DESERT WIZARDS – Ravens

Un nome, Desert Wizards, i maghi del deserto. Una copertina coloratissima, con caratteri Sixties alla 13th Floor Elevators. E l’intro del primo brano – il dialogo cult tra Jack Nicholson e Dennis Hopper in “Easy Rider” (“All we represent to them, man, is somebody needs a haircut” “Oh no. What you represent to them is freedom” “What the hell’s wrong with freedom, man? That’s what it’s all about” “Oh yeah, that’s right, that’s what it’s all about, all right”).

La domanda sorge spontanea: sarà il solito disco di pura psichedelia desertica di quattro ragazzi senza idee che pensano di vivere nella decade sbagliata e che tirano fuori l’ennesimo banale revival del glorioso psychedelic rock degli anni Sessanta? No, niente di più sbagliato! I Desert Wizards, quattro ragazzi ravennati (Mambo, Gito, Anna e Dallas) attivi dal 2007, con questo “Ravens”, pubblicato nel 2013 dall’italiana Black Widow Records, dimostrano di andare ben oltre la riproposizione pedissequa delle sonorità psichedeliche inglesi e West-Coastiane dei 60, e confezionano un disco di hard rock di gran classe, articolato e soprattutto fluido: è davvero difficile trovare dieci tracce – per oltre un’ora di musica impreziosita dal doppio cantato in inglese – che scorrono così fluentemente senza stancare l’ascoltatore.

“Ravens” è un album variegato e ben miscelato, contraddistinto da un sound dove si incontrano la psichedelia à la Pink Floyd e The Doors e l’hard rock dei decenni successivi alla Uriah Heep, Deep Purple, Atomic Rooster, Pentagram o Witchfinder General (con un pizzico di doom, gothic e stoner qua e là), arricchito da arrangiamenti davvero efficaci e curatissimi e sul quale si elevano liriche decadenti ed oniriche. Non può non venire in mente l’heavy psych dei canadesi Black Mountain o il doom ancestrale dei francesi Northwinds! Un lavoro formidabile, fresco e destinato a crescere con gli ascolti.

Dei dieci brani che compongono l’album sono assolutamente da segnalare l’iniziale “Freedom Ride” che parte in puro stile hard rock per poi sfumare in una digressione psichedelica degna dei Samsara Blues Experiment più dilatati; la melodica “Babilonya” con il bellissimo assolo conclusivo; l’eterea “Back to Blue” in puro stile floydiano; “Blackbird”, da considerarsi vera “summa” dell’album così in bilico tra hard rock e psichedelia; “Dick Allen’s Blues” che richiama moltissimo i Black Mountain di “In the Future” e soprattutto il gioiello “Vampires Queen” con il suo meraviglioso intreccio di piano e chitarra, senza tralasciare la conclusiva cover di “Childhood’s End” dei Pink Floyd, a ribadire ancora una volta l’amore della band per le prime sonorità floydiane.

Un disco davvero notevole, da ascoltare ed assorbire, senza soluzione di continuità.

 

Alessandro Mattonai