PEARL JAM – Riot Act

E giunse il momento. Già, perchè ogni album dei Pearl Jam è un momento di riflessione per l’intero movimento rock. Oggi, come non mai, siamo di fronte all’ennesima conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno, che la band di Seattle è la più importante dell’intero Pianeta. Non ci sono U2 che tengano di fronte alla strabiliante e continua opera creativa di questi cinque musicisti.
Vedder aveva cominciato, già ad inizio di quest’anno, a girare gli States armato di chitarra acustica e ukulele sputando parole di fuoco contro Bush, gli altri Pearl Jam avevano continuato a fare musica per conto proprio. Riot Act è il disco nel quale le energie dei cinque (Matt Cameron a quanto pare è coinvolto nella scrittura di due pezzi, ma non abbiamo i crediti dettagliati per verificarlo) riportano a casa le forze. Ad ascoltare l’album, prodotto da Adam Kasper e mixato da Brendan O’Brien, si nota la voglia di cercare nuove soluzioni musicali: spesso le chitarre acustiche s’intrecciano con le elettriche, le timbriche sono ricercate, il lavoro al basso di Jeff Ament è particolarmente dinamico, le melodie sono in evidenza, la costruzione di certe canzoni è anomala, alcuni arrangiamenti sono volutamente spiazzanti, la presenza sempre discreta delle tastiere aggiunge qualcosa a un sound a dir poco collaudato. C’è molto di No Code nell’album Un taglio con gli ultimi due lavori; un pugno in pieno volto a chi pensava che i Pearl Jam si fossero “seduti”.

La chicca più evidente è forse il singolo I Am Mine, brano dagli accenti folk proposto dal vivo nel corso degli ultimi dodici mesi in veste sia elettrica, sia acustica (per i collezionisti: il singolo conterrà l’inedita Down). Nel febbraio e marzo di quest’anno Vedder aveva presentato, accompagnandosi rispettivamente con l’ukulele e la chitarra acustica, anche Can’t Keep e Thumbing My Way. Su Riot Act rinascono. La prima, che si sviluppa su un ritmo battente con un incrocio tra chitarre elettriche e acustiche, è una canzone di liberazione esistenziale molto “vedderiana”, un inno a scrollarsi di dosso ogni immobilismo e “fare” fino a trascendere la finitezza umana. Thumbing My Way è una ballata acustica dolcissima, una delle più poetiche incise dal gruppo: immaginate una Off He Goes ancora più delicata. Ma i “rally” di Eddie a base di chitarre acustiche e ukulele non traggano in inganno: Riot Act non è un album morbido. Save You – epica e sostenuta da un riffone monumentale alla Habit e dall’organo del misterioso Boom – sembra essere l’altra faccia di Off He Goes: se il protagonista di quella canzone lascia che il proprio amico si dilegui nel mistero e lo guarda impotente andarsene, quello di Save You affronta i problemi a muso duro e implora: “Aiutami ad aiutarti”.

Singolo potenziale, Love Boat Captain è un po’ la nuova Light Years, solo più dura. Dedicata ai 9 ragazzi di Roskilde, cresce come un’onda per ricordarci che “tutto ciò di cui abbiamo bisogno è amore” e che il dolore ci fa sentire “insignificanti” davanti all’universo. You Are, scritta da Matt Cameron e basata su echi, riverberi e un suono “grasso” di batteria, è il momento “sperimentale” di Riot Act, così come Sleight Of Hand lo era di Binaural: come quella, spiazza ai primi ascolti, ma affascina col passare del tempo. Get Right è al contrario un rock’n’roll viscerale di cui non è difficile prevedere il successo dal vivo e fa il paio con 1/2 Full, uno dei pezzi più convincenti dell’album, fate conto una Red Mosquito più dura con un formidabile solo hendrixiano di McCready. È lui il figliol prodigo dell’album, un po’ sottotraccia su Binaural, impazza in tre, quattro brani nuovi con assoli che oramai faceva solo dal vivo. Meritano un discorso a parte Bush Leaguer, brano sinistro in parte recitato che si prende gioco del Presidente degli Stati Uniti, e Arc, un minuto di puro incanto in cui il canto senza parole di Vedder echeggia quello tradizionale dei nativi americani. Cropduster, coi suoi cambi di tempo, poteva stare benissimo su Binaural a fianco di Insignificance e Grievance, anche se non possiede la medesima forza. Se Help Help sembra francamente una b-side, All Or None è un altro dei grandi finali di album cui sono capaci i Pearl Jam: pura bellezza, per la conclusione, con gli attributi in mostra, di un album bellissimo.

Ma Riot Act è, fin dal titolo, anche un disco politico, figlio della lettura di “cattivi maestri” nelle quali s’è immerso Vedder e d’un clima globale mutato dopo l’11 settembre. Le Torri, la guerra, Roskilde: colpisce ma non stupisce la presenza ricorrente della morte, uno spettro che aleggia in almeno metà delle canzoni.

Non è, questo, un album per chi ai Pearl Jam chiede solamente rabbia o, peggio ancora, “grunge”. Pur non contenendo solo composizioni di prima qualità, e pur avendo una seconda parte inferiore alla prima, dimostra che alla soglia dei 40 anni si può fare musica vibrante e poetica, che si può cambiare restando fedeli a se stessi, che si può giocare in raffinatezza senza perdere in spirito. Sì, i Pearl Jam sono ancora una band viva.

Peppe Perkele