Dead Meadow – Old Growth

Se apprezzate i soliti Dead Meadow, forse rimarrete delusi dall’ascolto dell’ultima fatica del terzetto. Non perché il disco non sia oggettivamente ben suonato o privo di idee, ma semplicemente perché non è un disco di heavy psych – o psichedelia lisergica e distorta che dir si voglia – a cui ci aveva abituato il gruppo di Washington DC. O meglio, la psichedelia è presente ma non è preponderante e uber alles, come accadeva in ‘Feathers’ o in ‘Shivering King and Others’, o addirittura nel disco omonimo: tutti grandi lavori che erano stati capaci di piazzare i Dead Meadow ai vertici delle band psichedeliche moderne e attuali, senza sfigurare affianco a band di grandissimo livello come i Colour Haze o i 35007.

Quello che manca in ‘Old Growth’ è proprio la prevalenza di una psichedelia acida, figlia dei 70 e dei 60, ma mai derivativa o ripropositiva di sonorità forse ammuffite e già ben realizzate dai Pink Floyd barrettiani o dai 13th Floor Elevators. No, manca quella capacità di manifestare attraverso la musica immagini, colori e sensazioni reali come sfrenate corse nelle praterie americane, guidati da un totem indiano. Mancano quelle folgoranti melodie che permettevano l’obnubilamento della coscienza, alleggerivano la testa e non ossigenavano perfettamente i nostri centri nervosi centrali, visto che la percezione sensoriale appariva distorta e poco attinente alla realtà. Ma, hey, non è tutto perduto.

Questo è un gran bel disco: da viaggio, ma solo fisico e non più un bel trip da mescalina. Niente welcome to Tijuana, giusto un welcome to Yellowstone. Un ottimo album da viaggio on the road, o una splendida colonna sonora per avventure e giornate passate a contatto con la natura, cosa che peraltro invoglia la splendida copertina. Bene, descritto cosa non troverete, passiamo a elencare i pregi di questo disco: ha un’ottima melodia, con dei ritornelli molto orecchiabili e perfettamente godibili. Non ci sarà mai nulla di così intricato da risultare indigesto.

La psichedelia è ancora presente, soprattutto nelle canzoni più lunghe (“Ain’t Got Nothing (To Go Wrong)”, “The Queen of All Returns”), così come la presenza del sitar in “Seven Seers”. Un rock che si lega di più alla struttura canzone, con un numero maggiore di brani e con una minore durata: il massimo sono i circa 6 minuti circa di “Ain’t Got Nothing (To Go Wrong)”, mentre gli altri vanno dai 2 ai 4-5 minuti. Un disco breve, ma con una sua identità.

Le deviazioni sono verso un garage blues americano, più folk cantautorale che punk-Detroit style. Prendete con le pinze quest’affermazione: hanno qualche punto di contatto con Howl dei Black Rebel Motorcycle Club. Sarà il tipo di voce, più trascinata e figlia di Dylan-Reed, o l’uso di una chitarra acustica di grande atmosfera.

Insomma, un lavoro che si guadagna un sette tondo e gustoso, un disco delicato e molto maturo, ma non certo il più psichedelico della band.

Gabriele “Sgabrioz” Mureddu