COMETS ON FIRE – Blue Cathedral

L’attrazione profonda, quasi patologica, per tutto ciò che “puzza” di vecchio fa sorgere il bisogno di scendere nello scantinato e riesumare l’apparecchiatura vintage, sepolta sotto una coltre infinita di polvere e rimasta a dormire un sonno durato anni luce. In condizioni simili di aridità creativa, davanti ad una strada senza sbocchi, l’unica cosa che resta da fare è gettare le sonorità contemporanee alle ortiche, fare marcia indietro e mettersi sui sentieri battuti dagli antenati: il viaggio a ritroso nel tempo, fatto con spinta e mezzi giusti, non conosce più un tempo specifico ma disintegra-frulla-e-ricompone i pezzi, nel suono di quelli che si chiamano Comets On Fire.Da questo big-bang nasce un disco come “Blue Cathedral”, saturo di richiami a colonne portanti come Hawkwind ed Amon Duul II. Uno dei casi meno gestibili di anarchia sonica: il titolo già manifesta che la ricerca dell’originalità a tutti i costi non è stata tra le loro intenzioni (Blue Cheer + Cathedral), ma fornisce le motivazioni per fare musica con lo scopo principale dello sfogo.
Quello che troviamo nel disco è un piccolo compendio del rock psichedelico, dove sono liberi di agitarsi (senza rivoltarsi nella tomba per essere stati plagiati) gli spiriti della Jimi Hendrix Experience, dei Pink Floyd, dei primi lisergicissimi Monster Magnet (quelli sprofondati nel mare d’effettistica che portavano i neuroni ad autocombustione), ed altri che la memoria attenta saprà rintracciare. Quello che però fa la differenza non è da ricercare tanto nelle sonorità a cui si rifanno, quanto nel piglio decisamente istintivo e furioso di chi affonda le radici nell’underground noise e garage rock.
La fortissima indole jammistica del gruppo (dove si trova a scorrazzare anche Ben “Six Organs of Admittance” Chasny) riesce a formare dei buchi neri in cui si viene risucchiati, e l’orgia cosmica a cui si giunge verso la delirante fine di “Whiskey River” dà la certezza di aver toccato picchi soddisfacenti di eiaculazione cerebrale (simile a quello che succede nei psico-naufragi dei Mars Volta). Il tema di “Whiskey River” viene successivamente reso sottoforma di polvere interstellare, proveniente dai lontani corrieri cosmici: qui l’acustico riesce a ritagliarsi un breve spazio nel caos e il tono si fa meditativo, per un attimo dopo la tempesta – inconfondibile è il tocco di Ben Chasny.
Sebbene in questo disco, precedente al più educato e ripulito “Avatar”, la cura sui singoli suoni non sia presente proprio per non intaccare quel grezzissimo acido candore che sprigionano, già si tentava comunque qualche episodio come “Pussy Foot the Duke” che metteva in primo piano un gusto per la melodia tradizionale e una struttura reminiscente del prog dei 70, elementi molto più valorizzati in “Avatar”.
In fin dei conti, la realizzazione di questo album non ha altra pretesa che suonare la musica che ha nutrito la giovinezza dei componenti dei COF, e se ricercare strade nuove per alcuni stili non ha senso, l’unica alternativa possibile è tuffarsi nel passato a caccia dei tesori ancora intatti che hanno lasciato i pirati dello space rock in eredità a chi vorrà scovarli.

Paolo “Neon Born”