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P.C. TRANSLATE – Inedits
Stare dietro alle pubblicazioni di Paolo Catena è diventata impresa ardua, se non impossibile. Liberatosi da vincoli con label discografiche, il nostro negli ultimi anni ha sciorinato release una dietro l'altra, creando anche una certa confusione utilizzando più monicker (The Improvisor, Paul Cat, Translate e altri). In questo senso non ha certo aiutato la scelta della stampa in edizioni limitate in pochissime copie, distribuite esclusivamente da lui stesso (e il lavoro qui recensito non fa eccezione a questa regola).Ad ogni modo, dopo il doppio capitolo "Quadri musicali" rilasciato a nome Paolo Catena, ecco oggi arrivare "Inedits". Disco che esce a nome P.C. Translate in quanto raccoglie canzoni composte e registrate fino al 2009, anno in cui Paolo ha accantonato questo monicker. Due le certezze assolute di questo disco strumentale. La prima è che la chitarra elettrica torna l'assoluta protagonista delle composizioni. La seconda è che "Inedits" è il disco più doom oriented che Paolo abbia mai realizzato da oltre dieci anni ad oggi. Il doom come lo ha sempre inteso Paolo, ovvero lenti e tetri riff sabbathiani perennemente attraversati/miscelati agli umori psichedelici e spaziali creati dalla sua chitarra, atti a dipingere quadri sonori che danno differenti emozioni ad ogni nuovo ascolto. "Inedits" echeggia quindi le cupe sonorità e soprattutto le atmosfere grigio/nere della prima discografia a nome Paul Chain Violet Theatre e sovente richiama alla spossante lentezza del capolavoro "Alkahest", presentando inoltre reminiscenze del duo "Sign from Space"/"Cosmic Wind" nelle fasi in cui Paolo lascia che la sua passione per la psichedelia e lo space rock guidino il suo estro. Spiace la presenza di brani molto brevi, quasi sicuramente sono una versione bozza che poi magari sarà stata allungata (ma qui non pubblicata) o lasciata morire: un vero peccato. Diversamente, "Reason of Changes", "Surniacat", la conclusiva ossessiva "The End of Love (in the World)" sono manna dal cielo per i molti nostalgici dei suoi esordi, ascoltatori che mai avrebbero immaginato di ascoltare una nuova release di questo tipo dal nostro. Vetta assoluta del disco è la drammatica "Poetry" (impreziosita inoltre dal dolce cantato in francese di Lola Sprint), testimonianza di quante emozioni sappia ancora trasmettere in note l'artista marchigiano. Marco Cavallini
PALE DIVINE – Painted Windows Black
La religione è un fattore opinabile. Premessa d'obbligo quando ci si occupa di gruppi con determinate prese di coscienza, che siano esse discutibili o meno. Nel caso dei Pale Divine il discorso è riconducibile alla scelta di porre la loro cristianità quale monito per creare musica. Attenzione, non si tratta di paldini della fede o di qualunquisti predicatori. La band tratta il tema in maniera riflessiva ed analizzando altri fattori ad essa collegata come morte e miseria. Detto questo, l'aspetto prettamente musicale offre un doom tradizionale ed old school. Attivi già da diverso tempo, i Pale Divine sono tornati con "Painted Windows Black" dopo un silenzio di 5 anni. È il loro quarto album (l'esordio risale al 2001) e si caratterizza per un sound oscuro e triste. Per non essere riduttivi, dobbiamo aggiungere che il loro doom ha un raggio d'azione piuttosto ampio, passando da momenti ariosi ad altri più plumbei, nella classica tradizione del genere.I Pale Divine non si esimono dall'esplorare ogni limite, consci di un bagaglio tecnico di primissimo piano. Il loro stile risulta piuttosto vario grazie a soluzioni stilistiche che portano la band su un percorso musicale che abbraccia chiare influenze progressive (la traccia strumentale iniziale, "Nocturne Dementia", ne dà ampia prova), afflati blues ed echi grunge. Per capire meglio la loro proposta provate ad immaginare i Revelation che incontrano gli Alice In Chains, si macchiano di bordate stile Frank Marino, si scontrano coi Rush e banchettano coi Place of Skulls, strizzando l'occhio al Maryland doom. Per dirla in parole povere, "Painted Windows Black" è un gran bel disco. Non aggiungerà nulla alla storia del genere, ma come nel caso dei Place of Skulls, l'album è zeppo di anima e romanticismo. Un lavoro che qualsiasi amante del genere accoglierà con entusiasmo. Antonio Fazio
PALE HORSEMAN – Mourn the Black Lotus
Dopo il recente debutto targato 2013 con l'album omonimo, torna il quartetto di Chicago dei Pale Horseman con il loro sophomore album intitolato "Mourn the Black Lotus", registrato ai Comatose Studio da Dennis Pleckham dei Bongripper. Dato anche il breve tempo intercorso tra un'uscita e l'altra la ricetta non cambia: le coordinate sono sempre quelle di uno sludge a tinte hardcore venuto fuori dai primi anni '90 e incredibilmente debitore di band come Crowbar o Steelmill. Questo anacronismo e l'incredibile prolissità sono i grandi difetti che affossano questa seconda release. Non basta macinare riff su riff quando gli episodi validi sono esigui ("Conquistador" e "Running for the Caves") e tutto il resto risulta un grande riempitivo. Basta vedere la monolitica "Clairvoyant", oltre 16 minuti per portare avanti un discorso inesistente. Curiosa variante sul tema è il pezzo di chiusura: un remix di un brano precedentemente incluso nel debut album a cui mette mano Justin Broadrick, istrionico cervello dietro le entità Godflesh e Jesu. Cambiando le carte in tavola ci si trova di fronte a un martellante incedere sludge/industrial che se non altro dona personalità a un disco che ne è totalmente carente. Questo dà anche la misura della validità di "Mourn the Black Lotus". Forse era il caso di prendersi più tempo per riordinare le idee. Giuseppe Aversano
PALKOSCENIKO AL NEON – Ikonoklast^a
Se escludiamo la profusione di ‘k’ che fa abbastanza irritare, i Palkosceniko Al Neon sono meglio di quello che appaiono. Il loro modo di essere è forse anacronistico, d’altronde le ideologie sono finite e bisogna essere fieri di andare controcorrente. La forza d’animo di questi quattro ragazzi di Guidonia (Lorenzo, Stefano, Simone ed Enrico) viene fuori nei testi schierati e in un sound incisivo e graffiante.Quanto si ascolta in “Ikonoklast^a” è infatti un contenitore di diverse sensibilità. Da una parte la forza aspra e combattiva che ha reso storico l’hc italiano negli anni ‘80 (parliamo di Negazione, Upset Noise, Kina e Raw Power, i cui spiriti rivivono in brani come la title track e “Stato di calma apparente”); dall’altra l’aggressività abrasiva e metropolitana del noise core targato Unsane (“Shock”, “Disamore”). A tutto ciò si aggiunge un impatto lirico che richiama chiaramente i primi CCCP (“Alta tensione”, “8 punti senza girarci intorno”) e i Massimo Volume, omaggiati con una intrigante versione di “Ororo” ed evocati nella conclusiva, poetica “Maledizione” (gustosa ghost track annessa). I suoni metallici di “Intervallo” sono ben bilanciati dalla militante “Una brutta piega”, le due anime di una band che non ha mai paura di esporsi troppo. C’è ancora molto da migliorare (voce, produzione, personalità di scrittura) ma siamo già su buoni livelli. D’altra parte è una questione da nulla, perché ‘ogni riferimento a fatti, persone, partiti politici ed extra parlamentari, vittorie e sconfitte è fortemente voluto’. Alessandro Zoppo
PALLBEARER – Sorrow and Extinction
I Pallbearer sono un quartetto di Little Rock, Arkansas. Esordiscono con una demo nel 2010, tre tracce di solenne e tristissimo doom metal: con un nome del genere non ci si poteva aspettare altro che funeree visioni. La musica del destino (avverso) è qui lugubre. Morte, tristezza, pena, dolore sono gli elementi cardine di un sound lento e heavy, come da perfetto manuale del doom. Una lacerante disforia pervade "Sorrow and Extinction", riff ossianici e disperati ci guidano in un viaggio che non prevede ritorno poiché la morte sarà il fine, forse una liberazione. I Pallbearer offrono spunti sonori notevoli perché trattano la materia in maniera drammatica. Il termine di paragone è il grande doom del capolavoro targato Warning "Watching from the Distance": il gruppo americano non disporrà dello stesso pathos degli inglesi ma si addentra in simili oscuri meandri con maestria e classe. I quattro sono capaci di trovare diverse soluzioni ad un sound che aveva bisogno di uno scossone per ritrovare quella credibilità e quella dignità che negli ultimi anni aveva spesso smarrito."Sorrow and Extinction" è un grande esordio, capace di far rivivere la grandeur del doom. Se le influenze sono le solite (i nomi che hanno fatto grande questo genere: i già citati Warning di "Watching from the Distance", altri classici quali i Candlemass di "Epicus Doomicus Metallicus", i Cathedral di "Forest of Equilibrium", i Saint Vitus di "Born Too Late"), i Pallbearer sono decisamente una delle rivelazioni del 2012. Che la marcia funebre abbia inizio. Antonio Fazio
PALM DESERT – Rotten Village Sessions
Verrebbe da esclamare: Death Valley! Ma contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare dopo un primo ascolto ed uno sguardo rapido al packaging, bisogna spostarsi sino alla città di Wrocław (Breslavia) per riuscire ad individuare il fortino dei polacchi Palm Desert. La band si affaccia sulla scena musicale nel 2009 con "Down of the Burning Sun" e "The Highest Fuel Level", due album che scoprivano un sound fedele al puro e classico stoner rock, consolidato ulteriormente in "Falls of the Wastelands" del 2010. Sotto l'ala protettiva della BSFD Records, quest'ultima impresa denota qualche evoluzione a livello sonoro e compositivo, lasciando trasparire uno studio maggiormente accurato e orientato verso la ricerca di strutture più raffinate."Rotten Village Sessions" ha tutta l'aria d'essere un album concettuale, una sorta di trip astrale dove il tramonto è principio di una storia che si conclude alle prime luci dell'alba. Accende la miccia "Down the Odyssey": il sole è ancora alto, le ruote fumano e la corsa del sole verso il tramonto è già iniziata. Col vento tra i capelli, "Till the Sun Goes Down" vola decisa verso il crepuscolo, apprestandosi a recitare l'ultimo vespro. La matrice etnico tribale di "Ghulassa Saloon", vero e proprio atto propiziatorio votato al dio Mani, accompagna l'ascesa del mitologico nocchiero lunare aprendo ad una nuova fase astrale. La corsa rallenta, il ritmo diventa cadenzato come a sottolineare lo sforzo necessariamente imposto da una salita. Con "Damn Good" (una delle tracce migliori) e "Shades in Black" si riacquista una certa fluidità sonora. La notte incede perfetta, le sfumature di nero si avvicendano dipingendo scenari diversi, fino a quando "Orbinten" (altro breve interludio) non presagisce un nuovo cambiamento. Le 'ombre acide' giganteggiano aggrappate al mondo in attesa del "White Wolf", inesorabile strappo astrale di melodie morbide suggellate da un finale mistico acustico che chiude accompagnando verso una nuova alba. "Rotten Village Sessions" è un disco che dal punto di vista intellettuale merita attenzione, anche se rimane imbrigliato a livello compositivo sotto l'incantesimo delle icone dello stoner mondiale. Old school! Enrico Caselli
Palmer Generator – Natura
It’s a family affair, come dicevano Sly and the Family Stone, quarantasette anni fa: Michele e Tommaso (basso e chitarra) sono fratelli e Mattia (batteria) è il figlio di Michele. Questo è l’affare più amorevole della loro storia, nata otto anni fa a Jesi, Ancona. I Palmer Generator sono al terzo album e si definiscono post psychedelic core, anche se siamo nelle zone più dolci di Mogwai e Pelican, ossia un post heavy rock tenero come il burro. Natura è un disco in quattro parti, ordinate numericamente, riflessione sulla madre/matrigna tanto cara alle peregrinazioni intellettuali dei romantici, come sembrano esserlo i Palmer Generator che sin dall’opener Natura I viaggiano in punta di piedi con piccoli tocchi e lievi fraseggi. Vicini a certi Causa Sui meno articolati e meno cervellotici, i nostri si abbandonano completamente nelle braccia dei pezzi che toccano o sorpassano i dieci minuti ciascuno: un modo di lasciarsi andare, liberi nelle loro mappe emozionali. Si parte da un fraseggio di chitarra, echo e delay, si sta lì intorno a far lievitare la massa sonora, senza soffocarla. Si aggiungono basso e batteria a colorare il tutto e si passa tra il forte e il lieve senza strattoni. Facile pensare che tutto nasca in sala prove, dopo un joint, in una jam torrenziale e continua, segno del proprio essere e farsi musica. Ogni tanto si sentono echi latini à la Los Natas, altre volte si accende il fuoco motorik (Natura II) che sembra essere, per questo album, il vero centro di gravità. Facile abbandonarsi sulle rive ambientali di Natura III, una decina di minuti space form con qualche spezia orientale, prima del finale di Natura IV che nell’Oriente ci si butta di pancia. L’affare di famiglia è davvero un buon affare. https://www.youtube.com/watch?v=15rNYejg-_8   Eugenio Di Giacomantonio
PANTHEIST – Amartia
Secondo album per i Pantheist, i quali accentuano, eccessivamente, il lato funereo del già desolante debutto “O’solitude”, disco che proponeva i nostri come una delle più liete sorprese in campo depressive doom. Questo nuovo “Amartia” è un macigno (oltre 76 minuti) di funereal doom lentissimo, ma il suo fascino si dissolve quasi immediatamente. Tutto (arrangiamenti, canzoni) è infatti spinto all’eccesso, a cominciare dalle porzioni sinfonico/orchestrali, veramente sfiancanti nella loro lunghezza e ripetitività. Sembra di ascoltare i My Dying Bride al rallentatore, con i pro e, soprattutto, i contro di ciò che questo comporta, tanto che se sarete arrivati al quarto brano (complimenti per la pazienza!) l’entusiasmo si farà da parte, lasciando spazio alla noia più assoluta. Gli ingredienti del genere ci sono tutti: cantato declamatorio/growl, chitarre pesantissime e/o arpeggiate, atmosfere decadenti/funeree, ma l’insieme viene spremuto all’inverosimile.L’iniziale “Apologeia” si discosta un attimo dal resto, grazie all’inserimento di interessanti porzioni dal gusto apocalittico che richiamano alla mente i grandi Void Of Silence, e comunque nei suoi 12 minuti racchiude tutto quanto (idee, sonorità, atmosfere) si ascolterà nei successivi brani, veramente troppo “lineari” nel loro scorrere. La classe non manca e “Amartia” è un disco suonato, arrangiato e prodotto in modo elegante. Ma pur da appassionati del depressive sound sconsigliamo questo “mattone”, a meno che non vi consideriate degli autolesionisti sonori. Marco Cavallini
PARABELLUM – Stainless
Alcuni accordi di chitarra scanditi con incedere pachidermico in un riff che ricorda da (molto) vicino ne più ne meno che il riff iniziale di Black Sabbath (!) vanno ad aprire il lavoro di questi Parabellum intitolato Stainless. La band originaria della Florida sembra essere dedita ad un metal figlio bastardo di Sabbtah e Lynyrd Skynyrd e la denominazione della label, New South Metal, sembra essere assolutamente indicativa della proposta sonora propinataci da questi furiosi sudisti. In certi momenti potrebbero venire in mente, per affinità musicale, certe cose degli Alabama Thunderpussy, anche se altre influenze (come i Pantera, ad esempio) sembrano emergere nel corso della durata del CD. Personalmente ho apprezzato le parti più cadenzate e doom, forse un po' scontate ma molto efficaci, mentre quello che mancano sono forse i riff che nei pezzi più tirati non sono così ficcanti come dovrebbero essere e forse anche un anonimi. Tutto sommato però il lavoro scorre bene e si fa ascoltare abbastanza volentieri, passando anche per delle parentesi alquanto inaspettate come la lenta e delicata Locust Dreams In Potters Field o la chiusura affidata al un veloce assalto di Pacifier.Questa band, pur non convincendomi al 100% ha conquistato la mia simpatia, se ne avete la possibilità dateci un ascolto: questo disco potrebbe rivelarsi una discreta sorpresa. The Bokal
PARADISE – Symmetry
EP d'esordio per i parmigiani Paradise, band nata nel 2006 per volere di Nicola Cavatorta (chitarra) e Andrea De Dominicis (basso). Ai due si unisce subito Francesco Calvo alla batteria; più complessa la ricerca del cantante, che dopo vari cambi ha portato in formazione Filippo Salvadori, che oltre alle vocals porta in dote anche la seconda chitarra. Con la line up finalmente stabile, i quattro proseguono il cammino che li porta alla realizzazione di questo "Symmetry", debutto che racchiude parte del materiale finora scritto dal combo. L'EP mostra alcune sfaccettature ed influenze svariate: i Paradise si inseriscono in quel filone che affonda le sue radici nei tardi 60's e in gran parte del decennio successivo. La band denota influenze che vanno dallo psych garage punk all'heavy rock fino a certo punk, con accenni doom e stoner. Il dischetto si apre con "The Tramp", brano vigoroso che mostra un attitudine punk con richiami a The Who e ai Dust dell'effimero "Hard Attack". Con "Nonsense" i ragazzi si addentrano in territori più classici, consegnandoci un heavy rock strutturato con rimandi a Led Zeppelin e Wolfmother. "I'm About to Break Free" è la canzone più ambiziosa del lotto, brano che avvia con cadenze doomy per divenire poi una sorta di heavy ballad dal forte sapore Settantiano, dove emergono influenze che conducono a Black Sabbath e Grand Funk Railroad, finendo con l'accarezzare l'obscure metal dei primi 80. Chiude il lavoro "All In", fuzzosa ed in parte motorheadiana. "Symmetry" è un buon EP con alcune intuizioni pregevoli e un asssunto base: suonare antichi per essere attuali. Consigliati a chi ha apprezzato Hot Lunch, Wolfmother e compagnia. Antonio Fazio
PARADISE LOST – Anatomy of Melancholy
Diciamolo subito: questo "The Anatomy of Melancholy" (disponibile sia in versione doppio CD che doppio DVD) è quanto di più superfluo (esagerando si potrebbe anche dire inutile) potesse essere pubblicato a nome Paradise Lost. Per due essenziali motivi: il primo è che la loro musica mal si presta ad essere suonata ed ascoltata on stage; il secondo è che dal vivo i Paradise Lost non sono mai stati fenomenali, soprattutto a livello scenico (sembrano 5 statue di marmo), ma anche esecutivo (Nick Holmes su tutti). Da questo secondo punto di vista, constatiamo invece con piacere che il gruppo appare in forma, con Gregor Mackintosch abilissimo nel suonare le sue gotiche linee chitarristiche che hanno fatto scuola.Pare che questo concerto (svoltosi al Koko Club di Londra il 12 aprile 2007) sia basato su una scaletta improntata su un contest via internet e le canzoni qui presenti siano state scelte in base alle richieste dei fan della band. Una cosa alla quale è difficile credere, poiché questo live presenta parecchi brani degli ultimi dischi a discapito di gemme del passato incredibilmente non presenti (come è possibile non poter ascoltare brani come "No Forgiveness", "Joys of the Emptiness", "Enchantment", "Mercy", "Illumination" e tanti altri ancora?). È quindi assai più probabile che il gruppo abbia deciso di dare vetrina a brani di dischi passati quasi nel dimenticatoio ("Symbol of Life", "Paradise Lost"). Ovviamente dischi come "One Second" e "Host" (che decretarono il fallimento commerciale della band quando questa era all'apice del successo) sono appena sfiorati, ma la cosa buffa è che "So Much Is Lost" (opener di "Host") risulti uno dei brani più riusciti ed interessanti del concerto, in questa versione più rock rispetto all'originale essenzialmente elettronica. Per il resto, fa piacere vedere recuperati due brani storici come "Eternal" e, soprattutto, l'immortale "Gothic" (title track del più importante disco gothic metal di tutti i tempi), mentre all'opposto risulta anonima la presenza di "Red Shift", "Once Solemn" e "Grey". I classici ci sono poi tutti, a cominciare da "As I Die" (il loro primo 'successo'), proseguendo con "Embers Fire", "True Belief", "One Second" ed altri ancora. Il voto finale è una fredda media matematica fra la qualità della musica proposta e, come detto in apertura, l'inutilità della sua pubblicazione; un disco esclusivamente auto-celebrativo (magari imposto dall'etichetta decisa a sfruttare il successo dell'ultimo "In Requiem"), la cui punta di diamante è rappresenta da una meravigliosa versione di "Forever Failure" (puro lirismo gotico trasportato in musica). Ai fan del gruppo dovrebbe comunque bastare Marco Cavallini
PARADISE LOST – In Requiem
“Non ho mai visto la luce illuminare il mondo; non ho mai visto una sola verità in tutto ciò che ho sentito”. Queste sono le parole pronunciate in apertura di “In Requiem”. I Paradise Lost sono tornati, ed è di nuovo tempo d’immergerci nella totale rassegnazione/autocommiserazione, è di nuovo scoccata l’ora di guardarsi all’interno dell’animo ed apprezzarne il lato malinconico che ne accompagna l’esistenza.“In Requiem” è il disco che molti fan della band stavano aspettando da anni, un disco duro e pesante che rimanda alla cristallina potenza di “Draconian times” (1995), l’album che consacrò a livello mondiale il quintetto inglese. La chitarra di Gregor Mackintosh è tornata la protagonista assoluta, costruendo lo scheletro delle canzoni, sulle quali si staglia il cantato inconsolabile di Nick Holmes, spesso aggressivo come da tempo non si sentiva. L’iniziale e decadente “Never for the damned” ne è l’esempio più lampante, un brano magnifico dove la chitarra è subito perfetta nel dipingere le sue caratteristiche linee gotiche (vi rendete conto di quante band le hanno copiate?), accompagnata da orchestrali synth di sottofondo. “Praise lamented shade” è un brano quasi doom per lentezza e potenza drammatica, “Prelude to descent” è una gotica ballata elettrica spezzata da lugubri riff ed un’improvvisa accelerazione. “Sedative God” è una cavalcata gothic doom (echi del periodo “Shades og God” si sentono in lontananza) con un bellissimo refrain, mentre la conclusiva “Your own reality” è una mini suite doom dove struggenti assoli chitarristici si fondono con malinconiche note orchestrali. “In Requiem” è il disco di una band ferita, il disco di un gruppo che dopo anni di critiche e momenti bui è tornato, e mostra di avere sempre una marcia in più rispetto a tutti, nonostante gli anni siano passati e la scena si sia ampliata a dismisura. “In Requiem” è l’ennesimo riuscito lavoro di quella che, volenti o nolenti, è la più grande ed influente band della storia del gothic metal. Negarlo sarebbe la più grande delle ipocrisie. Marco Cavallini
PART CHIMP – Thriller
Ed io che pensavo servisse la barba di Neil Fallon ed il fegato di Paul Gasgoigne per fare la differenza nell'olimpo dei “brutti, sporchi e cattivi”. Questi Part Chimp, con tanto di polo e facce da bravi ragazzi, hanno scelto una via alternativa per entrarci di diritto: chitarra, basso, batteria e montagne di amplificatori. Una formula tanto semplice quanto efficace.Fin dall’irresistibile opener, l’abum si presenta come un tripudio di chitarre adipose, saturazioni spacca timpani e grande versatilità sonora. Cosa chiedere di più? La potenza sprigionata da ogni singola nota, come fosse un caterpillar in discesa senza freni che ha preso velocità, è inarrestabile ed inesorabile, pronta a giocarsi la resistenza degli speaker del malcapitato ascoltatore; tant’è impressionante il muro di suono qui disposto, che a percuotere i strumenti sembrano una dozzina anziché 4. Distorsioni in grado di far crollare palazzi interi ed inghiottire tutte le macerie e la polvere creatasi attorno alle rovine, lasciando solo il vuoto. Perfetta anche l’alternanza tra pezzi groovy (“Trad”), altri dilatati (“Dirty Sun”, “Tomorrow Midnite”, “Super Moody”) ed altri ancora articolati (“Today 3”, “Sweet”), con un unico comune denominatore: creare il suono più loud possibile. Merito di una produzione in grado di esaltare i bassi buca-stomaco ed uno dei fuzz più sporchi che ci sia dato ascoltare. Pura libidine uditiva che fluisce senza intoppi, mentre le vocals si pongono a metà strada tra lisergiche soluzioni a la Loop e rock scanzonato. Noise rock U.S. + stoner + grunge = “Thriller”. O meglio, prendete Pissed Jeans, Mudhoney, Black Sabbath, Harkonen, Melvins e fategli fare la lotta nel fango. Né Paul Gasgoigne, né Neil Fallon e né Bud Spencer potranno fare di meglio. Damiano Rizzo
PARTNERS IN CRIME – Die sublimo!
Quattro pazzi con la passione per la droga, il male, i b-movies e lo sludge. Se si dovessero definire i Partners In Crime in una frase questa sarebbe la sintesi perfetta. Una manciata di registrazioni tanto per cominciare (demo d’esordio nel 2003, un 5 tracce intitolato “Kill for peace, war forever”, poi distribuito dalla PsycheDOOMelic con un live registrato a Luynes nel 2005), degli pseudonimi che non lasciano presagire lieti pensieri (J. Deported, KKK, Mr. Void, He who doesn’t have a cool pseudo yet) e la benedizione della black metal mafia francese. Ora “Die sublimo!” per mettere le cose in chiaro fin da subito.Sludge doom lercio e maleodorante, in pieno stile Eyehategod, Iron Monkey, Grief, Toadliquor. La registrazione è abbastanza scadente ed è questo il vero punto debole del cd, ma la furia e la cattiveria ci sono tutte. La title track e “Sabin” ne sono la dimostrazione, schegge impazzite sparate a velocità supersonica, impeto hardcore e furia noise che sostituiscono il grasso dei riff. “On progreSS” abbozza una malsana melodia su una struttura di chiaro stampo Pentagram, “Q.i” e “Solid sheet of luminescent fire” hanno la lentezza straziante di una decapitazione e successivo dissanguamento, la conclusiva “Carnation (come to daddy)” è un colosso di 7 minuti che strazia con il sorriso sulle labbra, perfetta emanazione del maligno chiamata sludge core. La fotografia dei Chips che campeggia allegramente tra due croci nel retro della cover è un particolare che rende ancora più inquietante la figura dei Partners In Crime. Deve girare strana roba a Marsiglia… Alessandro Zoppo
PASSOVER – Il lustro del palazzo
I Passover sono impregnati fino al midollo della lezione underground/indie italiana dei Novanta. Non quella più longeva di Afterhours e Marlene Kuntz, ma quella più sommersa e prelibata di Fluxus e Six Minute War Madness. Il cantato, in italiano, è ricercato: sonda e trova un buon mix di contenuti e melodie. I sette pezzi di questo primo album edito da Falena Dischi scorrono compatti. Le cose più riuscite sembrano le dilatazioni e i rallentamenti di "Echo e Delay" e "Sail" (in lingua inglese), ma in generale si nota una costruzione della canzone in maniera ortodossa. Riff, ritornello e ponte is the law.
D'altra parte il rock è sempre divertimento e Giorgio, Federico e Daniele hanno scelto la formula migliore per divertirsi: il power trio. Hanno voluto fare le cose per bene, producendosi DIY e coinvolgendo attorno a loro amici e sostenitori. Perfetto. Potrebbero ambire (e crediamo che lo stiano puntando) ad un pubblico rock ad ampio raggio, che coinvolga freak, stonati, metal contaminati e indie rockers di ogni genere. Una volta si poteva dire che il pubblico perfetto per loro era quello di Arezzo Wave, tanto per avere un'idea dell'aria che si respira tra questi solchi, anche se "Machete" è puro stoner Queens of the Stone Age. Menzione speciale per titolo e canzone "Elettrosantopertini (Superfuzz)" e alla santa valvola che vibra nel retrocopertina. Chapeau! Eugenio Di Giacomantonio
PATER NEMBROT – Extended Pyramid
Con un calore emotivo prossimo alla stagione unplugged di metà anni Novanta si presenta "Extended Pyramid" dei romagnoli Pater Nembrot. Un rumore catturato in sala studio, una chitarra acustica e una voce lenta come lava hanno la stessa disperata dolcezza vista negli occhi di Layne Staley. Partire così è come fare una confessione a cuore aperto. O come mostrare la famiglia da cui si discende. In ogni caso, una dichiarazione di genuinità. Philip Leonardi (chitarre, voce, flauto, synth), Jack Pasghin (basso) e Alfredo "Big J" Casoni (batteria) hanno voluto rappresentare il loro ideale di perfezione mescolando influenze che valicano i confini di tre decenni. E ci sono riusciti sintetizzando Mad Season, Los Natas, Melvins, Pink Floyd, Cream e Blue Cheer in appena 18 minuti. L'iniziale minisuite composta da "Extended Prayer" e "Solace When I Think I Live in a Post Post-Modern Era" fa scontrare frontalmente le principali dottrine underground della fine del secolo scorso, grunge vs stoner, sorpassando di lato quel mostro a nome Motorpsycho. Le discese ardite e le risalite. Il dolce e il piccante. Lo schiaffo amoroso. Eccellente. Appresso "Exile" è la dolce vita. Come prima, meglio di prima, il battito lento della batteria viene tumulato nel granito delle chitarra. Qualcosina in più emerge: uno stile fatto di chiaroscuri che vuole andare a trovare il blues proprio dove l'avevano lasciato le rock band degli anni 70 come Leaf Hound, Black Cat Bones e Cactus. Calore bianco come si leggeva da qualche parte. Calore italiano come si potrebbe ipotizzare oggi. Sempre meglio questi Pater. Sempre meglio. Eugenio Di Giacomantonio
PATER NEMBROT – Mandria
Arriva finalmente il full-lenght d'esordio dei Pater Nembrot, preceduto dall'omonimo EP e partecipazioni a diverse compilation (tra cui il nostro volume 2 delle Desert Sound), undici tracce di infuocato stoner-psych cantato in italiano che non disdegna incursioni nel suono seattleiano e nel prog (di matrice hard rock). Diciamo subito che la Go Down ha indovinato per l'ennesima volta, dato che il combo di Cesena realizza un album decisamente valido, che contiene brani espolsivi di marca Fu Manchu/Blue Cheer ai quali vanno aggiunte influenze dei Monster Magnet dei tardi anni 90, Thin Lizzy, Hendrix e primissimi Smashing Pumpkins, riletti con la dovuta personalità. Ne emerge una precisa messa a fuoco, che tra taglienti riff ultra fuzz, chitarrismi psych e parti vocali ben calibrate, può tranquillamente far annoverare i Pater Nembrot come un convincente gruppo stoner della sempre più densa schiera italiana. L'ombra di Leigh Stephens - e in parte del rock alternativo - aleggia subito nell'incalzante "Collirio d'Oltremare", ideale incipit live, e lo stesso dicasi per l'ottima "E' Permesso", song dinamica basata su solidi riff hard 70 e solista psichedelica (non a caso inclusa nella zine Generated-X.de nella propria raccolta Electric-Magic). La terza traccia è la rabbiosa "Povero Diavolo" puro panzer stoner/hard dal refrain irresistibile, con tanto di accelerazione lisergica nelle ultime battute. Gli oltre dieci minuti di "Mandria" mostranono il lato più ossessivo dei Pater Nembrot, persi nell'incubo psichedelico di riff giganteschi e fasi sospese acide, progressive e bluesy, un bel viaggione senza ritorno come esplicitato dal cantato iterato di Filippo Leonardi. "Il Canto dei Frati" sembra in effetti un pezzo dei Biglietto per L'Inferno in mano agli strumenti rotolanti di Scott Hill e Brad Davis, così come la pazzesca "Due Punti Per Una Linea", che fa crescere a mille la tensione hard con affilate parti di loudness guitar. "Infrarosse Pt. 1: Eterna" è un blues-prog acustico effettato, "Infrarosse Pt. II: Ghirlande" è l'ennesimo assalto di rock duro saturo di groove e "Infrarosse Pt. III: Brillanda" l'ultimo bellissimo trip acid rock con tanto di cori west coast in lontananza.Regalo finale con la cover di "Reverberation", altro pezzo forte dei romagnoli, che con "Mandria" mantengono tutte le aspettative, e pure oltre! Roberto Mattei
PATER NEMBROT – Mandria EP
Altro prezioso tassello si aggiunge al mosaico stoner italiano. Da Cesena arrivano i Pater Nembrot, nati nel 2002, con un paio di album auto prodotti alle spalle ("Memoficina" del 2004 e "Hombre Scarlatte" del 2005) e la partecipazione ad alcune importanti compilation come "Desert Sound - The Rise of the Electric World vol. 2" e "Wild Sound from the Past Dimension", nella quale coverizzano "Reverberation" dei 13th Floor Elevators. Il momento positivo prosegue con l'ingaggio da parte della Go Down Records e l'uscita di questo ep di quattro pezzi, "Mandria". Dischetto che ci mostra una band potente e affiatata, alle prese con uno stoner rock robusto e corposo, cantato in italiano, variopinto e lisergico, sporcato di Seattle sound, progressive e rock'n'roll, senza mai dimenticare massicce dosi di psichedelia.Filippo (chitarra, voce, synth), Giulio (batteria) e Giacomo (basso) sono un power trio in piena regola. Lo dimostra il tiro pazzesco che donano all'opener "Collirio d'oltremare", razzo garage stoner che parte a velocità supersonica e rapisce con la sua melodia a presa rapida. La scelta di cantare in italiano premia e non penalizza, tanto che "È permesso?" appoggia delle vocals nervose ed isteriche su un delirio di fuzz in piena tormenta Fu Manchu. "Mandria" è il pezzo forte dell'album: dieci minuti di sano rock psichedelico, dilatato e trippy, esplosivo e travolgente, caratterizzato dalle vocals profonde di Filippo. Chiude il lavoro "Il ponte dei frati", brano diviso tra tentazioni prog e rock inacidito. Ennesimo colpo per la Go Down, i Pater Nembrot hanno personalità e gran forza. Attendiamo il full-lenght definitivo per ulteriore consacrazione. Alessandro Zoppo
PATER NEMBROT – Nusun
Dopo il bellissimo "Extended Pyramid" ci si aspettava qualcosa di grosso. Con quell'EP i Pater Nembrot hanno allargato il loro modo di esprimersi, affrancandosi definitivamente da band kyussiana e facendo proprio il concetto di musica espansa. Nel mentre, è entrata in formazione Ramona come seconda chitarra, dando alla band uno spessore granitico nello scolpire quel muro di suono tanto caro ai nostri. Il nuovo album "Nusun" parte proprio come un viaggio o un film: lievi tocchi di piano (suonato dal primo ospite della partita, Petra Wallace) introducono come titoli di testa una trama fatta di viaggi interstellari mescolati agli aromi del deserto.
C'è il desiderio di fare crescere e sviluppare i pezzi senza condizionamenti, bilanciando le dinamiche interne con la ripetizione, non sempre spiccicata, del riff portante. "The Rich Kids of Teheran", "El Duende" e "Architeuthis" oltrepassano gli 8 minuti e risultano essere, oltre ai più compositi, i brani migliori. All'interno, fraseggi di chitarra, spunti armonici e inserti di synth (Chris Peters e Piotre Benton) si alternano organicamente creando una relazione con l'ascoltatore dove si realizza l'alleggerimento dello spazio/tempo. Merito soprattutto del cantante/chitarrista Filippo Leonardi, capace di essere creativo e originale con pochi elementi, fuori dalla logica del funambolismo a tutti i costi. Quando il dono della sintesi prende il sopravvento, si realizzano altri piccoli gioielli come "Young Rite" (bell'espressione a metà strada tra Yawning Man e Dead Meadow) e "Dead Polygon", titoli di coda, questa volta affidati alla chitarra acustica.
Alla fine del viaggio rimangono gli echi di una musica genuina e speciale insieme. La musica tuot court, non solo quella heavy psych e altresì quella italiana, è stata arricchita da un piccolo gioiello che ci auguriamo verrà ricordato tra quaranta anni come oggi noi ricordiamo i lavori degli anni Settanta. Eugenio Di Giacomantonio
PATER NEMBROT – Sequoia Seeds
Dopo aver tessuto le lodi dell'eccellente "Mandria" del 2009, ci sembra giusto fare un piccolo passo indietro per parlare del suo successore "Sequoia Seeds", l'album che ha segnato un punto di svolta nel cammino musicale dei Pater Nembrot. Con queste seconde registrazioni i romagnoli accantonano la lingua madre per dedicarsi al classico inglese, con risultati che permangono di alto livello. La parziale 'mutazione' si riflette anche nei contenuti musicali, dato che sale in cattedra una sorprendente attitudine heavy psych che furoreggia lungo tutti i solchi, a discapito delle influenze prog che permeavano brillantemente lo stoner rock delle origini. Ne scaturisce uno degli organismi più compiuti in tal senso a livello tricolore, e che fa segnare un'altra importante uscita all'interno del nostro panorama.Il lento, perentorio brano d'apertura "The Weaner" sembra mettere d'accordo i Nebula più 'pesanti' e i mai troppo glorificati Comets on Fire, e soprattutto una grande traccia come la seguente "H.A.A.R.P." si rivela un puro saggio di solidità psych '70 lontana da forzati revivalismi. Le varie "Supercell", "Three Georges Damn'" e "The River" virano con decisa personalità verso i lidi dello stoner a stelle e striscie intinto di acido e fantasioso rock'n'roll, tanto da far tornare alla mente gli anni gloriosi di Core e Atomic Bitchwax. Dopo l'approccio più tradizionale di "Sequoia" (piuttosto ispirata da Neil Young), la band di Leonardi e Casoni riesplode col riff di "Once Were Mud", altro potente brano pregno di suggestioni bluesy. Ispirate e convincenti anche la trasognata "Awakening with Curiosity", l'energica e scoppiettante "Ratla Kim" e la psichedelia space-desertica di "No Man's Land", con tanto di hidden track per chiudere in bellezza. Roberto Mattei
PAUL CAT – Collage Creation
Si scrive Paul Cat, ma si legge Paolo Catena, ovvero Paul Chain. Sì, perché nonostante da anni sia calato il silenzio assoluto sul suo nome, Paolo è attivo come non mai e sembra che per il futuro ci stia riservando parecchie sorprese. Da alcuni anni Paul ha avviato un suo sito dal quale è possibile ascoltare e scaricare gratuitamente i suoi ultimi lavori. Di questo “Collage Creations” fino a qualche mese fa erano disponibili solo pochi sampler di qualche secondo, mentre ora i brani sono stati “caricati” nella loro durata totale ed è così possibile ascoltare il lavoro per intero.Essendosi liberato da ogni vincolo contrattuale/discografico e stando ormai fuori da ogni regola del music business, Paolo non mette limiti alla sua creatività, e questo “Collage Creations” può ricordare le sue vecchie cassette “Relative Tapes”, ovvero quelle incisioni dove Paolo includeva brani di ogni genere musicale, magari senza un apparente filo conduttore. Capita così di passare da bravi squarci acustici (“To Fall and Up”, “Winter Landscape”) ad improvvisazioni free rock (“Translate Introduction” , “Two Guitars and…” e “Nowhere”), per arrivare a brani sinceramente imbarazzanti come “Attack of Mix Drums” (un rudimentale assolo di batteria) e “Point of Echoes” (un superfluo assolo di chitarra). Ma stiamo parlando di Paolo Catena, non dell’ultimo arrivato; ed infatti, quando ormai le speranze sembrano svanite, ecco arrivare canzoni come “Sunrise Energy” (una suite che vive sull’incontro/scontro fra porzioni ambient e frequenti incursioni di chitarre psichedeliche), la lunga “Crazy Cat Guitar Improvisations” che rappresenta il Paul Chain style che non morirà mai, ovvero quello delle lunghe jam session dove la chitarra viaggia su lidi blues/psichedelici accompagnata da una ritmica dal passo cadenzato. Infine la spettrale “Gain Floor“, uno dei migliori brani dark mai composti da Paolo, una canzone che serve a ricordare a tutti chi sia il Maestro del doom italiano, un’oscura cantilena che pare venire direttamente da capolavori passati come “Detaching from Satan”, “In the Darkness”, “Life and Death” ed il mitico “Alkahest”. Aspettarsi un nuovo album di Paolo tutto improntato su questo stile è chiedere troppo, in quanto il nostro ha scelto la strada dell’autoproduzione proprio per svincolarsi da schemi stilistici prestabiliti. Resta comunque l’enorme soddisfazione di sentirlo ancora in grado di partorire alcune gemme che vanno ad aggiungersi alla sua discografia, una discografia fondamentale per chiunque voglia avvicinarsi all’arte oscura e psichedelica. Marco Cavallini
PAUL CHAIN – Cosmic wind
Giunge al secondo ed ultimo capitolo discografico la saga spaziale di Paul “The Improvisor” Chain, alias Paolo Catena, per chi ancora non lo sapesse fondatore dei Death SS nonché sperimentatore a tutto tondo di sonorità che nel corso degli anni hanno spaziato dal doom all’heavy rock passando per l’elettronica esoterica, la psichedelia ed il progressive. “Cosmic wind” è la prosecuzione del discorso intrapreso con “Sign from space”, progetto nato nel 1999, appartenente al “Container” 3000 (Paul suddivide tutto il suo immenso archivio in specifici settori denominati appunto “container”) e registrato il giorno successivo (7 Novembre) l’incisione del primo sigillo. Non cambia il “contenitore” e dunque non cambiano le caratteristiche del lavoro: label è la Beard Of Stars (sempre più un colosso nel panorama heavy psych odierno), l’artwork è della Malleus, la line up vede sempre Alex Vasini alla chitarra, Danilo Savanas alla batteria e Paul diviso tra basso, vocals (al solito in pura fonetica), synth, tastiere ed effetti vari. La matrice sonora è ovviamente lo space rock roboante di matrice Hawkwind e il kraut rock degli Ash Ra Tempel, con frequenti puntatine verso dinamiche psichedeliche in pieno stile Pink Floyd e un approccio visionario che si appoggia su ricami dal gusto onirico e spirituale. Se le due lunghissime parti (25 e 22 minuti ciascuna) in cui è suddiviso l’album ammaliano per acida corrosività, le fughe astrali del buon Paul, devoto al demone dell’improvvisazione, rischiano di stancare ascoltatori poco avvezzi a questo tipo di sonorità. Drumming monolitico, rumori stranianti, vocalizzi che provengono dal profondo del cosmo e dilatazioni lisergiche sono gli ingredienti di questo trip dall’alto tasso ipnotico. L’ascolto dunque è consigliato a chi stravede per colui che un certo Lee Dorrian ha definito “italian doom maestro” e per tutti coloro che hanno voglia di compiere una fuga intergalattica tra stelle in collisione, supernove che esplodono e vortici astrali. The cosmic wind always blows… Alessandro Zoppo
PAUL CHAIN – Unreleased vol.1
Paul Chain è morto e poi risorto. Dopo aver annunciato la sua morte artistica, l’eclettico “italian doom maestro” (così definito da un certo Lee Dorrian…), autore di tante pagine fondamentali della musica hard & heavy in Italia, lascia il suo ultimo sigillo con questa raccolta di inediti. In totale tredici brani, tredici tasselli che non hanno trovato posto nel monumentale “Alkahest” e nei suoi precedenti lavori e che per l’occasione vengono rispolverate da oscuri e temibili cassetti. Non si sa cosa ci riserverà il futuro di Paolo Catena, per adesso possiamo ancora degustare il suo raffinato senso compositivo in questi oltre 70 minuti di pura dimensione onirica, un viaggio intergalattico che dal basso, dal buio degli inferi, ci conduce nella dimensione terrena per poi trasportarci sulle ali dell’improvvisazione verso nuovi orizzonti spazio temporali. La musica di Paul Chain è questo ed altro: è volo, introspezione, fuga, meditazione, esperimento, ossessione. Scrigni abbaglianti racchiusi in un una personalità davvero unica, tanto distante dal sistema musica nella sua accezione più materialista quanto vicina all’animo di tutti quelli che fanno dell’arte la propria ragione di vita. Stili variegati dunque, che si intrecciano nel ricordo per dar vita ad un ascolto eccitante e sempre interessato. Ecco allora che trova piena giustificazione il passaggio da macigni heavy psych (“Song of Estefan”, l’arrembante “Mindblower”, l’avvolgente strumentale “Secret voice”, la dilatata “Terror in air lines”, il manifesto programmatico “Bubble gum of a psychedelic man”) a mazzate di doom lisergico del calibro di “Cosmic collision” (pezzo da brivido!), “R.10” (con una coda acustica da pelle d’oca…) e “Short fly”. La psichedelia cosmica che ha invece caratterizzato l’ultimo periodo dei “containers” trova libero sfogo nell’onirica “Momentary lights” e nella fasi conclusive di “Bridge parts” e “Space travel”, dove soffici tastiere ed effetti stranianti creano un mondo parallelo ovattato e soave, distante anni luce dal convulso vivere moderno. Tema che ricorre idealmente anche in “Trouble trumpet” e “She tomy my”, episodi d’avanguardia che richiamano la vena più teatrale di Paul, caratterizzati dai vocalizzi vellutati di Sandra Silver e da tappeti sonori ancestrali. Un capitolo indispensabile questa prima parte di inediti per capire la vera essenza di un artista così fondamentale quanto poco valutato. Ciò ovviamente in attesa del volume 2 dove finalmente potremo gustare altre prelibatezze, tra cui l’attesissima collaborazione con un altro guru del doom, Scott “Wino” Weinrich. Alessandro Zoppo
PAYOLA – V Tod Motor Motel
Il soggiorno al fantomatico V Tod Motor Motel raffigurato in copertina deve aver fatto molto bene ai Payola, i quali dopo un'intensa attività live, diversi cambi di line up e numerose uscite discografiche ("Horror risin' at the horizon", "For those who know" e "Get on the buzz!") hanno finalmente trovato la quadratura del cerchio e composto la loro opera più compiuta e riuscita. Già, perché il nuovo "V Tod Motor Motel" presenta una vivacità ed una libertà compositiva davvero fuori dal comune. Ai cinque ragazzi tedeschi riesce molto bene fondere tra loro le diverse sfaccettature che animano il proprio background: ecco come spiegare un sound che rielabora la materia hard rock attraverso la psichedelia, arrangiamenti in stile Beck, fuzz desertici e soprattutto un eclettismo sempre vincente perché amalgamato alla perfezione nelle sue diverse componenti. Dimostrazione di stile e classe sopraffina sono le iniziali "Ragged broom" e "Still around", tracce caratterizzate da melodie cristalline, ammalianti fraseggi di chitarre e tastiere, ruvidi suoni garage e passionali iniezioni blues. E' come se tutta la storia della musica rock fosse riletta alla luce delle tendenze odierne, con un occhio di riguardo per costruzioni ardite alla Queens Of The Stone Age ("Chosen M.C. Loser", la splendida "Got me bleeding"), senza per questo dimenticare la loro natura ruspante e diretta. In realtà ciò che sorprende è la presenza di episodi come "On short legs", "Better Americans" e la successiva "The selfish haircut", debitori nei confronti di un certo gusto elettronico tipicamente anni '80, così come di una traccia del calibro di "Sleeper in disguise", country folk d'annata con tanto di lap steele e slide guitar. A riportare il sound sui precedenti binari ci pensano invece il rock dinamico di "White letter boogie" e l'heavy funky psichedelico di "Count the monkeys", mentre "Queen for the day" è un altro prezioso sigillo posto a conferma di una capacità di songwriting che spazia agilmente anche in territori pop dal taglio beatlesiano. Giunti verso il finale, "Born a liar" non fa altro che confermare quanto di buono proposto con un miscuglio esplosivo di wah-wah lisergici e melodie azzeccate. Un altro colpo in casa Exile On Mainstream Records: la qualità delle sue uscite comincia a sorprendere, siamo sempre più al cospetto di una realtà indipendente convincente ed soprattutto di alta qualità… Alessandro Zoppo
PEARL JAM – Riot Act
E giunse il momento. Già, perchè ogni album dei Pearl Jam è un momento di riflessione per l'intero movimento rock. Oggi, come non mai, siamo di fronte all'ennesima conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno, che la band di Seattle è la più importante dell'intero Pianeta. Non ci sono U2 che tengano di fronte alla strabiliante e continua opera creativa di questi cinque musicisti. Vedder aveva cominciato, già ad inizio di quest'anno, a girare gli States armato di chitarra acustica e ukulele sputando parole di fuoco contro Bush, gli altri Pearl Jam avevano continuato a fare musica per conto proprio. Riot Act è il disco nel quale le energie dei cinque (Matt Cameron a quanto pare è coinvolto nella scrittura di due pezzi, ma non abbiamo i crediti dettagliati per verificarlo) riportano a casa le forze. Ad ascoltare l'album, prodotto da Adam Kasper e mixato da Brendan O'Brien, si nota la voglia di cercare nuove soluzioni musicali: spesso le chitarre acustiche s'intrecciano con le elettriche, le timbriche sono ricercate, il lavoro al basso di Jeff Ament è particolarmente dinamico, le melodie sono in evidenza, la costruzione di certe canzoni è anomala, alcuni arrangiamenti sono volutamente spiazzanti, la presenza sempre discreta delle tastiere aggiunge qualcosa a un sound a dir poco collaudato. C'è molto di No Code nell'album Un taglio con gli ultimi due lavori; un pugno in pieno volto a chi pensava che i Pearl Jam si fossero "seduti". La chicca più evidente è forse il singolo I Am Mine, brano dagli accenti folk proposto dal vivo nel corso degli ultimi dodici mesi in veste sia elettrica, sia acustica (per i collezionisti: il singolo conterrà l'inedita Down). Nel febbraio e marzo di quest'anno Vedder aveva presentato, accompagnandosi rispettivamente con l'ukulele e la chitarra acustica, anche Can't Keep e Thumbing My Way. Su Riot Act rinascono. La prima, che si sviluppa su un ritmo battente con un incrocio tra chitarre elettriche e acustiche, è una canzone di liberazione esistenziale molto "vedderiana", un inno a scrollarsi di dosso ogni immobilismo e "fare" fino a trascendere la finitezza umana. Thumbing My Way è una ballata acustica dolcissima, una delle più poetiche incise dal gruppo: immaginate una Off He Goes ancora più delicata. Ma i "rally" di Eddie a base di chitarre acustiche e ukulele non traggano in inganno: Riot Act non è un album morbido. Save You - epica e sostenuta da un riffone monumentale alla Habit e dall'organo del misterioso Boom - sembra essere l'altra faccia di Off He Goes: se il protagonista di quella canzone lascia che il proprio amico si dilegui nel mistero e lo guarda impotente andarsene, quello di Save You affronta i problemi a muso duro e implora: "Aiutami ad aiutarti". Singolo potenziale, Love Boat Captain è un po' la nuova Light Years, solo più dura. Dedicata ai 9 ragazzi di Roskilde, cresce come un'onda per ricordarci che "tutto ciò di cui abbiamo bisogno è amore" e che il dolore ci fa sentire "insignificanti" davanti all'universo. You Are, scritta da Matt Cameron e basata su echi, riverberi e un suono "grasso" di batteria, è il momento "sperimentale" di Riot Act, così come Sleight Of Hand lo era di Binaural: come quella, spiazza ai primi ascolti, ma affascina col passare del tempo. Get Right è al contrario un rock'n'roll viscerale di cui non è difficile prevedere il successo dal vivo e fa il paio con 1/2 Full, uno dei pezzi più convincenti dell'album, fate conto una Red Mosquito più dura con un formidabile solo hendrixiano di McCready. È lui il figliol prodigo dell'album, un po' sottotraccia su Binaural, impazza in tre, quattro brani nuovi con assoli che oramai faceva solo dal vivo. Meritano un discorso a parte Bush Leaguer, brano sinistro in parte recitato che si prende gioco del Presidente degli Stati Uniti, e Arc, un minuto di puro incanto in cui il canto senza parole di Vedder echeggia quello tradizionale dei nativi americani. Cropduster, coi suoi cambi di tempo, poteva stare benissimo su Binaural a fianco di Insignificance e Grievance, anche se non possiede la medesima forza. Se Help Help sembra francamente una b-side, All Or None è un altro dei grandi finali di album cui sono capaci i Pearl Jam: pura bellezza, per la conclusione, con gli attributi in mostra, di un album bellissimo. Ma Riot Act è, fin dal titolo, anche un disco politico, figlio della lettura di "cattivi maestri" nelle quali s'è immerso Vedder e d'un clima globale mutato dopo l'11 settembre. Le Torri, la guerra, Roskilde: colpisce ma non stupisce la presenza ricorrente della morte, uno spettro che aleggia in almeno metà delle canzoni. Non è, questo, un album per chi ai Pearl Jam chiede solamente rabbia o, peggio ancora, "grunge". Pur non contenendo solo composizioni di prima qualità, e pur avendo una seconda parte inferiore alla prima, dimostra che alla soglia dei 40 anni si può fare musica vibrante e poetica, che si può cambiare restando fedeli a se stessi, che si può giocare in raffinatezza senza perdere in spirito. Sì, i Pearl Jam sono ancora una band viva. Peppe Perkele
PECCATUM – Lost in reverie
Solitamente si dice che il terzo disco di un gruppo sia quello fondamentale. Svolta o definitiva consacrazione. Se questo assioma è vero, beh, i Peccatum sono tra i gruppi più brillanti dell’odierno panorama musicale. Una vita artistica che nasce nel 1998, quando Ihsahn (che gli appassionati di metal hanno osannato per anni alla guida di Thou Shalt Suffer e Emperor) si lega a Ihriel ed in compagnia di PZ (Source Of Tide) dà vita all’esordio “Strangling from within”. Rimasti in due dopo l’uscita del secondo “Amor fati”, i Peccatum di oggi tornano a ruggire con “Lost in reverie”, disco che sin dalla splendida copertina sottolinea l’atmosfera cupa e decadente di cui è permeato. I puristi del metal e gli accaniti amanti del black storceranno il naso, anche se non sarebbe la prima volta ad accadere con un duo del genere. Ma nonostante tutto qui ci sono 50 minuti di grandissima musica, un concentrato di stili che fa invidia a qualsiasi gruppo degno di nota. Un aura ancestrale e romantica avvolge tutte le composizioni, che gravitano attorno all’estro poliedrico di Ihsahn (voce, chitarra, basso e programmazioni) e alla voce fatata di Ihriel. Gli unici appoggi esterni sono quelli del percussionista jazz Knut Aalefjaer e di PZ e Einar Solberg, presenti per alcune parti vocali. L’ambient atmosferica dell’iniziale “Desolate ever after” apre il disco in grande stile, divisa tra inserti maligni e cadenze trip hop. Subito dopo c’è il gioiello dell’intero lavoro, quella “In the bodiless heart” che ammalia per i suoi intarsi acustici e per una struttura rock intricata, ai limiti del progressive. Un brano suadente come pochi. Le reminiscenze black vengono fuori in “Parasite my heart” e “Black star”, ma sono sempre bilanciate da intelligenti stacchi di piano e dai vocalizzi eterei di Ihriel, la cui tonalità profonda e sensuale rapisce l’anima dell’ascoltatore. “Veils of blue” è invece una composizione trip hop liquida e sognante, costruita su una solida base rock e su tempi jazzati. L’opposto di “Stillness”, agghiacciante per i suoi sinistri rumori industriali e avvincente per il suo approccio sperimentale e futurista. Mentre solo alla fine viene piazzata “The banks of this river is night”, passionale ballata sinfonica che scioglierà il vostro cuore in un mare di lacrime… “Lost in reverie” necessita di un ascolto attento e pacato. Attenzione a snobbare questo disco, sarebbe un grande errore. Ihsahn e Ihriel si dimostrano ancora una volta una coppia di grande talento e di immenso spessore. Sperimentazione ed innovazione sono le loro parole d’ordine. Ignorarle sarebbe un vero peccato. Alessandro Zoppo
PECKINPAH – That’s All Bad Folk
Nove tracce per 30 minuti in punta di chitarra. Questo è "That's All Bad Folk", secondo lavoro di Lorenzo Bettazzi, in arte Peckinpah. Un passato con la decennale rock band fiorentina Zenerswoon ed un presente da cantastorie di amori e disastri, sconfitte e tradimenti. Ovvia l'ispirazione al vecchio zio Sam: oltre alle tematiche cantate, è altrettanto evidente la voglia di star fuori dal coro delle tendenze odierne. Pregevole lavoro griffato Canebagnato Records, registrato al Bunkerhaus Studio di Firenze da Sonic Saboteur e Ricca, questo disco è balsamo per ogni animo che combatte e non si rassegna, si sbronza di tequila e piange calde lacrime alla vana ricerca di un altrove.L'iniziale "Elle" è una delle canzoni più belle scritte negli ultimi anni, contraltare agli afflati traditional di "Summer", "In the Meantime" e "Drunken Lover". Una vena folk classica, intimista e solitaria, arricchita da piacevoli infiltrazioni elettriche in "None of Them", da suggestivi chiaroscuri in "Morning Eye" e da struggenti note di pianoforte nella conclusiva "Grinder". "The Seed" introduce un feeling weird ideale per ballare al chiaro di luna come novelli Cable Hogue, mentre "Call Me a Believer" è ancora più storta e psichedelica, da Junior Bonner in sella ad un puledro impazzito. Non si può che volere bene ad un progetto come Peckinpah. Perché i tempi saranno pure cambiati, ma Lorenzo Bettazzi no. Alessandro Zoppo
PEEPING TOM – Sav rocker / Peeping Tom
Che gruppo strepitoso questi Peeping Tom! E quanto è incredibile il fatto che i loro primi due lavori (l'ep "Sav rocker" e il full lenght omonimo) siano stati auto prodotti dalla band, ancora senza un contratto discografico… Misteri del music business! Ma di sicuro in tempi come quelli di oggi la proposta di questi quattro ragazzi australiani può risultare a molti anacronistica. Non di certo a chi apprezza la buona musica, quella scritta e suonata con cuore e cervello. E i Peeping Tom rientrano senza alcun dubbio nel novero di questi pochi eletti.Il loro sound è un sincero e totale tributo a quei grandi mostri sacri che negli anni '60 e '70 hanno scritto pagine fondamentali nella storia della musica. Hard rock, heavy blues, psichedelia acida: tutto questo oceano è attraversato dalla proposta del gruppo. Che dunque va oltre i soliti canoni stoner rock e affronta a viso aperto, con onesta devozione, le proprie radici sonore. Ciò a partire dall'ep "Sav rocker", quattro brani divisi idealmente come un vecchio 33 giri su due lati. Il primo ci propone la bellissima title track, un pezzo hard rock in puro stile '60/'70, tra Hendrix, Cream, Led Zeppelin, Captain Beyond e Mountain, condotto da chitarre versatili, vocals sentite e ritmiche elastiche. Una goduria per le orecchie di chi è appassionato di tali sonorità. Così come ripete "Horatio's bastard son pt.1" in apertura di secondo lato e ribadisce "Horatio's bastard son pt.2", heavy rock robusto ed imponente, con una puntatina in territori funky e tonnellate di groove. A chiudere i giochi ci pensa invece "Sav's return", conclusione acustica che dona la giusta atmosfera di plastica stasi e chiude con garbo il disco. Già con un pugno di canzoni la band australiana ha conquistato il nostro cuore, non servirebbe aggiungere altro. E invece "Peeping Tom" rincara la dose, affinando addirittura produzione e songwriting. Gemme del calibro di "Of constellation argus", "Truck city drive" e "Hass no" viaggiano sulle frequenze magiche dell'hard rock psichedelico, un delirio di riff e assoli che ci riportano indietro di 35 anni, con una base ritmica che scorre liscia e parti vocali che grondano passione e sentimento. Ma il meglio deve ancora arrivare. Infatti la tripletta formata da "Wet leaf", "Auxiliary priest" e "Maiden Japan" fa davvero faville. Viaggiamo su territori heavy psych, dannatamente ipnotici (alla maniera dei nostrani e mai troppo compianti That's All Folks!) e conditi di rallentamenti sabbathiani che arrivano a strizzare l'occhio al doom. Tanta completezza per degli esordienti è quanto meno sbalorditiva… Soprattutto se si pensa che l'ultima song, "Shoodabeenrope", ha il compito di porre fine al lavoro con un heavy rock tosto e tirato, al limite con lo stoner. Sono strepitosi i Peeping Tom, semplici cantori di un'epoca che si dimentica sempre più spesso. Lasciatevi guidare… It's rock, it's hard and it takes no prisoners! Alessandro Zoppo
PELICAN – Australasia
Peccato aver ascoltato solo ora con una certa attenzione il primo full lenght dei Pelican. Se fossimo stati un po’ più rapidi questo stupendo dischetto sarebbe entrato senza dubbio nella play list del 2003. Ma alla fine poco male, l’importante è che questo gruppo di Chicago non passi inosservato e che la sua musica si sparga in tutto il globo come il viaggio transatlantico che i loro suoni producono. Già autori di un pregevole ep che avevo suscitato molti consensi negli ambienti underground, i Pelican si sono ripresentati forti di una coesione interna ancora più pronunciata producendo un disco composto da soli sei brani strumentali per la durata totale di 50 minuti. Pezzi lunghi e complessi dunque, che necessitano di ripetuti ascolti per essere carpiti nella loro pura e primigenia essenza. I quattro infatti (Trevor de Brauw, Laurent Lebec, Larry e Bryan Herweg) svariano su diversi fronti sonori, ammettendo come sostrato di base soltanto un terreno psichedelico che consente di giostrare a piacimento le influenze dure e slabbrate. Proprio per questo motivo “Australasia” è un disco che potrà piacere a una moltitudine di ascoltatori: a tratti è percepibile la voglia di abbracciare i copiosi sentieri del postcore (non a caso l’etichetta che li ha prodotti è la Hydra Head) con sfuriate deflagranti e costruzioni armoniche scostanti (lo dimostrano la toccante “GW” e la lunga ed articolata “Angel tears”, sorretta da incredibili cambi di tempo ed impreziosita da inquietanti atmosfere sinistre). La maggior parte delle volte invece è la matrice doom psych a prevalere, soprattutto nella doppietta iniziale formata da “NightEndDay” (11 minuti dall’altissimo tasso emotivo incastonato nei saliscendi eretti dalle chitarre, granitiche e al tempo stesso liquide) e “Drought”, splendida visione multicolore dove le ritmiche seguono passo dopo passo l’alternanza dei riff, duri come il marmo, freddi come il ghiaccio, liberatori come un temporale estivo… Singolari sono anche gli scenari acustici dipinti dalla quinta traccia, brano senza titolo che dona un momento di placida stasi prima della conclusiva title track, simbolo dell’intero disco per la presenza di tutti gli stilemi compositivi dei quattro (scheletro camaleontico le cui ossa sono ritmiche corpose, elementi heavy e aperture lisergiche) e quindi marchio distintivo del suono targato Pelican. “Australasia” è un volo, un trip tra scenari aperti, selvaggi ed incontaminati. Se avete voglia di libertà avete trovato pane per i vostri denti. Alessandro Zoppo
PELICAN – City of echoes
C’è qualcosa che lascia l’amaro in bocca al termine dell’ascolto di questo disco. È difficile da spiegare, ma è palpabile come un senso di amarezza una volta che il cd ha concluso il suo percorso. Forse i Pelican ci avevavo abituati troppo bene, con album di grandissimo livello, capaci di donare forti scosse ed emozioni. Questo nuovo “City of echoes” non è affatto un cattivo disco, anzi, ma il gruppo comincia forse a mostrare le corda, con canzoni che si trascinano stanche e prive di quel lampo capace di fare la differenza.Il genere è quello dei lavori precedenti: post doom rock, ovvero un incrocio fra la lentezza tipica di certo post rock e la pesantezza del doom metal, nonostante quest’ultima caratteristica sia ormai sempre meno presente nella musica dei nostri. Questo è un disco che piacerà sicuramente a chi possiede l’intera discografia della band, mentre a chi non li conosce consigliamo di tuffarsi sugli album passati. Alcune canzoni non sono davvero male, per esempio risulta veramente bella l’acustica “Winds with hands” ed anche “Spaceship broken parts needed” è un gran pezzo, con le chitarre liquide abili a creare un vortice dove è piacevole perdersi; la conclusiva “A delicate sense of bilance” rapisce i sensi, apparendo come un inedito heavy dei Mogwai. Il fatto è che sui dischi passati questi tre pezzi sarebbero passati quasi inosservati, mentre ora si ergono sugli altri; cosa significa tutto ciò? Marco Cavallini
PELICAN – The fire in our throats will beckon the thaw
Post doom rock. Ecco spiegato in tre parole quanto proposto dai Pelican, una delle più liete sorprese degli ultimi anni. Solitamente i recensori utilizzano il termine “post” quando non sanno come definire un disco e cercano in questo modo di dare un tono intellettuale al proprio scritto, ma, credeteci, mai come in questo caso il termine usato in apertura è stato più azzeccato. Preceduto dall’EP “March into the sea” (qui riproposta in una nuova e più breve versione), questo “The fire in our throats will beckon the thaw” è il secondo full lenght per il quartetto americano (al debutto con “Australasia” nel 2003). Un disco interamente strumentale che emana un fascino e un gusto particolari, in grado di rapire l’animo e portarlo lontano.Sette canzoni fungono da colonna sonora per un ‘viaggio’ che una volta iniziato sarà bellissimo proseguire fino alla fine, avendo poi la voglia di ricominciarlo non appena il cd sarà terminato. Una musica lenta, lisergica e soffusa che non manca però di slanci d’elettricità satura (anzi) e che ha la capacità di far convivere la dolcezza di certi passaggi acustici con la pesantezza del guitar riffing tipico del doom. Per darvi un’idea della proposta dei nostri, pensate ai Mogwai (forse i massimi esponenti della scena post rock) che “flirtano” col doom, oppure immaginatevi dei Neurosis meno claustrofobici e più “umani”; non sarete molto distanti dallo spettro sonoro abbracciato dai Pelican. Lunghe porzioni arpeggiate fanno da preambolo a pesanti sfuriate elettriche, le quali lasciano poi spazio a dolci passaggi acustici; il tutto ammantato in un’atmosfera squisitamente apocalittica. Stupisce, ma neanche troppo, il fatto che un gruppo dal così grande potenziale sia ancora quasi completamente sconosciuto in Europa (del resto finchè le copertine le riempono Hammerfall, Dimmu Borgir, Stratovarious e compagnia…); fortunatamente la band è oggi supportata dall’intraprendente Hydrahead (etichetta che ha anche lanciato i grandi Jesu) e si spera che in un futuro prossimo possa raggiungere il consenso e la stima meritati. Se fra i vostri acquisti non vi concedete molti azzardi, i Pelican devono esserne uno. Marco Cavallini
PENDAGLIO DA FORCA – Prima esecuzione
Con "Prima esecuzione" i Pendaglio da Forca ci offrono una bella mezzoretta di heavy psych spruzzata di estetica punk rock. La band di Latina raccoglie il meglio tra i personaggi militanti nell'underground più oscuro e verace (Monkey's Factory, Zargoma Tree, Pornoise) e riesce a fare sintesi delle esperienze di ognuno riuscendo a proporre qualcosa di originale. Il motore propulsore sembra essere il disagio che viviamo in questi giorni nel Belpaese e i testi di Pietro (l'influenza punk più marcata) vogliono far esplodere la rabbia che ognuno prova di fronte alle ingiustizie, alle prevaricazioni e agli abusi di potere. L'inquinamento ambientale e culturale, il potere del Vaticano, le logge di governo, la guerra sulle popolazioni deboli, gli sbarchi combattuti con gli affondamenti e gli abusi sulle donne sono davanti ai nostri occhi e bisogna sapersi indignare, non guardare altrove. Ma non è solo cronaca da telegiornale. A completamento viene esplorata la risposta emotiva che queste atrocità provocano sulla persona. Condizionamento mentale, disagio, repressione e depressione, fine delle speranze e pazzia. L'invito è resistere. Ribellarsi. Se non ora quando? Dalla parte musicale si ha un saliscendi tra ritmi accelerati che richiamano il punk old school del '77, mescolato a una influenza desert rock "carne e patate" con riferimenti a Karma to Burn, Unida, Slo Burn, Clutch e tutta quella parte vitaminica dello stoner. Nel bel mezzo del viaggio una bella sorpresa, "I pensieri della mente": una mazzata proto doom con voce salmodiante e riff tombale. Come coniugare le diversità senza risultare incoerenti? I Pendaglio da Forca hanno scoperto l'alchimia. Attendiamo successivi sviluppi. Eugenio Di Giacomantonio
PENTAGRAM – Relentless
I Pentagram non hanno bisogno di presentazioni. Riconosciuti ed apprezzati pionieri del doom, idolatrati da orde di fans e musicisti da oltre 30 anni, rilasciarono il loro debut album nel 1985 per la Pentagram Records/Dutch East Recordings. Il masterpiece, dato alle stampe semplicemente come "Pentagram" è il medesimo lavoro recensito in queste righe, salvo un diverso ordine dei pezzi ed alcune diverse registrazioni, uscito in seguito sotto Peaceville nel 1995 e reintitolato "Relentless". Riproposto nel 2005 in versione digipack e correlato di un curato booklet interno, la dice lunga sull'importanza che questo disco ha avuto all'interno del movimento. Il tempo non ha scalfito minimamente il suo fascino, capace di risultare ancora attuale nonostante siano passati 26 anni dalla sua uscita. Apre le danze (macabre) "Death Row" che ci attraversa come uno spettro e fa raggelare il sangue. Black Sabbath all'ennesima potenza, distillato della parte più maligna, oscura ed elettrica. Molti riconosceranno "All your sin" per essere stata coverizzata dai Cathedral nel demo "In memorium", seguono "Sign of the wolf" e "The Ghoul" che vi tirerà giù dalla sedia, vi farà accendere una candela e tremare di piacere con un megariff pieno e terrificante. Ma qui non si butta via niente. Ogni cosa proposta brilla di luce (spettrale) propria. Ritengo Victor Griffin un eccellente riff-maker, Hasselvander uno dei migliori batteristi che una band doom possa desiderare (passato per un periodo anche alle chitarra/basso, dopo la dipartita dello stesso Griffin). Completa il tutto Bobby Liebling, che con la sua voce incolore dà un'atmosfera particolare al tutto. Ogni singolo pezzo è un anthem da cantare nella vostra caverna, dove vi state agghindando prima di recarvi al sabba della notte di Ognissanti. Il lavoro è coeso, come raramente mi è capitato di ascoltare. La produzione è polverosa, ma credetemi, dischi come il successivo "Day of reckoning" non hanno beneficiato della maggiore pulizia del suono, perdendo notevolmente di fascino. Un classico del dark-doom. Assolutamente da avere nella propria collezione privata. LONG LIFE TO PENTAGRAM Gale La Gamma
PENTAGRAM – Show ‘em how
Tornano i padrini del doom, i grandiosi e sempre troppo sottovalutati Pentagram. Una band ormai di culto per tutti gli appassionati delle sonorità rock più oscure e cavernose. Con il nuovo “Show ‘em how” il gruppo di Bobby Liebling ci mostra davvero come fare a mantenere forma, classe, tecnica e feeling nonostante il passare degli anni. Un esempio di concretezza e attitudine che tutti i giovani musicisti di oggi dovrebbero prendere ad esempio.Attutito infatti l’abbandono del partner storico Joe Hasselvander (il quale ha lasciato la partita per motivi familiari), Liebling per il sesto studio album ha allestito una formazione stellare: alla chitarra e al basso troviamo rispettivamente Kelly Carmichael e Adam Heinzmann, entrambi provenienti dagli Internal Void; dietro le pelli invece siede Mike Smail, già all’opera con Penance e Cathedral. Da questo rinnovamento non poteva che uscirne fuori un disco mastodontico, coriaceo e corposo ma in parte diverso rispetto ai recenti “Review your choices” e “Sub basement”. L’amore del singer per la grande tradizione acida e heavy di Blue Cheer, 13th Floor Elevators, Dust, Budgie e Sir Lord Baltimore viene fuori in pieno nella maggior parte degli episodi, caratterizzati da pennellate psichedeliche, costruzioni sonore cariche di groove e riff sì cupi ma decisamente maestosi. Il collegamento con il passato lo mantengono le due tracce iniziali, “Wheel of fortune” e “Elektra glide”, marchi di fabbrica targati Pentagram impreziositi dalle consuete vocals luciferine di Liebling e da chitarre rocciose come il marmo (senza per questo disdegnare qualche infiltrazione bluesy). La riproposizione di “Starlady” comincia a far muovere le acque verso nuove direzioni: impatto psych e melodia che si appiccica immediatamente al cervello sono i vettori di un sound tanto criptico quanto coinvolgente. “Catwalk” ritorna su lidi claustrofobici e dannatamente ossessivi, heavy doom come sanno fare in pochi, prima della mazzata assestata da “Prayer for an exit before the dead end”, brano che chiude la prima parte del lavoro tra scossoni elettrici, infiltrazioni acustiche e una grande prova vocale di Bobby, evocativo e romantico al tempo stesso. “Goddess” è un’altra interpretazione da incorniciare. Drammatica, notturna, passionale. Un pezzo che in pochi minuti ci fa vivere emozioni non da poco. “City romance” ha invece un andamento marziale tipicamente doom che riporta ai tempi di “Relentless” e “Day of reckoning”, mentre “If the winds would change” è una sorta di ballad lisergica contrassegnata dai crescendo di chitarra e ritmiche che donano un’aura epica al tutto. Ma è quando arriva la title track che scoppia il putiferio: cinque minuti di puro godimento estatico in pieno stile Pentagram, riff e vocalizzi al massimo della forma ed un finale dilatato che scuoterà l’animo di ogni amante dell’heavy psych. La conclusione è però affidata alla particolare “Last days here”, altra ballata amara imbevuta d’acido, tanto suadente ed onirica da provocare una stordente assuefazione. Arrivati a questo punto cos’altro aggiungere? “Show ‘em how” è l’ennesima dimostrazione di forza per una band capace di rinnovarsi pur mantenendo saldi i legami con il proprio passato. Un modello di tenacia e personalità sopraffina che dura da ormai 30 anni. Come si dice in questi casi… Doom on! Alessandro Zoppo
PERIZONA EXPERIMENT – Fine e nuovo inizio
Continua l'avventura di L'Ex, Gabin e Pax, in arte Perizona Experiment, mai del tutto considerati per il loro valore, ma che rimangono una delle realtà più importanti e originali degli ultimi dieci anni nel campo della psichedelia progressiva nostrana. Dopo il monster "Ora è sempre", passato in sordina sulla stragrande maggioranza della stampa specializzata, i pescaresi presentano l'advance del loro nuovo lavoro, "Fine e nuovo inizio", titolo che non potrebbe apparire più sintomatico...Si può stare tranquilli, l'area desertica sottoposta allo studio di fenomeni arcaico/ufologici gode ancora di rilassanti vibrazioni space, post-rock e sperimentazione, allacciate a distese melodie capaci di sospendere lo scorrere del tempo, che nel caso dei Perizona assume le fattezze di un parametro assolutamente irrilevante: non si potrebbe dire altro dei (quasi) 27 minuti dell'iniziale "Red", una placida distesa che si inalbera con forza al progredire della prospettiva visiva, un po' alla maniera dei Motorpsycho, anche se il linguaggio dei Perizona è sicuramente più scarnificato, proponendo come al solito gustose variazioni trance, dub-reggae, blues, jazzy, hard-prog, etno, ricreando una moltitudine di contrasti atmosferci... Dopo il ponte telepatico ambient-rock di "Rainbow Bridge" troviamo la trasfigurata denuncia di "Politicheis", incisiva suite prog/space/desert (contenente parti 'narrate' tratte dagli j'accuse di Piero Ricca (!!) e Milano Libera) mendacemente separata dal suo proseguio "Manca poco", e il trance-rock di "Ladri d'acqua" nel quale l'ospite PabloSax recita una protesta ecologista. Con "LocNess2012" ci caliamo invece in una dimensione psichedelica dai contorni tribali, in bilico tra sottigliezze etniche e scariche chitarristiche, ed è sicuramente un gran brano dal quale l'impronta kraut/space dei Perizona Experiment risalta definitivamente. Un album validissimo anche questo, che continuerà a separare ammiratori e detrattori del gruppo... Noi rimaniamo con i primi. Rob Mattei
PERIZONA EXPERIMENT – Ora è Sempre
L’ultima fatica in studio dei Perizona Experiment risale al 2006, e va ad infoltire la copiosa discografia del grande gruppo pescarese, che ricordiamolo ha alle spalle già una decina di pubblicazioni, tra full-lenght, demo non ufficiali e live album, e conoscerne l’opera omnia significa addentrarsi nella lettura dei tomi di un’enciclopedia completa dello psiconauta: dallo space rock ‘contaminato’ dei primi dischi, passando per le successive ricerche psichedeliche ad ampio raggio contenute in “Kuxan Suum”e “Hunab Ku”, fino a “Ora è Sempre”, probabilmente l’opera più ambiziosa, che racchiude accessibile (ma elaborato) rock e avanguardia tout cour. Oltre ai molti collaboratori, la formazione è stabile su L’ex Luthor (chitarre, samples, altro) e Gabin (basso), i batteristi Herbert e Alessandro Paci, nonché la superba cantante Silvia e le varie voci maschili di Ebenio, Giulio e Nua; al mixer ritroviamo come da tradizione Marco Ranalli (Insider), che interviene anche in alcune partiture chitarristiche.La gustosa confezione ripiegabile del digipack contiene in allegato tutti i testi e l’immancabile gadget, stavolta una bella cartolina dedicata alla festa del raccolto, che avvolge il dischetto. Il materiale e le idee che compongono “Ora è Sempre” sono stati concepiti nel quinquennio 2001-2005, ma mai pubblicati su altri cd, e trovano la loro compiutezza in questo bellissimo album, distante svariati parsec da qualsivoglia tentazione commerciale, pur nella sua registrazione pulita e studiata a fondo. L’incipit sono i versi recitati di “A Te”, un testo di origine ignota che invoca, è da presumere, tutte le generose meraviglie della sacra madre Terra, tra scrosciare di pioggia, loop magnetici con voce abissale alterata e il fischio del whistle, un inizio di viaggio sintomatico, verrebbe da dire… Il primo brano vero e proprio è “Ora è Sempre”, introdotto da voci sciamaniche (un trademark dei Perizona) che lasciano fluire un rilassante rock psichedelico affine a Porcupine Tree, Velvet Underground e sotterranee esperienze di inizio millennio (Kropotkins): tra marcature blues, voci ed effetti fuoricampo, e il sottofondo di uccelli marini, viene evocata forse non a caso la struggente figura di Maureen. Lo stesso inizio progressivo è riservato a “Reversus/Whistle For Ur” che trova i suoi sincronismi accoppiando un doppio narrato femminile inglese/italiano, su loop di musica cosmica e ripresa del whistle, che rimandano a Tangerine Dream e Klaus Schultze. Rumori dall’abisso oceanico e i vocalizzi da sirena di Silvia condiscono “Deep Stirngs/L’Urlo”, uno dei brani più avant-garde: tenebrosi arpeggi generano tensione per lunghi istanti di minimalismo, poi sopravanzano scampanelii, i “soliti” samples sottili e stranianti che donano un’aura mistica, e accordi chitarristici psych, in un lentissimo crescendo che sovrappone space rock, electro e percussivismo orientale. Subdola e ingannevole (come da titolo) “L’Infingarda Pescara”: rock/blues dalle stralunate cadenze reggae, scandito dagli ironici versi narrati ripetutamente da Silvia, con la cantante che in sottofondo si esibisce in un repertorio da brividi: dapprima imposta il suo timbro su registri gothic, poi dà ampio sfogo ad arie liriche e vocalizzi jazz. “Now is Forever” (in bilico tra rock epico e blues) e “Jimi Love” (un dialogo tra ‘stoners’ preso dal festival di Wight sommerso da rumorismo psichedelico) sono interludi che precedono “A Billion Dollar Crop”, un altro must: un’apologia delle virtù dell’Erba, decantate da commenti di hippy, predicatori, magazine popolari, discorsi di Fiorello La Guardia (sindaco di New York degli anni 30), appelli subliminali antiproibizionisti e dialoghi filtrati tra consumatori, e musicalmente composta da un’eterogenea miscellanea di funky, progressive italiano, psichedelia, post rock e elettronica. Seguono altri due brevi episodi effettati da synth, voci evocative maschili e basso in primo piano, “Speranza (Hope)” e “Ora e Sempre (reprise)”, e quindi è la volta della teatrale “La Via, La Verità, La Morte”: dopo una intro che deve molto ad Antonius Rex, prende corpo una psichedelia ossessiva con voce goth rock, intervallata da sfoghi da bad trip in sottofondo, su continui passaggi che rimandano al rock sperimentale di Jessamine e Shellac, infarcito di fasi solistiche più tipicamente prog-psych. Più impalpabile “Redentro”, basata su synth e voci sfuggenti, che generano anche in questo caso un rock siderale compenetrato da Floyd, ‘consueti’ Tangerine Dream e indie rock dei tardi anni 90 di gruppi come i Karate. L’ultima traccia si dipana prima in “As Long as You Can”, immota avant-garde con vocalizzi femminili che riportano ad esperienze come The Third & The Mortal e Arcana perdute in qualche recesso dell’universo, poi nella ghost track di “Earthship Landing 2012”: sonar spaziali captano segnali alieni che si contraggono in un impercettibile sussurro esotico. Davvero un grande album, geniale, partorito dentro una piccola mela verde. [cit. da traccia 5] Roberto Mattei
Pharaoh Overlord – II
Le condizioni ideali per ascoltare questo secondo capitolo della saga Pharaoh Overlord sono tre: sgombrare la mente da ogni singolo pensiero, chiudersi da soli in una camera buia e farsi trasportare dalle vibrazioni che usciranno fuori dallo stereo. Solo così potrà essere carpita la vera essenza di questo strabiliante gruppo finlandese. Già, perché i Pharaoh Overlord nascono dalla volontà del chitarrista Jussi Lehtisalo, mentre della cult band finnica Circle, il quale, in compagnia di Tommi Leppanen (batteria) e Janne Westerlund (basso), è sicuramente guidato dalla ferma intenzione di voler destabilizzare i neuroni dei suoi ascoltatori. La missione riesce in pieno con un disco composto da 50 minuti di puro rock psichedelico, altro che stoner. Qui dentro non si scherza affatto: jam astrali totalmente improvvisate, sussiste solo uno scheletro ritmico, il resto è tutto estro ed astrazione, fughe lisergiche e trip intergalattici. Immaginate un incrocio tra Pink Floyd, psichedelia californiana, fuzz, space e kraut rock: il risultato è solo una minima parte di ciò che è contenuto nei microsolchi di questo dischetto. Il suono di batteria secco e jazzato che apre “Komaron Runner” viene subito preso d’assalto da un basso soffuso e da chitarre astrali che ci trascinano in una nuova dimensione spazio temporale. “August” è puro rock per la mente, delicato e sognante, punteggiato da una chitarra acustica che apre la psiche, mentre “Dark Temper” coniuga rilassanti atmosfere dilatate con sinistri rumorismi che sembrano provenire da una sonda piazzata su Marte. “Skyline” è un monolito accecante guidato da un riff di chitarra ripetuto fino allo spasimo, è un loop che entra nel cervello e fatica a lasciarlo immerso com’è in una marea di feedback ed effetti stordenti. Si passa nuovamente al relax acustico con “Love Unfittered”, altro colosso che continua con l’espediente che sta alla base di tutto il disco, un senso di sospensione, una continua alternanza di stati d’animo, un meccanismo di suspense che sta per esplodere e sul momento del botto si placa all’improvviso. È lo stesso sistema che sorregge la conclusiva “Who Were You”, minimalismo psichedelico di stampo fantascientifico, la perfetta colonna sonora per un rapimento alieno. Chi ama le sonorità ruvide e decisamente rawk lascerà questo dischetto a prendere polvere sullo scaffale del più vicino negozio di dischi. Chi invece ha voglia di osare si affretti ad aprire il portafoglio, i Pharaoh Overlord non vi faranno rimpiangere i soldi spesi, anzi, alimenteranno i vostri sogni più inaciditi. https://www.youtube.com/watch?v=RNu24tYn-IA

Alessandro Zoppo

PHASED – Aeon
Vi è mai capitato che qualcuno vi chiedesse il nome di una band heavy psych svizzera contemporanea? No? Be', neanche a me. Ora, però, nel quanto mai improbabile caso che dovesse succedere, saprei dare una risposta: i Phased. Questa è una deliberata ammissione di ignoranza, e ancora più avvilente per il fatto che il combo d'oltreconfine calca le scene già dal 2001. Per essere più precisi, la prima incarnazione – battezzata Phased 4°F e vicina a sonorità noise – risale al 1997 e sforna un album al volgere del nuovo millennio. Dopodiché, ridotto sia il nome sia l'organico, i Phased imboccano la via del rock psichedelico tra spazio e deserto, prendendo a esempio da un lato gli Hawkwind e dall'altro i Kyuss. Il cantante e chitarrista Chris Sigdell rimane saldo al posto di guida, nonostante gli svariati cambi di formazione, e negli anni sterza sempre più verso territori pantanosi. Tre album (due usciti per la tedesca Elektrohasch), una compilation, ben cinque anni di iato dagli studi di registrazione, e la band torna con la sua ultima fatica: "Aeon", mixato da Richard Whittaker (che ha un curriculum mica male) e masterizzato da Greg Chandler (avete presente gli Esoteric?), vede la luce nel novembre 2015 su licenza della Czar of Bullets di Basilea.
"Aeon" è un album cupo nella mente e nel corpo: nella voce quasi apatica e nei riff scabri, nei testi angosciosi e nelle ritmiche messianiche. Ma anche un album in cui non manca una certa vena ironica – "Human kebab on a stake / Fuel the fire burn in hate", recita del resto "Burning Paradigm". Sì, insomma, i Phased conoscono i dettami lirici e sonici del genere, ma non giocano a fare i duri della situazione, il che, in un calderone underground che già ne trabocca, va a loro vantaggio. Ma bando alla ciance e veniamo alla musica… ebbene, avete presente la chitarra di un tale Dave Chandler? E ricordate lo Stregone Elettrico degli anni d'oro? Ecco, proiettateli in orbita, e direi che ci siamo: arrivati a "(Return of the) Son of the Sun" viene da immaginarsi gli Hawkwind in pieno bad trip che coverizzano i Black Sabbath al ralenti. Certo, con queste premesse si potrebbe pensare a una perla di rara ispirazione. Nulla voglio togliere alla bontà del prodotto, né alla passione del trio, però non viaggiamo di certo all'altezza dei classici del genere. In altre parole: le canzoni hanno il loro perché, l'ascolto regge dall'inizio alla fine, manca "soltanto" un piglio più originale. Ma se non cercate l'estro a tutti i costi, se non siete stufi dei riff à la Saint Vitus, se gradite un pizzico di space nel vostro doom, i Phased vi daranno delle soddisfazioni. Davide Trovò
PHASED – Medications
Strana band i Phased. Nascono nel 1997 dalle ceneri dei Mercury 4°F, due dischi alle spalle (“Schtomp… and decadence” del 2000, “Music for gentlemen” del 2003) e una line up cosmopolita. Chris Sigdell (voce e chitarra), Chris Walt (basso) e Marko Lehtinen (batteria) provengono da Svezia, Svizzera e Finlandia. È forse questo miscuglio a produrre il risultato che si ascolta in “Medications”, ibrido di stoner, punk, rock’n’roll, space e doom che il gruppo stesso definisce ‘psychedelic deathrock’.Non tutto è messo sempre a fuoco. A volte si ha la sensazione che il gruppo sbandi proprio per un eccesso di eterogeneità. Tuttavia ascolto dopo ascolto il lavoro si fa apprezzare e affascina non poco. I Phased di oggi vogliono aggredire e stupire. L’album inizia con un paio di oscure matasse che ricordano le sonorità malsane di Porn e certi Melvins (“Worship the sun”, “Nihil slayride”); prosegue accelerando talvolta i ritmi per puntare su un impatto speed’n’roll (“Reminder”, “Back in time” - ideale punto di incontro tra Hawkwind e Motorhead -), altrove poggiando su una struttura più semplice, smaccatamente hard rock (“The marsh chapel experiment”, “Traces”). Se “Sausage tricks” elabora temi ‘sabbathiani’ e si lascia andare ad un svisata ultra acida dove si fa notare il basso di Chris, in “Frozen buds” e “Solitary animal” riff secchi ma carichi di groove si alternano a pause malvagie ed inquietanti dal taglio doom space psych. “Nude interlude from hell” conclude il disco in modo travolgente: partenza super doom e svolgimento heavy cosmo psych da viaggio intergalattico, andate senza ritorno. D’altronde le parole di Chris sono chiare: let me go to hell, let me burn so swell, i’ve got nothing to live, i’ve got nothing to give. Alessandro Zoppo
PICK UP THE SNAKE – Feel the fire
Una delle sorprese più piacevoli di questo 2005 proviene da Maryville, nel Tennessee. Si chiama Pick Up The Snake e con un minicd auto prodotto (ma dal tasso professionale elevatissimo, per artwork e produzione) affascina e colpisce non poco. La qualità delle cinque tracce qui presenti è davvero molto elevata: questi quattro ragazzi propongono infatti uno stoner doom arcigno e possente, incentrato su ritmiche corpose, chitarre aggressive e una voce al vetriolo che sembra un incrocio tra Dave Wyndorf, Wino e Matt Pike.Come riferimenti possiamo citare proprio il doom psichedelico degli Sleep, ma anche quello più tradizionale di Trouble e The Obsessed. Aggiungendo anche ampie dosi di groove provenienti dall'universo Spirit Caravan/Earthride. Insomma, una miscela potente e magmatica che non lascia scampo all'ascoltatore. I primi due brani del disco (la title track e "Slide you the horn") sono assolutamente irresistibili: tirati e melodici, fanno scuotere ed eccitare per tutta la loro durata, unendo i suoni spessi e corposi del doom con una matrice prettamente hard rock'n'roll. In un baleno vi ritroverete ad alzare corna al cielo in segno di doveroso ossequio… Ma neanche il tempo di rifiatare e "Salvation" ci fa ripiombare in pieno Inferno: uno strato di nera coltre costruito sulla base di un riff impenetrabile. La successiva "Into the sea" ricorda la furia iconoclasta dei primi High On Fire, condita con ritmiche tritaossa e wah-wah incendiari. Mentre la conclusiva "Fallen angel" poggia su una serie di riff mastodontici incalzati alla perfezione da voce e ritmiche. Salvezza, dannazione, redenzione. Sembra un percorso di ricerca interiore "Feel the fire". Scaldatevi dinanzi a questo fuoco, le porte dell'Inferno vi si spalancheranno… Alessandro Zoppo
PILOTOS – Powers of evil
Ma cosa diavolo è successo ai Pilotos?! Provenienti da Stoccolma ed attivi sin dal 1999, nelle precedenti demo (“Pilotos” e “Going to hell”) avevano dato vita ad uno stoner rock robusto e coriaceo, che univa riff kyussiani a sonorità corpose in pieno stile Motorhead. “Powers of evil” è il nuovo lavoro della band svedese e dimostra una vena compositiva fresca e rinnovata che sorprende sin dal primo ascolto. Il songwriting di Ivan (voce), Jeppe (basso), Nico (chitarre) e Pek (batteria) si è rinnovato sotto molteplici aspetti: le parti cantate sono limitate all’essenziale, l’apparato “motorheadiano” è stato sfumato per dar vita ad una maggiore componente psichedelica (basta ascoltare le sonorità stranianti al limite del garage di “Green queen”) ma ciò che stupisce è soprattutto una scaltrezza in fase di scrittura che rende i brani altamente personali. Lo stoner suonato dai quattro infatti si divide tra bordate ricche di fuzz e wah-wah alla Nebula (l’iniziale “Part of the evil” e la successiva “Head trip”) e tracce più ragionate come “Atrapar” e “Who do you love”, dove parti liquide dal taglio psichedelico (sottolineate da delicati arpeggi di chitarra acustica) fanno da preludio ad esplosioni bombastiche dal groove titanico. Le vocals di Ivan sono coinvolgenti e dinamiche, posizionandosi a metà strada tra la rauca potenza di Lemmy e l’espressività di JB dei Grand Magus/Spiritual Beggars, così come le ritmiche reggono bene l’impatto della chitarra, vero punto di forza del quartetto. “Set fire on this” e “Another hug” sono altre due dimostrazioni di forza della band, riff rock tirato e grezzo da pompare a palla nello stereo, mentre la conclusiva “Rescatar” è una sorta di ballata psicotropa alquanto stramba, per giunta cantata di spagnolo! Ormai siamo di fronte ad una band pronta al grande balzo. I Pilotos sono maturi e preparati per un esordio discografico in piena regola: un’altra bomba pronta ad esplodere dalle lande Scandinave! Alessandro Zoppo
PILOTOS – Thanks God for the Devil
Dopo tre dischetti che avevano raccolto consensi un po’ ovunque, tornano i Pilotos con l’ennesimo promo. Titolo eloquente “Thanks God for the Devil”, emblema di un sound magmatico, possente, capace soprattutto di affrancarsi dal modello stoner ‘kyussiano’ che tanti gruppi svedesi hanno portato alle estreme conseguenze. I quattro ragazzi di Stoccolma (Ivan, Jeppe, Nico e Pek) picchiano duro ma lo fanno con coscienza e criterio, senza abusare in riff iper saturi o fuzz debordanti. Resta sempre il muro di suono tipico di certo heavy rock (Motorhead meets Kyuss?), il songwriting però si è così affinato da permettere ampie dosi di personalità tali da rendere i brani davvero originali.Non mancano le mazzate toste e furibonde che colpiscono tra capo e collo (“Blond guy” e “She’s one of a kind” sono qui per servirvi), tuttavia il piatto forte è altrove. È nelle trame sghembe di “Malo” (l’influenza di QOTSA e Mammoth Volume c’è ma non si vede), nel blues tortuoso e vibrante di “Urban blues”, nelle fumose, torbide trame 70’s di “Get out of his way”, una delle song più travolgente ascoltate negli ultimi anni. “Not alone” aggiunge ulteriori sapori heavy psichedelici, cucinati dalla conclusiva “De devil” su un piatto di groove, riff abrasivi e ritmiche tritatutto. Grandi Pilotos, con questo ennesimo promo si dimostrano ormai maturi per un serio contratto discografico. L’effetto che produrranno sul vostro animo è perfettamente descritto dalla band: ‘your dad finding out your mom is a whore’. Alessandro Zoppo
PLACE OF SKULLS – The Black is Never Far
Era dannatamente difficile per Griffin e compagni tornare sulle scene con un nuovo album dopo l’indiscusso capolavoro rappresentato da With Vision. Era difficile non solo per l’ovvia considerazione relativa ad una line up orfana fin dalle intenzioni di un songwriter e artista del calibro di Wino, ma lo era anche se si pensa alle varie vicissitudini che hanno segnato il cammino di questa band nel corso degli ultimi 3 anni. Cambi e ritorni in formazione, annunciati split per fortuna mai poi del tutto confermati, un ottimo EP quale Love Through Blood che ha visto la luce solo lo scorso anno pur contenendo brani scartati (termini orribile per definire il livello dei 4 pezzi in questione) dalle recording session del primo, acerbo ma quanto mai grandioso, full lenght d’esordio Nailed. Non c’è certamente miglior modo per scacciare le chiacchiere e i pettegolezzi sterili sullo status di una band quale quello di pubblicare un nuovo album assolutamente ineccepibile come è il caso di questo The Black is Never Far.Victor Griffin ha raccolto nuovamente tutte le sue energie e tutta la sua carica emozionale per dare vita ad un disco assolutamente unico e affascinante, una combinazione di gran classe di tutti gli elementi che hanno reso grande un’artista del suo calibro, a partire dai Pentagram (e anche prima) omaggiati qui con un rifacimento del classico “Relentless”, passando per le numerose esperienze e collaborazioni, progetti solisti e band affermate, di cui i Place of Skulls rappresentano la miglior incarnazione attuale dell’estro di un grande musicista come Griffin. The Black is Never Far è un disco, come sempre quando si parla del trio americano, intenso, struggente, a tratti commovente e dalla carica emotiva e sentimentale elevatissima, basta ascoltare una “Darkest Hour” o la title track per farsene un’idea. Al fianco di questo aspetto troviamo l’immediatezza, l’impatto e l’irruenza più rock/metal di una “We The Unrighteous” e di altri episodi più vicini alle origini, targate Death Row di Victor Griffin. La band al suo fianco è come sempre impeccabile, personale e presente soprattutto nella veste del più volte dimissionario Tim Tomaselli alla batteria, secondo volto di questa incredibile formazione capace di rendere ancora più unico e personale ogni episodio di questo lavoro. Un’atmosfera oscura e irresistibile percorre questo terzo capitolo sulla lunga distanza dei Place Of Skulls, un pathos morboso frutto di un songwriting sentito, ragionato e spesso innovativo, in cui ogni pezzo si sussegue, spesso intermezzato da brevi stacchi strumentali, con naturalezza e sinuosità, in un percorso meditativo e introspettivo che ogni amante del doom più genuino e di questa band potrà presto far suo. Nella speranza che una fine, più volte purtroppo annunciata, possa essere quanto mai lontana… Witchfinder
PLACE OF SKULLS – With vision
“With vision”, secondo lavoro sulla lunga distanza dei Place Of Skulls, è un disco che farà impazzire tutti gli amanti del doom. Seguito del debutto “Nailed” uscito lo scorso anno, questo cd si piazzerà nel vostro lettore in pianta stabile e difficilmente sarà tolto per far spazio ad altro… Questa volta il titolare del progetto Place Of Skulls, quel Victor Griffin che ha già scritto pagine fondamentali nella storia del doom con Pentagram e Death Row, ha voluto esagerare (nel senso buono ovviamente…) e ha chiamato a collaborare all’album una vera e propria icona del doom a stelle e strisce, Scott “Wino” Weinrich, i cui trascorsi in The Obsessed, Saint Vitus e Spirit Caravan bastano come segno di garanzia. La sezione ritmica che supporta i due protagonisti è invece formata dal possente drummer Tim Tomaselli e dal session man Greg Turley al basso. Ma è senza alcun dubbio la sarabanda di assoli incrociati e svisate di chitarra che calamita la nostra attenzione: sentire cosa sono capaci di combinare insieme Victor e Wino è una sensazione da brividi, le loro sei corde si intrecciano e si alternano tra riff oscuri e parti soliste da pelle d’oca. “With vision” è interamente strutturato su questo altalenarsi di stili e componenti che vanno a formare un affresco suggestivo e veramente memorabile. Victor Griffin presta la sua voce (cavandosela egregiamente…) ad autentici colossi come la title track, la drammatica “Nothing changes”, la splendida “The monster”, davvero struggente, e la conclusiva “Lost”, capitolo di chiusura che si piazza come la vera e propria summa dello stile Place Of Skulls. Scott Weinrich invece marchia a fuoco episodi strepitosi come l’iniziale “Last hit”, la commovente “Long lost grave” (leggete il testo per credere…), la catacombale “The watchers” e le rocciose “Silver cord breaks” e “Willfully blind”. Nel mezzo troviamo invece alcuni passaggi strumentali di grande efficacia, l’acustica “Dissonant dissident” su tutte. “With vision” è dunque un disco completo e potente che avvolge come un nero mantello durante tutto l’ascolto… Ultime notizie in casa Place Of Skulls parlano di un abbandono di Wino, intenzionato a dedicarsi esclusivamente al suo progetto The Hidden Hand. Quale migliore occasione allora per portarvi a casa un incontro unico tra due colossi del doom? Consigliatissimo. Alessandro Zoppo
PLANKTON WAT – Drifter’s Temple
Come una carovana berbera ai confini del Sahara si muove "Drifter's Temple", progetto in solitaria di Dewey Mahood – già con Eternal Tapestry, heavy psych band da Portland. Plankton Wat porta con sé carichi di preziose partiture melodiche e conosce le strade meno comode per raggiungere oasi ed evitare orde di predoni. Con passo lento e sicuro si muove tra miraggi e antichi riti magici. Il progetto è simile, per alcuni versi, ad un'altra pubblicazione targata Thrill Jockey, i Kandodo di Simon Prince degli Heads, anche se qui emerge un'idea più ragionata di composizione, meno legata all'improvvisazione e ai loop. Suonando chitarre a 6 e 12 corde, lap steel, basso, organo e synth è ovvio che Dewey sia dovuto ricorrere alle sovraincisioni, ma ogni pattern è arricchito con dettagli preziosi e mai banali. Il suo approccio alla musica è una ricerca spirituale. Un viaggio a colloquio con gli dei vicino allo stile degli OM di Al Cisneros. Segue armonie orientaleggianti simili ai Liquid Sound Company più eterei ("Nightfall" e "Hash Smuggler's Blues"). E non dimentica di andare a trovare il folk psichedelico negli stessi luoghi in cui Ben Chasny ha saputo rinnovargli l'orizzonte ("Klamath at Dusk", "Empire Mines", "Dance of Lumeria"). Per orecchie poco inclini alla stratificazione e sedimentazione del mood, l'ascolto potrebbe apparire a tratti autoindulgente, ma gli appassionati di musica sperimentale e accorata troveranno di che gioire. D'altra parte la musica più visionaria ed affascinante passa sempre attraverso l'ostilità dell'ascolto. Ma questo è sempre un bene. For psycho head on ecstasy! Eugenio Di Giacomantonio
PLUTONIUM BABY – Welcome to the Weird World
Due note leggere leggere di tasterina acida introducono "Welcome to the Weird World" dei nostrani Plutonium Baby, 13 pezzi di giostra in technicolor di sgangherato weird fuzz garage punk. Dopo aver girato l'Italia club by club e aver consolidato la formazione con l'altro ex Cactus Feith dietro le pelli, Fil Sharp e Black Guitarra hanno pensato a lungo e realizzato in breve il loro primo full-length dopo le bellissime prime pubblicazioni a nome Welcome in the Shit Records (cassettina in 69 esemplari) e Ghost Highway Recordings (sette pollici diviso con l'altra sbullonata Margaret Doll Rod che nell'occasione regala una cover di "Psycho" che farebbe arrizzare l'irraddrizzabile). Il succo è presto detto: polpa adrenalinica ricca di proteine e spezie aromatizzate che deviano il sapore originale verso qualcos'altro. "Paralyzed" si fissa in un riff ansiogeno, immobile ed immutabile, che vuole il verso di Fil ripetere il nome della band come introduzione al male (per chi non lo sapesse "Plutonium Baby" è il nome di un bruttissimo film del 1987 diretto da Ray Hirschman e William Szarka). Altro rimando b-movie heroes è "Twilight Zone" che scarabocchia il tema della serie televisiva per permettere a Daniela di ululare alla luna. È questo il mondo dei nostri. Deviati, perdenti, malati: qualcosa di assolutamente indispensabile ed affascinante. Chissà chi è "Adelina" tirata in causa con il riff più bello del lotto. O la "Russian Spy" che alimenta strane infatuazioni sci-fi. "Love Love Love" ripetono insieme i nostri facendoci ripensare alla verdoniana Isabella De Bernardi quando cercava di spiegare il senso della vita. Altre cose viaggiano in gran turismo come "Blue" che sorpassa a destra i Black Lips e l'accoppiata "Supercycle" e "Fist of Zen", prolungamenti del Cactus pensiero. Infine c'è spazio per una chicchetta totalmente sperimentale a nome "Anger 0": gli alieni sono tra noi? Con i Plutonium Baby decisamente sì. Eugenio Di Giacomantonio
POISEDOTICA – Intramundo
Prendete un lettore portatile, un po’ d’erba e la vostra auto. Uscite dalla città, trovate il primo posto assolato in campagna e piazzatevi distesi ad ascoltare “Intramundo”, disco d’esordio dei Poseidotica. Le sensazioni che proverete saranno di puro benessere. Già, l’Argentina sforna l’ennesimo gruppo di alto livello, quattro ragazzi che fanno di Buenos Aires una nuova sky valley.“Intramundo” è un lavoro dalla bellezza accecante. Quaranta minuti di umori e suoni in piena, totale libertà. Nove momenti di intensa creazione, come il concept che è dietro le singole fasi del lavoro. Il nostro corpo è acqua, il mondo che viviamo è acqua, questo cd è acqua. È liquido che scorre, ci avvolge, ci fa sentire leggeri, immersi in un continuo divenire e parte di un tutto. Martin (basso), Hernan (chitarra), Santiago (chitarra) e Federico (batteria - ma attenzione, sul disco suona Walter Broide, drummer dei Los Natas -) compiono un prodigio compositivo: non annoiano (facile per una band senza singer se non sei i Karma To Burn), sono dotati di una tecnica non indifferente e soprattutto variano continuamente registro. Brani come “Hidrofobia”, “Paralexis”, “Aquatalan” e “Mantra” sono jam super psichedeliche, nelle quali l’estro dei quattro coinvolge come solo i grandi dell’acid rock e dello stoner sanno fare. Se in “Acuatico” e “La nave nodriza” è forte il richiamo ai mentori Los Natas, le malinconiche atmosfere latine di “Superastor” sono qualcosa di eccezionale, per intensità e passione. “Las cuatro estaciones” prima di esplodere in una coda heavy è un passaggio jazz d’alta scuola, mentre “Tantra” ci lancia in oceani sconfinati con la sua psichedelia ultra dilatata. Immagini e meraviglie dal blu profondo. Insieme a Los Natas, Buffalo e Taura, quanto di meglio provenga dalla fertile scuola heavy psych sud americana. Alessandro Zoppo
POISEDOTICA – La Distancia
Siamo esseri anfibi. Viviamo in un mondo confuso, difficile, fatto di simboli ed esperienze. L’arte di vivere ci consente di attraversare distanze e passare da un universo all’altro. Dal sonno alla veglia, dalla terra all’acqua, dalla tentazione al peccato, dal singolo alla società e le sue regole. È questo il sostrato alla base di ‘La Distancia’, nuovo eccitante capitolo discografico degli argentini Poseidotica, giunto dopo il debutto ‘Intramundo’. Martín Rodríguez (basso) elabora un concept album sull’acqua e l’universo anfibio ispirato da alcuni spunti di Aldous Huxley. Non a caso il libretto del cd è ricco di scritti e foto suggestive. Lo accompagnano in questa avventura Federico Bramanti alla batteria e la coppia di chitarristi formata da Hernán Miceli e Santiago Rúa.Il lavoro è stato registrato in presa diretta a Buenos Aires, con successivi inserti di theremin, piano Rhodes e synths ad opera di Juan Stewart. Una ricchezza di sfumature che si riflette in un sound strumentale fantasioso e spumeggiante, che attraversa vibrazioni e stili diversi. La title track esemplifica al meglio le capacità dei Poseidotica: un saliscendi di emozioni che poggiano su acid rock, progressive, jazz, kraut, hard e dolenti sensazioni latine. La psichedelia prende il sopravvento quando si fanno largo i paesaggi fatati di “Sueño Narcótico” e quelli heavy space di “Campo Magnético” e “Maldita”, che si tramuta in “Equinoccio” concedendosi una vibrante coda ambient. Le magiche alterazioni spazio temporali di “Tiempo y Espacio” conducono in una incredibile dimensione, tra ritmiche rapide e taglienti e riff saturi d’elettricità. Gli andirivieni ossessivi di “Anfibio” riportano la mente alle vecchie glorie del progressive più jazzato, facendo da ponte per i 14 minuti della conclusiva “Las Magnitudes”, odissea lisergica che consacra i Poseidotica tra i maggiori esponenti del nuovo suono acido psichedelico. ‘La Distancia’ è uno dei migliori album del 2008. Farlo vostro è un ordine assoluto. Alessandro Zoppo
POLARBEERS – Polarbeers
Trio nato nel 2007 a Milano, i Polarbeers (nome da curioso gioco di parole) giungono all'esordio nella rovente estate 2013. Il gruppo si è assestato dopo diversi cambi di line up ed ora è composto da Fox (chitara e voce), Minus (batteria, backing vocals e tastiere) e Paul (basso e gong). Il loro debutto omonimo presenta diversi spunti e motivi di interesse. Composto da ben 18 tracce e con una durata di oltre 70 minuti, la band dà sfogo alle tante sfaccettature che li hanno indirizzati verso il rock. Ne consegue un sound dai molti toni e colori: i tre decidono di non puntare su uno stile predefinito ma viceversa fondono più influenze per un variegato e lodevole risultato. Forti di un bagaglio tecnico cospicuo, qualitativi anche in fase di songwriting, i Polarbeers sfornano un lavoro che parte da basi stoner e punk rock per svilupparsi in un concentrato nel quale si assaporano momenti grunge e doom. La psichedelia è l'arte che muove i sogni dei nostri; l'hardcore e il post core è quel momento cui c'è bisogno di una sterzata; il funky non poteva certo mancare con le sue tonnellate di groove. Ci sono poi i momenti più riflessivi tra post rock, ambient ed un lieve sapore bluesy. Infine il sacro fuoco 70's hard rock che arde nel cuore di ogni rocker. In sostanza i Polarbeers ci consegnano un album vorace che unisce sapientemente diversi umori, un disco energico, sognante ed euforico, depresso, intimista e capace di essere ruffiano. Diciotto brani che sono un cazzotto che sa anche accarezzare. Insomma, questo è un esordio sorprendente che conferma gli enormi passi fatti dal rock underground nella nostra penisola. Il minimo che potete fare è ascoltare l'album, e ora please, passatemi una delle tante birre polari: è cio cui ho bisogno in queste torride giornate. Antonio Fazio
POLLEN, THE – The Pollen
In ambito musicale Minneapolis è usualmente ricordata come patria di Prince (o come diavolo si fa chiamare ultimamente…), tendendo così ad appiattire una realtà sonora su un suo unico rappresentante (per altro molto sgradito al sottoscritto…). Con grande sorpresa sbucano invece dalla stessa città statunitense questi The Pollen, che con un dischetto di sette pezzi piazzano come opera prima un debutto intrigante e davvero roccioso. Il genere proposto è uno stoner garage rock ricco di reminiscenze punk, che unisce alla perfezione le due anime della band in un miscuglio esplosivo che sin dalle prime note sprigiona una carica notevole. La voce del singer Paddy è roca e possente, risultando l'ingrediente più piccante dell'intero cocktail. Non per questo i restanti membri rimangono in ombra: le chitarre di Jesse donano un tocco seventies e grezzo che non guasta mai, la sezione ritmica (Tana al basso e Nate alla batteria) macina senza sosta dosi letali di energia pura. Le diverse componenti del Pollen sound sono riconoscibili immediatamente sin dal primo ascolto: brani come l'iniziale "Boy and girl", la frenetica "Pinball" e l'anthemica "Cheat 'em" grondano feedback malsani e violenza sonica mai fine a stessa. Il loro obiettivo dichiarato è divertire e farsi apprezzare senza troppi patemi, forti di un misto di punk, garage rock e atmosfere psychotiche che richiamano alla mente tanto i Mudhoney quanto i Maggots, in un'orgia di suoni distorti e melodie appiccicose che rasenta la perfezione. Ma il talento di questi quattro folli esce totalmente allo scoperto nelle restanti tracce, dove propongono dei concentrati di stoner rock gravidi di fuzz guitars e ritmiche pulsanti come il motore di una fiammante Cadillac…esemplare al proposito è la meravigliosa "Smoke machine", brano che ricorda i Nebula per la sua montagna di riff e wah-wah, ma che al tempo stesso evidenzia una personalità già forte e matura (lo dimostra lo stacco finale in pieno stile psichedelico…). Sulla stessa scia si posizionano altri momenti magici come "Rubbenchux", fitta trama di fuzz rock strumentale e cavalcate ipnotiche, impreziosita dal lavoro travolgente di Nate dietro le pelli, e "Upside down", episodio diviso tra Led Zeppelin, Detroit sound (MC5 e Stooges per intederci…) e Kyuss…una mistura così trascinante da lasciare senza fiato! Per concludere, non poteva mancare il tocco di genio finale: "Company" infatti racchiude in sé le due componenti del gruppo, quella punk garage e quella heavy psych, in una sintesi travolgente e scomposta, due minuti secchi e concisi ma talmente densi da sembrare infiniti… Altra ottima scoperta da parte della Maduro Records (grande Jeff!), che ancora una volta ci sorprende con una band praticamente sconosciuta ma che segna uno dei migliori esordi dell'anno. Gran colpo da maestri…e pensare che è giunto proprio allo scadere del 2002! Alessandro Zoppo
PONAMERO SUNDOWN – Heavy Rock
Quarto promo per gli svedesi Ponamero Sundown ed ennesimo buon lavoro. È giunto il tempo di una serio contratto discografico per la band, è ora che qualche label illuminata se ne accorga. Sia ben chiaro, il gruppo non suona qualcosa di innovativo o eccezionalmente sorprendente. Anzi. Il loro è il classico lavoro da gregari di genere che va premiato con il doveroso riconoscimento. Un po' come le gesta di un mediano in una squadra di calcio che vince grazie ai suoi fuoriclasse.
PONAMERO SUNDOWN – Maximum groove (demo) – We shall triumph (demo)
Davvero un esordio che fa ben sperare quello dei Ponamero Sundown. Quattro ragazzi svedesi (Nicke - voce -, Peter - batteria -, Ola - basso -, Anders - chitarra -) devoti allo stoner rock più ossessivo, groovy e robusto. Vengono in mente Kyuss, Orange Goblin, Dozer e The Awesome Machine ascoltando i brani che compongono queste due demo, registrate con la giusta attenzione per suoni spessi e fumosi. Non inventano nulla di nuovo i Ponamero Sundown ma suonano con passione e sudore.“Maximum groove” è un concentrato adrenalinico di chitarre assassine, vocals torride e ritmiche possenti. “Alcoholic deathride” è una marcia impetuosa nel regno del riff, “Frustration blues” azzecca la melodia giusta su un devastante tappeto heavy psych, “Derranged dreams” è una divagazione lisergica che sconfina spesso e volentieri in territori bluesy. Altrettanto intenso si rivela “We shall triumph”, cinque pezzi carichi e vari al punto giusto, che aggiungono una maggiore componente ’70s al songwriting della band. L’intro di cornamuse di “March of doom” dà il via a “Doctor of evil”, tempi rallentati e potenza modulata come una marcia verso la morte. “Girls from Finland” e “Immortal machine” alternano fendenti heavy, dilatazioni psichedeliche e felici intuizioni melodiche (merito della duttile voce di Nicke). A chiudere i giochi “Espiritu diablo”, languido blues acustico da notte stellata nel bel mezzo del deserto messicano. Ponamero Sundown, una sana dose di stoner rock deluxe. Alessandro Zoppo
Pontiak – Innocence
Un urlo primordiale introduce il nuovo album dei fratelli Carney. Un urlo che ricorda l'iguana del primitivismo Stooges. Riff micidiale e voglia di trasgressione, come in "Lack Lustre Rush", sorta di rimasticamento del concept "TV Eye". Certi amori non muoiono mai. Così come la passione verso i Fab Four (soprattutto verso lo stile di Lennon) in "Wildfires" e "Darkness is Coming". Poco male. Se questi sono gli ingredienti della pozione "Innocence", è piacevole pagare il dazio al già sentito e ingollare d'un fiato il sesto lavoro dei Pontiak. Andrà giù che è una meraviglia. Tra voglie campestri e pastorali di "Noble Heads" e riff intergalattici extracorporei della title track, assistiamo ad un rinnovamento del songwriting prossimo alle escursioni di Jason Simon dei Dead Meadow. Intimità e lirismo della chitarra acustica più chalet di montagna. Come se dopo aver scritto i più bei riff di heavy psych dell'ultimo decennio si senta la voglia di fermarsi davanti al fuoco, con un cannone in bocca e voglia di decompressione. La maturità dell'introspezione, potremmo ipotizzare. E quando il vissuto di una band si incrocia col vissuto famigliare di tre fratelli (a proposito, ma come ci riescono?) la sovrapposizione tra empatia, corrispondenze ed espressione artistica è perfetta. Quando poi si ricordano di essere un power trio con ascendenze verso la psichedelia il caos sembra prendere forma coerente. La tripletta "Surrounded by Diamonds", "Beings of the Rarest", "Shining" (quest'ultima sembra avere proprio la luccicanza del piccolo Danny Torrance) sbanca in termini space/stoner/hypno. Viene aggiunto un tassello avantgarde di matrice Hawkwind che non va a contrastare i momenti rilassati del lavoro. Stranamente i punti più distanti e agli antipodi sembrano, nell'universo dei Pontiak, trovare legittimazione e spessore artistico. Lode a questi tre barbuti delle Blue Ridge Mountains! https://www.youtube.com/watch?v=TFJqcJ3UZsc   Eugenio Di Giacomantonio
Pontiak – Sea Voids
I Pontiak sono un gruppo d’altri tempi. Non tanto a livello musicale, anche se al giorno d’oggi un occhio al passato è inevitabile (e loro non ne sono esenti), ma soprattutto per quanto concerne la prolificità delle uscite. Sono ormai tre nel giro di appena due anni e tutte di notevole fattura. Così dopo lo splendido esordio “Sun on Sun” ed il magnifico “Maker”, è la volta di questo bellissimo “Sea Voids”. Il disco, uscito solamente in formato vinile in edizione limitata di sole mille copie, è stato scritto, registrato e mixato in appena tre settimane, quasi un record. I tre fratelloni della Virginia hanno inoltre ridotto al minimo l’uso degli effetti ed alzato al massimo il volume degli amplificatori per rendere il suono ancora più imponente. Non è un caso che l’inizio sia di quelli che non si dimenticano: la potente “Suzerain” è in grado di far impallidire una qualunque band stoner doom alle prime armi. Segue il blues venato di psichedelia di “World Wide Prince” che lascia assorti ed ammalia mentre la sincopata “Shot in the Alarm” porta il trio dalle parti degli Harvey Milk. I brani sono adesso più concisi badando all’essenziale rispetto ai lavori precedenti ma i tre danno comunque l’impressione di trovarsi a proprio agio anche in questa nuova veste. Non mancano delicati arpeggi acustici (“Life and Coral”) e trame di folk rurale (“It’s the Life”), prima di ripiombare in torridi psycho blues come “The Spiritual Nurse” e la stessa title track. La loro è una rivisitazione molto personale del(l’hard) rock in chiave psichedelica; passato, presente e, perché no, futuro vanno a braccetto nel loro sound che riesce a far convivere con estrema naturalezza gente come Thin White Rope, Melvins e Dead Meadow. Magari in quest’ultima prova hanno un approccio più live, più stordente e anche più imperfetto se volete. Ma ogni cosa sembra al posto giusto e “Sea Voids” è un lavoro imperdibile per tutti coloro legati alle sonorità di questo tipo. Fatevi rapire dal loro mondo. È un prezioso consiglio.   Cristiano Roversi
POPOL VUH – Hosianna Mantra
Chiamatelo 'rock metafisico'. Chiamatelo 'rock religioso'. Chiamatelo come volete. Noi ci permettiamo di chiamarla Opera d'Arte. I Popol Vuh, creatura di Florian Fricke, muovono i primi passi nella Germania di fine degli anni '60, già spettatrice della diffusione di una particolare forma di prog-rock: il kraut-rock, sempre più teso a cercare nell'elettronica il risultato della sua evoluzione. Inserendosi pienamente nel filone con l'album "Affenstunde", Florian Fricke, studioso di musica classica e fervido conoscitore della cultura orientale (in particolare Tibet), si distaccò dal 'cordone ombelicale' andando alla ricerca di nuove risposte dalla musica. La premessa è "In den Gärten Pharaos" del '71, ma l'apice è raggiunto con "Hosianna Mantra".Smessi gli strumenti elettronici come fossero abiti già vecchi (seppur così moderni), Fricke elabora un'opera tanto affascinante quanto rivoluzionaria. Chitarre, sitar e altri strumenti classici - pianoforte, archi, oboe e cembalo - si alternano e fondono le loro note in un tutt'uno magico; a coadiuvare le melodie l'eterea voce della soprano Djong Yun, alle prese con dei passi tratti dalla Bibbia. Concepito quasi fosse una messa, "Hosianna Mantra" (hosianna=tradizione cristiana / mantra=tradizione indiana) si propone di diventare la perfetta colonna sonora dell'anima (non a caso Fricke è stato amico e collaboratore del regista Herzog): notevoli le affinità con quel capolavoro firmato Ennio Morricone che è la OST di "Mission". Un viaggio irrinunciabile tra spiritualità, psichedelia, folklore (teutonico e indiano), avanguardia, new age, "Hosianna Mantra" è raffinatezza e fluttuazione, purezza e riconciliazione, delicatezza ed evasione. Un album totalmente fuori da ogni qualsivoglia genere/schema, ma che suona per tutti i suoi 40 minuti, così familiare, così efficace, così vicino. "Hosianna Mantra" è la fuga disperata dalla realtà, la più mistica distrazione dal mondo moderno. Un monumento in note. Come l'ha definita il compianto Fricke: "Heart To Heart Music" Giacomo Corradi
PORCUPINE TREE – Fear of a blank planet
Ai tempi degli esordi venivano definiti prog rock, poi è subentrata la matrice psichedelica e negli ultimi anni hanno abbracciato la potenza del suono metal. Per favore, non cercate ad ogni costo di dare un’etichetta, un limbo sonoro specificato ai Porcupine Tree, ma ascoltate la loro musica e li ringrazierete in eterno per quante emozioni sapranno darvi.“Fear of a blank planet” è l’ennesimo esempio da parte di Steven Wilson e soci di come saper scrivere musica che arriva e tocca il cuore, una specie di rock liquido dal feeling spaziale e decadente; un album dall’appeal, perché no, commerciale (produzione e suoni sono spaventosamente efficaci), nel quale il quartetto mostra, per l’ennesima volta, di avere qualcosa di magico nel proprio songwriting. La lunga (quasi 18 minuti) “Anesthetize” è ciò che tutti i fan volevano sentire dal gruppo, una suite dal feeling e dal sapore drammatici, dove ogni componente sonora tipica dei nostri si fonde a meraviglia creando un vortice sonoro di notevole intensità. Ma a colpire sono le restanti track… da dove cominciamo? Dall’iniziale title track, che poggia su un andamento e un groove trascinanti prima di perdersi in emozionanti pause psichedeliche. “My ashes” è una ballata dove a farla da padrone è lo splendido apporto sinfonico/orchestrale. La delicatezza di “Sentimental” sfiora i territori dreampop, con chitarre appena pizzicate (pardon, accarezzate). Si prosegue con la malinconia di “Way out of here”, per arrivare ammaliati all’incredibile ipnotismo della conclusiva “Sleep together” (da mozzafiato il refrain e il sottofondo orchestrale). Un capolavoro d’arte sonora, indicato a chiunque nutre ancora speranze nella musica. Marco Cavallini Voto: atlantic records 2007 Official site: www.porcupinetree.com TRACKLIST 1. Fear of a blank planet 2. My ashes 3. Anesthetize 4. Sentimental 5. Way out of here 6. Sleep together PORCUPINE TREE Fear of a blank planet Ai tempi degli esordi venivano definiti prog rock, poi è subentrata la matrice psichedelica e negli ultimi anni hanno abbracciato la potenza del suono metal. Per favore, non cercate ad ogni costo di dare un’etichetta, un limbo sonoro specificato ai Porcupine Tree, ma ascoltate la loro musica e li ringrazierete in eterno per quante emozioni sapranno darvi. “Fear of a blank planet” è l’ennesimo esempio da parte di Steven Wilson e soci di come saper scrivere musica che arriva e tocca il cuore, una specie di rock liquido dal feeling spaziale e decadente; un album dall’appeal, perché no, commerciale (produzione e suoni sono spaventosamente efficaci), nel quale il quartetto mostra, per l’ennesima volta, di avere qualcosa di magico nel proprio songwriting. La lunga (quasi 18 minuti) “Anesthetize” è ciò che tutti i fan volevano sentire dal gruppo, una suite dal feeling e dal sapore drammatici, dove ogni componente sonora tipica dei nostri si fonde a meraviglia creando un vortice sonoro di notevole intensità. Ma a colpire sono le restanti track… da dove cominciamo? Dall’iniziale title track, che poggia su un andamento e un groove trascinanti prima di perdersi in emozionanti pause psichedeliche. “My ashes” è una ballata dove a farla da padrone è lo splendido apporto sinfonico/orchestrale. La delicatezza di “Sentimental” sfiora i territori dreampop, con chitarre appena pizzicate (pardon, accarezzate). Si prosegue con la malinconia di “Way out of here”, per arrivare ammaliati all’incredibile ipnotismo della conclusiva “Sleep together” (da mozzafiato il refrain e il sottofondo orchestrale). Un capolavoro d’arte sonora, indicato a chiunque nutre ancora speranze nella musica. Marco Cavallini
PORCUPINE TREE – Nil Recurring
"Nil Recurring" era originariamente un cd in tiratura limitata a 5000 copie venduto esclusivamente nei concerti del tour che i Porcupine Tree stanno effettuando tuttora in Europa, un mini pensato come un regalino ai fan della band. Ma le copie sono state esaurite in brevissimo tempo e le richieste sempre più pressanti hanno convinto Steven Wilson e soci a pubblicarlo ufficialmente, concedendo la licenza alla Peaceville Records. Le quattro lunghe composizioni qui presenti provengono dalle stesse sessions dell'ultimo magnifico "Fear of a Blank Planet", e quindi la qualità è garantita al massimo. L'iniziale title track è un lungo (forse troppo) strumentale prog dove spicca la presenza dell'ospite Robert Fripp, leader dei mitici King Crimson, mentre la seguente "Normal" è una versione differente (che verte maggiormente su chitarre acustiche) di quella che su "Fear of a Blank Planet" diventerà "Sentimental".Infine le due perle "Cheating the Polygraph" e "What Happens Now?", due gioielli dove un rock liquido/psichedelico dal forte umore notturno vede il continuo alternarsi di esplosioni elettriche a delicate porzioni arpeggiate. Marco Cavallini
PORN (THE MEN OF) – Wine, women and song
I confini tra la genialità e la follia sono davvero labili. Come nel caso dei Porn, prima Men Of, ora rimasti solo con quel nomignolo che fa tanto deviazione mentale. Ma d’altronde è inevitabile pensare a qualcosa di diverso quando si ha a che fare con gente di questo tipo. Tutto nasce dalla mente di Tim Moss (chitarre, voce, effetti), simpatico schizoide newyorkese che per mettere in piedi questo esperimento ha chiamato a raccolta Dale Crover dai Melvnis e Billy Anderson, il quale oltre che produrre stavolta si diletta tra basso, piano e backing vocals.Chi aveva avuto modo di ascoltare i primi lavori del trio (“American style” e “Experiments in feedback”) rimarrà piacevolmente sorpreso. Tre anni di silenzio sono serviti se questi sono i risultati. Della matassa infuocata ma fin troppo omogenea dei due dischi precedenti qui rimane ben poco. Tim Moss ne deve aver presa di droga per un progetto del genere… o se anche fosse la sua sola mente, beh, allora è un dannato genio! Chi ama il doom, lo sludge, la psichedelia, il noise, tutto ciò che di particolare, estremo e ricercato c’è nella musica di oggi, deve ascoltare con molta attenzione “Wine, women and song”. Un impasto sonoro che sin dalla splendida copertina, opera morbosamente ambigua di Frank Kozik, rivela la sua carica oscura e sinistra. Il pesantissimo riff che dà inizio a “Succulento” è il biglietto da visita. La struttura circolare del brano provoca forti giramenti di testa, soprattutto nei synth space, nei feedback assordanti e nel break lisergico che ne rendono l’ascolto esperienza vorticosa. “Mastodon entree” e “Morning star rising” sintetizzano i tempi ma non certo la violenza sonora, di chiaro stampo Melvins. Mentre “Glory will be mine” ha uno degli incipit più epici e “stoned” che esistono, per poi stemperarsi in una cavalcata metallica e rumorista al limite dell’umana comprensione. Sembra fatta, ormai il cd volte al termine. Altroché… non paghi di quanto fatto, i Porn ci deliziano con i 14 minuti della suite “The five books of the Aeneas”, un sorta di poema cavalleresco dello sludge diviso in cinque parti. La prima (“Descent”) è ossessiva decadenza post atomica, la seconda (“Assembly of the silent”) è una pausa psichedelica di stampo pinkfloydiano, la successiva “Chimaera awakens” è una sfibrante marcia della morte, “What new desire of blood” risolleva gli animi a suon di watts preparandoli alla battaglia finale, “Purging by fire” è l’ultimo momento di solitudine prima che sia finito tutto. Ma gli scherzi non finiscono certo qui. Per premiarci di tanto sublime “strazio”, i tre ci conducono per mano sino alle porte dell’Inferno. “Last song” ne è la colonna sonora, inno voyeurista che strega con il suo groove luciferino e chiude i conti con una pesantezza a dir poco devastante. Se le ultime uscite di Melvins, Ufomammut ed Electric Wizard vi hanno fatto sbrodolare, allora dovete far vostro questo dischetto. Qualcuno l’ha definito “paranoid drug metal”. Noi possiamo soltanto aggiungere che si tratta di un lavoro veramente succulento… Alessandro Zoppo
PORN SAVAN – Gina
a Germania è uno dei paesi in cui sembra fiorire con maggior impeto la riscoperta del sound dei seventies, incanalata per vie traverse nelle fumose e dilatate atmosfere dello stoner rock. E così, direttamente da Ludwigsburg, nei pressi di Stoccarda, un'altra band esce alla scoperto: si tratta dei Porn Savan, quartetto attivo dal 1998 ma giunto solo lo scorso anno alla prima uscita ufficiale. Il loro genere è un heavy stoner rock molto tirato e compatto, che lascia poco spazio agli elementi psichedelici per concentrarsi soprattutto sul groove e sull'impatto. C'è da dire che la produzione ed il mixaggio non rendono granché giustizia a questo lavoro, mentre la veste grafica davvero eccellente e la voglia di proporre qualcosa di personale in un genere così inflazionato sono aspetti senza dubbio lodevoli. Inoltre una novità è l'importanza data alle lyrics: "Gina" infatti è un concept-album che tratta la vita tormentata di una ragazza ed il difficile rapporto con il proprio padre. Un altro punto a favore dunque… Stilisticamente, la maggior parte dei brani presenti si orienta su coordinate riff rock debitrici soprattutto nei confronti di Nebula e Monster Magnet (basta prendere come esempi l'iniziale "Conciously dead", le travolgenti "Closed door" e "Push your skirt up!" o la frizzante "'67 Cadillac"): nulla di nuovo sotto il sole, ma una carica ed un'onestà da apprezzare. Interessanti risultano invece due episodi di heavy rock blues come l'intensa "Give & take" e la cavalcata inacidita in pieno stile Doors "Spiritualized". E' in momenti del genere che si ravvisa una più spiccata personalità compositiva, se sviluppata a dovere è sicuramente su questi canoni che in futuro si potranno ottenere ottimi risultati. D'altronde una song come "Roady" mostra un eclettismo sonoro da non sottovalutare, che si esplica in un miscuglio di hard rock, melodie bizzarre e ritmiche funky (merito della spigliata sezione ritmica, Daniel al basso e Sven alla batteria). Un ruolo fondamentale lo svolgono ovviamente le chitarre di Louis, aggressive in "Enemy" (track dove sembrano incrociarsi passato e presente sotto forma di Aerosmith e Kyuss) e oscure in "Truth is a lie", egregio dark rock con le vocals possenti di Martin in primo piano. Tutta quest'amalgama si completa nel finale con le ultime due tracce: "Coming home" è un prezioso tassello di psichedelia tribale, la conclusiva "The burial" un affresco acustico che chiude con somma delicatezza la triste vicenda di Gina. In conclusione, un debutto felice per i Porn Savan, capaci di proporre qualcosa di diretto e penetrante senza avere il difetto di stancare eccessivamente durante l'ascolto. Se sapranno levigare alcuni aspetti del loro sound e renderlo ancora più elastico, certamente sentiremo presto parlare di loro… Alessandro Zoppo
POSITIVA – Positiva
Bilbao city rockers! Proprio così, i Positiva vengono dalla città basca e nel loro primo cd auto prodotto ci propongono una sana mezz'ora di robusto stoner rock. Stoner che guarda soprattutto al sound hard & heavy degli anni '70, quello di Captain Beyond, Incredbile Hog e Budgie, come evidenzia fin da subito "Never turn your back on a friend", cover dello storico gruppo gallese riproposta con lo stesso groove avvolgente e la medesima 'cattiveria' esecutiva.Miguel (voce, chitarra), Julio (chitarra, voce), Julen (batteria) e Txetxu (basso) macinano forza e potenza, variano sapientemente registro, cercano in tutti i modi di non fossilizzarsi su una sola forma canzone. E ci riescono molto bene, andando a pescare nel vasto universo heavy psych che sembrano aver studiato con impegno e precisione. In questo senso deve avergli fatto bene la gavetta (tutti e quattro i ragazzi hanno passate esperienze in band di Bilbao quali Subliminal, Gilah Monster, Bliss e Shisha Pangma) e i vari concerti in giro per la Spagna, con una data di supporto ai colossi argentini Los Natas. Il loro suono, pur all'interno di una cornice precisa e ben definita, risulta sfaccettato, multiforme. Lo testimoniano le aperture psichedeliche dal sapore latino (scuola Natas) presenti in "Feel the evolution" e "Sea of mud" o l'alternanza tra groove asfissiante e atmosfere liquide di "Red rain". Altrove, invece, prevalgono riff corposi scagliati a velocità sostenuta e wah-wah fiammanti ("Too many years spent down in the highway", titolo programmatico), mentre nella conclusiva "Centaur's ride" vengono accentuate le componenti melodiche di stampo stradaiolo, per un risultato che miscela gli MC5 con Ted Nugent. Intriganti ed arguti i Positiva, la ricerca di un'etichetta che sappia valorizzarli è iniziata. Per chi fosse interessato, il cd può essere richiesto scrivendo a [email protected]. Alessandro Zoppo
POST STARDOM DEPRESSION – Ordinary miracles
Leggendo la biografia dei Post Stardom Depression si è portati a credere di avere di fronte un gruppo stoner: molte date live in compagnia dei Queens Of The Stone Age, l’ep d’esordio “Sexual Uno” prodotto da Chris Goss, insomma, tutte le carte in regola per essere la next big thing del nuovo “stoned” rock. Invece, sorpresa che non ti aspetti, l’ascolto del primo full lenght “Ordinary miracles” smentisce drasticamente questa impressione: i Post Stardom Depression, a dispetto del nome e delle foto del booklet non suonano né dark (anche se qualche accenno a questo genere sussiste pure...) né glam, ma un hard rock molto diretto e viscerale, figlio di colossi degli anni ‘60 e ‘70 come Steppenwolf e Grand Funk, del blues venato di noise della Jon Spencer Blues Explosion, della cattiveria suburbana dei Warrior Soul dei tempi che furono e di fenomeni odierni come i Black Rebel Motorcycle Club. Tutto questo preambolo tuttavia non è sufficiente per poter far comprendere l’essenza di un disco davvero ben riuscito: Jeff Angell (voce e chitarra), Joshua Fant (batteria), Kyon Kim (chitarra) e Brent Saunders (basso), coadiuvati al banco di produzione da un certo Jack Endino, hanno grinta e carica da vendere, ma non solo. Le loro composizioni sono fresche e sempre ben riuscite, nessun passo falso o momento di stanca, i 40 minuti scarsi dell’album scorrono via tra brani più tirati (la passionale “When it comes to cars” o l’esagitata “Who cares come on”) ed altri più intimisti (la notturna “Boom boom boom”). Ottimo è sempre il taglio delle melodie, tanto che sulla meravigliosa “Honeymoon killer” aleggia lo spirito dei Queens Of The Stone Age, così come travolgente è l’impatto di piccole gemme come “The whore I am” (immaginate una jam tra Kory Clarke e i King’s X…) e “Let’s destroy”, sorta di tributo agli Screaming Trees, con la voce di Angell che si fa pian piano simile a quella roca e toccante di Mark Lanegan… Tirando le somme, “Ordinary miracles” è un disco che spiazza e diverte, emoziona e soprattutto impressiona per quanto di buono sono riusciti a fare questi quattro ragazzi di Tracoma, Washington. Da tenere assolutamente sott’occhio, potrebbero esplodere da un momento all’altro senza che nessuno se ne renda conto… Alessandro Zoppo
POSTURES – Halucinda
Giunti al traguardo del secondo album, i Postures insistono in quel margine fluttuante che sta tra l'indie rock, il prog e il metal moderno. Con l'intenzione di piacere più che ad un genere unico di pubblico, "Halucinda" mette in fila sette pezzi complessi ed articolati, della lunghezza media di sette minuti. Di recente abbiamo assistito alla nascita di band con voci femminili molto interessanti: si va dal Seventies rock magistrale e bollente di Wild Eyes e Blues Pills, al doom contaminato e bucolico dei Blood Ceremony, fino all'art rock con influenze beatlesiane e dark dei Purson.
Con i Postures le coordinate sembrano svanire e si ha qualcosa di meno definito. Prendiamo "Every Room" e la successiva appendice di "A Million Sequences": canzoni diafane ed accorate, arrangiate ed eseguite come cinematic soundtracks con Paulina prossima alle dolcezze di una Goldfrapp di "Fell Mountain". Il fatto curioso è che lo stile dei vocalizzi risulta efficace anche quando i temi si fanno più metal ("Myriad Man"), specificamente post rock ("Wavemaker") o propriamente prog ("Hexa Luna"). Si evince che l'essenza della band è tutta qua: cercare di trovare un trait d'union tra gli ascolti che hanno formato tutti gli elementi della band svedese, appunto dal metal, al prog, al post rock, alle complicazioni dei Tool, alle dolcezze del pop, alle colonne sonore, alla passione di certa dark wave. Se vi piace trovare in bocca più di un sapore nella stessa portata, il piatto è servito. Eugenio Di Giacomantonio
PRE-COG IN THE BUNKER – Pre-Cog in the Bunker
Antonello e Miriam sono una coppia nella vita e nella musica. Sicuramente quando si guardano negli occhi si capiscono al volo. Così come quando suonano gli strumenti: si capiscono al volo. Con il moniker di Pre-Cog in the Bunker hanno pubblicato un bel disco di otto pezzi (che non supera la mezzora di musica, nella tradizione old school di fallo bene e fallo in fretta) di chitarra, batteria e due voci. È bene dichiararlo subito: fanno un casino della madonna. Ma non solo.
"No Size Girl" è squisita nella linea melodica e nel ritornello cantato insieme. Vengono in mente molti duo nella tradizione del rock, partendo da The Kills e Black Keys ed arrivando pian piano alle nostre Motorama. Ma sembra che il concetto di "band simile a" stia abbastanza stretto ai nostri. Vuoi perché decenni di ascolti hanno influenzato il songwriting di Antonello in maniera così radicale che i timbri possono essere scanzonati ("Dissolvences", "Drones"), noir ("Crime Scene Cleaner", "The Burning Land") o hard/punk (la titletrack, "To Berlin"); vuoi perché Miriam suona la batteria talmente divertita e di pancia che i Pre-Cog in the Bunker costituiscono un universo a parte, un piccolo miracolo. C'è una genuinità e una trasparenza che ci fa innamorare di loro. Chiamateli a suonare nei vostri club. Vi troverete subito a contatto con persone di cuore. Eugenio Di Giacomantonio
PRE-COG IN THE BUNKER – Response to Reality
Ha l'aspetto delle cose buone fatte in casa "Response to Reality" dei Pre-Cog in the Bunker. Vuoi perché Mirian e Antonello sono una coppia nella vita come nell'arte, vuoi perché i disegni del disco sono del fratello di Miriam, Alessandro, il nuovo album è un piccolo gioiellino famigliare. Iniziamo dalla scelta delle cover: "Nobody's Fault But Mine" dell'incommensurabile Blind Willie Johnson, un blues rauco e indolente che i Pre-Cog ci restituisco carico di un appeal shake'n roll. L'altra "Wayfaring Stranger", gospel/folk tradizionale dell'America del Nord presenta la stessa presa di coscienza della povera condizione umana, ma con un piglio rabbioso che vuole riscossione e non certo consolazione. Gli altri nove pezzi originali sono come sempre di una bellezza cristallina. Vengono tirati per la giacchetta i Velvet Underground ("On the Run") e certo rock scanzonato dei Sixties (nell’iniziale e bellissima "What Is Real" e in "Solar Thrill"). Il balletto cosmico degli Hawkwind fa capolino in "Mistaken", ma c'è anche la modernità (?) del nuovo rock n' roll sporco e selvaggio perseguito da modern (?) band come la Blues Explosion, The Dirtbombs, The Kills e i dimenticati Thee Hypnotics ("Kraut-Droid"). L'aspetto che emerge su tutto è la scrittura di Antonello: in direzione degli arrangiamenti la sintesi è d'obbligo e riuscita; in direzione della scrittura dei testi c'è più di esposizione personale che ce lo fa diventare ancora più caro. In questo senso la conclusiva "Silver", donata a Miriam, è più che una dichiarazione di appartenenza. Un album bello e ispirato. Eugenio Di Giacomantonio
Prehistoric Pigs – Wormhole Generator
La Moonlight Records, etichetta di Parma dedita all'heavy psych, offre delle uscite di qualità superba e dopo i bei dischi di Talisman Stone, Shinin' Shade e King Bong, pubblica "Wormhole Generator" dei Prehistoric Pigs, gruppo strumentale che ci indica la strada migliore per i viaggi allucinati. Abbeveratisi alla fonte dei Karma to Burn ("Interstellar Gunrunner", "Swirling Rings of Saturn") il trio dei fratelli Tirelli sa bene che quando vuole fare male ci riesce benissimo, combinando riff feroci a distorsioni devastanti. Il risultato è qualcosa di molto vicino all'hard settantiano sfumato con la lezione desertica di gruppi come Unida, Hermano e Fu Manchu: roba di primissima scelta insomma. Al contempo i Prehistoric Pigs mostrano un lato molto dilatato e space, come nelle bellissime "XXI Century Riots" e "Tafassaset", quasi una mini suite di oltre un quarto d'ora che accompagna divagazioni psichedeliche a ciclici caleidoscopi interstellari. Per affinità elettiva vengono in mente i 35007 degli albori quando, con un cantante di troppo, cercavano la via strumentale. Altra accoppiata interessante risulta "Primordial Magma" e "Entelodonts" dove si sente il sapore caldo del southern che, combinato con samples vocali da stazione orbitante N.A.S.A., fornisce un'ulteriore sfaccettatura dell'argomento Good Bong is a Good Trip!. Nel finale i fiori del male finiscono di germogliare con "Electric Dunes", pezzo dal titolo evocativo quanto didascalico dove gli elementi finora riconosciuti si mescolano a meraviglia, offrendo un paesaggio desertico di dune, folate di vento e tempeste di sabbia. Qualcosa di lento, velenoso e quindi irresistibile. Come farsi d'assenzio e vedere pian piano il mondo scivolare, scivolare, scivolare… Approcciateli solo se siete maggiorenni e consenzienti. https://www.youtube.com/watch?v=0HKj-dUIlu4

Eugenio Di Giacomantonio

Prehistoric Pigs – The Fourth Moon
Ne è passata di acqua sotto i ponti dai tempi di "Wormhole Generator". La quarta luna dei Prehistoric Pigs è una luna grezza, motorheadiana a tratti (“Meteor 700”). Il combo di Mortegliano (Udine) mette subito in chiaro le cose sin dall’opener “C 35”: succulento heavy doom bollito in pentola High On Fire, Sons of Otis, Weedeater, Bongzilla e Spirit Caravan. A questi ultimi sembrano accostarsi in particolar modo a causa di una certa vena psych che li rende più vellutati ed in sincronia con lo stoner moderno. Basti pensare alla dilatazione di “Old Rats” per evincere che la struttura compositiva si è nutrita anche di maestri del genere giallo/thriller/horror della scuola cinematografica italiana dei Settanta. Ma il succo è presto identificato: riff come meteore pronte ad impattare la terra. Ne risulterebbe orgoglioso un certo Matt Pike osservando i suoi figli crescere e nutrirsi alla fonte dell’heavy psych con venature metal. Ma non tutto è uno sfoggio di muscoli: prendiamo per esempio la titletrack che segna uno sconfinamento verso territori grunge o altri passaggi simil funk, soprattutto grazie al fraseggio ritmico di Juri. A proposito della struttura dei brani bisogna dire che talmente è vivace il colore armonico che sanno dare ai singoli episodi che il disco scorre via senza farci sentire la mancanza della voce. A questa caratteristica ne va aggiunta un’altra: la progettazione puntuale di un ogni singolo pezzo. Così, mentre da un lato perdiamo la voglia di jam tipica di molti gruppi strumentali, prendiamo, dall’altro, un atteggiamento  di controllo puntuale su ciò che si sta facendo. https://www.youtube.com/watch?v=V49k-Naikw4

Eugenio Di Giacomantonio

Prisma Circus – Mk. II / Promethea’s Armageddon
Bravi e creativi come i Radio Moscow, i Prisma Circus hanno dovuto affrontare qualche difficoltà per pubblicare il secondo album. Prima di tutto una nuova line-up che giustifica il marchio MK II (è rimasto in piedi controvento il solo Joaquin Escudero Arce, basso e voce) e di conseguenza il modo di scrivere e arrangiare la propria musica. Ora, diciamolo pure, sembrano avvelenati: un pezzo come El Blues del Matusser è talmente furibondo ed infuocato che ricorda la lezione dei Pappo's Blues, band argentina dei Settanta, del talentuoso chitarrista Norberto Napolitano, detto Pappo. E l'opener Promethea's Armageddon conferma il sapore latino e la lezione di Napolitano di un'altra sua band di allora, gli Aeroblus, veloci e schizzati, primitivi Motorhead, in contemporanea con i progetti di Lemmy in quegli anni (siamo nel 1977). Quando c'è sensibilità e classe, come già dimostrato nell'esordio Reminiscences, sembra tutto molto facile. La doppietta Fake Coral Snake e The Obsolete Man (non è una risposta a Eccentric Man dei Groundhogs, don't worry!) sembra dirlo apertamente: ci divertiamo a rompervi il xxxx, giocando tra la tecnica dei Deep Purple, l'epica dei Rainbow e il furore bianco britannico che diede il via al NWOBHM nella prima metà dei Settanta. Complimenti. El Guia de la Santa Compana fa il trittico con El Blues e la seguente Los Pasos de Coloso nella composizione delle liriche in lingua madre (quanto affascinante e riuscita risulta essere la lingua spagnola, nelle mani giuste? Band del Belpaese, provateci con la vostra lingua madre!) e fa terminare l'ascolto tra sapori desertici, rallentamenti, visioni in acido e colori deformi, alla maniera dei contemporanei (che fine hanno fatto?) El Festival de los Viajes, band argentina con alcuni membri dei Dragonauta. Sotto il Segno del Marchio Secondo le cose sembrano essere migliorate di gran lunga; un disco amabile ed incandescente per tutti quelli che cercano una musica eccitante. Eugenio Di Giacomantonio
Prisma Circus – Reminiscences
Quello che suonano i Prisma Circus è il migliore rock in circolazione. Freak innamorati dell'assolo al fulmicotone, delle ritmiche serrate e dello stile sporco e selvaggio: avete miele per le vostre orecchie. Le reminiscenze evocate dal trio spagnolo sono quelle di una Woodstock bagnata e felice, di una jam nella Swinging London immersa nell'infatuazione blues di metà anni Sessanta e di quegli artisti che cercano nell'acido il suono meraviglioso. Qualcosa di perfettamente integro e riconoscibile di questo mondo espressivo ha attraversato i decenni e si è consegnato a band come Orange Sunshine, Dzjenghis Khan, Blue Pills e Radio Moscow. Qualcosa che risalta per il proprio bagliore cristallino. Gente che ha preso l'originale matrice blues (d'altra parte chi nel rock non lo ha fatto?) e l'ha temperata nella più sanguigna e disgraziata prurigine dell'adolescenza. Quindi, ormoni a palla ed eccitazione costante. Stooges, Blue Cheer, MC5 sanno cosa ci hanno consegnato per sempre. E noi con loro. E così sia! Esemplare nello spiegare bene alle nuove generazioni questi concetti è l'assolo di batteria al giro di boa di "Napalm": un trialismo che introduce ad una progressiva accelerazione che porta a finale di stop and go con il wah-wah in fiamme a ricamare l'assolo infinito della solista in battaglia con le svisate di basso che cercano "un proprio spazio, proprio dove non ce n'è". E, come hanno spiegato bene i Rolling Stones da "Beggars Banquet" in poi, non c'è genuinità nel rock blues se non imbracciamo la chitarra acustica (qui nella bella e rassicurante "Asylum's Gate"). Ma questi sono intermezzi. La vera ciccia si trova nell'opener "The Mirror" – favolosa cavalcata in odore di bad gang e propedeutica per un sequel di "Scorpio Rising" – e "Cain", dove i riff sono talmente ossessivi che il pezzo sembra sbandare da un momento all'altro. Anche laddove il ritmo vira verso la ballad si ha la sensazione che la barbarie hard sia solo compressa e mai accantonata del tutto, come nella conclusiva "Joseph Merrick", l'uomo elefante, dove la grigia compassione per questo mostro da circo non vuole offuscare le visioni prismatiche in technicolor, ma vuole essere puro atto d'amore. Qualcuno recitava "il circo lascia la città". Altri rispondono: "Venite avanti siori e siore a vedere belve feroci, atleti su trapezio e la fantastica donna scimmia!". https://www.youtube.com/watch?v=l9HXLwNDVxk Eugenio Di Giacomantonio
PROBOT – Probot
Impossibile dire quanti sogni nel cassetto abbia Dave Grohl ma di certo con questo primo disco del progetto Probot ne ha esaudito uno. Invitare alcune tra le icone del mondo metal come del Lemmy dei Motorhead, Max Cavalera (ex Sepultura, oggi Mr. Soulfly), Cronos dei Venom, Tom G. Warrior dei Celtic Frost, Wino, King Diamond (!!), Snake dei Voivod, farle cantare con propri testi e di alcuni godere dei servigi strumentali è la realizzazione di un grande sogno per ogni metal fan medio. Se poi lo realizza lui che di suo sta con due piedi nella storia moderna del rock..
PROJECT MEGATRON – Rich bitch sessions
Nuovo stoner rock inizia ad arrivare anche dalla storica Inghilterra e questa volta tocca a Christophe (chitarra, voce), Blain (basso) e Jim (batteria), alias Project Megatron, band alla prima emissione con questo “Rich bitch sessions”, promo composto da cinque pezzi. Lo stile dei tre è un classico stoner rock influenzato da colossi come Kyuss e Karma To Burn. Le idee in sede di songwriting ci sono, i Megatron infatti non sono una sbiadita copia dei suddetti gruppi, ma ciò che ancora manca alla band per poter spiccare il volo è l’incisività: è come se i brani qui presenti mancassero di forza, di quel vigore che un genere così torrido come lo stoner richiede. La colpa ricade anche sulla registrazione che sottolinea poco l’aggressività delle chitarre e rende il suono di batteria piuttosto piatto e opaco. Per il resto, come detto, le composizioni si fanno apprezzare per freschezza e originalità: le strumentali “Drawn to orange”, “Change of scene” e “Song of porn” se solo avessero un sound più tirato potrebbero girare a meraviglia come i meccanismi oliati dei Karma To Burn; “Inspiration” e “Sunshine trip to planet high” sono permeate da un tipico feeling kyussiano, diretto e senza fronzoli, ma si fanno anche apprezzare per lisergici ricami psichedelici che ammantano il tutto. Gli spunti dunque ci sono, ciò che per ora manca è la loro messa in pratica. Ma siamo fiduciosi e attendiamo Project Megatron alla prossima uscita, magari con una produzione migliore e una dose di “cattiveria” in più… Alessandro Zoppo
PROTECTOR – Ominous Message Of Brutality
L'etichetta doom-metal I Hate Records opera in questo caso un'operazione di recupero andando a pescare materiale risalente ad una quindicina di anni fa relativo ai thrash metallers teutonici Protector. Il lavoro in questione si compone infatti del loro album Urm The Mad del 1990 e dell'EP Leviathan's Desire, con l'aggiunta di 4 pezzi live posti in apertura del CD. Operazione eseguita sicuramente con molta cura e passione e degna quindi di attenzione, anche se va detto che la band non appartiene probabilmente alle primissime file del movimento thrash, risultando forse un po' prevedibile e scontata nelle soluzioni sonore proposte, pur non mancando di essere diretta ed incisiva come il genere prevede, con l'aggiunta della componente Brutal che emerge principalmente nelle tracce dell'album Urm The mad. Sicuramente una proposta del genere farà felici i completisti del thrash più affamati alla ricerca delle opere meno conosciute, per tutti gli altri saranno da scoprire solo dopo aver approfondito la conoscenza con i mostri sacri del genere. The Bokal
PSYCHIC SUN – Rising Suns and Fallen Angels
Psychic Sun è il nome di una band proveniente da Sydney, Australia. Quattro ragazzi e una ragazza innamorati del sound di Queens of the Stone Age e Fu Manchu, che non dimenticano la lezione fondante dell'hard dei Settanta e mescolano il tutto con una paraculaggine FM alla Dandy Wharols ("Kicking Heads", tanto per citarne una). I nostri vogliono provare a viverci con il mestiere di musicisti e fanno di tutto per incrociare stili che hanno funzionato e funzioneranno per qualche decennio ancora: la voce e la chitarra di Josh Homme ("Rough Roads"), le marzialità Velvettiane ("Mayan"), le dolcezze synth/acustiche à la Sleepy Jackson, altra band australiana di cui c'è più di una traccia trasversale in questo "Rising Suns and Fallen Angels".
Premesso questo, il risultato finale non è affatto male. Il disco scorre piacevole e rimane in testa il giusto tempo per un joint leggero, senza bad trip. Si risente la leggerezza che permeava le prime Desert Sessions, quando il mainstream era tenuto fuori la porta e la scena desert rock viveva il suo momento più genuino. Ovviamente un passo in direzione della sperimentazione, della soluzione originale o della semplice "voglia di stronzeggiare" in sala prove produrrebbe qualcosa di più interessante. Ma tant'è. Gli Psychic Sun vogliono fare bella figura e rimorchiare donne e fan con la musica. Come dargli torto? Eugenio Di Giacomantonio
PSYCHO CRITTERS – Barbablues
Birra e sudore, urla e passione. Con questi quattro semplici termini possiamo sintetizzare il primo demo degli Psycho Critters, band avellinese che si propone come una valida alternativa al pop rock lobotomizzante che il panorama italiano continua a proporci.Forti e vigorosi, i quattro scuotono anima e culo con un garage rock’n’roll sporco e vibrante, caratterizzato dalla voce coinvolgente di Annarella (che come impostazione ricorda vagamente Yvonne, singer dei tedeschi Jingo De Lunch) e dalle chitarre possenti di Max e Giammi. Niente basso dunque, solo la secca batteria di Mariu a spingere i brani e caricarli di groove. L’unico difetto lo troviamo nella registrazione: di base troppo amatoriale, “da cantina”, a tratti inficia il risultato complessivo non donando il giusto dinamismo alle composizioni. A parte questo aspetto (che in un demo d’esordio ci può stare), gli Psycho Critters dimostrano grinta e attitudine. Valgono tanto le sfuriate iniziali “Barbablues” (bello il cantato alternato) e “Gonna feel all right”, odora di blues marcio (Jon Spencer docet) “Time to go”, si abbeverano alla fonte perversa di Fuzztones e Nashville Pussy “Self control” e “Hot leaf” (riff affilatissimo!). Mentre “Bax” tenta una carta diversa, quella della melodia più dolce su un tappeto decisamente heavy. Esperimento riuscito al 100 per 100. Insomma, se volete mazzate e vi piace il rock duro, crudo e sincero, gli Psycho Critters sono qui per voi. Buon umore, sbronza e divertimento sono garantiti. Alessandro Zoppo
PSYCHOTOBLACK – Demo #1 – Demo #2 Crucifixion
Gli amanti di Eyehategod e Grief non tarderanno ad apprezzare un gruppo come i giapponesi Psychotoblack, discepoli del più oscuro, marcio e disturbante sludge doom. Questi simpatici ragazzi asiatici proseguono nell’opera portata avanti in patria da gente come Coffins, Dot[.] e Green Machine. Sludge core potente e assassino, rallentato a dovere da inserti ‘sabbathiani’ e grezzo quanto basta per pugnalare con una esecuzione tosta e senza compromessi.I riff putridi di Shingo Kikuchi e Mitsuaki Hazama ben si omologano al genere, così come le ritmiche grasse di Nobuyuki Sentou (basso) e Kenji Saitou (batteria). A suggellare questo magma sonoro ci pensano le urla animalesche del singer Hiroyuki Takano, bravo nell’assalire le nostre orecchie con gran ferocia, un po’ meno quando si tratta di abbozzare qualche linea melodica. In sostanza, le composizioni risultano riuscite, ciò che penalizza i nostri è la registrazione. Soprattutto nella “Demo #1” alcuni passaggi sono davvero imbarazzanti per la pochezza data ai suoni. Ed è un vero peccato, perché i brani valgono. Quando si tratta di vomitare batoste sludge core (le iniziali “Deadman” e “Engrave the misery”) al tale aspetto non ci si bada. Ma quando i tempi rallentano (“Risen from the grave”) o si cerca una compattezza heavy psych basandosi sui riff (“Disgrace of God”), la scarsa qualità della registrazione diventa un serio limite. Da questo punto di vista va meglio nella “Demo #2”, i cui suoni sono più nitidi e distinguibili, pur mantenendo la giusta aggressività di base. C’è una maggiore articolazione nel songwriting e non solo assalti all’arma bianca. I quasi otto minuti di “Last temptation” e l’eclettismo di “Deranged” ne sono prova evidente. “Crucifixion” comprime i tempi e lascia emergere abissi squisitamente doom, mentre “Desolation life” ci riporta al sound ossessivo e squilibrato di stampo Eyehategod. I dieci minuti della conclusiva “Funeral for the undead” sono un epilogo lugubre e sofferto, contenitore di idee su cui lavorare per edificare ulteriori, futuri massacri. Alessandro Zoppo
PSYCONAUTS – Planet X
Gli Psyconauts sono un quartetto nato nel 2009 in provincia di Alessandria. Desertici tra le risaie? Col nome Enima Ellush, tra cambi di line up e vicissitudini varie, trovano una definitiva stabilità nel 2011, diventando Psyconauts. Nel 2012 licenziano l'album "Planet X", ispirati da Niribu, presunto pianeta che verosimilmente entrerà in collisione con la Terra in data 21/12/12. Almeno stando a ciò che riporta la Nasa… La band non lascia dubbi su quali territori indirizzare il proprio sound: space rock. Teoria parzialmente confermata dai brani che compongono il disco. In realtà il gruppo piemontese muove le proprie inquietudini sonore tra stoner rock di matrice desertica e certo heavy psych di scuola Hawkwind, con qualche spruzzata di alternative e grunge, specie nell'uso delle vocals da parte di Paolo.Apre il viaggio "Road to Nibiru": dopo una intro da impatto imminente, ecco il cataclisma materializzarsi a suon di fuzz e riff. Canzone grandiosa, dove l'ombra degli Hawkwind aleggia insieme ad echi di Monster Magnet ed Acrimony. Con "Be Yourself" gli Psyconauts spostano il tiro verso lidi più alternative, creando una song in odore di psycho grunge'n'roll, che ricorda i Soundgarden e certi Hellacopters. "Great Stunbeam" conferma la precedente tesi, mentre "Just a Lover" mostra quanto il desert rock abbia avuto un ruolo importante nell'evoluzione sonora della band, tesi ribadita dalla successiva "MMC". In questo caso affiora l'influenza Kyuss più che in altri brani. Chiude "Planet X" l'ottima "One Bad Star", riuscitissimo omaggio ai colossi di "Welcome to Sky Valley". Nessuna emulazione, siamo dinanzi alla pura ammirazione per una band fondamentale per le sorti di questo sound. Fate vostro questo lavoro, prima che la presunta collisione spazzi via tutto... Antonio Fazio
PURSON – The Circle and the Blue Door
Dal Regno Unito giunge questa nuova proposta che conferma il fenomeno delle female fronted band dedite ai sound vintage. Si tratta dei Purson, gruppo che giunto all'esordio, sembra essere una sorta di predestinato al successo underground in quanto supportato da adeguata promozione e perché si avvale di alcuni elementi di sicura presa quali l'avvenenza della leader Rosie Cunningham, un look da figli dei fiori ed un approccio occult a partire dal nome. Purson nella demonologia è noto quale il grande Re degli Inferi e descritto come un uomo col volto da leone che trasporta una feroce vipera e si muove cavalcando un orso: il suo arrivo è accompagnato da squilli di tromba. Musicalmente i cinque propongono un interessante incrocio tra la psych pop di fine 60 ed il progressive rock dei primi 70 mentre l'elemento dark che il nome e l'iconografia lasciava suppore è soltanto dosato. La band tratta sì temi occult ma sceglie un approccio fiabesco attraverso una scrittura teatrale.Il sound dei Purson risulta essere vario grazie alle diverse influenze. Il folk ad esempio sembra essere una prerogativa della formazione, unitamente a visioni fantasy che diedero lustro alla grande epopea del progressive rock. È proprio di prog che stiamo parlando, musica che ingloba elementi psych folk pop hard rock ed un tocco dark. Tra le influenze percepibili si possono inserire i Coven della divina Jinx Dawson, Curved Air, Atomic Rooster, Deep Purple, Spirogyra, Jethro Tull (specie nel chitarrismo che richiama alla memoria Martin Barre), ELP, David Bowie e certamente i Beatles acidi del periodo indiano. La band britannica sembra avere qualche punto di contatto coi loro connazionali e compagni di scuderia Uncle Acid and the Deadbeats, seppure i Purson siano un combo a se stante e totalmente immersi nel passato per cui poco assimilabili a fenomeni odierni. "The Circle and the Blue Door" è un album di sicuro interesse: fosse uscito tra il 1970 e il 1972 avrebbe certamente fatto parlare a lungo di sé. I Purson sono una sorta di band predestinata, noti tra gli appassionati ed addetti ai lavori già da qualche tempo grazie anche alla data londinese del dicembre 2011 dei leggendari Pentagram cui i Purson aprirono. Se l'istinto non ci inganna, a breve saranno delle starlette al pari di altri – a torto o a ragione – celebrati acts quali Ghost, Kadavar, Orchid e Uncle Acid. Antonio Fazio
PYRAMIDAL – Frozen Galaxies
Seconda uscita per i Pyramidal, quartetto di Alicante che ha esordito nel 2011 con l'interessante "Dawn in Space". La band spagnola prosegue il viaggio negli infiniti ed ignoti meandri di mondi remoti attraverso presunte galassie da cui il titolo dell'album "Frozen Galaxies", che lascia intuire chiaramente quale sia la direzione sonora verso cui i quattro muovono le proprie visioni. Ciò che ci attende è un inopinabile viaggio futuristico che punta a mondi inesplorati, grazie all'immaginifico "essi vivono" – parafrasando un classico fanta-horror di John Carpenter. "Altar of Delusion World" è la traccia che dà il via all'orbitale cammino: space rock dal sapore antico, i Pink Floyd di "Ummagumma" e "Live at Pompei" sembrano aver notevolmente influenzato i ragazzi. Ad arricchire lo psych sound anche lo strumento erotico per eccellenza, il sax che richiama inevitabilmente ad un'altra importante influenza della band, Nik Turner e gli Hawkwind."Beyond the Lost Orbs" è un brano strutturato che mette in mostra le capacità tecniche del combo unitamente ad una ricerca sonora che pur restando fedele all'originale idea di space rock, dimostra l'elevato background dei Pyramidal. La song presenta momenti jazz rock ben amalgamati con la struttura heavy psych ed echi kraut affiorano tra altre influenze quali Gong, Ozric Tentacles e certi collettivi sonori in voga nei 70's come – su tutti – Amon Duul. "Sons of Light" è il momento di psichedelia pura e lisergica ed è indice di apertura del gruppo, dove emergono echi di Flaming Lips, Sun Dial ed in particolare Spacemen 3. Chiude il cerchio la space suite e title track "Frozen Galaxies", affluenza di tutte le ispirazioni citate. È qui che si insinua anche qualche momento di rock progressivo, in una chiusura notevole e degna di un ottimo album che non diventerà un classico del genere ma indubbiamente arrichirà la fitta gamma di space rock psichedelico. A favore dei Pyramidal c'è la voglia di esplorare e di avventurarsi nel rock acido, pur partendo da un'idea ampliamente sperimentata negli anni e palesando alcune evidenti influenze quali i primordiali Pink Floyd e gli Hawkwind. I quattro riescono ad avere una propria identità grazie anche ad una scrittura che ha saputo guardare alla psichedelia degli 80 ed allo space dei 90 ed in minor misura al kraut rock, fino a rendere il sound personale ed attuale. Lo spazio è profondo ed infinito... Antonio Fazio
PYRAMIDS OF SNAFU, THE – Alternative Present
In attesa di poter gustare il prima possibile un lavoro completo, The Pyramids Of SNAFU si presentano a noi con un eccellente EP di debutto. In realtà non si tratta affatto di musicisti alle prime armi, anzi. Basti pensare che in line up troviamo gente del calibro di Terry Ollis (ex Hawkwind e Space Ritual), Mick Slattery (Space Ritual), StuArt Burton e Colin Wilson (insieme nel progetto Anomie).Ollis alla batteria, Slattery alla chitarra solista, Burton alle tastiere e Wilson voce e chitarra sono solo una parte di un collettivo allargato in pieno stile seventies. Della partita infatti sono anche Chris Barnett (violino), Melissa Joseph (basso) e Jaki Windmill (djembe e voce). Sette elementi che compongono una band dall’alto gradiente magico ed onirico, un amalgama che produce un sound diviso tra space, psichedelia, progressive e folk rock. Per citare qualche punto di riferimento si potrebbe pensare ad un misto tra gli Hawkwind del periodo '69/’70, gli High Tide con un piglio meno dark e gli stessi Anomie. Un bel connubio insomma, capace di generare brani visionari, liquidi, sognanti e altamente lisergici. Già l’iniziale “First love” mette in chiaro lo stampo stralunato della musica delle Piramidi: una elettrizzante cavalcata giocata sui duelli di voce, violino e chitarre, con ritmiche quasi sospese e stranianti tappeti di tastiere. Un ottimo impatto, non inficiato dalla scarsa qualità della registrazione, effettuata completamente dal vivo ai Bush Studios di Londra. “Beyond belief” continua sulla stessa scia, con il violino penetrante di Barnett ancora in evidenza ed un’atmosfera da fiaba ad addolcire il tutto. “Chatter” ha invece un impatto più duro: pur mantenendo l’alone da psych jam astrale e qualche richiamo alle melodie “canterburyane”, concede maggiore spazio alle sfuriate delle chitarre, mai così come aggressive in questa circostanza. Prima di congedarsi, The Pyramids Of SNAFU vogliono ancora farci viaggiare e l’intento riesce alla perfezione con “Free energy”: una liturgia cosmica che avvolge la mente in una cappa oscura e trascina in lungo e in largo per l’universo alla ricerca della propria energia interiore… Purtroppo la band non ha un sito internet, dunque l’EP è di difficile reperibilità. Per richiederlo è necessario scrivere a: [email protected]. Alessandro Zoppo

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