Desert Wizards – Beyond the Gates of the Cosmic Kingdom
Sgrossate le angolosità goticheggianti del debutto, in Ravens i Desert Wizards cominciavano a camminare con passo più sciolto, a testa alta, seppur con l’occhio sempre attento alle orme lasciate dai pionieri progressivo-psichedelici dell’epoca aurea. Lasciando a terra buona parte delle zavorre sabbathiane, a quattro anni di distanza gli stregoni sono pronti a varcare “le porte del regno cosmico” per la terza avventura sotto l’egida della Black Widow Records.
Dune già percorse, ma sempre mutevoli, delineano un paesaggio famigliare e allo stesso tempo costantemente rinnovato da venti ora forti ora deboli che spirano dal passato e portano con sé sentori di Hawkwind, Pink Floyd e altre glorie. L’album decolla sulle ali di Astral Master, specchio della maturità raggiunta dai ravennati, mantenuta in quota dalla chitarra pastosa di Marco Goti e dalla batteria asciutta di Silvio Dalla Valle. Dogstar stende un tappeto folk velato di polvere interstellare, che presto l’organo di Anna Fabbri scuote con un’inquietudine a tinte heavy prog. La voce “sdoppiata” di Marco Mambelli (anche al basso) riecheggia lo stile di Dave Brock e il brano va a sciogliersi in un calderone acido di fuzz e wah-wah.
La formazione fa quadrato nella granitica Born Loser, che assimila la lezione di Crane/Du Cann senza tuttavia trarne i massimi risultati. I ranghi tornano a rompersi in Red Sun, 10 minuti di delirio in cui la materia gira attorno a un centro di gravità che si rafforza e s’indebolisce a fasi alterne, mutandone la velocità rotatoria. Ed ecco che si giunge a quello che forse è il punto più drammatico del viaggio, The Man Who Rode the Time (di cui è disponibile anche un video clip). Nell’atmosfera placidamente malinconica riverberano tante sagome del passato, dai Camel agli Alphataurus, con un finale mozzafiato in cui il pathos vola alto sulla voce dell’ospite Suzanne Omgba Atangana.
Distant Memories è un altro buon episodio in cui gli stregoni dispiegano sia l’arsenale progressivo sinfonico sia le lame affilate dell’heavy rock, mentre Snakes si apre come una sorta di garage psicotico infestato dallo spettro di Dave Wyndorf e finisce col liquefarsi in una poltiglia space-doom. In chiusura al pellegrinaggio ultracosmico, Light in the Fog avvolge le orecchie nel velluto. L’arpeggio di chitarra, il passo disteso della batteria e l’armonia di voci maschile e femminile ci cullano, mentre il sassofono di Alberto Pompignoli si fa luce nella foschia onirica per ricondurci a casa.
Nel corso degli anni i Desert Wizards hanno lasciato sobbollire il loro intruglio di hard prog/psych fino a ricavarne una pozione densa ed efficace, tant’è che nei suoi 48 minuti Beyond the Gates of the Cosmic Kingdom riesce ad avere una maggiore pregnanza di significato rispetto al precedente – valido, ma ben più lungo – Ravens. Gli arrangiamenti vocali sono maturati, così come l’interazione tra gli strumenti e la stesura stessa dei brani. A voler trovare una pecca, manca un po’ di convinzione nei tratti più duri, ma l’album resta un ascolto gradevolissimo. Grazie per questi nuovi filtri magici, stregoni del deserto!
Davide Trovò