STONED HAND OF DOOM CHAPTER III
Roma

Se in Europa la scena stoner doom vive di festival come il Roadburn, lo Swamp Room e il Doom Shall Rise, anche l’Italia sta giocando la sua carta vincente con lo Stoned Hand of Doom. Terza edizione quest’anno, sempre a Roma (città doom per eccellenza, rivedete ‘Il Segno del Comando’ e capirete), stavolta spalmata in due giornate e location diverse.Venerdì 25 è il giorno del pre party al Sinister Noise club, locale nato da poco ma che ha già visto esibirsi sul proprio palco nomi noti e meno noti dell’underground italiano ed internazionale. Prima del dj set eseguito da membri degli Orange Goblin aprono il festival i romani Black Rainbows e i lombardi Midryasi. I primi sono una assoluta sorpresa vista la loro recente formazione: stoner d’assalto compatto e psichedelico. Il deal su Longfellow Deeds (etichetta francese nota in passato agli ‘aficionados’ come Waterdragon Records) giustifica le aspettative. Per i secondi lo SHOD non è una novità: già l’anno scorso avevano infiammato lo stage del CS La Strada e si confermano tra le migliori realtà nell’ambito psycho doom nostrano. Il cambio di chitarrista sembra inoltre aver giovato al trio, a suo agio con sonorità meno metal e più ‘70s. Insomma, promossi tutti a pieni voti.
Sabato 26 è il clou del festival, a partire dalle 16 al Jailbrak, ritrovo noto a romani e non, luogo di innumerevoli concerti. Se si tralascia il prezzo alto della birra e la temperatura caldissima del locale, tutto è stato perfetto, dall’acustica agli orari rispettati in pieno. Forse solo un po’ di pubblico in più non avrebbe guastato. Purtroppo per ragioni di tempo non è stato possibile assistere al live degli Zippo, stoner band di Pescara che a quanto ci è stato detto ha dato il meglio di sé. Viste le ottime premesse create dal loro esordio ‘Ode to maximum’ ci fidiamo pienamente. A seguire il doom estremo dei Mournful Grace: d’impatto la loro proposta, meno efficace l’incisività dei brani. Ancora sonorità rabbiose con i napoletani Kill The Easter Rabbit. Il trio paga l’inesperienza della giovane età con diverse sbavature d’esecuzione, compensando questa carenza con un sound grasso e tagliente. Vengono presentati i brani dell’ep d’esordio ‘Murdering your head’: tutto è molto metal, dalla voce in stile Cronos del chitarrista (la t-shirt dei Venom non mente, così come il suo riffing selvaggio stile Zakk Wylde) alle ritmiche forsennate di basso e batteria. Il finale con la cover di ‘I wanna be your dog’ chiude un live carico anche se migliorabile. Durante lo show dei Glow ci prendiamo una pausa birra per non morire soffocati dall’afa del Jailbreak. Ciò non ci ha impedito di ascoltare il gruppo spagnolo, alle prese con un hard doom molto seventies (chiare ispirazioni Black Sabbath, Pentagram e Saint Vitus) e seppur non originale abbastanza coinvolgente. I brani dell’esordio ‘Gone, but never forgotten’ si mescolano con il materiale del recente ‘Dive into the sun’: insieme ai vari Viaje a 800, Orthodox e Amon Ra anche la Spagna promette bene nella nuova ondata stoner doom. Rivoluzione sonica che vede i Doomraiser tra le band nostrane più agguerrite. I cinque ragazzi romani giocano in casa, sono rodati da una numerosa serie di date (di recente il tour europeo in supporto ai Solace) e nonostante qualche piccola pecca (batteria e chitarra ritmica soprattutto) mettono cuore e anima nella loro esibizione. Peccato non aver potuto apprezzare il cavallo di battaglia ‘The Age of Christ’, il materiale del full lenght ‘Lords of Mercy’ (unito ad un nuovo brano) è però l’esaltazione del doom sound puro ed incontaminato. Un muro di suono massiccio e corposo, che fa sanguinare le orecchie e ribollire la birra in corpo. Il trip della oscura, allucinata, gigantesca ‘Doomalcoholocaust’ è l’apice dello spettacolo, una invocazione agli spiriti che governano la musica del destino.
Il tempo di mangiare e bere qualcosa e arriva il momento più atteso della serata, in rapida successione gruppi del calibro di Solace, Colour Haze ed Orange Goblin. I Solace si rivelano una sorpresa incredibile: gli album ‘Further’ e ‘13’ (oltre lo storico ‘Jersey Devils’, split con gli amici Solarized) ci avevano mostrato una band dal gran tiro, stoner doom bardato metal e hard rock ‘70s. Quello che su disco manca (una certa freschezza che renda memorabili i brani) si recupera in pieno dal vivo: i cinque del New Jersey sono una macchina da guerra, picchiano duro e preciso, non lasciano scampo. La batteria è corposa e devastante, il basso pieno e ricco di groove (Rob è un vero leader), la voce di Jason possente e abile nel districarsi tra urla e squarci melodici, le due chitarre di Tommy e Justin alternano alla perfezione riff cattivi e assoli fulminanti, divisi tra velocità ed effetti stordenti. Anche le song del nuovo ep ‘The Black Black’ centrano il bersaglio, merito di questi cinque diavoli che hanno esperienza e bravura da vendere. Menzione speciale per le versioni di ‘Whistle pig’ e ‘Khan (World of Fire)’, nonché per il finale con la cover di ‘Forever my queen’ dei Pentagram cantata in compagnia di Ben degli Orange Goblin: momento che rimarrà per sempre nella nostra memoria.
Rapido cambio di palco ed è il momento della deflagrazione lisergica, della macchina psichedelica, di quel fantastico mondo visionario che si chiama Colour Haze. Il trio tedesco guidato da Stefan Koglek colpisce per calma e pacatezza. Illusione che dura poco perché non appena la musica comincia a fluire libera ci si trova travolti da un incredibile tsunami sonoro. Nonostante il breve tempo a disposizione (soprattutto in relazione alla durata dei loro brani e al tipo di proposta), il gruppo suona in modo splendido. Stefan è una sorta di colosso magico, fa volare la sua chitarra alta nel cielo liberando fuzz, wah-wah ed effetti ipnotici. Manfred non è da meno, picchia le pelli in maniera puntuale ed efficace, mentre Philipp sembra quasi assente, si posiziona nel suo angolo in uno stato di mistica trance. I vortici di colori creati dalle proiezioni luminose fanno il resto, fondendosi con il magma acido della band. Unico neo l’incursione improvvisa sul palco del bassista dei Solace, i quali si ritrovano improvvisamente senza lo zaino contenente soldi e passaporti. Attimi di panico e rabbia che vengono mitigati non appena la borsa incriminata viene ritrovata, causa sbadataggine del chitarrista (a volte l’alcol gioca brutti scherzi…). Ciò tuttavia non impedisce ai Colour di proseguire e terminare il set con due versioni straordinarie di ‘Tempel’ e ‘Love’, apoteosi assoluta per chi ama il rock psych kraut di questi grandi musicisti tedeschi.
La notte dello Stoned Hand of Doom Chapter 3 si conclude con il dj set di Walter del Roadburn, non prima dell’esibizione degli headliner della serata, gli Orange Goblin. Ben è il leader carismatico, si aggira durante tutto il pomeriggio per il Jailbreak dispensando saluti e sorrisi. Sul palco si arrabbia solo quando gli viene fatto cadere un microfono, anche se è solo un attimo perché dopo la minaccia di un cazzotto torna subito il gigante buono di sempre. Sprona il pubblico, lo incita, anima lo stage e fa da collante tra i membri della band. D’altronde gli Orange sono una macchina ben oliata dal vivo: la perdita di un chitarrista ha ridotto molto le parti heavy psych, amplificando l’impatto e una certa carica hard punk. Rispetto alla loro ultima esibizione in Italia (al Forte Prenestino di Roma) il ridotto tempo a disposizione fa optare i quattro per una scaletta rimaneggiata: viene presentato il nuovo album ‘Healing through fire’ con numerose song (tra le quali meritano segnalazione le ottime ‘The Ale House Braves’ e ‘Cities of frost’), purtroppo è dato meno spazio a quelli che sono i loro dischi cardine, ‘Frequencies from Planet Ten’ e ‘Time travelling blues’. A prescindere da questi aspetti, il gruppo inglese travolge e convince: brani come ‘Scorpionica’, ‘Some you win, some you lose’, ‘Your world will hate this’, ‘Aquatic Fanatic’, ‘Round up the horses’ e ‘Blue snow’ (in una versione con diverse sbavature a dirla tutta…) sono manna dal cielo per tutti gli stoners presenti. Uno show incendiario e focoso, che si conclude con il dovuto bis nel quale spicca la ‘motorheadiana’ ‘No class’.
Lo Stoned Hand of Doom è un festival che cresce anno dopo anno. Questa terza edizione sarà ricordata per il calibro dei gruppi coinvolti e la precisione dell’organizzazione (i nostri complimenti a Wall of Music e Garbage Dump). Continuando così il prossimo passo sarà avere in cartellone Cathedral, Los Natas e Electric Wizard.

LET THERE BE DOOM!

(Un Grazie a Pollyhaze, Ciccio e Davide che hanno fornito le foto.)

Alessandro Zoppo