DESERT SONS – 100 Miles

Osservando il sito e il look degli olandesi Desert Sons non ci si può proprio sbagliare: il loro è stoner rock desertico e ruvido come un rotolo di carta vetrata, fatto del solito immaginario di automobili oblunghe e spaziose, risse alla pompa di benzina e polvere che penetra nei polmoni.
Il fatto che optino per questo suono classicamente grezzo, che abbraccia i Kyuss più diretti, gli storici stoners australiani Buffalo, i Dozer e i Five Horse Johnson, non deve inficiarli rispetto a gruppi heavy-psych più evoluti dell’ultima generazione come Astrosoniq e Wallrus, visto che “100 Miles” non fa gridare al miracolo, ma l’attitudine dei nostri non è farsesca, e ci sono spunti buoni che faranno passare quaranta minuti piacevoli a chi gradisce queste sonorità.

Poi d’altronde se esistono migliaia di cloni in tutti i generi musicali, perché parlar male di un gruppo come i Desert Sons, che almeno spinge a tavoletta, e pur non raggiungendo i bolidi di cui sopra, riesce almeno a non farsi doppiare in curva?

“My Machine” è la consueta apologia stoner-on-the-road, molto trascinante, e si sente che il gruppo è nato con questa musica, adorandone sia i capostipiti che centinaia di nomi che hanno scritto le pagine dell’underground.
“Misery Gone” è più molossoide e ingombrante, con i riff del rude (ma risoluto) Jimi che fanno veramente male, e la voce di Ome Sake non ha mai il minimo cedimento.

“In Town” ricalca tutti gli stereotipi: inizio e finale Kyuss/Roadsaw, con nel mezzo dilatate fasi strumentali, ma risulta nel complesso piacevole.

“Where’s My Man” e “Feel Your Body” sembrano rapinate da dischi come “Madre De Dios”, “Latin Lover” e “Ode To Io”, con in più una certa influenza proto-hard rock, e paradossalmente è proprio questo che riesce a rendere i Desert Sons attuali e convincenti.

“Desert Sun” è il loro brano più articolato e visionario, ed è una specie di obolo offerto all’immaginario desertico, così come “100 Miles” fa quasi venire voglia di indossare cappellaccio, poncho e stivaloni.

Sembrerà assurdo, ma alla fine “100 Miles” fa venire la smania di riascoltarlo e portarselo in macchina.

Roberto Mattei