Hellfest 2019: 21, 22 e 23 giugno – Clisson, Francia

Un’altra estate all’inferno, un’attrazione quella per Clisson che non viene meno neppure a 10 anni dalla prima volta. Un festival che è diventato un colosso a livello mondiale ma che riesce a mantenere un occhio vigile anche su proposte più underground e che, grazie ai 6 palchi ufficiali, permette di far vivere un’esperienza personalizzata ad ogni avventore. Per questa edizione l’Hellfest ospita al suo interno anche il Knotfest France, versione europea del famigerato fest organizzato dagli Slipknot, sfruttando soltanto i due Main Stage nella giornata di giovedì 20 giugno e allungando di fatto il fest a quattro giorni. Oltre a quello dei nove mascherati di Des Moines, i set più interessanti vengono offerti da Rob Zombie, Behemoth, Ministry e Sick of It All.

Venerdì 21 giugno

Prendo la giornata precedente come una piacevole introduzione ma si entra nel vivo solo oggi. La giornata inizia con le note dei Radio Moscow che provengono dal familiare Valley, già stracolmo. Il trio americano propone un ottimo rock psichedelico dall’anima blues, perfettamente tradotto in sede live. Cambio di atmosfera con gli Uada, coperti da ampi cappucci neri, ad inaugurare la mia giornata al Temple; la formazione black metal di Portland sta facendo parlare di sé con soli due album all’attivo, in bilico tra vecchia e nuova scuola, e lo show funziona nonostante il disturbo della luce solare. Il primo bivio della giornata si manifesta alle 14:20 e opto quindi per un indolore 50/50. Nella Valley i Conan dimostrano di essere il solito caterpillar di cattive intenzioni:  suoni di basso/chitarra/batteria devastanti, procedono come fossero un’unica entità, uniti alla voce sguaiata di Jon e ai growl cavernosi di Chris.

Nell’Altar invece i Daughters, di cui tutto il mondo sembrava parlare benissimo, soprattutto per le performance live, ed ora mi è chiaro il motivo. Band insolita su un palco tradizionalmente dedicato al death metal, ma la spregiudicatezza dell’Hellfest si apprezza soprattutto in questi frangenti. Il frontman Alexis Marshall è il vero mattatore di questa scarsa mezz’ora a mia disposizione, scende spesso tra il pubblico scavalcando le transenne come un animale ferito che tenta di scappare da una gabbia. Lo stesso Marshall dopo essere rimasto a petto nudo, ribalta una cassa spia e ci sale sopra, iniziando a percuotersi la schiena con la cintura dei pantaloni, con la fronte sanguinante, sicuramente merito di dovuto ad un precedente litigio col microfono. Musicalmente di un’intensità unica, forse l’apice del noise rock odierno.

Per i My Sleeping Karma il Valley è pieno e festante. Faccio il mio ingresso sulle note di “Ephedra”, cavallo di battaglia della band bavarese, il rock psichedelico e strumentale del trio è coinvolgente ma al tempo stesso rilassante, preparandoci gradualmente al set degli acclamatissimi All Them Witches. Doomy blues fumoso con lunghe parti strumentali, devoto alla psichedelia; occhi socchiusi e basta davvero poco per lasciarsi trasportare dal groove del combo di Nashville. Nel vicino Altar è il turno dei Kvelertak, folta formazione norvegese salita agli onori delle cronache metalliche per la loro insolita fusione di black metal e rock ‘n’ roll con un approccio molto fresco e d’impatto, ma anche per aver aperto il tour dei Metallica. L’ingresso del nuovo cantante Ivar Nikolaisen non fa perdere alla band un’oncia di grinta, inarrestabili nonostante qualche piccolo inconveniente tecnico.

Grande attesa nella Valley per gli Uncle Acid and The Deadbeats, formazione di Cambridge scoperta da Lee Dorrian una decina di anni fa e classificabili a metà strada tra un Alice Cooper degli esordi che incontra i Black Sabbath e gli Stooges. Oscurità, luci basse e proiezioni retrò, i quattro propagano nel tendone sonorità vintage ma mai scontate, senza bisono di muraglie di amplificatori. Capatina alla War Zone per i Descendents, veterani del melodic hardcore punk californiano, a detta del cantante Milo Aukerman assenti su suolo francese da ben ventidue anni. Inizio affidato alla tripletta magistrale “Suburban Home”, “Everything Sux” e “Hope” ed è subito California, palme e skateboard. Presa bene totale!

Carica di positività necessaria prima di immergermi nell’oscurità di Tom G. Warrior e dei suoi Triumph of Death con il suo tributo all’epoca Hellhammer, storica formazione pre-Celtic Frost in attività tra il 1982 e il 1984.  Temple meno popolato del previsto ma show molto intenso e una band che sorregge Tom in tutto e per tutto, i brani tratti dai demo “Triumph Of Death” e “Satanic Rites” risentono certamente dell’età ma sono tuttavia premiati da un suono capace di render loro giustizia. A quando una reunion dei Celtic Frost o più semplicemente un nuovo album dei Triptykon? Torniamo in California invece con i Fu Manchu, con uno Scott Hill acceleratissimo, il quale dopo il primo pezzo – “Evil Eye” – chiede che non vengano utilizzate luci strobo. Scaletta incredibile, la band passa in rassegna “California Crossing”, “Boogie Van”, “Coyote Duster” e molti altri pezzi da (anni) novanta.

È ormai l’una di notte ma raccolgo le ultime forze per assistere allo show di King Diamond a chiudere in bellezza il Temple. Temevo che la scenografia non entrasse in un palco così ‘piccolo’ – ricordiamo che il Re Diamante nel 2016 sempre qui a Clisson si esibì sul Main Stage, anche qui a notte fonda – e invece è stato uno show a dir poco magico. Ad oltre sessant’anni suonati questo signore, all’anagrafe Kim Bendix Petersen, regge il palco alla grande e sono molte le sorprese musicalmente parlando: il nuovissimo brano “Masquerade of Madness” tratto dall’omonimo singolo oltre a tantissimi brani del passato, alcuni dei quali non venivano proposti dal vivo da diverso tempo, come “The Lake”, “Burn” o “Voodoo”. Teatralità estrema e sopraffina, lunga vita al Re.

Sabato 22 giugno

Day 2 molto variegato che inizia con Will Haven al nostro amato Valley. Formazione americana difficile da inquadrare, che abbraccia elementi di alternative rock e metal, post hardcore, noise rock, punk e altro ancora; in attività dal 1995, a mio parere la band ha raccolto molto meno di ciò che in realtà meritava. Offrono uno show energico e muscolare, un’ottima ginnastica per cominciare al meglio questa seconda giornata. Gli olandesi Dool, band con ex membri dei compianti The Devil’s Blood, offrono un approccio nettamente meno teatrale ma ugualmente potente. Molto interessanti su disco, ero davvero curioso di assistere ad un loro live e si distinguono come una sorpresa melodica nel marasma del Temple. La cantante/chitarrisa Ryanne Van Dorst è al timone con una forza ed una sicurezza di sé tale da far impallidire anche i veterani, una voce profonda e avvolgente.

Ritorno al Valley con i tedeschi Mantar, che fanno in due quello che molte band non riescono a fare in quattro o cinque, ovvero elargire la massima potenza possibile. Il chitarrista/cantante Hanno Klänhardt sfoggia un tatuaggio degli AC/DC e si capisce da dove abbiano preso l’immediatezza del loro sound, fondendolo poi con una furia sludge/hardcore degna del miglior incrocio tra High On Fire, Black Cobra e Conan. Li vedrei benissimo in un tour con i Kvelertak, così per dire. Non ci si sposta di un millimetro in attesa dei Sumac, i quali ho avuto il piacere di vedere per la prima volta al Roadburn 2017. È la nuova band di Aaron Turner degli Isis – ma anche Old Man’s Gloom, Mammifer e boss della Hydra Head – ed è come se un trapano ti perforasse il cranio da una parte all’altra, ma anziché generare danni permanenti offre effetti benevoli e duraturi, un eccellente antidoto per la gestione della rabbia e dello stress. Suoni devastanti, basse mostruose ed una massiccia dose di noise.

Mentre mi appresto a timbrare il mio cartellino al Valley mi accorgo che in realtà oggi si sgomiti un po’ meno del solito, forse perché oggi di stoner e psichedelia non c’è traccia, ma il tutto è più orientato verso post rock, post hardcore e noise rock. Anche loro in attività da metà anni 90, dei Cave In apprezzo particolarmente le bellissime aperture melodiche e la loro compattezza in sede live, con un approccio molto organico e voci totalmente intercambiabili che optano per soluzioni più melodiche rispetto al passato, ma di buon impatto. Netto cambio di atmosfera con i bellicosi Combichrist, gruppo norvegese tra l’EBM e il metal di stampo industriale, scatenano l’inferno tra le croci capovolte del Temple e un pubblico di metallari in assetto da rave. Niente mainstage per me oggi nonostante la doppietta ZZ Top e Kiss, il programma dei tendoni è nettamente più interessante e questi ultimi rappresentano per il sottoscritto la vera anima del fest.

Dopo una storia travagliata con i cantanti, i Candlemass trovano finalmente la quadratura del cerchio con il ritorno del figliol prodigo, Johan Längquist, voce del capolavoro mai dimenticato “Epicus Doomicus Metallicus”. Dopo oltre 20 anni di assenza, e dopo alcuni tentativi di reunion in occasione degli show speciali in cui furono chiamati ad eseguire il debut per intero, Johan si ricongiunge alla band in pianta stabile e anche in studio, pubblicando  il buon “The Door To Doom”. La tenuta vocale è perfetta, brani come “A Sorcerer’s Pledge” e “Solitude” emozionano in maniera decisa e anche sui brani di Messiah Marcolin il lavoro è eccellente, facendosi perdonare l’assenza di “Samarithan” in scaletta, forse uno dei pezzi più belli della band svedese. Un’ora intensa di doom dai maestri europei del genere.

L’app dell’Hellfest ci informa che  Myrkur, che si sarebbe resa protagonista di portare dal vivo il futuro album “Folkesange”, purtroppo non sarà dei nostri, e i motivi sembrano essere legati alla sua gravidanza. In sostituzione viene chiamata Jo Quail, talentuosa violoncellista inglese che nel set di Myrkur sarebbe stata ospite. È un esibizione che sarebbe stata di gran lunga più apprezzata in un festival di musica sperimentale, lo spaesamento all’interno del Temple è palese soprattutto nelle ultime distratte file, ma sotto palco c’è una nicchia piuttosto agguerrita che si lascia trasportare dal suo mantra.

La sorpresa della giornata, almeno per me, tuttavia deve ancora arrivare, e si manifesta con i giapponesi Envy. Leggo in attività dal 1992 ma colpevolmente non li avevo mai sentiti nominare, gli Envy si presentano in sei sul palco del Valley e vengo travolto da una carica emotiva con pochi eguali. Leggo anche che sono una delle principali band hardcore/screamo in Giappone, io ci sento moltissimo post rock che parte piano per poi esplodere, il più delle volte raggiungendo picchi di violenza ed emotività sconcertanti. Il pubblico è bocca aperta, anche io sono a bocca aperta; a quanto pare avrò degli album da recuperare nei prossimi mesi. Evado dalla comfort-zone in favore della War Zone, questa volta per intercettare una leggenda del punk rock britannico, The Adicts. Tra gli abiti straordinari del cantante Keith Warren e i suoi «wo oh oh!» lo show scorre senza intoppi tra una “Let’s Go” e una “Horrorshow”, mostrando l’anima meno aggressiva del punk, quella più festaiola e meno politicamente schierata.

Ennesimo cambio di atmosfera, questa volta più repentino che mai, all’Altar sono di casa i Bloodbath, super band death metal che vede attualmente tra le sue fila membri di Katatonia, Opeth e Paradise Lost e che negli anni ha visto passare tra le sue fila anche Dan Swanö, Mikael Åkerfeldt e Peter Tägtgren. L’attuale formazione comprende tra gli altri Jonas Renske e Anders Nyström dei Katatonia (rispettivamente basso e chitarra) e Nick Holmes (Paradise Lost) alla voce. Prima di eseguire “Cancer of the Soul” il buon Nick si rivolge al pubblico con il suo puntuale English Humor «Enjoying the Swedish Death Metal? With a bit of Yorkshire thrown in». Sebbene anche i suoi Paradise Lost siano ormai tornati verso lidi più vicini agli esordi negli ultimi episodi della loro discografia, sorprende vederlo alle prese con del death metal old school, che prende a piene mani dai Grave, vecchi Entombed, Dismember e compagnia marcia.

Chiudono in bellezza The Sisters of Mercy tra la nebbia fittissima, uno dei concerti più bui che io ricordi. Si parte con “More” e da subito si preannuncia una scaletta al fulmicotone, piena di grandi classici che farà ballare fino a perdere i sensi. “Detonation Boulevard”, “No Time to Cry”, “Dominion”, “Temple of Love”, “This Corrosion”, brani che sono dei veri e propri pilastri del post punk e del gothic rock. Mr. Eldrtitch forse non al top della forma e uno show penalizzato da un gioco di luci davvero troppo misero, ma tutto sommato devo dire che non poteva esserci un finale migliore, nonostante si siano fatte le 2 di notte e le gambe implorino pietà.

Domenica 23 giugno

Dopo gli ultimi riff dei thrasher austriaci Insanity Alert mi avvicino con molta curiosità al Valley per i Gold. Ne avevo sentito parlare un gran bene ma ero assolutamente vergine all’ascolto, sono bastati cinque minuti, il tempo che portassero a termine il primo pezzo, che la mia curiosità è stata ripagata nel migliore dei modi, con un concerto a dir poco perfetto. La voce di Milena Eva è tra le cose più belle che mi siano capitate ultimamente, personaggio carismatico ed ammaliante nella sua malinconica austerità. A lei si aggiungono tre chitarre intrecciate elegantemente tra loro in un connubio tra il post rock e il noise rock meno spigolosi con sporadiche sfuriate al sapore black metal, il tutto corredato da un gusto melodico sopraffino.

Ancora ammaliato guadagno la transenna per i Messa, band veneta che sta crescendo sempre di più e che ho avuto l’occasione di vedere dal vivo in più di un’occasione, sia in contesto festival che in piccoli club. La loro presenza all’Hellfest è stata un colpo al cuore e un motivo di orgoglio per chi segue l’underground italiano da anni. La band regge bene il palco, non senza un po’ di emozione, ma il pubblico è lì per loro; i brani dell’ultimo “Feast for Water” vengono cantati da gente di ogni nazionalità, segnale dell’ottimo lavoro svolto finora. Non si può chiedere di meglio da questa giornata quando appaiono gli Yob all’orizzonte, con un Mike Scheidt in splendida forma. 4 brani in 40 minuti, aprendo con “Quantum Mystic” da “The Unreal Never Lived”, forse uno degli album più rappresentativi del trio dell’Oregon. Una garanzia, un modo di sentire la musica personale e catartico.

Non mi capitava di vedere i Clutch sul Main Stage dell’Hellfest dall’edizione del 2009, che fu anche il mio primo anno a Clisson. Negli anni a seguire il Valley è sempre stato il luogo di ritrovo per Neil Fallon e soci ma oggi, a distanza di dieci anni dalla prima volta, il loro ritorno sul Main Stage dimostra ampiamente quanto la band sia cresciuta e maturata. Sono le 16:00 e fa un caldo bestia, clima ideale per i Clutch e il loro hard blues torrido, che godiamo a fondo prima di tuffarci nel black metal dei Wiegedood, band che condivide i propri membri con Oathbreaker e Amenra. Ho apprezzato ogni in studio devo dire, tutti con copertine bellissime ma che si assomigliano un po’ tra loro, dal titolo “De Doden Hebben Het Goed” I, II e III. Black metal ora tiratissimo ora atmosferico, dualità che rende grande questa band senza dover ricorrere ad alcun effetto scenico di sorta. I Wiegedood rappresentano la nuova generazione di questo genere in Europa, quella che non ha paura di allontanarsi dai cliché ma che riesce a suonare credibile ancora nel 2019.

Se penso allo stoner doom unitamente alla California penso immediatamente agli Acid King, creatura nata nei primi anni 90 e portati avanti dalla formidabile Lori, nonostante una discografia non proprio prolifica, solo quattro full-length di cui l’ultimo ‘Middle of Nowhere, Center of Everywhere’ risalente ormai al 2015. Ben quattro brani della setlist sono tratti da ‘Busse Woods’, album che compie esattamente 20 anni e che resta ad oggi il più rappresentativo della band di San Francisco. Volumi sostenuti e riff granitici come ricordavo, un’assoluta certezza. La prossima mossa prevede uno sdoppiamento tra Altar e Valley, nel primo luogo gli Vltimas di David Vincent, nel secondo Phil Anselmo con i suoi The Illegals, che suonano pezzi dei Pantera. Per quanto quest’ultima sia certamente qualcosa di allettante e senza dubbio nostalgica, sarò sempre più attratto dal nuovo, soprattutto se nel caso degli Vltimas ci troviamo di fronte a dei veri e propri guru della scena metal estrema mondiale – David Vincent (ex-Morbid Angel), Rune Eriksen (Aura Noir, ex-Mayhem) e Flo Mounier (Cryptopsy) – che nel 2019 fanno uscire un disco di death/black metal estremamente valido. Apprezzo infinitamente di più chi si mette in discussione rispetto a chi tenta di cavalcare il passato, nulla di male in ciò, ma vedere gli Vltimas è stata un emozione non da poco. Ok, Vincent senza un basso a tracolla risulta forse un po’ goffo, ma quando apre la bocca tutto viene dimenticato e pensiamo subito ad ‘Altars of Madness’ e ciò che quest’uomo significa per l’intero panorama death metal. Un growl inconfondibile e immutato nel tempo, una voce baritonale e profonda sui puliti, di cui fa sfoggio anche grazie ad un’inaspettata cover di “Black Sabbath”.

La cancellazione dei The Obsessed fa anticipare il concerto di Philip H. Anselmo & The Illegals, la curiosità è tanta per cui abbandono gli Vltimas poco dopo la metà del set per andare ad ascoltare qualche cover dei Pantera. Il tendone è pieno come immaginavo, eseguono “Fucking Hostile”, “I’m Broken” e “Walk” in chiusura, Phil non è al top e questi brani lo mettono a dura prova, ma per fortuna il pubblico da una grossa mano quindi il tutto risulta ben riuscito, divertente e nostalgico, ma nulla per cui pagherei un biglietto onestamente. Al Temple tocca invece agli Emperor. Dopo i due set monografici dedicati ai primi due album rispettivamente nel 2014 e 2017, Ihsahn e soci tornano a Clisson con una scaletta che assomiglia molto a quella dell’ultima apparizione. Suonano quasi interamente “Anthems to the Welkin at Dusk” ad eccezione di “The Wanderer”, per poi eseguire un mega-encore da cardiopalma con tre brani da “In The Nightside Eclipse”: “Towards the Pantheon”, “I Am the Black Wizards” e “Inno a Satana”.

Se parliamo di band death metal da vedere assolutamente dal vivo prima di morire, sicuramente i Cannibal Corpse rientrano in questa categoria. Un paio di brani tratti dal recente e valido “Red Before Black” per poi buttarsi su classici quali “Devoured by Vermin”, “I Cum Blood” o “Hammer Smashed Face” con la quale chiudono un’ora esatta di massacro. Sono le 23 circa e nella War Zone Dennis Lyxzen dei Refused si scaraventa sulle transenne già dal primo pezzo, l’impatto hardcore della band svedese è ancora forte. Il loro concerto è ‘penalizzato’ da una concomitanza importante, ovvero l’ultimo concerto francese degli Slayer, dei quali gli stessi Refused accennano il riff di “Raining Blood” per goliardia e forse devozione.

La scelta di arrivare a concerto iniziato influisce negativamente sulla mia posizione, vedo gli Slayer perlopiù dai megaschermi, ad una distanza ragguardevole, ma l’audio arriva bene grazie ai ripetitori posizionati magistralmente, e arriva anche il calore del fuoco, nonostante la distanza. Durante il concerto è un continuo di fiamme sul palco, tanto da arrivare a temere per l’incolumità di Tom Araya e compagni. Un’ora e un quarto, tempi serratissimi e scaletta da manuale, dopo tutto è uno show d’addio per cui si susseguono capolavori della musica estrema quali  “War Ensemble”, “Seasons in the Abyss”, “Hell Awaits”, e ovviamente “Raining Blood” e “Angel of Death”. Chiusura tra le lacrime e gli applausi scroscianti.

Ma il piatto forte della giornata sono sicuramente i Tool, se non altro per la loro assenza discografica durata ben 13 anni, rotta dall’annuncio dell’uscita di “Fear Inoculum” previsto per fine agosto e di cui eseguono un paio di brani (“Descending” e “Invincible”). Maynard James Keenan e soci salgono sul Main Stage gemello, adiacente a quello dove hanno appena concluso gli Slayer, le fiamme lasciano il posto ad un tripudio di luci multi-livello, laser, schermi led, un fondale mobile, i quattro musicisti sembrano parte della scenografia e purtroppo, per quelli a distanza come me, non c’è consolazione alcuna nel vederli nei megaschermi, poiché lì verranno rilanciate solo le visual che accompagnano lo spettacolo. È stato come assistere ad un bellissimo film distopico musicato da quattro incredibili musicisti. Per fortuna ero presente appena 10 giorni prima al Firenze Rocks, dove invece ho avuto una posizione privilegiata, e posso affermare che lo show di Clisson è stato pressoché identico. Si confermano una band superlativa e certamente la lunga attesa è stata ampiamente ripagata.

Davide Straccione