ARTEMISIA – Gocce d’assenzio

«Lento orrore, dentro gli occhi appare. Scorre il sangue, scende e fa male». Uno stralcio dal vortice che risucchia lo stile degli Artemisia, quartetto di Gorizia che è arrivato con ‘Gocce d’assenzio’ al passo del secondo disco. Undici tracce per un robusto e potente hard rock venato di blues, progressive e tentazioni dark. Un lavoro che lascia con l’amaro in bocca, perché le potenzialità in questo gruppo ci sono tutte. Partiamo dagli aspetti positivi. In primis la produzione, realizzata presso il Fandango Studio di Trieste. Compatta, a tratti sporca ma efficace, eterogenea nell’unire gli umori differenti che attraversano l’album. Da applausi è il lavoro del chitarrista Vito Flebus, vero motore degli Artemisia: riff che rimangono in testa, soli precisi, nessuna sbavatura o voglia matta di strafare. Giusta complicità con la sezione ritmica (Fabio Corsi al basso, Matteo Macuz alla batteria) ed un modo di comporre e suonare che ben si adatta al rock sanguigno perseguito in ‘Gocce d’assenzio’.I punti negativi? Facile a dirsi: il cantato in italiano e la voce di Anna Ballarin. Sul primo punto incide molto il tipo di decisione, che purtroppo accosta alcuni pezzi (“Immobile”, “Donna prescelta”) alle peggiori sensazioni nostrane (leggi Lacuna Coil). Invece di concentrarsi su qualcosa di diverso (tornano alla mente le bellezze oscure dei compianti IV Luna). Sul secondo è un fattore di gusto, perché Anna mostra un buon timbro ma scarsa amalgama con un genere di questo tipo. Detto questo, piace come vengono risolti gli intarsi psichedelici della title track, le delicate intuizioni delle ballad “Il tempo” e “Il sentiero” (anche se il giro è rubacchiato ai Joy Division di “Love Will Tear Us Apart”), gli inserti di Hammond delle hendrixiane “Inutile assenza” e “La vetrina”.
Per concludere, diamo un consiglio agli Artemisia: ascoltare ‘Kaleidoscope’ degli svedesi Siena Root. Potrebbe essere un’indicazione per capire su cosa indirizzarsi e dove muovere le dovute correzioni.

Alessandro Zoppo