ROADBURN FESTIVAL 2010
013, Tilburg (NL) 15-18 aprile 2010

Che siete matti, ci lasciate dieci giorni in Olanda?!? A causa della nube di cenere causata dall’eruzione del vulcano islandese Eyjafjallajökull, l’edizione numero quindici del Raodburn Festival si rivela una delle più lunghe, costose, divertenti e complicate. Voli cancellati per gruppi e avventori, cambiamenti improvvisi di posizionamento nel bill, confusione su come far ritorno a casa. Dieci giorni nel Brabant: l’arrivo ad Eindhoven mercoledì 14 si rivela fuoco di paglia, la quiete prima di una tempesta stordente e come sempre emozionante, perché il Roadburn è prima di tutto esperienza sensoriale. Si incontrano amici, si visitano luoghi, si incrociano sguardi e si scambiano chiacchiere in grande libertà, con tutto l’accessorio di felicità connesso. Vince anche la mossa di aggiungere come location il Midi Theatre, piuttosto comodo e accogliente, mentre sul piano prettamente sonoro dobbiamo lamentarci di due aspetti: la presenza scarsa delle tipiche, crude e avvolgenti band heavy psichedeliche (o classicamente stoner… a tenerne alto il vessillo soltanto Earthless, Karma To Burn, Fatso Jetson e i sorprendenti The Machine); la quasi totale assenza del doom oscuro e sperimentale (se non fosse stato per Thorr’s Hammer e Suma…) in favore di un metal che si presuppone d’avanguardia e in fin dei conti si rivela sempre la solita solfa (ogni riferimento a Enslaved, Triptykon e Nachtmystium è puramente voluto).

Giovedì 15 inizia il delirio. È la classica giornata perfetta. Si comincia con l’esibizione degli Ancestors, bravi nel tirare riff marci e dal piglio southern, freddi quando si tratta di macinare code progressive dilatate. Jarboe propone un set molto sperimentale, dominato dalla sua magnetica presenza. Nella Bat Cave ci sono i The Wounded Kings e ha così inizio una fase magica: il quartetto inglese dal vivo è intenso come non mai e i brani dei validissimi ‘Embrace of the Narrow House’ e ‘The Shadow over Atlantis’ sono una continua emozione, merito degli intrecci delle due chitarre e della voce spettrale di George Birch. Di seguito, la migliore esibizione del Roadburn 2010: gli YOB del gran cerimoniere Mike Scheidt. Il Main Stage vibra sotto i colpi dei suoi riff, potenti e precisi. Una pugnalata dietro l’altra, tanto che la sala si affolla e Mike contiene a stento l’emozione per quanto il trio sta producendo. Tempo di rifiatare e da New Orleans arrivano gli Eyehategod. Il palco grande non è la loro dimensione, non a caso il gig della domenica nella Green Room sarà molto più affascinante. Vedere Mike Williams conciato malissimo e parlare come Paperino tra un brano e l’altro non ha prezzo. Seppure il vero vincitore è Jimmy Bower: con riff così paludosi e assassini non poteva essere altrimenti. Sono le 23 e l’attesa per la reunion dei Goatsnake è palpabile. Platea e gradinata sono stracolmi, Pete Stahl si presenta in giubbotto e già da solo l’attacco di “Flower of Disease” gela il sangue nelle vene. È un grande set, teso e vibrante, perché i Goatsnake hanno fatto la storia del doom. I volumi non sono spasmodici, “Mower”, “Innocent”, “Slippin the Stealth”, la gloriosa “What Love Remains” scorrono megalitiche in tutto il loro splendore. Sul finale la chitarra di Greg Anderson è un muro assurdo di pesantezza e ossessività: sei casse e quattro testate per piegare ogni nostra volontà. A ridestarci con grande tristezza è Walter: a fine concerto è costretto ad annunciare – causa nube da vulcano e conseguente impossibilità a volare – la mancata presenza di Candlemass, Shrinebuilder, Evoken, Jesu, Yakuza e Dixie Witch. Amarezza ed inquietudine iniziano a farsi strada.

Venerdì 16 i piani per seguire ogni singolo concerto iniziano a farsi benedire. È la giornata “Only Death Is Real” di Tom Gabriel Warrior, ma non se ne accusa la sensazione. I Church of Misery sostituiscono i Trinacria nel Main Stage e “costringono” a far saltare i Master Musicians of Bukkake al Midi. I giapponesi sono folli e carichi, tuttavia il loro show della domenica nella Green Room, come per gli Eyehategod, si rivelerà più acido e a fuoco. Al Midi è invece uno spettacolo vedere i Death Row (anche loro ripeteranno l’esibizione): una scaletta da urlo (da “Sinister” a “Vampyre Love” passando per “All Your Sins” e “Relentless”) e un Victor Griffin in splendida forma, chitarrista eccezionale. Davvero emozionante. Tranci di Suma e Thorr’s Hammer (che belli i cenni tra Greg Anderson e i growl di Runhild) precedono l’ennesimo, grandissimo show heavy psichedelico degli Earthless, davvero feroci e aggressivi quando calcano le assi di un palco. Cambio di rotta al Midi quando tutto è pronto per i Comus: i brani di ‘First Utterance’ sono una emozione fortissima, nonostante il folk progressive del collettivo inglese si riveli ostico e vagamente fuori contesto. Quando partono le leggendarie “Drip Drip” e “The Bite” lasciarsi andare ad una passeggiata nelle fitte radure britanniche è un piacere irrinunciabile. Di seguito, si ritorna alla pesantezza con i Karma To Burn: il Midi esplode sotto i colpi dei riff di Will Mecum e di una sezione ritmica tra le più imponenti dello stoner rock. Giusto venti minuti di Triptykon (piuttosto anonimi, decisamente meglio nel finale pesante, monolitico e dilatato), qualche sprazzo di Pagan Altar (ottimi) e siamo alla fine con Bohren und Der Club of Gore (perché non proporre il loro atmosferico doom jazz nel Main Stage?) e Dream of an Opium Eater, la cosa migliore vista in ambito avantgarde.

Sabato 17 si continua a navigare nell’incertezza, tanto che solo un pizzico di Astra ci prepara ad uno dei migliori show della giornata: i Sons of Oris in tutto il loro splendore psycho doom. In realtà il trio canadese propone una forma scarnificata di blues virata su lentezze psicotrope. Tutto ciò si rivela una spettacolo unico nella confusione totale che segnerà la giornata. Al posto degli Shrinebuilder c’è infatti uno speciale show dei Witchcraft (sempre piacevoli, nonostante la preparazione improvvisata), si inganna l’attesa con la pesantezza gratuita dei Moss ed il divertente hard scandinavo degli Horisont. Sono passate le 21 e il Main Stage è pieno: arriva John Garcia. Ad accompagnarlo in questa rivisitazione dei classici dei Kyuss gli ex Celestial Season. I momenti migliori del concerto sono quelli con Garcia protagonista: “Freedom Run”, “One Inch Man”, “Green Machine”, “Pilot the Dune” di memoria Slo Burn, “Allen’s Wrench” con Ben Ward degli Orange Goblin. La sensazione di incompiutezza è però nell’aria, perché i Kyuss erano tutt’altra cosa e la parti strumentali dei brani dimostrano carenze evidenti. Di feeling ed energia. Peccato, perché cantare a squarciagola tanti inni generazioni meritava gloria migliore. Giusto il tempo di una birra e via alla Bat Cave per i stupefacenti Ahkmed. L’exploit dell’ultimo lavoro ‘Distance’ pone la band australiana tra le migliori espressioni del nuovo heavy psych. E la prova live è passata a pieni voti: riff cosmici, pause dilatate, cavalcate strumentali che ricordano i Pelican dell’indimenticabile e mai più ripetuto ‘Australasia’. È mezzanotte e dopo una fetta di Los Natas (suono troppo chiuso nella Green Room e solito basso altissimo, eccezionale invece la jam con Vince Meghrouni dei Fatso Jetson al sax) resta il tempo per Enslaved e Shining: meglio rispetto ai soli Enslaved, psichedelia e metal che vanno a braccetto, però da un collettivo di oltre dieci musicisti qualcosa in più era lecito aspettarsi.

Domenica 18 è il giorno dell’Afterburner, devastato dalle defezioni. È anche il giorno in cui Main Stage e Midi Theatre sono chiusi e si vive un’atmosfera rilassata, tra Green Room e Bat Cave. Quest’ultima offre gruppi emergenti: gli Oceana Company navigano tra post rock e psichedelia, i Capital Sentimental sono un acerbo gruppo hard psych, i The Machine sono una rivelazione per chi cerca del sano, vecchio stoner psych griffato Kyuss e Colour Haze. Nella Green Room si ripetono – come detto – gli spettacoli di Church of Misery e Eyehategod e si ha la possibilità di “scoprire” le cerimonie doom di Jex Thoth (meglio su disco che dal vivo) e l’heavy rock dei Graveyard, in serata non proprio speciale (specie il cantante). Bicchiere della staffa al Little Devil con il doppio live di Fatso Jetson e Oak’s Mary: Mario Lalli e le sue jam improvvisate sono quanto di meglio chiedere per chiudere in bellezza questa odissea psichedelica.

Nonostante le sventure e gli imprevisti (non c’è paese migliore dell’Olanda per restare bloccato dieci giorni…), il Roadburn si conferma evento imperdibile e totalizzante. Appuntamento alla prossima edizione dunque, dal 14 al 17 aprile 2011. Sempre che l’Etna o il Vesuvio non ci facciano brutti scherzi…

Alessandro Zoppo