ROADBURN FESTIVAL 2011
Tilburg (Olanda) – 013 & Midi Theatre

La carovana del riff fa tappa per la sedicesima edizione a Tilburg. Lo 013 ed il Midi Theatre sono i luoghi di culto, il Roadburn Festival 2011 e la sua efficiente macchina i cerimonieri. Gli organizzatori Walter e Jurgen vivono l’adolescenza dell’evento riscoprendo vecchi ardori. Il 14 aprile sono previsti – tra gli altri, ovviamente – Pentragram e Godflesh. Il 15 è targato sunn 0))), Anderson e O’Malley a prendere le redini della giornata nel solco dell’estremo. Il 16 classico e moderno si incrociano con Candlemass, Voivod, Ufomammut, Weedeater e Swans. Il 17 relax con l’Afterburner ed esibizioni di Black Mountain e Dead Meadow. Prosegue l’intento di contaminare vecchio e nuovo, psichedelia e metal evoluto. Ne paga l’atto individuale, perché l’assenza di un “concerto culto” fa rilevare l’altissima medietà del Roadburn 2011. Sicuramente rispetto agli ultimi 5 anni, in cui si è assistito ad almeno un concerto rimasto per sempre nella memoria (basti pensare nel 2010 a Goatsnake e Yob).

Partenza il 14 aprile con i Quest For Fire nella Green Room. Per togliere i riff dalle camicie a quadri basta scioglierli nell’acido lisergico. Il resto saranno soltanto lights from paradise. Una palata di catrame arriva dritta in faccia dagli Acid King. Situazioni terribili e minacciose accompagnano Lori e i suoi accoliti. Dei motociclisti incattiviti dall’abuso di droghe, strade di fuoco da percorrere ad alta velocità, occhi diabolici che scrutano accusatori. Il re acido ha emesso la sua sentenza: siamo condannati a morte. Una delle migliori performance di giornata. Senza follia la vita è noiosa. Lo sa bene David Eugene Edwards. Wovenhand è la folk music dei nativi alla ricerca delle armi di distruzione di massa. Una pazzia contagiosa che inietta di elettricità l’aria. Pesantezza imprevista, inaspettata. Si resta sul Main Stage perché è ora di affrontare le proprie paure when the screams come. I Pentagram sono il mito. Uno dei nomi cardine del dark & heavy sound. The Sign of the Wolf incombe. Tuttavia manca qualcosa, forse l’addiction che Bobby Liebling ha messo da parte. Last rites prima dell’addio definitivo. Fortuna che c’è ancora il signor Victor Griffin a dettare la legge del doom. Spostamenti di senso che trascinano in Green Room per The Atomic Bitchwax. Ovvero come scomporre la complessa entità del riff. Dita che volano sulle corde, quelle di Finn Ryan e Chris Kosnik. Estrosi funamboli del local fuzz. Esibizione da mandare a memoria. Il caffè di fine abbuffata ce lo offrono i Count Raven, che in intensità battono anche i padri Pentagram. Tradizionali che è dire poco, proprio per questo grandi. Degni dei maestri, i Count Raven sono uno dei simboli di un modo di intendere la musica che non morirà mai. Perché la grazia a volte è anche e soprattutto dei gregari.

15 aprile, giornata immolata al dronico ciclo di vita dei sunn 0))). La vera chicca è in apertura. Al Midi Theatre gli Year of No Light musicano Vampyr (1932) di Carl Theodor Dreyer. Carmilla rivive in uno score straordinario. Una vera e propria colonna sonora per la rinascita. Gli Year of No Light riescono nell’impresa di scomparire, di annullarsi completamente nella pellicola. Si mascherano dietro una stratificazione strumentale mai così piena: bianco e nero, pieni e vuoti, chitarre ritmiche effetti sottili e debordanti. Dalle immagini agli strumenti. Fotografia di morte e nuova vita. Uno dei picchi del Roadburn 2011. Circle & Pharaoh Overlord ci riportano sulla terra: inizia a serpeggiare il revival psichedelico.

Al groove ci pensano i Place of Skulls. Ancora Victor Griffin, ancora una volta il padrone del riff che sfodera uno show maiuscolo. Piazza ciò che mancava ai Pentagram – be forewarned! – e diventa il cowboy guardiano delle sonorità groovy, sudicie e avvolgenti. Al Midi Theatre per i Sabbath Assembly, e la vita si annerisce. Catapultati ai tempi di Charles Manson, folk polveroso con la testa ai Jefferson Airplane e l’attitudine alla plumbea purezza dei Coven. Alla lunga prevale la noia e la sterzata di rotta la danno i riformati Beaver. Arrugginiti per gli anni che passano (nove dall’ultimo live), inorgogliti dai riff che rimangono. Stoner rock storto e complesso. Eva Nahon con il suo drumming incandescente guida i 13eaver verso un ritorno insperato. Che magari culmini in un nuovo lavoro. Scorre il tempo, gli Earth rimangono. Vederli dal vivo fa capire aspetti marginali dell’esistente. Dylan Carlson e quelle linee di chitarra sciolte nel tempo. Angeli dell’oscurità e demoni della luce, poli opposti di un cosmo che si definisce sulle alterità. Folk e western music, doom e psichedelia. E quando ouroboros is broken, non ce n’è più per nessuno. Il cerchio si è chiuso per sempre. In tema di anacronismi, gli Incredible Hog ce la mettono tutta per non sfigurare. Sessanta anni e suonare con una foga che commuove. Fa sorridere, provoca piacere, è salutare. Compresi i ringraziamenti doverosi per Lee Dorrian che ha rilanciato un gioiello dimenticato. Momento particolare perché serve soprattutto a ricordare la differenza tra un concerto tradizionale (hard blues ribollente e visionario) e l’esperienza sensoriale. Quella dei sunn 0))) e dell’aria che si sposta e ti strozza, del suono dei drones che vibra sotto i piedi, del rito del rumore. Una danza macabra che provoca visioni allucinatorie e un indiscutibile senso di repulsione e allontanamento. A spazzare via ciò che resta del vivere normale, Mick Harris ovvero Scorn. Opera per sintetizzatori e fissità meccanica. Prendi un punto, osservalo all’infinito, dì cosa ci hai visto e ti dirò chi sei.

16 aprile, è sabato. La stanchezza monta, in proporzione alla crescita dell’entusiasmo. Nella Green Room ci sono i Black Math Horseman: il risultato è un insieme di frammenti deviati di bianco e nero. Voci evocative provengono da lontano, si dilatano nell’arrampicarsi verso la marzialità del ritmo. Oscurità e passione tra il doom cinereo e la psichedelia liquida. Il gruppo californiano si rivela una delle sorprese dell’anno. In contemporanea il set speciale dei Candlemass metta alla prova la fedeltà dei fan. Oltre due ore di show, celebrazione del suono epicus, doomicus, metallicus con il basso mastodontico di Lief Edling e Johan Lanquist e Robert Lowe che si alternano sul palco. Il verbo del doom epico non concede sconti. Lanquist si rivela ancora voce cristallina ed evocativa, vincente rispetto al gradasso Lowe. Cover bizzarra di Don’t Fear (The Reaper) inclusa nel prezzo. Dalla campagna americana che genera mostri (in questo caso, il North Carolina), ecco i Weedeater. Assoluti. Fango in faccia è ciò che meritiamo. Sludge perverso, riff e ritmiche cavernosi, sputi per dannare l’anima, ceffoni da whiskey e birra in piena faccia. E allora che sia, god luck and good speed. Sempre Main Stage perché arriva il Voivoda. Adesso sì: tutto ha un senso. I Voivod. La vita, la morte, la voglia di resistere. La tecnologia che uccide. Do you wanna old school thrash? Eccovi serviti, con il consueto approccio mutante che rende la band canadese un animale da palcoscenico unico e totalizzante. Intanto l’antiquario è arrivato al Midi Theatre e ha tirato fuori dall’armadio i Dragontears. Lorenzo Woodrose esplora la psichedelia e il garage rock, in questo caso allungando oltremodo formazione e proposta. L’esito è esaltante: le voglie matte, il ribellismo individualista e giovanile, il pacifismo come stato mentale. Tutto torna, nella forma di acid jam. Forse per questo il pubblico è scarso e preferisce the other side of the trip. Male, perché la calca che affolla la venue principale dello 013 per gli Shrinebuilder è ingannata. I conti non tornano. Le singole parti (Wino + Scott Kelly + Al Cisneros + Dale Crover) prevalgono sul totale. Non ci vuole mica un ragioniere per capirlo. I suoni sono pessimi, lo spaesamento quasi surreale. Specie se sei Wino e ti ritrovi in un angolo come fuori dal mondo. Gli Yakuza giocano la carta dell’accostamento tra schizofrenia e liquidità. Violenza sonora e placido distacco tagliano come lame. Si resiste giusto il tempo per trasferirsi sul pianeta torbido di Michael Gira. Direttore dell’orchestra del rumore bianco. Il concerto degli Swans è un atto di liberazione. Esplosioni noise lunghe e articolate, punti d’arrivo di un percorso che non ricordi dove sia iniziato. Schermo vuoto. Nero, gli Swans sono il nero. Per tirare fuori l’inespresso, il non detto. La ballata folk dell’apocalisse. We are free, now.

17 aprile, l’Afterburner ci congeda da Tilburg. Peccato l’avvio sia deludente con i Sungrazer. Prodotto ‘di genere’ di casa Elektrohasch Records, sono validi su disco quanto scarichi dal vivo. Eccesso di responsabilità che li rimanda a crescita, maturazione ed evoluzione. Chi di cose ne ha da dire sono invece i Blood Farmers, assenti dalle scene da diversi anni e tornati per massacrare con il loro doom roccioso e assatanato. Una psychomania che incide sul riff, tanto da trasfigurarlo in qualcosa di altro. Un pugno metallico che scuote e coccola. Più diretti e senza tanti fronzoli i giapponesi Coffins, entusiasti del loro death sabbathiano e luciferino. Come adolescenti in gita premio, puniscono (e convincono) per ingenuità e purezza di sguardo. Nel calderone infernale e trionfale che porta verso la conclusione del festival, si entra dalla Green Room per i 90 minuti dei The Machine. Bontà confermata nel 2011, dopo lo show ottimo del 2010. Heavy psych che deve a Kyuss e Colour Haze, d’accordo. Ma ce ne fossero di gruppi così. Pensare che batterista e bassista avranno sì e no 20 anni. Groove a tonnellate, svisate liquide, riff roboanti che neanche a Indianapolis. Qui siamo di fronte ad una formazione che nei prossimi anni può fare davvero il salto di qualità. Chi l’ha già compiuto sono i Black Mountain, ormai gruppo di caratura superiore. Dei fuoriclasse. Dal salto in the future al centro del wilderness heart, un composto ammaliante di psichedelia, progressive, blues e pesante hard rock. “Stormy High”, “Tyrants”, “Rollercoaster”, “Let Spirits Ride” sono alcuni picchi di una esibizione senza sbavature. Una scalata alla vetta del cuore psichedelico. A seguire, i Sourvein. È il vagito del mostro. Sludge doom grezzo, mastodontico, carico di impeto hardcore. Troy detta legge e i Sourvein assestano le ultime mazzate a chi ha ancora voglia di earache.

La carovana saluta lo 013 e ci invita a trascorrere le prossime vacanze dal 12 al 15 aprile per il Roadburn 2012. Magari con la reunion degli Sleep per augurarci una sana, liberatoria fine del mondo.

Alessandro Zoppo