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Yawning Man – Rock Formations
Il nome Yawning Man suonerà sconosciuto ai più, non certo agli appassionati (completisti e sfegatati) delle sonorità heavy psichedeliche. Chi ha letto biografie e interviste a Kyuss e Queens of the Stone Age sa bene che l’influenza di questo misconosciuto gruppo sulle due fondamentali band capostipiti dello stoner è stata decisiva. Non a caso Josh Homme, Brant Bjork e John Garcia da ragazzini passavano serate intere ad ascoltare (oltre i gruppi punk hardcore di allora e i famigerati Across the River) questa formazione composta da Gary Arce, i fratelli Mario e Larry Lalli (i Fatso Jetson vi dicono qualcosa?) e Alfredo Hernandez (guarda caso batterista su “…And the Circus Leaves Town”). Un’esperienza passata troppo in fretta quella degli Yawning Man, iniziata nel 1986 e conclusasi pochi anni dopo (la spagnola Alone Records ha già annunciato un doppio cd, “The Birth of Soul Music”, contenente il vecchio materiale del gruppo). Ora i tre si ripresentano (non c’è più Larry ma solo Gary Arce alla chitarra mentre Marione si sposta al basso) con un album nuovo di zecca, composto da dieci canzoni interamente strumentali. Quando il disco parte ed iniziano le note della title track si è trasportati in un universo visivo unico: il deserto del Mojave. I party a base di rock e generatori, la genuinità della gente che vive ai margini della società, la spontaneità di una musica senza canoni e confini ben definiti. Tutto questo è “Rock Formations”, un lavoro che suona come un incrocio lisergico tra il desert rock attuale (Fatso Jetson, Orquesta del Desierto e Desert Sessions i nomi cui fare riferimento), quello passato (leggi Thin White Rope e Green On Red) e delle suggestioni di cui devono esser rimasti vittime i tre dopo aver ascoltato certe colonne sonore di Ennio Morricone. La bellezza di brani come “Perpetual Oyster”, “Airport Boulevar” e “She Scares Me” è accecante: le chitarre sono distese e placide, le ritmiche sussurrano movimenti armonici e delicati. Sembra di essere sdraiati su una sedia a dondolo durante una calda notte d’estate a Lone Pine, il vento soffia leggero e gli Yawning Man deliziano con la loro musica sognante, tenera, dilatata. Di rock ce n’è poco. Dunque questo dischetto potrebbe non piacere a tutti. Ma per chi saprà immergersi nelle soavi note di “Rock Formations” le soddisfazioni saranno molte. D’altronde basta ascoltare il drumming di Fredo Hernandez su “Stoney Lonesome” e “Sonny Bono Memorial Freeway” per restare estasiati e rivivere la gioia di tempi ormai passati.   Alessandro Zoppo  
Yawning Man – Live at Maximum Festival
Hanno fatto bene i ragazzi della Go Down Records (Leo e Max, che si sbattono per promuovere il verbo heavy/desert/psych/garage nella penisola) a dare alle stampe il live degli Yawning Man al Maximum Festival del 2013. Quest'anno il fest è arrivato all'ottava edizione e il palco nel tempo ha ospitato Ufomammut, Gorilla, OJM, The Bellrays, Nebula, Brant Bjork, Namm e molti altri, segno di una direzione artistica puntata sull'asse della qualità. Il disco in questione è stato registrato in presa diretta nel corso della sesta edizione, quella del 2013, e ci mostra una band in stato di grazia. Per chi non ne fosse a conoscenza (in tal caso avete sbagliato sito), gli Yawning Man sono il gruppo di Gary Arce, artista fondamentale nel piantare i semi della desert music nella metà degli anni Ottanta, insieme ad uno sbarbato Mario Lalli (Fatso Jetson), al fedele Alfredo Hernandez (Kyuss, Ché) dietro le pelli ed al fratello di Mario, Larry Lalli. Talmente imprescindibili che gli stessi Kyuss tributarono loro il giusto riconoscimento rifacendo "Catamaran" (prima di allora mai incisa, se non in qualche bootleg durante i generator party) nell'ultimo album, "...And the Circus Leaves Town". Negli anni il buon Gary non ha lesinato il suo stile in progetti bellissimi e sconosciuti (Yawning Sons, Dark Tooth Encounter e gli ultimissimi Zun, con un certo John Garcia alla voce: vi dice qualcosa?) ma è quando si esprime negli Yawning Man che si ottengono musiche celestiali. Il set parte con "Rock Formations", titolo e brano d'apertura del loro disco d'esordio e si procede con l'acceleratore premuto di "Stoney Lonesome". Poi, l'incanto. La parte centrale si liquefa nelle stupende, assolate, pigre e sorridenti "Perpetual Oyster" e "Manolete", composizioni talmente organiche e ben assemblate da sembrare una suite ispirata a dune, cactus e tramonti di Palm Desert. "Ground Swell", dal secondo e ultimo album "Nomadic Pursuits", dà gas al motore e si sentono le bordate del vecchio Marione al basso. Il pubblico gradisce e urla contento. Il finale di "Dark Meet" riprende il filo rilassato della parte centrale dello show, facendo perdere tutti gli astanti in una visione onirica delle loro fantasie erotiche. Per chi non ha assistito, giusto e doveroso compendio. La prossima volta che suoneranno in Europa, un unico dovere: raggiungerli e vivere con loro questa relazione, questa grazia. https://www.youtube.com/watch?v=iBt0wmusdAw

Eugenio Di Giacomantonio

Yawning Man – Live at Giant Rock
È qualcosa di profondamente diverso da un qualsiasi live album questo nuovo disco degli Yawning Man, intitolato Live at Giant Rock. Non perché non sia stato suonato dal vivo, tutt’altro. Perché la sensibilità di Gary Arce e Mario Lalli, con tutto il rispetto di questo mondo, non è stata mai come quella dei loro colleghi, anche i più illustri. Ne sono una prova le loro rispettive band e tutti i progetti paralleli in cui hanno messo lo zampino. Non un live album si diceva, perché, in primis, i pezzi sono tutti originali, cosa che fa diventare questo lavoro qualcosa di sostanzialmente diverso dal Live at Maximum Fest, edito qualche tempo fa dalla Go Down Records. Inoltre, a corredo della traccia vinilica è stato pubblicato un documentario sull’evento diretto da Sam Grant, ma, ancora una volta, il film non presenta fan scapoccianti sotto e sopra al palco, bensì i nostri tre sperduti nel bel mezzo del deserto del Mojave, in totale solitudine. Luogo caro ai nativi americani, il deserto californiano si presenta come un ambiente spirituale adatto a raccogliere la delicatezza delle composizioni degli Yawning Man, alla stessa maniera di Pompei con i Pink Floyd. Un luogo dell’anima, dunque. Così Mario, Gary e il batterista Bill Stinson si lasciano accarezzare da questa esperienza tirando fuori un sound più rilassato e diluito. Non c’è nessuna fretta nel cuore dei nostri, solo un lasciarsi cullare nel flusso sonoro e farsi trasportare nella quarta dimensione. Il minutaggio tende ad allungarsi e nel caso dell’iniziale Tumbleweeds in the Snow arriva a sfiorare i quindici minuti. Protagonista, giustamente, la chitarra di Arce, qui più malinconica e rarefatta. Non è stato mai un riffmaker alla Angus Young, certo. Ma in questa occasione tende quasi ad eclissare la sua persona, con tutti gli automatismi e le caratteristiche, per far uscire il corpus vero e proprio dello strumento. Anche di più: della musica. Tutta, in generale. Esperienza impossibile, direte voi. Ma se prestate attenzione a quello che suona e, soprattutto, a quello che non suona, mi darete ragione. Le composizioni degli Yawning Man davvero non sai mai da dove vengono, dove vanno e cosa porteranno con loro. È un’esperienza fuori dalla logica. È un’esperienza escapistica. Unico rimpianto, quello di non essere stati con loro in questa meraviglia. Fortuna che abbiamo il DVD, almeno a darci una sparuta idea di quello che è stato. https://www.youtube.com/watch?v=Y_MD_nHThaY

Eugenio Di Giacomantonio

Yawning Man – Long Walk of the Navajo
È sicuramente l’album più astratto degli Yawning Man, questo Long Walk of the Navajo. Una stupenda planata tra i cieli di Joshua Tree, senza limiti o prescrizioni, lasciando andare una volta per sempre la forma canzone. Basta guardare la tracklist: tre pezzi per un totale di 38 minuti ed il gioco è fatto. Da segnalare il rientro in formazione di Billy Cordell al basso, che prende il posto dell’amatissimo Mario Lalli (accanto ai soliti Gary Arce e Bill Stinson), e l’avvento di Steve Kille (Dead Meadow) in cabina di regia. Long Walk of the Navajo è appunto l’album più astratto degli Yawning Man, ma a ben vedere la definizione può essere perfezionata: è un lavoro art rock tout court. La title track, posta in apertura, è l’emblema del disco, con un Gary Arce ispirato come non mai, pronto a far scrosciare sull’ascoltatore un effluvio di note riverberate. Quindici minuti in cui il nostro tesse la trama visiva per raccontarci appunto il lungo cammino dei Navajo, veri nativi d’America, di stanza nell’Arizona settentrionale. La successiva Respiratory Pause segue le orme del brano iniziale con i suoi tredici minuti e mezzo di svolgimento e qui, come recita il titolo, galleggiamo su sonorità sospese ed evanescenti che tendono a disegnare un paesaggio onirico, ricco di colori psichedelici. Il finale (un pezzo nato spontaneamente in studio, rivelano note dei credits) è una cosa che non ti aspetti dagli Yawning Man, almeno da quelli classici di un cult come Rock Formations: feedback e distorsioni in sottofondo minano la quiete dei fraseggi melodici, tingendo l’aria con qualcosa di oscuro e sinistro. La sabbia è diventata colore rosso sangue. Gli Yawning Man sono una religione e quindi non resta che obbedire alla splendente bellezza delle loro composizioni. Per ascoltatori lontani dal desert rock, questo album, così libero e senza schemi, potrebbe essere un percorso difficile e scostante. Sicuramente è da considerarlo in coppia con l’altro di imminente uscita, Volume One del progetto battezzato Yawning Balch per la presenza, insieme ai nostri, di Bob Balch, glorioso chitarrista di Fu Manchu e Big Scenic Nowhere. L’edizione in vinile di Long Walk of the Navajo è disponibile sul sito di Heavy Psych Sounds Records. https://www.youtube.com/watch?v=37fWl6WpkHU&ab_channel=HEAVYPSYCHSOUNDSRECORDS

Eugenio Di Giacomantonio

Yawning Man – Macedonian Lines
Dopo anni passati con una produzione discografica quasi assente (pensiamo al debutto di Rock Formations del 2005, arrivato quasi venti anni dopo i loro primi demo tapes) gli Yawning Man pubblicano un nuovo disco pochi mesi dopo The Revolt Against Tired Noises. Il nuovo Macedonian Lines è pura gioia per le orecchie. Vengono rievocati i sapori e gli aromi del loro primo disco, con una genuinità e creatività superiore. Ma il tempo non è passato invano: le influenze sudamericane di Historical Graffiti, bellissimo ed appartenente ad un territorio, riemergono nell'uso di strumenti altri. Dove lì montava il disegno nei soffi di fisarmonica, qui troviamo spennellate di piano in quasi tutti i pezzi. Virtual Funeral è puro espressionismo Gary Arce. È lui, con la sua chitarra riverberata e libera, a dare la giusta direzione ai pezzi, in un viaggio onirico ed evanescente pazzesco. Nessuno può vantare uno stile chitarristico così specifico e personale come il suo. La title track prosegue il flusso spontaneo in direzione desert rock, mentre la successiva Melancholy Sadie pensiamo nasca dallo spirito di Mario Lalli al basso, altro protagonista della magia della band. Sopra un tappeto da lui ricamato, in battuta lenta, la chitarra di Gary procede per sottrazione e stabilisce nuovi dialoghi, nuovi panorami, con il piano. Chissà a cosa pensavano quando hanno deciso di intitolare un pezzo Bowie's Last Breath. Sicuramente una forma di devozione nei confronti del Duca Bianco, forse una visione dell’ultimo soffio di vita in una persona qualsiasi, sottratta al mito a cui appartiene, ma prendiamo atto che il risultato è puro siero anestetico e drop out. I'm Not a Real Indian (But I Play One On Tv) mostra la parte più ruvida dei nostri, espletata dal basso di Mario, dove la chitarra letteralmente scivola avanti e indietro creando un’onda incosciente nelle orecchie degli ascoltatori. Tutto cade, distillandosi, nella conclusiva I Make Wierd Choices, dolce, sensuale, soffusa ed avvolgente, con una linea melodica penetrante, che raccoglie tutto quello che ha seminato fino ad ora. Ora e sempre, gli Yawning Man patrimonio dell’umanità. https://www.youtube.com/watch?v=UFjHZA1Oo7A

Eugenio Di Giacomantonio

Yawning Man – The Revolt Against Tired Noises
La bellezza e l’originalità della chitarra di Gary Arce sono ben note. Dalla metà degli anni Ottanta costruisce il suo stile pizzicato e riverberato all’infinito, guadagnandosi la meraviglia e il tributo di gente come John Garcia e Josh Homme (dai generator party riprendono una allora inedita Catamaran, a.d. 1988, pubblicandola nel loro ultimo disco a nome Kyuss, a.d. 1995, come segno netto di appartenenza). Ora gli Yawning Man sono diventati una band di culto e pubblicano il loro quarto album, The Revolt Against Tired Noises, con la nostrana Heavy Psych Sounds. Gary è sempre il ragazzo gentile con gli occhi pronti a cogliere le bellezze del mondo ed al suo fianco ci sono Mario Lalli alle quattro corde e Bill Stinson dietro le pelli. A proposito di Mr. Lalli: è talmente fondante il suo stile che, quando si accende il microfono e canta, riporta tutto alla corte dei Fatso Jetson meno schizzati (Grant’s Heart). La cifra migliore si ha quando il gioco è in mano a Gary, come in Skyline Pressure (una estatica visione dall’alto, dell’alto) e Violent Light, quasi un bignami tecnico sulle qualità espressive della chitarra. Si ha la percezione netta di ascoltare un artista fatto con la stessa pasta di monoliti come Jimi Hendrix o John Lennon: musica come missione. Sin dai tempi del ritorno con Rock Formations. Una mano innalzata verso l’alto e l’altra imposta sulla terra a far dono all’umanità di una energia ultraterrena trasformata in musica. L’iniziale Black Kite fa il paio con la title-track ed è evidenza di come l’ispirazione sia qualcosa che travolge l’individuo per trasportarlo altrove. Per tornare a Catamaran, qui si presenta in maniera più melliflua e liquida, quasi riusciamo a percepire la brezza marina in faccia. Come a dire: sono passati trent’anni e noi siamo rimasti dove siamo partiti, riprendendo in mano il lume genuino e poetico dell’illuminazione artistica. Eugenio Di Giacomantonio  
Yawning Sons – Ceremony to the Sunset
Gary Arce va amato incondizionatamente. Musicista genuino e appassionato, ha costruito la rete del desert sound da quasi trent'anni a questa parte. Se la sua creatura primigenia la conoscono tutti, i favolosi Yawning Man, non bisogna dimenticare la prolifica produzione laterale. A cominciare dai Dark Tooth Encounter in cui fa tutto lui, tranne che suonare la batteria. O i seminali Perfect Rat, che insieme ai Sort of Quartet risalgono al secolo scorso, quando il nostro cominciava a mettere i primi peli di barba. E numerose sono le collaborazioni a cui si dedica, come nel disco omonimo di Hotel Wrecking City Traders o le comparsate nel super gruppo Ten East, dove ritroviamo i suoi degni compari Mario Lalli e Bill Stinton. Per farla breve, Gary è un grande musicista senza arie da rock star a cui il mondo psichedelico americano deve molto. La sua più grande dote è avere uno stile unico, personalissimo. E non è un mistero che le sue produzioni siano tutte strumentali, o quasi. Come se volesse manifestare il fatto che la sua chitarra è talmente protagonista da viaggiare da sola. Anche se sussurrata. Anche se appena pizzicata. Tutte caratteristiche che ritroviamo in "Ceremony to the Sunset" a nome Yawning Sons, edito nel 2009 e ristampato recentemente dai ragazzi spagnoli della Alone Records. Sin dal nome scelto, questa è la creatura più vicina agli Yawning Man, anche se qui il suono si fa leggermente più sognante, evocativo. L'idea è quella di rappresentare immagini oniriche che si aprono lentamente alla luce del sole, come nel dormiveglia, in cui lo stato di coscienza è labile eppure presente. E, sorpresa, ci sono tre pezzi cantati: l'introduttiva "Ghostship - Deadwater" con Wendy Rae Fowler, "Meadows" con il fedele Mario Lalli e "Garden Session III" con il mitico Scott Reeder. Ma come già detto il concept lo costruisce tutto la chitarra di Gary che tratteggia in punta di piedi le melodie. Il risultato finale è un altro splendido album di rock mutante, articolato nelle corde della musica del deserto ed aggregato organicamente nella visione della musica che il nostro sta costruendo da anni. Un brindisi a te fratello Gary. https://youtu.be/N5huFikWqHE

Eugenio Di Giacomantonio

YEAR LONG DISASTER – Year Long Disaster
Partiamo dalla fine: a conti fatti il debutto degli Year Long Disaster è un buon disco però... però l'hype generato da questa uscita ci aveva reso troppo esigenti e quindi era lecito aspettarsi qualcosa di più di un "semplice" buon album. I nomi impattati nel progetto del resto non passano di certo inosservati: Daniel Davies alla chitarra e voce è figlio d'arte (il padre Dave e lo zio Ray formarono i fondamentali Kinks), Richie Mullins al basso proveniente direttamente dai Karma To Burn e il batterista Brad Hargreaves degli alternative rockers Third Eye Blind (roba che va forte in USA, sconosciuti dalle nostre parti)."Year Long Disaster" parte subito forte e mostra le unghie ed i denti con un terzetto d'apertura micidiale: "Per qualche dollaro in più", "Leda Atomica" e "Cold Killer" ci danno subito le coordinate con le quali i nostri hanno deciso di tirare in piedi questo progetto tra Led Zeppelin, hard rock sporcato di blues e tentazioni sulfuree più o meno ben celate. Il limite di un approccio così diretto e 'in your face' però è che alla lunga, se l'ispirazione e sopratutto la varietà di soluzioni latitano, l'interesse si perde per strada e sul finire dell'album la noia inizia a serpeggiare pesantemente. Sarà un caso forse ma l'indice di gradimento sale e di molto quando la band sperimenta qualcosa di più personale, come nella lisergica "Sapphire" o nella splendida traccia finale "Swan on Black Lake" che parte come un polveroso pezzo acustuco per esplodere in distorsioni e feedback nel (lungo) finale. Un debutto con i fiochi che non risente nemmeno della prova del tempo (uscito nel 2007, disponibile qua da noi praticamente dal 2008 e ancora oggi si fa ascoltare alla grande) ma che lascia qualcosa in sospeso. Se ci sarà un secondo episodio ci aspettiamo un album da 10 e lode. Si, siamo incontentabili... Davide Perletti
Yellow #5 – Demon Crossing
Molly McGuire è conosciuta soprattutto per le sue collaborazioni con Mondo Generator e Earthlings?, ma forse non tutti sanno che da anni suona in lungo e in largo per gli States militando in una marea di band, a partire dai seminali Gnarltones. Il progetto Yellow #5 nasce a New Orleans nel 2001: appena un mese e i 15 pezzi che compongono “Demon Crossing” sono già scritti. Per eseguirli ci vuole qualcuno di speciale e quale scelta più azzeccata se non quella di Dave Catching (un nome una garanzia) e Brant Bjork (il drummer stoner per eccellenza, ora sostituito da Gene Trautmann, batterista dei Queens of The Stone Age in “Rated R”). Se Dave si divide tra chitarra e lap steel, Molly sfodera una prestazione degna di nota, cantando, suonando il basso e cimentandosi anche al piano, alle percussioni e alla fisarmonica. Sono proprio le note dolci dell’accordion che aprono e chiudono il lavoro (la title track e “Cut Off, LA”), un disco particolare, che sorprende per i suoi toni dolci e sognanti, per le sue atmosfere delicate ed eteree. I primi riferimenti che vengono in mente sono proprio il sound liquido di Brant Bjork e i suoi Bros, ma anche le ventate desertiche assaporate nelle Desert Sessions (l’album è stato registrato da Brenndan McGuire, fratello di Molly, al Rancho de la Luna, ovviamente) e tra i solchi degli Yawning Man. Insomma, “Demon Crossing” è il classico prodotto da ascoltare in una giornata di caldo, magari di sera, con un fresco drink a portata di mano e tanta voglia di rilassarsi. Brani come “Screaming Mimi”, “Jackie”, “Deviant Angel” sono passaggi leggeri eseguiti in punta di penna, specchio intenso ed emozionale dei sentimenti che li hanno generati. Così come “Moon Man”, “Lust” e “Hair of the Dog”, episodi bluesy sinuosi e notturni. Il breve intermezzo acustico “Bad Girl” ci ammalia grazie alla voce felpata di Chris Goss, “Auto Pilot” e “ICFCFBM” seguono i passi più isterici dei Queens of the Stone Age, “No Loitering” sfiora i sempre insidiosi lidi indie rock, “Seven Addictions” gioca con l’elettronica, mentre “Wine Spo-dee-o-dee” è un concentrato punk psichedelico da antologia. Ascoltare Yellow #5 dal vivo, in un locale piccolo e fumoso di Los Angeles o Joshua Tree, deve essere un’esperienza davvero speciale. Sensuale come animo, corpo e voce di Molly McGuire.   Alessandro Zoppo
YOB – Atma
Yob, ancora Yob, fortissimamente Yob. Il progetto di Mike Scheidt, dopo un breve periodo di difficoltà, continua e si dimostra in grande salute grazie a questo nuovo lavoro che sorprende ed entusiasma. Sembrava difficile dare un seguito a dischi del calibro di "Catharsis", "Unreal Never Lived" oppure al precedente e pur ottimo "The Great Cessation", ma Scheidt questa volta si è superato.Collocatosi ancora una volta in cabina di regia, prosegue, con i suoi due nuovi compagni di avventura, il compito di approfondimento della materia sludge doom nella sua visione più spirituale ed esoterica avvalendosi in questa occasione anche dell'ingombrante presenza di sua maestà Scott Kelly ed il risultato è di quelli che non si dimenticano tanto facilmente. Cinque brani della durata di oltre cinquanta minuti in cui la violenza sonora si fonde a lunghi trip psichedelici, fumosi e stordenti che in taluni casi strizzano l'occhio perfino a certi suoni metallici conosciuti nei lontani anni Ottanta (l'iniziale "Prepare the Ground"). Quasi una sfida che però viene vinta, poiché se è vero che l'involucro non è di immediata assimilazione, dimostra quanto la band sia ancora in grado di fare la voce grossa in un panorama come quello odierno dove iniziano a sentirsi profondi segni di stanchezza. Un brano come "Before We Dreamed of Two" è un avventuroso trip di 15 minuti tra gli impervi sentieri della materia heavy psych. Una lezione da mandare a memoria per le generazioni a venire. Come la conclusiva "Adrift in the Ocean", dove si scopre addirittura una vena melodica finora insospettata che produce brividi e ondate di puro godimento estetico. Merito va dato anche all'etichetta canadese Profound Lore che ha nuovamente creduto nella band e reso possibile questa pregevole uscita. Anche grazie a loro, il mostro Yob continua ad essere più che mai vivo e vegeto. Cristiano Roversi
YOB – Catharsis
“Catharsis”, nuovo disco degli Yob dopo il promettente esordio “Elaborations of carbon”, è ciò che ogni fan del doom più acido e corrosivo avrebbe desiderato. Tre brani per una durata complessiva che raggiunge quasi i 50 minuti, tre monoliti in caduta libera che abbatteranno le vostre difese immunitarie. Prendere o lasciare, sono le vostre orecchie e le vostre cellule cerebrali ad essere messe in gioco… Questi tre folli provenienti da Portland danno sfogo ai propri istinti di distruzione in ogni singolo secondo di musica: gli amanti di Sleep, Bongzilla ed Electric Wizard saranno scossi dalla potenza e dal delirio che sprigionano le song degli Yob. La parte del leone spetta ovviamente a Mike Scheidt: il suo guitar work è letteralmente pauroso, si agita come un ossesso tra riff ciclopici e assoli viscidi, come un cobra che si attorciglia alla sua preda senza lasciargli alcuno scampo…le sue vocals alternano parti urlate e filtrate a growls luciferini che vi faranno sprofondare nel bel mezzo dell’inferno, è arduo reggere tanto estremismo sonoro… Egregia spalla è la sezione ritmica formata da Isamu Sato al basso e Trevis Foster alla batteria, i quali creano un wall of sound impenetrabile, lento e marziale ma pur sempre capace di accelerare i tempi quando c’è bisogno. L’andamento asfissiante dell’iniziale “Aeons” è la piena dimostrazione di quanto appena detto: 18 minuti che si dipanano tra un inizio soffuso, un ingresso maestoso di chitarra e voce e break psichedelici che come squarci di luce nel buio producono sensazioni dannatamente liquide ed ipnotiche. “Ether” è il pezzo più diretto del lotto, nella sua furia omicida rimanda all’operato degli High On Fire ma non per questo manca di fascino morboso e di una inquietante e sotterranea melodia vocale. Tutto è però finalizzato per dar vita al giusto stato d’animo con il quale accogliere la matassa conclusiva: i 23 minuti di “Catharsis” sono un saggio da manuale dell’extreme doom, un calcio in bocca assestato con chitarre grondanti sangue, ritmi catatonici, vocalizzi diabolici ed una sfuriata finale al limite del death metal. “Catharsis” si candida senza ombra di dubbio nella top list di fine anno tra i migliori lavori in ambito doom. Gli Yob restano una band di nicchia, ma è meglio così, solo chi ha coraggio saprà capire davvero la loro arte. Per il momento restano sconsigliati ai deboli di cuore… Alessandro Zoppo
YOB – Clearing the Path to Ascend
Giunta alla settima release ufficiale la mastodontica creatura guidata da Mike Scheidt che risponde al nome di YOB sembra non dare segni di cedimento. A due anni di distanza dal solido e riuscito "Atma", ecco che ritorna con "Clearing the Path to Ascend". Ormai annoverabili tra le band leader del panorama sludge/doom mondiale, i ragazzi di Eugene, Oregon, sembrano aver trovato la loro dimensione, il loro archetipo sonoro e si muovono a colpo sicuro. Composto da quattro tracce, tutte al di sopra dei dieci minuti di durata, il disco ricalca in pieno il modello di "Atma", riprendendo il discorso laddove era stato lasciato. Le varie tracce hanno tutti gli elementi che hanno contraddistinto la carriera del trio statunitense. "In Our Blood", l'opener, ha un incedere pachidermico, linee vocali che alternano il pulito al growl e momenti di stasi raggiunti da arpeggi sospesi nel vuoto. "Nothing to Win" parte con il piede sull'acceleratore, facendo ritornare alla mente i migliori Neurosis, per poi virare sulla psichedelia nella seconda parte, assumendo toni sinistri e introducendo una linea vocale che sembra provenire dalle remote profondità siderali. "Unmask the Spectre" ci mostra il lato magniloquente degli YOB con il suo inizio sommesso e il suo lento crescere fino alla deflagrazione del pezzo in tutta la sua epicità. "Marrow", sicuramente l'episodio migliore del lavoro, si presenta in tutta la sua solennità, una lunga marcia dai toni angoscianti scandita da riff granitici, batteria poderosa e passaggi in pieno stile americana. Il tutto suggellato da un finale imponente dove la voce di Scheidt si esprime al suo meglio innalzando la già forte componente malinconica del pezzo. "Clearing the Path to Ascend" raggiunge il suo obiettivo, e sicuramente è un disco riuscito, ma rimane il sentore che gli YOB si siano leggermente adagiati su quanto da loro fatto in precedenza e abbiano deciso di non spingersi ancora più avanti. La sensazione è che indubbiamente si poteva fare di più, la stoffa al trio dell'Oregon non manca, e quando decidono di tirarla fuori – "Marrow" ne è un esempio – si ottiene molto di più di un album solido e riuscito. Giuseppe Aversano
YOB – Elaboration of carbon
Pura apocalisse. Sei brani, sei semplici brani per settanta minuti di distruzione. Una lenta agonia. Un giro di vite attorno a tre esseri deviati che fanno del verbo estremo la loro ragione d'essere. Se l'inferno può essere rappresentato in musica, questa è la nenia che lo accompagna. Se David Cronenberg non ha mai ascoltato gli Yob presto dovrà farlo perché sarebbero la colonna sonora adatta ad un viaggio nei meandri della contorta psiche umana. Tre esseri, tre demoni inferociti: il mastermind Michael Scheidt guida le danze, saturando la sua chitarra di vibrazioni e fuzz semplicemente asfissianti e cantando in un modo pazzesco, come se fosse impossessato da una qualche strana entità che brama di possedere la sua anima. D'altra parte i growls e le urla sotterranee dell'iniziale "Universe throb" sono qui a dimostrarlo: dieci minuti di doom esasperato, martoriato, stravolto, accompagnato dal basso ossessivo di Isamu Sato e dal drumming sfrenato di Gabe Morley. Qui non esistono vie di mezzo, c'è solo dolore, sofferenza, odio. L'oscurità che prende vita in questi brani è subito palpabile, valanghe di distorsioni ci annebbiano la vista, il buio avvolge le nostre menti, non ci rimane che attendere e piangere…intanto questi tre energumeni continuano a farci del male con la loro musica ultraterrena. Se non amate Sleep, Electric Wizard e Sons Of Otis state lontani da questo disco. Qui si fa sul serio. C'è in gioco la vostra sanità mentale. Ascoltare "All the children forgotten" è un'esperienza ardua, quasi formativa: in un muro di chitarre grondanti sangue sbuca una vaga melodia contorta e raggelante, subito stroncata da vocalizzi satanici inquietanti come non mai, mentre intorno la pioggia battente continua a cadere e a farci del male… "Clear seeing" sembra voler dare una boccata d'ossigeno, essendo un mid tempo lineare e cadenzato più stoner che doom, ma è solo un'illusione perché con la successiva "Revolution" la catastrofe si fa imminente: atmosfere intergalattiche ci portano ai confini del cosmo, i maestri cerimonieri rallentano i toni fino all'esasperazione e martoriano i loro strumenti con il solo scopo di distruggere ogni minima particella del nostro cervello...qualche richiamo porta alla mente il sound catastrofico dei Neurosis, qualche altro delle reminiscenze anni '70, ma è un particolare, un minimo aspetto in una matassa sonora che ha come fine l'annullamento dei limiti della gravità. Questi squilibrati provenienti dall'Oregon sanno come darsi da fare e in "Pain of J" preparano il massacro conclusivo con una fusione di extreme doom, death metal rovente e picchi epici, una vera e propria discesa negli inferi, con la voce luciferina di Michael e il basso devastante di Isamu in primo piano. Tutto questo pandemonio sembra essere finalizzato al gran finale affidato a "A sleep in samara": diciassette minuti di puro doom in cui i riff dei Black Sabbath vengono estremizzati con una ferocia inaudita, senza compromessi, in un groviglio di trame complesse e ripetitive, fino a creare uno stato di ipnosi perenne e apparentemente priva di uscita. Questo "Elaboration of carbon" è uno dei dischi doom più assurdi dell'anno, un lavoro destinato ad entrare di diritto tra i migliori prodotti della scuola sabbathiana estrema. L'ascolto è un viaggio totale nelle oscure e desolate lande dell'universo, alla ricerca di un solo obiettivo, comprendere la follia che ognuno porta dentro di sé… Alessandro Zoppo
YOB – The Unreal Never Lived
Gli YOB danno un'ulteriore prova della loro bravura con questo che trasuda l'inconfondibile gusto di aggressiva rassegnazione tipico della purtroppo recentemente sciolta band. Il sound complessivo del gruppo si intensifica e, pur virando verso una maggior pulizia delle distorsioni, mantiene la vena subdolamente marcia tipica dei dischi precendenti.L'animo degli YOB rimane intatto anche in pezzi dallo stile particolare come l'iniziale "Quantum Mystic" dove improvvisi graffi distorti danno il via ad una cavalcata di potenza interrotta da altrettanto improvvisi stop and go da blocco respiratorio. Segue "Grasping Air" in cui l'oscuro tema portante viene introdotto con cattiveria per poi essere decomposto su un ritmo ossessivo, doom, squarciante e squarciato da un assolo che nella semplicità trascina e stordisce. "Kosmos" è l'ultima carica d'energia prima della dilatata chiusura da 21 minuti "the Mental tyrant", riuscitissima degenerazione del riff iniziale verso tempi sempre più lenti che ingabbiano e appesantiscono le note. Solo dopo 16 minuti di questo pesante incedere le singole note potranno di nuovo lanciarsi nell'aggressività, ma il destino rimane quello dell'angosciante stasi che chiude il disco. Questi 4 lunghi pezzi potrebbero essere divisi in molte canzoni a se stanti tanti sono i cambi di atmosfera all'interno di ogni singola traccia. Ciò che stupisce è la mancanza assoluta di un calo di tensione, le canzoni si evolvolo fluidamente in tante direzioni mantenendo però il cervello ben stretto negli oscuri spazi fra le note o nelle partenze di rabbia. Un disco riuscitissimo, che gli YOB miscelano in un unico macigno. Davvero una chiusura di carriera in grande stile per questo grandissimo gruppo. Federico Cerchiari

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