di "Kill city lights" e "Believe" per credere). Ma forse è la dimensione notturna di "Too late too loud" ad essere la vetta del disco, un gioiello che sembra scritto da Leonard Cohen sciolto nell'acido. Insomma, se nel mondo di oggi c'è sempre qualcosa da dimostrare, gli On Trial lo fanno con classe immensa e grande eleganza. Perché sono tra le poche band ad avere cucita addosso la stoffa dei fuoriclasse. Alessandro Zoppo
ON TRIAL – Live
Giunge il momento cruciale del live album anche per un gruppo splendido come i danesi On Trial (anche se un disco dal vivo della band già esiste ma si tratta di “Psychedelic Freakout Party”, doppio edito nel 2001 in edizione limitata). A farlo uscire è la Molten Records, etichetta che sta suscitando molte simpatie tra gli amanti dell’heavy psichedelia per le sue numerose releases dedite a questo tipo di sonorità. E gli On Trial da questo punto di vista non sono certo i primi venuti: da anni ormai ci deliziano con il loro garage psych imbevuto di richiami sixties e folgorazioni lisergiche, ponendosi come i pochi, veri eredi del sound forgiato ormai 40 anni or sono da colossi come Love e 13th Floor Elevators.Questo album dal vivo contiene dodici tracce registrate nella suggestiva cornice di Christiania, comune di Copenhagen dove le parole amore, rispetto ed anarchia non sembrano ancora aver perduto senso. Forse nessun altro contesto poteva far trovare a proprio agio gli On Trial. I brani presentati vivono una nuova, intensa interpretazione, splendendo per brillantezza e capacità esecutiva. In realtà le variazioni sono poche, i pezzi scorrono via che è un piacere, l’unica pausa la concede “Jam”, improvvisazione visionaria che spezza il ritmo creato dal resto della track list. La scaletta infatti è principalmente imperniata sulla produzione recente della band. Cinque brani sono tratti da “Blinded by the sun”, tre da “New day rising” e due da “Head entrance”. Assistiamo così al susseguirsi di perle garage come “Higher”, “Flashing ghast”, “Everything”, “Blood butterfly”, “Sleeper”, “Blinded by the sun” (da pelle d’oca…), fino alla conclusione affidata a “Parchment Farm”. L’esecuzione è impeccabile (voce e chitarre su tutti), il feeling con il pubblico presente sembra magico, la resa non denota alcuna sbavatura. L’unico appunto che si può fare è sulla scarsa presenza di canzoni tratte da “S.K.U.N.K.” e “Head entrance”. Ma è solo una remora che nasce dall’amore che lega gli appassionati di questo genere agli On Trial. In attesa di un nuovo disco ma soprattutto di goderceli dal vivo qui in Italia, “Live” rappresenta un buon antipasto per ingannare l’attesa. Alessandro Zoppo
ON TRIAL – New day rising
Se esiste un gruppo contemporaneo che risulta veramente intoccabile, non c’è alcun dubbio che quest’onore spetti di diritto agli On Trial, sovrani indiscussi della psichedelia, capaci di erigersi addirittura sopra a titani come We, 35007, Natas, Motorpsycho. Sin dal secondo “S.K.U.N.K.” la loro carriera è stata una sequenza ininterrotta di capolavori, che ha contemplato una serie di album da custodire in una teca di cristallo, prova ne è che chi li ha conosciuti solo con il recente “Blinded By The Sun”, ne sia rimasto folgorato a tal punto da affannarsi nel ricercare le altre opere… Se rientrate in questa categoria (ma non solo) posso preannunciarvi che album come “Head Entrance” e “New Day Rising” possono sul serio dare una svolta alla vostra vita musicale, convincendovi che: 1) i pur carini dischi di Warlocks, Kula Shaker, The Music e White Stripes li potete tranquillamente dimenticare 2) quello che avete sempre sospettato, e cioè che l’hard lisergico sarebbe stato così e basta – se a Seeds e 13th Floor Elevators non fosse seguita la rivoluzione copernicana di Black Sabbath, Blue Cheer e Stooges – corrisponde proprio alla realtà. Primo brano, “Flashin’ Ghast”: arpeggio garage-ancestrale su una linea color rubino di hammond, poi voce da semidio gotico e riff smorzati zolfo-caligine: un’agnizione degna di Lovecraft e Walpole. “As If…”: proprio come se Ron Eriksen e i suoi ce l’avessero fatta, senza autodistruggersi, e riuscissero a suonare assieme ai mantrici Monster Magnet di “Dopes…”. “Pot Of Gold”: space stoner rock tiratissimo e dal groove pazzesco, un asteroide di metalli preziosi dell’orbita nugget. “Long Time Gone”: è passato un tempo abissale, ma nelle viscere del sottosuolo ci sono ancora cantine in cui si producono overdosi sonore: maximum electric generator! “Doubt”: la bruma viene spazzata dall’energia orgonica dell’individuo, in questa ballata che ricorda i R.E.M. che furono, ma giù il cappello ai signori danesi. “Cast It Aside”: vi sembrerà di assistere ad un tramonto su un prato di gialle magnolie, salvo poi accorgervi che avete la testa spiaccicata su un sub-woofer. “Sleeper”: soffice psichedelia, per quello che è tra i primi cinque brani melodici del rock di questi anni, una strage di emozioni che non si placa e gira e rigira fino a fondere il lettore, con i vostri occhioni prosciugati e le labbra screpolate. “Do You See Her”: un altro vertice clamoroso, 13Th Floor Elevators + Deep Purple + Iron Butterfly, quelli veri, altro che surrogati. “New Day Rising”: lunga suite che tra vapori aromatici, costellazioni iridescenti e gallerie diamantate, conduce alla vostra ascesi psicofisica, sino al Tempio Atemporale. “Outside The Door”: epitaffio dell’inconscio tra sitar, effetti e voci in sottofondo. Vi alzate, scrollate la tendina e dato uno sguardo fuori. Siete indecisi come al solito se buttarvi nel traffico, farvi una corsetta tonificante o leggervi qualcosa. Stavolta però c’è qualcosa di piacevole nell’anima, non vi succedeva da un po’. Non ditelo a nessuno, ma avete ascoltato un disco degli On Trial. Roberto Mattei
OOPart – OOPart
OOPArt (acronimo derivato dall'inglese Out of Place ARTifacts, «manufatti, reperti fuori posto») è un termine coniato dal naturalista e criptozoologo americano Ivan Sanderson per dare un nome a una categoria di oggetti che sembrerebbero avere una difficile collocazione storica, ossia rappresenterebbero un anacronismo”. Strano come Flavio, Andrea e Valerio abbiano deciso di scegliere questo moniker dato che il loro rock ha tutte le caratteristiche per risultare a posto. Il gruppo romano pubblica questo primo EP di cinque pezzi sulla scia del blues rock psichedelico derivato dagli inglesi anni Sessanta e attualizzato (quindi suonato e prodotto) al 2018. I pezzi scorrono via che è un piacere con un appeal melodico e romantico che potrebbe piacere anche ai ragazzi nel del tutto avvezzi alla rude scena stoner/psych. Il rifferama segue la creatività propria di hard band come Cream, Thin Lizzy, Blue Öyster Cult, ZZ Top (Velvet Blues) e si appoggia su una sezione ritmica compatta ed incisiva. Al canto si alternano Flavio ed Andrea (chitarra e basso rispettivamente) che danno ognuno una sfumatura diversa alle canzoni (espressamente in Cleo’s Kaos, dove il timbro stoner è più evidente che in altre parti). Chiude Tornado, brano che sembrerebbe una song strumentale alla Brant Bjork con sovrimpressione di samples. https://www.youtube.com/watch?v=LliaMXChats   Eugenio Di Giacomantonio  
OPERATOR GENERATOR – Operator Generator
La 12thRecords è senza dubbio un'etichetta valida e promettente in campo doom e heavy psych. Nella sua scuderia trovano posto band di grande valore, tra le quali spicca il nome degli Operator Generator. Anche se il loro debutto risale ormai al 2000, vale la pena recensire questo cd di tre pezzi perché le capacità del quartetto di San Josè sono ampie ed in prospettiva ricche di potenzialità. Scorgendo il booklet (tra l'altro la grafica è stata affidata alle meraviglie psichedeliche della Malleus), balza subito all'occhio la presenza in line up di Thomas Choi, chitarrista noto per la sua militanza in una band ormai storica del panorama stoner come i grandiosi Sleep. Ed è proprio all'ex gruppo di Matt Pike che gli Operator Generator guardano con maggior devozione: i brani partono dalle coordinate sonore di album quali "Holy mountain" e "Jerusalem" e si evolvono lungo sentieri mesmerici e allucinati che uniscono doom, heavy psych e space rock. L'inizio di "Arctic quest" è folgorante: una valanga in piena corsa si abbatte sulle nostre povere orecchie, inondate dai riff pachidermici di Choi e dal martellamento dell'incessante sezione ritmica composta da Anthony Lopus alla batteria e Joe Tucci al basso. Le vocals strazianti e dilatate di Mitchell French aggiungono il tocco finale, come evidente nella successiva "Infinite loop", sei minuti di godimento assoluto, divisi tra feedback stordenti, fumose atmosfere ipnotiche e ossessive ripetizioni che richiamano in pieno gli Sleep, anche per l'impostazione "stonata" data ai testi. Dopo questa sbornia colossale, "Equinox planetarium" ci concede la mazzata finale grazie ad un concentrato di heavy space rock lisergico e tirato, degna conclusione di un quarto d'ora di pura follia sonica, che ha come suo unico difetto il fatto di trascorrere troppo in fretta… Sono ormai due anni che aspettiamo con impazienza un full lenght in piena regola, speriamo che questo 2003 sia l'anno giusto…sarà la volta buona? Me lo auguro proprio… Alessandro Zoppo
ORANGE GOBLIN – Thieving by the grace of god
Gli Orange Goblin sono stati davvero fondamentali nel rigenerare il nostro genere musicale, e paradossalmente sono partiti proprio dal punto più lontano, anticipando gli scienziati della Nasa captando le frequenze di Sedna (ma si chiamerà veramente così il decimo pianeta, o verrà ridotto “solo” ad un grosso asteroide?) nel 1997, e proseguendo con una serie di album che hanno sempre fatto la loro ottima figura. La musica dei Goblin si può riassumere come uno stoner/hard psych dalla spessa corteccia abrasiva che condensa tutte le maggiori influenze degli ultimi anni (doom, hard rock, blues, metal, sludge, southern, psichedelia) in un eccitante organismo musicale, stavolta di particolare durezza. E’ chiaro che per rendere in un’operazione del genere bisogna essere piuttosto ispirati, pena un decorso derivativo e noioso, ma non è il pericolo che si corre con “Thieiving By The Grace Of God”, un album che (come l’ultimo Monster Magnet) decolla alla distanza, e si rischia davvero di rimanere mortalmente ustionati dall’ingombrante astronave preistorica pilotata stavolta dal solo, rocciosissimo (ma valido) Joe Haore, un chitarrista che va rivalutato anche quando non ricalca per forza le gesta di Iommi, Gilmour o Leslie West. La produzione di Billy Anderson rende il loro quinto album un’irrefrenabile macchina bellica, e c’è da dire che è più calibrata rispetto a quella di “The Big Black”, soprattutto perché il livore sonoro non collassa su se stesso, riuscendo piuttosto ad emanare un senso di cruda compiutezza. I reattori vengono accesi con l’ipnotica “Some You Win, Some You Lose”, uno stoner rock possente e fluttuante, che invece di esplodere in facili break si affida alle collaudate strategie hard del gruppo: chitarre taglienti e dense di feeling, solido tappeto ritmico e la consueta voce roca da bluesman in acido di Ward. Lo stesso discorso vale per “One Room, One Axe, One Outcome”, “If It ain’t Broke, Break It”, “Hard Luck” e la caustica “You’re Not The One (Who Can save Rock n’Roll)”, brani molto densi e tirati di stoner-blues, che dal vivo devono far sfracelli. Un ipotetico hit hard è rappresentato invece da “Black Egg” in cui il possente vocalist si alterna ad una femminile voce soul, alla maniera degli altri inglesi di ferro, gli Hangnail. “Lazy Mary” è la figlia legittima (ma stonata) di Cactus, Mountain e Frost, e veramente riuscito è l’heavy-blues di “Just Got Paid” (brano dei ZZ Top), capace di far muovere le chiappe anche ad uno zombie, mentre pesanti come macigni, risultano “Round Up The Horses” e “Crown Of Locusts”, con quest’ultima che si avventura anche in territori sludge-doom. Peccato che in due-tre brani manchi la stoccata vincente, per il resto gli Orange Goblin sono sempre una garanzia. Roberto Mattei
ORANGE MAN THEORY , THE – Riding a cannibal horse from here to…
Il titolo completo del disco d’esordio dei romani Orange Man Theory è “Riding a cannibal horse from here to Clinton, MA”. E Clinton non è l’ex presidente degli USA ma il luogo in cui si trova l’Austin Enterprise, studio di registrazione di mr. Steve Austin, mente geniale (e contorta aggiungiamo) dei Today Is The Day. Già da sola la benedizione e collaborazione di Steve Austin basterebbe per avere un parere positivo degli Orange Man Theory. Quando si mette il cd nel lettore e partono le note di “Merendina will have his revenge on capeside” (titolo geniale) le intuizioni precedenti trovano conferma.Gianni (voce), Gabbo (chitarra), Merendina (batteria) e Remo (basso) sono quattro pazzi. Suonano bene, compongono pezzi dal gran tiro ma fondamentalmente sono dei pazzi. Il che è un bene. È un bene perché il sound del disco è feroce, schizzato, frenetico nei suoi continui cambi di tempo e d’umore. Sfiorano l’essenza del caos questi ragazzi. Ma la confusione non è portatrice di male, anzi. È quella sfera magica attraverso la quale si raggiunge la Verità, la piena Verità. Il cuore di un suono sanguinario e coinvolgente. Hardcore (alla maniera dei Converge), metal (come è inteso da Dillinger Escape Plan e Lamb Of God), sludge (avete presente Eyehategod e Raging Speedhorn?), un tocco di crossover e sonorità malate e disturbanti (chi ha detto Fantomas e Today Is The Day?). Questi sono gli Orange Man Theory, cui è lecito e doveroso aggiungere quel tocco personale, soprattutto nella costruzione armonica, che li rende distruttivi, noisy e al tempo stesso visionari. I suoni sono secchi e taglienti (in tal senso un pizzico di corposità in più non avrebbe guastato), le rasoiate squarciano la carne in vari punti (la gola nel caso di “Merendina will have his revenge on capeside”, il volto quando parte “Where we’re going we don’t need roads!”). Ma la maestria sta anche nel sorprendere con incisive aperture melodiche (“Vampires in the sun”, “Biollante’s dawn”), il sarcasmo della violenza potremmo dire. Eterogeneità che viene fuori soprattutto in altri due episodi: “Vortex of cows into the sweet tornado” ha un riff dal groove stoner sludge blues, roba degna dei migliori Sofa King Killer. Mentre la bellissima title track sintetizza alla perfezione tutte le sfaccettature del disco, l’anima torbida e marcia, quella ironica e il lato groovy, ‘cazzone’ ma con gusto. Un traguardo davvero elevato per un gruppo all’esordio, soprattutto considerando che gli Orange Man Theory hanno ancora ampi margini di miglioramento. Insieme a Last Minute To Jaffna e Laghetto quanto di meglio il panorama più folle ed estremo possa offrire al momento in Italia. Alessandro Zoppo
ORBE – Albedo
Quello che la stampa di settore ha definito "post hardcore" o "post metal" (virgolette necessarie) vive inesorabilmente una fase di flessione. Come quasi tutti i generi etichettati nati e fioriti attorno ad alcuni gruppi cardine (in questo caso Tool, Neurosis, Isis, Pelican, Today Is The Day, Cult of Luna, per fare qualche nome), la riproposizione di stilemi e metodologie - di suono e composizione - si regge su equilibri abbastanza fragili. Non sfuggono alle gabbie di queste classificazioni gli Orbe, giunti con il nuovo "Albedo" (la seconda fase alchemica) al traguardo del secondo disco dopo "Opera al Nero". Un concept album sul mito e le dinamiche che esso costruisce nella psiche e nella tradizione umana. Ciò che salva il gruppo di Arona è la capacità di scrivere canzoni dal gusto piuttosto multiforme. E di registrarle bene, in totale autonomia (la produzione è stata curata da Fabio Recupero e Alex Franzini). Le cinque tracce strumentali che compongono l'album sono ricche di riferimenti inevitabili, tuttavia hanno una loro carica espressiva che denota una certa maturazione. Più compositiva che di stile.L'impatto e la furia espressiva dell'iniziale "Lilith" (la prima donna) sfociano nell'approccio ambient di "Xbalanque" (gli eroi gemelli), dove emerge prepotente la perizia di Andrea e Juri alle chitarre (l'alternarsi di riff e aperture ariose) e soprattutto la capacità delle ritmiche (Fabio al basso, Andrea alla batteria) di costruire un tessuto intricato e jazzy davvero notevole. Una solennità di passo che abbraccia anche la successiva "Amaterasu" (il sole), progressione in slow motion dall'incedere drammatico che ha il solo difetto dell'autocompiacimento. "Sisifo" (l'astuzia e l'assurdo) si fa strada poggiando su derive psichedeliche che la conclusiva "Arjuna" (il puro) abbatte con una ragnatela ossessiva di sfumature ed una coda dilatata. Arricchendo ulteriormente il proprio bagaglio di influenze, gli Orbe possono ambire ad entrare in quella cerchia ristretta di band (leggi Omega Massif, Kayo Dot, Across Tundras, Consciousness Removal Project, Russian Circles) che hanno ancora qualcosa da dire nel sempre più asfittico panorama "post". Da segnalare che il disco è stato pubblicato con licenza Creative Commons ed è scaricabile gratuitamente dal sito ufficiale del gruppo. Un motivo in più per apprezzare. Alessandro Zoppo
ORBE – Opera al Nero
L’Italia si dimostra sempre più terreno fertile per la musica “post”. Mogway, Neurosis e Isis sembrano aver provocato un vero e proprio terremoto nella sensibilità musicale italiana, e senza troppo clamore dall’appezzamento di terra italiano (concimato di continuo da un mainstream di livello ignobile) spuntano band che fanno tirare un sospiro di sollievo.Sempre più spesso, nel frutto dell’underground italiano si sentono gli echi di post-core e post-rock, va meglio che a Sheffield dove i frutti suonano Indie-pop, ma questa fioritura di band “post” porta anche l’effetto “già sentito”. Come riconoscere quindi il valore di un gruppo in questo sovraffollamento di post? Gli Orbe ce ne danno un’idea. Sempre rimanendo nei canoni ormai standard del genere in questo demo si sentono capacità di imbastardire gli standard stessi con idee melodiche e strutturali che suonano naturali ma fresche. Quattro traccie dai 6 agli 11 minuti, con strutture che riescono a non stancare l’ascolto grazie a passaggi (ogni tanto un po’ bruschi, a onor del vero) tra idee ben congegnate. Gli arrangiamenti non sono trascinati fino allo spasimo ma sempre mantenendo l’atmosfera c’è ricambio, cosa difficile nel genere. Tra i 4 pezzi spiccano Aleph e Sinonimi in cui risalta la capacità del gruppo di variare e spaziare tra soluzioni diverse per portare l’atmosfera del pezzo alla luce e farne risaltare ogni sfaccettatura senza fossilizzarsi su una sola idea melodica. L’accostamento ad Isis e Pelican è dovuto, ma con quel pizzico di originalità che rende un gruppo degno d’interesse. Nota negativa ormai di rito per quasi ogni autoproduzione italiana: i suoni. Nella terra dove la professionalità si fa pagare caro ci si arrangia e il risultato sono produzioni casalinghe che pur suonando bene penalizzano non poco la band. Gli Orbe ne sono un esempio lampante, questi ragazzi con la possibilità di espandere i loro suoni non sfigurerebbero affatto di fianco a grandi nomi, l’augurio di riuscire a sfogare degnamente le loro possibilità ci sta tutto. Feferico Cerchiari
ORCHID – Capricorn
È ancora possibile oggigiorno fare una rilettura dei Black Sabbath senza cadere nello scontato? La risposta è si, se a farlo sono gli Orchid, quartetto di San Francisco in giro dal 2006. Dopo due anni dalla loro formazione hanno firmato il contratto discografico con la Church Within ma è soltanto nel 2010 che la band ha esordito con l'ep "Through the Devil's Doorway", gustoso antipasto di quello che ascoltiamo attualmente. Si dicono essere fan di Led Zeppelin, Deep Purple, Pentagram, ma è chiaro fin da subito che l'influenza primaria sia stata la leggendaria band di Birmingham.Ora è finalmente giunto il momento del full lenght dopo ben due anni di gestazione, questo affascinante "Capricorn". Ascoltando il brano d'apertura ("Eyes Behind the Wall") non ci si rende nemmeno conto di essere nel 2011. O meglio, sembra di ascoltare la band di Iommi catapultata ai giorni nostri. Come se il tempo si fosse fermato. La title track poi pare uscita dalle sessions di "Master of Reality". Molto intensa la voce di Theo Mindell (che tra l'altro cura anche l'artwork dell'album): debitrice del primo Ozzy, tuttavia penetrante e convincente, supportata dai puntuali riff della chitarra di Mark Thomas Baker. A proposito di riff, spettacolare quello di "Down Into the Earth" mentre "Cosmonaut of Three" si traveste della narcolessia sleepiana chiudendoci in un vortice sonoro che disorienta e seduce. Ma la ciliegina sulla torta è rappresentata dalla sognante e tenebrosa "Albatross", posta in chiusura, praticamente una sorta di "Planet Caravan" riattualizzata e rivitalizzata per l'occasione. E qui sono brividi che scorrono lungo la schiena. Un disco quindi consigliato ai nostalgici di queste sonorità, a chi è ancora in cerca di emozioni e a coloro che amano semplicemente il Rock, quello con la R maiuscola. Tutto il resto è superfluo. Cristiano Roversi
ORCUS CHYLDE – Orcus Chylde
Da Asschafenburg arrivano gli Orcus Chylde, band che conferma l'ottimo momento che sta vivendo la Germania in ambito retro rock. Basti pensare agli ormai celebrati Kadavar o ai meno noti ma altrettanto interessanti Heat. Gli Orcus Chylde propongono un sound piuttosto vario, di non semplicissima lettura, che passa dal doom dal sapore antico di matrice sabbatthiana al rock più attuale ed occulto affine a band quali Uncle Acid and The Deadbeats. Il tutto è elaborato passando attraverso lidi psichedelici e ricerche sonore che si ricollegano alla gloriosa tradizione prog, accennando persino a toni gothic rock e ad inevitabili sapori heavy blues. Ancora a voler riconfermare quanto i Led Zeppelin abbiano svolto un'infinita influenza sui gruppi più disparati e differenti.L'album è composto da 8 tracce per una durata complessiva di 48 minuti. Gli Orcus Chylde si muovono nei meandri della belle epoque svedese (Norskken, Witchcraft, Graveyard, Abramis Brama), specie nell'approccio bluesy e Settantiano. A ciò aggiungono un tocco doomy ed un approccio misterico. La loro proposta è prog psych e dark doom dalle cadenze blues. Un calderone dove confluiscono Atomic Rooster, Deep Purple, Fields of the Nephilim, Uriah Heep, Curved Air, doom tradizionale, i Rush degli esordi ed altro ancora. Le atmosfere oscure ed ancestrali rendono il risultato ancora più avvincente. Se vi sono piaciuti gli Horisont e "Legend" dei Witchcraft vi ha fatto storcere il naso, ecco il disco che aspettavate. Nel 2012, tra i lavori di maggiore interesse nel genere al pari dell'esordio dei Royal Thunder, con cui – non a caso – gli Orcus Chylde condividono l'appeal occult prog. Antonio Fazio
ORIENT EXPRESS – EP
Anche se con leggero ritardo ci giunge ora il secondo demo dei pugliesi Orient Express, band in giro dal 2001 e molto presente in varie manifestazioni a livello nazionale come l'I-Tim Tour. Questo demo è in realtà un ep di quattro pezzi più una traccia video che è proprio la performance dei tre alla tappa milanese del festival itinerante organizzato da RockTv.Un buon trampolino di lancio dunque, favorito dalla qualità dei quattro brani presenti sul dischetto. La passione per il rock degli anni '70 risulta evidente dall'ascolto, ma Vito (basso e voce), Paolo (batteria) e Gigi (chitarra) non si pongono alcun limite. Ciò che viene fuori è frutto della loro personalità, un eclettismo che rende le composizioni varie e mai banali. Piuttosto sono alcuni vizi di forma (la registrazione da migliorare per far uscir fuori il loro reale talento) a comprometterne la perfetta riuscita. In ogni caso si tratta di un prodotto di pregevole fattura, molto promettente per una band motivata e compatta. Gli Orient Express sono infatti capaci di emozionare e scuotere. "And if" e "Waiting" sono bombe di hard rock tosto e calibrato, un misto di sonorità che impianta le proprie radici nei classici degli '70 (Led Zeppelin e The Who su tutti) e si spinge sino al sound graffiante dei Guns'n'Roses (specie nelle vocals e in certi guitar solos). "On a perfect line" e "Master of mind" cercano invece una via più intimista e psichedelica ai canonici tracciati hard & heavy, ammantando di sensazioni languide una corposa struttura rock. Mentre la traccia video, "Faith", è una ballata notturna dai tratti cupi e romantici che non disdegna toni jazzati e inflessioni improvvisate che lasciano spazio al fluire libero delle note. Buona band gli Orient Express, li aspettiamo fiduciosi al prossimo lavoro. Siamo sicuri che non ci deluderanno. Alessandro Zoppo
ORIENT EXPRESS – Illusion
Debutto convincente ‘Illusion’, opera prima dei pugliesi Orient Express giunta dopo un lavoro di gestazione durato qualche anno. Esordio che ci consegna una band brava dal punto di visto tecnico compositivo, ancora acerba sul piano della personalità. Perché Vito (basso, voce), GG (chitarre), Pabro (batteria) e Blondy (synth) puntano forte sulla fusione di stili: psichedelia, hard rock, grunge, sapori seventies, alternative. Purtroppo perdendo spesso di vista l’obiettivo, l’incisività e la cifra originale dei brani.Detto questo, i dieci pezzi dell’album scorrono via piacevoli. Si passa dal rock dilatato, dimesso, notturno e sognante della title track, dell’iniziale “Eternal Child” e di “Prison Head” al mood stile Radiohead di “Rats Know”. I riff si affilano e si arricchiscono di groove quando partono le note rabbiose di “Madness”, paludose atmosfere acustiche dal taglio southern vengono ricreate da “Ten Drops”, portate a placida calma dalla fluida “First Dawn”. “Hidden Man” è una viva testimonianza degli anni 90, quando Motorpsycho e God Machine erano massime autorità nel campo del rock psichedelico. Chiudono il cd la melodica, affascinante “Today” e “Euphoria”, malinconica evocazione di passioni e amori svaniti. Un disco sinuoso ‘Illusion’, ottima base di partenza per un progetto interessante come questo edificato dai promettenti Orient Express. Alessandro Zoppo
ORIENT EXPRESS – Ten Drops EP
Dopo il convincente debutto “Illusion”, tornano a farsi vivi gli Orient Express. Il gruppo pugliese ci propone questo ep composto da tre brani ed un video. La clip è quella di “Ten Drops”, girata bene e dai colori solari e desertici, proprio come la canzone. Una vibrante composizione dalle atmosfere afose e ‘stagnanti’, tra la psichedelia romantica ed il southern rock. Ottima e convincente è anche la versione acustica del brano, sognante ed eterea. “Faith” è invece un pezzo dal piglio sorprendente: avvio dilatato, tra una vena cantautorale e divagazioni shoegaze; parte centrale psichedelica e conclusione rabbiosa, con poderose ritmiche heavy, deliziosi incroci vocali e un ottimo assolo di chitarra.Gustoso antipasto per il prossimo lavoro degli Orient Express questo “Ten Drops”. Restiamo in attesa. Alessandro Zoppo
ORNE – The Tree of Life
"The Tree of Life". L'albero della Vita. L'albero della Conoscenza. L'albero del Bene e del Male. In molti hanno speso le loro peregrinazioni intellettuali attorno a questo concetto. Molti scrittori hanno nominato così le proprie opere, da Hesse a Alberoni passando attraverso la fantascienza, la narrativa o l'esplorazione psicologica. E non troppo distante è il bellissimo film di Terrence Malick che si interrogava sull'esistenza di un moto vitale tra le generazioni di una famiglia nella stessa maniera in cui le radici nutrono le foglie, sane o malate che siano. Ed è proprio con una voce fuori campo di stampo cinematografico che inizia il secondo disco degli Orne, gruppo nato dalle ceneri dei Reverend Bizarre, e andato ben oltre qualunque più rosea aspettativa. Gli elementi di ossessività e distorta lentezza del bizzarro reverendo hanno ceduto il passo ad un tocco magico ed elegante, sospeso tra strumenti acustici come sassofono, flauto ed organo e il ritmo ossianico dei riff di chitarra. Le canzoni hanno il compito di descrivere un universo finito e a sé stante, degno di reggersi da solo ma in continua contaminazione con il concept del disco."The Temple of the Worm" e "The Return of the Sorcerer" aprono il lavoro con una bellezza incantata ed inequivocabile. Oltre sette minuti ognuna, si snodano attraverso un intro dolce e delicato per deflagrare nel corpo centrale del pezzo e lasciare una scia lucente nel finale. Si ascoltano leggeri ricami di piano Rhodes in cui s'innestano solos di chitarra gentili e mai sopra le righe. La parte ritmica segue le trame e sostiene il tutto con una leggera prevalenza di carattere della batteria. "Don't Look Now" approfondisce il discorso e azzarda qualcosa in più in direzione cavalcata hard rock Settanta con tanto di fantastico assolo purpliano dei tasti d'avorio. E sulle stesse coordinate si apre il pezzo più accessibile del disco, "Beloved Dead", che, a dispetto del titolo, sprizza chiara essenza pinkfloidiana con l'aiuto della sola voce e della chitarra acustica. Il finale è tanto inaspettato, quanto straordinario. La sorpresa risiede nel ritmo sincopato e flower power di "I Was Made Upon Waters", omaggio fin troppo esplicito alla stagione delle grandi band progressive, soprattutto italiane. Tutto finisce come era iniziato, con la voce salmodiante che si fa appendice della conclusiva "Sephira", unica composizione a donare una distorsione di stampo stoner all'intero disco. Leggermente al di sotto dello splendido album d'esordio, "The Tree of Life" si farà ricordare nel tempo per le sue qualità di scrittura ed arrangiamento che andranno oltre il tempo, lo spazio e la nostra stessa vita; d'altra parte Amor Vincit Omnia e questo ci basta per farcene una ragione. Eugenio Di Giacomantonio
ORODRUIN – Epicurean mass
Di recente il mondo del doom è sempre più popolato da nuove entità oscure e misteriose che riportano in auge un sound che molti ritengono datato e privo di reali sbocchi innovativi. Tra i tanti gruppi ad emergere da tale sottobosco cupo spiccano gli Orodruin (con un nome preso in prestito dal "Signore degli anelli"…), band proveniente da Rochester, New York, e giunta al debutto sotto l'egida della sempre più attiva PsycheDOOMelic Records. Va subito detto che il dischetto in questione è un po' difficile da digerire tutto d'un fiato, la complessità delle trame ritmiche ed armoniche dei quattro corre spesso il rischio di annoiare, ma ascolto dopo ascolto vengono fuori spunti apprezzabili e degni di nota. Sono soprattutto gli inserti di tastiere a convincere (basta ascoltare l'organo lugubre dell'iniziale "The welcoming" e l'intermezzo atmosferico della conclusiva title track), donano infatti un tocco gotico a composizioni che si abbeverano alla fonte del doom, riprendendo l'influenza di nomi classici come Saint Vitus, Solitude Aeternus, Cathedral e Candlemass. Chitarre granitiche e compatte, vocals malinconiche ma pur sempre melodiche ed intelligenti intuizioni in fase di songwriting (la paralizzante liquidità di "Peasants lament" o l'andamento epico e commovente di "War cry") sono gli ingredienti di una ricetta plumbea e depressiva, perfetta colonna sonora di un incessante giorno di pioggia. Tracce come "Melancholia" e la splendida "Unspeakable truth", tutta giocata sull'alternanza di riff soffocanti, saliscendi vocali e intrecci percussivi, dimostrano l'abilità di una band validissima, ancora acerba ma già proiettata verso un futuro intrigante e pieno di rosee prospettive. "Epicurean mass" è dunque un disco che non cambierà di sicuro la storia del doom ma che certamente farà andare in brodo di giuggiole chi adora questo tipo di sonorità. Alessandro Zoppo
ORQUESTA DEL DESIERTO – Dos
Mamma mia gente! Questo nuovo album degli Orquesta del Desierto è di gran lunga migliore rispetto al precedente. Suono più raffinato, e composizioni molto più mature. Se vi è piaciuto l'esordio non esitate a fare vostro questo secondo capolavoro. Detto questo, la recensione parrebbe chiusa, ma entrando nel merito di "Dos" ci accorgiamo canzone dopo canzone delle qualità che riesce ad esprimere. Certo, questo disco non è per tutti. Esce un po' fuori dai canoni tipici dello stoner rock. Essenzialmente sono presenti una vasta gamma di strumenti acustici e anche le sonorità si rifanno ad un folk rock con tratti di ritmiche latine ed elementi di psichedelia californiana. Insomma, assolutamente distinguibile! "Dos" si apre con "Life without color". Cinque dei brani presenti in quest'album erano stati recensiti alcuni mesi fa nel promo che ci era stato inviato. Uno di questi era proprio l'opener che già dalle prime note mostra una completezza di suoni di gran lunga superiore. La voce di Pete Stahl ricamata su un tappeto ritmico fatto anche di percussioni è assolutamente deliziosa. "Summer" insieme alla conclusiva "Sleeping the dream" sono il vertice massimo di questo ottimo album. Atmosfere rilassate e avvolgenti, chitarre acustiche, piano e trombe per due perle di rara bellezza. L'evidente maestria dei musicisti che vi suonano cola ad agni nota. Del resto credo che la capicità di gente del calibro di Marione Lalli, Dandy Brown e Pete Stahl sia indiscutibile. Se a questo ci aggiungiamo strumentisti apparentemente sconosciuti ma che mostrano i cosìdetti attributi, capirete il perchè di questa mia esaltante recensione. L'anima rock non viene mai dimenticata, sebbene le influenze siano infinite. "Above the big wide" ci riporta in mente i bucolici Led Zeppelin di "III", mentre l'opera di Mario Lalli si evidenzia maggiormente in "El diablo un patrono", che non avrebbe per nulla sfigurato in un album dei suoi Fatso Jetson. "Quick to disperse" è il deserto! Le note di questo brano sono come la bianca sabbia del Joshua Tree californiano, la slide guitar come 'Santana", il caldo vento del sud California. Questo disco è in assoluto una delle cose più belle che abbia sentito quest'anno. "Dos" evidenzia la bravura tecnica, l'originalità e il piacere di suonare che questi musicisti hanno da vendere in quantità smisurata. Il Rancho de la Luna è già diventato un simbolo della scena desertica. Propongo pellegrinaggi organizzati... Peppe Perkele
ORQUESTA DEL DESIERTO – Five rough mixes
La "desert scene" ha sicuramente il grosso pregio di raccogliere un concentrato di artisti di indubbie qualità tecniche che spesso in maniera del tutto amichevole e trasversale crea i presupposti per la nascita di progetti artistici di rilievo. Una comunità musicale che ci sta regalando un'alchimia di suoni e stili sempre distinguibili in continua evoluzione e votata alla sperimentazione. Gli Orquesta del Desierto non sono gli ultimi arrivati in questo importante fiume linfatico che sta attraversando il genere rock. Già autori di un ottimo debutto nel 2002 si accingono a riproporsi nei prossimi mesi autunnali con un sequel che si preannuncia di pregevole fattura. Impegnati negli scorsi mesi, nella fase di registrazione nei pressi del mitico Rancho De La Luna, sito all'interno del Parco Nazionale di Joshua Tree in California, sotto la super visione di Steve Dandy Brown, nelle veci di produttore e strumentista, attualmente gli Orquesta del Desierto stanno ultimando la fase di mixaggio del nuovo album ancora senza titolo. Senza la carismatica presenza di Alfredo Hernandez alla batteria, sostituito degnamente dal duo Adam Maples e Pete Davidson, dai brani ascoltati in anteprima si può facilmente intuire quanta immensa sia la classe di strumentisti del calibro di Mario Lalli (chitarra - Fatso Jetson), Pete Stahl (voce - Wool, Goatsnake, earthlings?) e Mike Riley (chitarra) con Dandy Brown a giostrare in maniera estremamente versatile con basso, chitarra e organo. A completare la formazione Country Mark Engel alla chitarra, (l'ennesima per un sound acustico veramente avvolgente), Bill Barrett alla tromba e Tim Jones al piano. Cinque i brani ricevuti in anteprima con l'opener "Summer" che ha tutte le carte in regola per essere un potenziale singolo dalle melodie dolci e coretti sospesi con un finale in forte crescendo acido. "Sky Cruiser" ha una possente vena desertica che ripropone la band su linee decisamente più psichedeliche, mentre "Life Without Color" marcia su ritmi latini con la presenza mai invadente della tromba. Il quarto brano "Someday" è forse quello che ha suscitato più dubbi. Di difficile interpretazione rimane comunque un gradino più indietro rispetto alle altre songs, per vena compositiva ed originalità. Nulla a che vedere con "Asleep At The Wheel" dove Pete Stahl mostra le sue armoniche vocali. Il brano rimane uno dei miei preferiti con una conclusione a base di piano e chitarra acustica degna di nota. Il deserto è sempre più con noi! Peppe Perkele
ORTHODOX – Grand Poder
La pesantezza, nella sua forma di macigno che occupa il tempo e la mente. Una presenza continua, oppressiva, che detta la strada al delirio. Una forza che in molti modi rapisce. Questo racchiude il debut degli Orthodox, band spagnola che si candida a grande sorpresa del 2006. In questo "Grand Poder" (in italiano "grande potere") è sintetizzato quel che vuol dire creare musica pesante oggi, pesante fisicamente grazie ai suoni intensi; pesante "a pelle" grazie ai riff devastanti e implacabili; pesante mentalmente grazie alle atmosfere che rapiscono e non lasciano scampo tra un lento progredire di chitarra e un ipnotico solo di batteria. In questo disco è racchiusa abilmente ogni tipo di influenza di stampo heavy e in particolare doom.L'inizio della prima lunghissima traccia fà saltare alla mente subito gli Sleep di Jerusalem con il suo evolversi su un riff spezzagambe. Poi i nomi che vengono in mente sono High on Fire per le graffiate di stampo thrash e contemporaneamente i Melvins per il ruolo e l'andamento trascinante della batteria. Senza dimenticare il drone, che riaffiora in più di un passaggio dove le melodie e i suoni vengono lasciati marcire nell'oscuro. Il tutto con qualche abile tocco personale e invenzione che danno freschezza alle composizioni. Il secondo pezzo, "Arrodillate ante la Madera y la piedra", unisce l'ipnotismo di un giro di basso ripetuto ed accolto dalla chitarra ad un assolo di batteria fuori controllo. Il risultato è un viaggio nella follia di un comandamento ripetuto fino al suo nonsenso. Il tutto non può che sfociare in una ripetizione sempre più imponente dell'accordo dominante, nella più sana tradizione drone. Un piccolo intermezzo melodico, che riporta alla realtà, ed ecco che ancora una volta la potenza di un movimento sonoro ci riporta al pensiero pesante nella traccia che chiude il disco. "El lamento del cabrón" ha un andamento più classicamente doom: riff che hanno una grande forza trascinante, accellerazioni e cambi che si alternano tra gli Elctric Wizard e lo sludge fino ad arrivare ad echi di Cathedral in tunica di basse frequenze. Tutto questo in 9 minuti di potenza nella forma di energia. Potenza che invece si manifesta nei restanti 7 minuti sotto forma di statica psichedelia e pesanti colpi sonori. In conclusione questo Grand Poder è un disco in cui le influenze più varie si fondono con la creatività e la personalità di questi 3 spagnoli. Mantenendo l'ortodossia verso i canoni della musica hevy contemporanea gli Orthodox riescono a muoversi abilmente nel genere dando una spinta dall'interno al doom, consolidando e dando peso alle sperimentazioni estreme in un lavoro ben calibrato e ben composto. Federico Cerchiari
OSSIMORO – Corvi Nel Cielo Spento
Altra realtà attiva nella capitale (sin dal 2002) sono gli Ossimoro, autori di un heavy rock che pesca un po' da tutte le varie diramazioni a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni, perciò ecco susseguirsi 9 brani di discreta e buona fattura fatti di stoner, doom, wave rock '80 e alternative-grunge, che creano una sensazione di compattezza più che accettabile, dovuta soprattutto al lavoro chitarristico di Federico che ricorre a riff post-sabbathiani, oltre che a partiture più propriamente metal o rock a seconda dell'evenienza. Anche la sezione ritmica fa il suo dovere, così come la voce di Francesco riesce complessivamente nel non facile intento di arrangiare il cantato nella nostra lingua con liriche decadenti e non banali.Il risultato di "Corvi Nel Cielo Spento" (che arriva dopo due demo) non è propriamente eccelso, ma sicuramente ascoltabile e piacevole, soprattutto in virtù delle capacità dei singoli componenti, che puntano al sodo con una certa dose di feeling, fattore tipico di musicisti meritevoli. "Idoli di Paglia" deve molto ai Soundgarden rafforzati da rifferama doom, così come "Scimmie Di Dio" sembra sospesa tra alternative rock e Trouble. In "Immaginazione" e "Diva" la musica del destino si fonde con dura wave rock (soprattutto i Diaframma), ed oltre ad accelerazioni metalliche spiccano atmosfere in bianco e nero che incutono brividi sottocutanei. "Maschere" e "La Nona Porta" hanno un incipit vagamente progressivo anche se in realtà si tratta di canzoni heavy dai toni ruvidi, influenzati da Alice in Chains e Metallica (periodo hard). "La Città Dorme" e "Schiavi del 21. Secolo" sono i brani più sintomatici: linee compositive senza sfilacciature sospese a metà tra Solitudine Aeternus e Stone Temple Pilots (!), così come "I Miei Eroi" è un cupo metal/rock in parte ribassato e in parte arioso, e in questa alternanza il gruppo pare sentirsi a proprio agio, senza troppi fronzoli. Gli Ossimoro intraprendono una strada personale e dal cammino non proprio semplice: i frutti più succosi devono ancora maturare, ma nel frattempo questo primo album puo' tranquillamente essere ascoltato in una campagna autunnale tra flussi di coscienza e solitudine interiore. Roberto Matte
OSTINATO – Chasing the form
Il nome di David Hennessy non suonerà nuovo a tutti gli appassionati di doom e psichedelia heavy. Infatti è stato batterista al servizio del mito Scott ‘Wino’ Weinrich nel suo nuovo progetto The Hidden Hand. Qui Dave torna alle proprie origini e imbracciando la chitarra in compagnia di Jeremy Arn Ramirez (basso) e Matthew Clark (batteria) dà vita al nuovo album della band madre, gli Ostinato. Il gruppo è attivo dal 1997 e giunge al terzo disco dopo il debutto “Unusable signal” e l’acclamato “Left too far behind”.
OTHER SIDE OF THE SKY, THE – Rorschach
Post doom rock. Sembra che negli ultimi tempi questo genere (che è poi una miscela di più generi) sia molto in voga fra i giovani musicisti, probabilmente affascinati dal suonare un sound ipnotico ed allo stesso tempo pesante. Questi The Other Side Of The Sky propongono all’incirca la stessa musica interpretata già abilmente da gruppi come Pelican, Isis, Obiat e Callisto, ovvero un incontro fra la liquidità della musica post rock e la lentezza/pesantezza tipiche del doom. Forse questo quintetto americano ha un retaggio sludge, dato il cantato aggressivo del singer Paul Weeks (comunque quasi totalmente assente, il 90% delle composizioni è interamente strumentale), ma probabilmente i nostri hanno in seguito subito il fascino della musica post e hanno deciso di dedicarsi ad essa, con risultati eccellenti.“Rorschach” è infatti uno dei migliori dischi usciti nel (sotto)genere, un’infinita lava incandescente di liquide sonorità psichedeliche immerse in un pesantissimo mantra sonoro. Le chitarre si aprono spesso a ‘vortice’ richiamando di continuo l’immortale stile shoegazing, spaziando con disarmante facilità da toni soffusi/onirici a bordate ultra heavy in puro Sleep/Electric Wizard style; l’iniziale “No compromise” basterà a confermarvi quanto detto. Citiamo anche “Street ethics”, un anthem che nessun altro era riuscito a fare finora e che rievocherà in voi le stesse desertiche visioni che solo i Kyuss erano in grado di sprigionare. La seguente “Harlem” è invece ciò che sarebbero gli Slowdive (i re dello shoegazing) ai giorni nostri, potenziati al massimo. Assieme agli Obiat, questi The Other Side of The Sky rappresentano la miglior sorpresa post doom rock degli ultimi anni: chi adora queste sonorità troverà in loro infinite emozioni. Marco Cavallini
OUROBOROS – Floating high
Bologna si conferma la rock city italiana e lancia l'ennesimo gruppo nell'orbita hard & heavy. Stavolta si tratta degli Ouroboros, band di formazione recente che sembra già avere le idee chiare su cosa proporre e come suonare. I tre pezzi che compongono questa demo sorprendono infatti per la loro originalità e per la loro compattezza. Peccato per qualche sbavatura in fase di registrazione, ma per essere un primo passo le qualità ci sono tutte.Michele (chitarra), Flavio (voce), Giacomo (basso) e Riccardo (batteria) sono bravi nell'elaborare una forma ossessiva, 'trippy' e contorta di heavy grunge psichedelico. Come se Voivod, Kyuss, Melvins, Soundgarden e Tool viaggiassero insieme nel cosmo alla ricerca di una verità sonora assoluta. Ritmiche impazzite quindi, riff slabbrati a dovere, vocals intense e sofferte. Tutto questo sono gli Ouroboros e l'iniziale "Interstellar gasoline" rappresenta in pieno il loro eclettismo. "The ark of Babel" poggia invece su un groove onirico e delicato, stoner rock nell'accezione più ampia possibile del termine. Mentre "The snake" è puro metal psichedelico, di ascendenza Tool: cupo, elaborato, oscuro, magmatico. Un vortice nel quale ci si lascia andare con grande gioia… Davvero bravi gli Ouroboros, serpenti spaziali che volano molto molto alto. Alessandro Zoppo
OUTOPSYA – Sum
“Sum” non è un disco semplice, bisogna metterlo in chiaro sin da subito. Allo stesso modo non è uno di quei dischi che solitamente trovate recensiti su Perkele.it, e capirete presto il motivo. Il progetto Outopsya (Out of Psychical Activity) è senza dubbio qualcosa di coraggioso e peculiare, vuoi per la complessità della proposta, vuoi per la formazione alla base: un trio di cui solo due componenti sono umani, mentre il terzo è un ammasso di componenti logiche e meccaniche, un vero e proprio musicista cibernetico noto come Mr Pc. La mente creativa dietro tutto ciò è Luca Vanini, chitarrista dotato di ottima tecnica e validissimo polistrumentista, che si avvale della collaborazione di Evan Mazzucchi, bassista di ottimo livello con un'impostazione a tratti crossover e funk.Iniziare ad elencare le influenze e le coordinate musicali potrebbe apparire pedante e superfluo, visto che le canzoni sono davvero eterogenee e spaziano tra i generi più disparati. Forse l'etichetta migliore è quella di progressive sperimentale con elementi elettronici e metal, anche se spesso l'accostamento progressive e metal fa storcere il naso e correre la mente alla tecnica, agli assoli da un quarto d'ora ed alle pere che uno si fa chiedendosi perché sia necessario suonare in 16esimi quando il 4/4 sia più che sufficiente per spaccare tutto. Pregiudizi sbagliati, perché il lavoro degli Outopsya va ben oltre la mera manifestazione di una grande capacità tecnica, che comunque sia è alla base di tutto. Quasi un'ora di musica, divisa in otto tracce dove, tra voci effettate e l'apporto di collaborazioni femminili (la voce dell'eterea Ylenia Zeniatti nei brani “Mothal” e “Don't Mind”) si cerca di descrivere galassie e universi sfaccettati. I brani, dalla lunghezza corposa, alternano momenti vibranti ed energici, ricordando ora Devin Townsend, Steve Vai, Dream Theater (ma non c'è nulla di eccessivamente prolisso e barocco), ora i Cynic ed i Tool (questi ultimi per alcuni riff, come nella seconda traccia). Un interessante e intrigante viaggio tra miliardi di sfumature e suoni, che potrà sicuramente piacere a chi apprezza le composizioni sperimentali e dal piglio quasi avanguardistico, arricchite da atmosfere elettroniche e spaziali (“Mechanical 7”), tra i King Crimson della fine dei 70 e i deliri del kraut rock. “Sum” è un'opera che mette in luce le grandi capacità compositive e musicali del trentino Luca Vianini, ma non è un disco accessibile a tutti. Anche se “Mus” e “Tarred Life” non sfigurerebbero in qualche djset pre e post-concerto. Gabriele “Sgabrioz” Mureddu
OVERMARS – Born Again
A due anni dall’uscita dell’esordio su lunga distanza, gli Overmars danno alle stampe un’opera intrigante - dal titolo “Born again” - rilasciata dalla piccola etichetta francese Appease Me.Se “Affliction endocrine… vertigo” era una valida ma altalenante rielaborazione degli stilemi del post-hardcore (se esistono e perché esistono…), con puntate nella new wave dei Cure (i 5 episodi/intermezzi intitolati “Destroy all dreamers”), questo nuovo album assume la forma di un’unica traccia, di non immediata assimilazione (ma sia chiaro: siamo lontanissimi, per impostazione ed esecuzione, dall’estrema esasperazione di dischi “d’avanguardia” come “Delirium Cordia” dei Tomahawk o “Ov” degli Orthrelm). Metabolizzare i 39 minuti e rotti di affronto sonoro che compongono l’ultima fatica del sestetto di Lione risulta comunque una operazione abbastanza ardua, considerata l’ossessionante lentezza che pervade e caratterizza il disco, avvicinandolo a lidi prossimi al doom. Le componenti: sezione ritmica assestata su un incedere marziale, chitarre che si muovono tra riffs malefici, voci maschili in growl (ma in diversi momenti sembrano avvicinarsi a una versione grezza delle soluzioni “rabbiose” dei maestri Von Till e Kelly, con ascendenza prevalente di quest’ultimo) alternate a un recitato/urlato isterico femminile (in alcuni frangenti può far immaginare una versione molto edulcorata e non barocca dei vocalizzi architettati dall’insana Jarboe), oscuri e non invadenti inserti di elettronica. Il disco merita un ascolto attento: potrebbe riservare soddisfazioni a chi brama un’esperienza sonora di lacerante attenzione e/o adora atmosfere che possono ricordare (con le inevitabili e incolmabili differenze in termini di spessore e coinvolgimento, ça va sans dire) gli Swans più misantropici e intransigenti o passaggi come la prima parte di “Enclosure in flame” dell’immenso capolavoro “Through Silver In Blood”, per quanto i riferimenti concettuali ai Neurosis siano percepibili durante l’intero disco e non riconducibili ad alcun particolare brano del seminale gruppo di Oakland. Il testo tratta di un sofferto processo di “caduta” e trasformazione catartica definita come rinascita: da qui il titolo. Non c’è molto da aggiungere, gli Overmars puntano a destabilizzare l’ascoltatore, a partire dagli occhi del simulacro di uomo che erompe dalla copertina. La sommariamente descritta struttura del disco potrebbe nuocere al giudizio o essere uno sprone a continuare nel confronto con le sue coordinate stilistiche: a voi la scelta, ricordando però (se ce ne sia necessità) che accontentarsi della confortevole dicotomia nelle posizioni - rigetto o accettazione - non è sempre la strada più semplice per cercare di comprendere… Raffaele Ameli
OVO – Crocevia
Tornano i terroristi del suono Bruno Dorella e Stefania Pedretti alias gli Ovo. Dopo una serie di concerti un po’ ovunque e cinque album danno alle stampe a due anni di distanza da “Miastenia” questo nuovo lavoro, “Crocevia”, che segna un cambiamento, anche se non radicale, rispetto al passato.Registrato nei mitici studi Seizure Palace di New York, dove in passato sono stati ospiti nientemeno che Naked City, Sonic Youth, Unsane, Swans, l’album inizia in maniera violenta con la convincente “Ostkreuz”. E’ un suono compatto, crudo ma forse meno distruttivo a quanto sentito recentemente dal duo. L’aspetto noise viene (in parte) assorbito da una foga hardcore comunque sempre carica di un pessimismo che diviene sofferenza. Prova ne sono “Croce del Sud” in cui la seppur minima speranza nel futuro viene a cadere e “Case bruciate” che si muove sulla scia della precedente. La voce (?) è un rantolo di disgusto senza ritegno che si inserisce in un caos sonoro (in)controllato. Risulta altresì difficile trovare parole per esprimere ciò che fanno realmente gli Ovo; potremmo parlare di una forma di grindcore o art punk futurista (come nella schizzata “Tiki 2020) oppure ambient doom nella conclusiva “Via Crucis”, forse il pezzo che si distacca maggiormente con il passato mentre nell’ambiziosa titletrack, il drone dei SunnO))) viene preso a lezione e successivamente ricoperto da tonnellate di rumore al limite del collasso nervoso. Ma al di là di tutte le etichette che si cercano per descrivere le gesta del gruppo (o forse è meglio dire progetto?) siamo di fronte ad una delle realtà più intriganti e complesse degli ultimi tempi uscite dalla cosiddetta scena sperimentale di casa nostra. Questo è quanto. Un disco consigliato ovviamente a chi già conosce la “materia” e a coloro che coraggiosamente vogliano esplorare nuovi territori confinanti con l’estremo. Si astengano gli altri. Cristiano "Stonerman 67"
OXYGEN DESTROYER – Umaninferni
L'immaginario dei genovesi Oxygen Destroyer si nutre di diverse suggestioni. Partendo da Godzilla (il nome della band è quello dell'arma che uccideva il fantastico mostro nel film del '54) per giungere a Lucrezio e Rimbaud. Un impasto mistico esoterico che ben si lega alla musica che ci viene proposta dai quattro (ai quali consigliamo vivamente di usare i propri nomi: Horror Vacui - voce -, Caino - chitarra -, Sandman - batteria -, David - basso -). "Umaninferni" è un concept su bene e male, declinati oltre i soliti canoni manichei. La materializzazione di un inferno privato, tutto interiore, è ciò cui tende il progetto Oxygen Destroyer. Un demone da affrontare in piena libertà artistica per ottenerne totale superamento e liberazione.Gli elementi da elaborare diventano in questo senso quanto mai magmatici. Si incrociano passato e presente nel sound degli Oxygen: il prog italiano più oscuro e teatrale (Balletto Di Bronzo su tutti); la rilettura esoterica operata da band tanto care all'etichetta genovese Black Widow come Malombra, The Black e L'Impero Delle Ombre; il doom ossianico e roccioso di capisaldi come Trouble e 'pargoli' di scuola Hellhound come Unorthodox, Penance e Count Raven. Ne viene fuori un lavoro articolato, intrigante, ben scritto e suonato, con qualche problema solo nella pulizia e nella composizione dei suoni, sui quali si dovrà lavorare in futuro. Vocals inquiete e sentite (come non pensare a Demetrio Stratos, il primissimo Piero Pelù e Mercy) poggiano su ritmiche possenti, sfruttate in pieno dall'ottimo lavoro delle chitarre, sia in fase di riffing che solista. "Intro" e "Lucrezio" aprono e chiudono in maniera circolare il disco. Nel mezzo troviamo lo psycho doom lugubre ed evocativo di "Ferro feroce", la lenta, sulfurea e sofferente "Configurazione del dolore" o il lungo, atmosferico e lancinante mantra 'doomedelico' di "Speculum". "Opera cremisi" accentua la componente groovy giocando su una struttura tirata trainata da riff selvaggi in pieno stile Cathedral, mentre la title track è una cavalcata ipnotica che travolge in un inquietante gorgo buio. Lasciarsi trascinare è un piacere per cuore e orecchie. ci vengono a mente le vie della luna e del sole allora un'angoscia sepolta dagli altri dolori nel cuore comincia a destarsi e anch'essa a levare la testa Alessandro Zoppo

Categoria: Recensioni

“OOPArt (acronimo derivato dall'inglese Out of Place ARTifacts, «manufatti, reperti fuori posto») è un termine...