La copertina di Doomsday Guru dei Godzillabong

Godzillabong – Doomsday Guru

Inizia con una citazione molto impegnativa Doomsday Guru dei Godzillabong, trio heavy doom di Latina, città che ha visto tra i protagonisti della scena heavy psych band di culto come Misantropus e Zargoma Tree. Citazione che sembra essere un segno di appartenenza, quel Born Under a Black Sabbath Sign come moto propulsore dell’estetica dei Godzillabong. Ma non solo.

Dall’ascolto, che per certi dischi deve essere fatto a volume adeguato ovvero esagerato, emerge una rozzezza tipica delle band di stanza SST, come St. Vitus e The Obsessed; in altre parole una formula di doom di strada, grezzo e senza compromessi, lontano dal freddo della cripta.

Il songwriting di Wesley Darkland, alla chitarra e voce, è grasso e lento come un trattore in campagna e il rantolo vocale prende le traiettorie di Ozzy per trascinarle nei fiumi di erba e whisky dei Weedeater. Dal canto loro Stephhen Drive e Paolo Papa sostengono la sezione ritmica in maniera micidiale, con un basso distorto che mira allo sciamanismo di Sleep e Om.

La strumentale Funeral Karma prende le forme da un riff di chitarra alla Sons of Otis per tagliarsi in una cavalcata heavy metal come gli Orange Goblin di Frequencies from Planet Ten. La titletrack viene data in pasto al basso di  Stephen che richiama il rito dello stregone elettrico del Dorset in una visione di THC flippata.

Sleepwall offre il salvagente per tirarci fuori dalle acque allucinate con una liquida trascendenza psichedelica di oltre undici minuti. Il pezzo, il migliore del lotto, vince e convince sia per la scrittura che per la creatività, e mira a sciogliere in un’unica pozione tutte le influenze e le intuizioni dei nostri.

Non è detto che a breve avremo ancora loro notizie: Doomsday Guru è del 2019 e gli ultimi avvistamenti via social risalgono al 2020. Ma come sappiamo i tempi dello stoner doom sono lenti e dilatati come i loro difensori della fede.

Eugenio Di Giacomantonio