DIRTY SANCHEZ – Subtitles For The Blind
Dopo due demo e una partecipazione ad una colonna sonora, i Dirty Sanchez approdano al primo album (sempre autoprodotto), “Subtitles For The Blind”, un crepuscolare pastiche di rock psichedelico, indie e post rock dalle venature progressive, decisamente influenzato da Godspeed You Black Emperor!, Sigur Ros e Mogway, e rafforzato da una discreta dose di chitarrismo tipico di Pelican e Red Sparowes.Si tratta di un disco quasi completamente strumentale (tranne qualche sporadico chorus) dai brani ben concepiti, autoconclusivi e suonati con l’anima, come già dimostra lo struggente e delicato inizio di “Wouldn’t It Be So Hilarious?”, orchestrata con ottimo pathos, a cui segue forse l’episodio che condensa la filosofia del gruppo, “Chocolate Bass Player”, brano duro e trasognato che agisce in penombra, unendo un po’ tutte le sfumature del nuovo rock. L’assieme dell’album, sufficientemente variegato, pare contemplare per sezioni definite, umori, passioni e contrasti a diversa gradazione luminosa, grazie anche al piano di Luca e al violino di Giulia, che ampliano con facilità il range emozionale, donando un vago profumo impressionista, tra rosse escrescenze arboree e annodate variazioni strumentali.
Tra gli intermezzi acustico/pianistici di “Fragments part 1 & 2”, troviamo “Better Take Cover”, un’affascinante e parca ballata indie che risente anche di Slint e Motorpsycho, e la scheggiata, impulsiva, malinconia elettrica di “Subtitle”.
Si continua poi con le concessioni pseudo-sinfoniche di “How You Want”, gli aspri contrasti atmosferici di “Drowning Daphne” e le conteplazioni acustiche di “Clorofilla” che spurgano in un epico finale.
Se cercate atmosfere di un rock che si sforza di non essere la fotocopia di modelli preesistenti, potete plaudere tranquillamente ai Dirty Sanchez.
Roberto Mattei