Dozer – Beyond Colossal

Colossale potrebbe essere l’aggettivo adatto per qualificare questo lavoro, seguito di quel “Through the Eyes of the Heathens” che tre anni fa divise appassionati e critica riguardo ai Dozer. La formazione svedese, attiva dal 1995, ha indubbiamente percorso una strada che le ha permesso di divenire una delle band più interessanti ed importanti del panorama stoner, garantendosi il piazzamento affianco alle vecchie e nuove glorie.

In “Beyond Colossal” si conclude quel ciclo di mutazione e metamorfosi da Kyuss-band (ai limiti del clone, bisogna ammetterlo, nei primissimi tempi di “In the Tail of a Comet”) con grande potenziale ad una formazione con una propria identità, in un percorso graduale che ha messo a fuoco nuovi stili e nuovi linguaggi. Potrebbero aver sbagliato qualche cosa, magari azzardando qualche passo troppo coraggioso (è il caso di “Through”, comunque un buon disco), ma siamo arrivati a quello che potrebbe essere il definitivo capolavoro.

Almeno fino a questo 2008, i Dozer avevano pubblicato lavori di grande qualità, ma quest’ultimo li supera tutti per personalità, varietà, attitudine e grande capacità di coniugare una forma mentis del rocker stoner con la gradevolezza di un record in cui siano presenti canzoni efficaci, godibili e assolutamente accattivanti. Questo non significa tuttavia che si tratti di un lavoro semplicistico, mirato a piazzare una sequela di singoli e di brani di impatto immediato: questo è uno degli aspetti di “Beyond Colossal”, la sua facilità di circolazione e di transito nelle diverse playlist settimanali e impianti in macchina. Ma è sostanzialmente la capacità di poter affermare che i Dozer siano arrivati al Big Kahuna, il disco che non si può sbagliare e che loro non hanno certamente sbagliato.

Già dalle note di The Flood si capisce come i quattro ragazzi di Borlänge abbiano capito tutto di come si scriva e si incida una canzone rock a tutti gli effetti: grande riff, ottima melodia, bella voce solida e rocciosa, eccellente sezione ritmica e superba orecchiabilità del tutto. Ogni singola tessera è al suo posto, senza fronzoli ma contemporaneamente rendendo ricca e prelibata la portata. Il discorso sulle linee vocali è assolutamente necessario perché questo è uno dei punti di forza del disco, vuoi anche grazie alla grandiosa partecipazione, di Neil Fallon, massiccia ugola dei Clutch (Empire’s End, Two Coins for Eyes), vuoi anche per l’eterogeneità dei timbri e degli stili utilizzati, a volte più epici e tirati, altre volte più riflessivi e disincantati.

Tra la prima traccia e l’ultima scorre un abisso, perché nessuno si aspetterebbe di assistere ad un brano come Bound for Greatness, tributo agli anni ’70, atmosferico e con un hammond che è da commuoversi. Per il resto è un album incredibilmente denso di sonorità, canzoni e passaggi da applausi a scena aperta, uno dei migliori dischi degli ultimi 5 anni, usciti nella scena stoner. Sarebbe privo di utilità indicare una canzone migliore dell’altra, sono tutte sullo stesso livello, cioè di eccellenza.

Gabriele “Sgabrioz” Mureddu