BEEHOOVER – Heavy Zooo

Nel mondo del rock le formazioni a quattro elementi hanno sempre fatto la parte del leone. Un cantante frontman, un chitarrista, un bassista ed un batterista. Ma anche la classica formazione triangolare (l’essenza vera e propria del rock) ha indubbiamente avuto un ruolo rilevante. Vengono in mente gruppi storici come Cream o la Jimi Hendrix Experience. Diverso, per ovvi motivi, il discorso riguardante le band a due soli musicisti.Venendo ai giorni nostri vale la pena ricordare gente come i Black Keys o i ben più famosi White Stripes, gli Om, i devastanti Black Cobra oppure i Lightning Bolt e per sconfinare nel black più tetro, i Dark Throne.Anche Ingmar Petersen e Claus Peter Hamisch (già sezione ritmica dei doomsters tedeschi Voodooshock) hanno pensato bene di creare un progetto, forse in un primo momento di puro divertissement, denominato Beehoover. Dopo il sorprendente “The Sun Behind The Dustbin” dello scorso anno, i nostri, grazie anche ad un buon riscontro di pubblico, hanno fatto da supporto a gruppi come Stinking Lizaveta e soprattutto Hidden Hand ed è valsa loro la partecipazione al Roadburn di quest’anno.
Ora è la volta di questo Heavy Zooo e a questo punto parlare di semplice progetto risulta senz’altro riduttivo, perché anche se solo in due, i Beehoover dimostrano di essere una vera e propria band.Le dieci tracce che compongono questo album lo testimoniano ampiamente costituendo un puzzle di suoni in cui tutto si incastra a meraviglia. Si parte con “Solitude in Bloom” dove aleggia il fantasma dei Soundgarden di Bad Motorfinger mentre in “Dance like a Volcano” esce anche un paragone con gliamici/colleghi End of Level Boss.
Non mancano riferimenti allo stoner specie nella titletrack e in “I Desert” così come Esophagus Overdrive è una scarica elettrica di pura adrenalina che non lascia respiro. Suoni ruvidi, cambi di tempo, basso preciso e micidiale, drumming potente e selvaggio, questa è in sintesi la loro ricetta.D’un tratto, quasi a voler stemperare la tensione fin qui accumulata, compare “My Funeral Procession” che rammenta i Black Sabbath più contemplativi.Il disco si chiude con una superba Stanislav Petrov dove vengono sorprendentemente a galla certe atmosfere care ai Tool. Sembra incredibile che un lavoro di questo genere sia stato fatto da due sole persone; segno è che
quando la creatività è al servizio della musica e la tecnica sopraffina, i risultati sono ugualmente eccellenti proprio come in questo caso. Grandi.

Cristiano “Stonerman 67”