Dead Meadow: 11 novembre 2018 – Scumm, Pescara

Fa tappa a Pescara il tour europeo dei Dead Meadow in una fredda e umida giornata di novembre. Il gruppo festeggia vent’anni di carriera da quando Jason Simon, Steve Kille e Mark Laughlin decisero di mettere insieme un trio heavy psych a Washington D.C. attirando immediatamente la curiosità di Joe Lalli con la sua Tolotta Records.

Da allora i nostri hanno pubblicato sette dischi in studio, compreso l’ultimo, bellissimo, The Nothing They Need, ed hanno girato letteralmente il mondo. Ora tocca a noi vederli in Abruzzo per seconda volta (dopo il live del 2008, dove presentavano Old Growth), un po’ stanchi ed affaticati, segno che per questo lunedì hanno fatto proprio uno sforzo a salire sul palco.

Inizia Mark Matos, alias Trans Van Santos, in solitaria, chitarra acustica, voce e riverberi desertici che ci portano tra dune e sole accecante. Tanto Devendra Banhart quanto Luke Roberts, il suo è un approccio in punta di piedi: tocchi gentili sulle corde e voce rilassata. Il suo secondo disco, TVS 2, è molto bello: c’è Jason Simon alla chitarra e le canzoni si aprono su arrangiamenti azzeccati. Ammette scherzosamente che sarebbe rimasto volentieri a riposare, ma non ci fa mancare niente; una mezz’ora dolce che è un buon prequel per i suoni acidi che ci aspettano.

Dead Meadow 11 novembre 2018 Scumm Pescara

Quando salgono i Dead Meadow sul palco, la musica cambia. Introdotti da un mantra di sitar e chitarra, aprono con la classica Greensky Greenlake che sale come un siero nel sistema linfatico dei presenti. Non hanno fretta di stupirci con effetti speciali. La loro è una miscela di Quicksilver Messenger Service, Cream, James Gang, Jimi Hendrix Experience che va mantecata a lungo. Anche la scenografia è ridotta all’osso con pochi effetti di luce e la macchina del fumo a far diventare le silhouette evanescenti. Tutto è in mano alla musica dei nostri e ai loro strumenti.

Jason è allo stesso tempo semplice ed articolato. La sua chitarra sputa riff acidi riverberati che si incagliano in assolo di wah-wah. Steve ha un Rickenbacker nero con amplificazione Ampeg: un velluto gommoso e ficcante che garantisce i limiti della trama. Sembra l’unico a non sentire la fatica di questi giorni: saltella e si emoziona sui pezzi come se fosse la prima volta. Il batterista rimane un po’ indietro. Sembra voler ripetere l’intenzione di Stephen McCarty (lo strepitoso drummer di Shivering King and Others e Feathers) senza riuscire pienamente nell’intento. È quasi in sottofondo, ma non possiamo biasimarlo dato che ha ricevuto un eredità pesante in senso di stile e diciamolo pure di coolness.

La scaletta pesca dai tutti gli album i pezzi più belli, sia quelli più hard dei primi tre dischi, sia quelli più delicati di Old Growth, come What Needs Must Be e Between Me and the Ground, che li avvicinano ad una psichedelia naturalistica di band come gli Arbouretum, unici veri eredi dei Dead Meadow. Sul finale arriva la sabbattiana Sleepy Silver Door, vero e proprio manifesto della band riconosciuto da tutti i presenti.

Un piccolo intermezzo in solitaria di chitarra e voce che ci ricorda che Jason Simon ha pubblicato in proprio due bellissimi album di folk psych (l’omonimo del 2010 e Familiar Haunts del 2016) e poi si torna insieme per la cover di Tomorrow Never Knows dei Beatles che in mano loro sembra ancora più calda e mantrica. Finisce tutto dopo un’oretta e mezza, ma non nelle nostre teste che riportano a casa echi e riverberi di una visione musicale fantastica e riuscita.

 

Eugenio Di Giacomantonio