DEAD MEADOW
Roma – Init
C’è un lungo filo rosso che attraversa il concetto che abbiamo di psichedelia. Questo cordone ombelicale che ci tiene legati al proprio centro si chiama dilatazione. La dilatazione è quella che si crea nella nostra mente, nel nostro cuore, nelle nostre gambe e braccia. Il torace che si apre e assapora la gioia. È l’effetto della musica, baby. Quella dal vivo, vero. Quella psichedelica in particolare. E che ci si metta a dibattere di poesia, composizione sonora, filmica o pittorica, poco importa. Questa volta siamo a Roma, all’Init. La serata sfuma tra le nuvole e dalla California arrivano (per la seconda volta, dopo l’esibizione al Sinister Noise del 2008) i Dead Meadow, tre menestrelli che fanno la gioia di chi sa donarsi alle loro meraviglie.Il percorso artistico della band capitanata da Jason Simon (chitarra, voce) inizia nel 1998 dalle parti di Washington D.C. e del buon Joe Lally e la sua Tolotta Records. Un album omonimo e il mondo si scuote. Tra il 2001 e il 2003 arrivano ‘Howls from the Hills’ e ‘Shivering King and Others’ (ad oggi, il loro vertice), a giustificare quanto si dice in giro di loro: i Dead Meadow sono il miglior gruppo psichedelico degli ultimi anni. ‘Feathers’ è un’altra chicca, anche se da lì (complice il passaggio su Matador Records?) iniziano ad aprirsi le prime crepe. Quei momenti (eccessivamente) aspri e solari che segnano qualche passaggio a vuoto in ‘Old Growth’ e negli inediti del recente ‘Three Kings’. Dal vivo però tutto si dissolve, si dilata appunto, perché quando ti capita di ascoltare, vivere, sentire (nel senso pieno del termine) brani quali “That Old Temple”, “Everything’s Going On” e “Good Moanin’” ti rimetti in pace con l’universo. I suoni sono ottimi, l’affluenza è buona e anche quando vedi un pubblico misto (soliti aficionados lisergici e volti piuttosto puliti) ti balena in mente l’idea che qualche chance la buona musica ce l’abbia ancora per ridestare la torpidità odierna. D’altronde Steve Kille saltella con il suo basso (spesso invasivo, va detto), Simon spara tutte le sue cartucce tra wah wah e fuzz assassini, Stephen McCarty è il batterista perfetto, quello che vorresti vedere ogni volta che entri in un music club. Assolo di batteria «che nasce già vecchio» compreso. Peccato sia sacrificato nelle fasi cadenzate e agresti, come accade a tutto il sound della formazione americana.
Da citare anche i Black Rainbows in apertura (causa ritardo ci perdiamo gli Ossimoro), robusto psych stoner’n’roll che ci getta nella gola del Demonio a bordo della Delorean di Doc Brown e Marty McFly. Che belle le delizie acide da assaporare in compagnia, i Dead Meadow ce ne hanno fornite in quantità abissale.
Una sola raccomandazione per il futuro: meno bucolico, più psichedelico!
Alessandro Zoppo