GAS GIANT vs. WE – Riding the red horse to the last stronghold of the freaks

Dopo le loro galattiche (in tutti i sensi) prove, decidono di unire le loro forze nel 2001 due dei gruppi culto che tengono decisamente alta la bandiera dello space-rock mondiale, portandolo a livelli di assoluta eccellenza.
Parliamo ovviamente dei danesi Gas Giant, che stanno ottenendo lo spazio che meritano solo negli ultimi anni, ma che sono stati tra i maggiori promotori del rinascimento psichedelico, con album del calibro di “Portals Of Nothingness” e “Mana”, e dei divini norvegesi We, adulati anche da gente del calibro di Chris Goss.

Gli oltre tre quarti d’ora di questo fantastico dischetto sono democraticamente equipartiti tra le due formazioni, ed è un trip siderale di quelli che lasciano il segno, stante l’altissimo livello delle composizioni.

I Gas Giant partono con il duro, fascinoso space rock di “Fire Tripper” e si confermano grandissimi nell’assemblare un’impenetrabile forma lisergica con una sensibilità rock di classe, che propone indifferentemente sia root-sound (Hendrix, Pink Fairies) che modernista robot rock, in una dimensione epica e stellare.

Nei dieci minuti della seconda “Never Leave This Way” si mescolano i Kyuss più introspettivi e le fasi lunari dei Celestial Season, con lontane ascendenze floydiane, ma il tasso di personalità è veramente indiscutibile, ed il brano è da incorniciare.

“Ride The Red Horse” parte felpata per concentrarsi in una serie di gorgheggi hard-garage, ritorna introspettiva e pacata per progredire poi in un crescendo lisergico, una costruzione che può ricordare in qualche maniera gli articolati On Trial di “S.K.U.N.K.”.

L’incipit dei We è affidato a “Last Stronghold Of The Freaks”, e bastano poche note ad incoronarli: la chitarra space-progressive di Dons dipinge scenari introspettivi e sconfinati come nessun altra, su cui come al solito la voce di Felberg ci fa viaggiare oltre la materia condensata abbattendo ogni ostacolo dimensionale. Un brano di rara bellezza.

Le fasi soliste sfumano sulla seguente “Raven”, un altro brano magico, a livello dei migliori Masters Of Reality, visto che Dons si supera assumendo le sembianze di un Robert Fripp colpito da raptus spaziale.

“The Trip” (undici minuti) è magistrale: un andamento soft-rock è la base di lancio per l’arte psichedelica dei quattro musicisti, che aggrovigliano i loro strumenti di un’elettricità neurolettica, fino allo schizoide intermezzo centrale di sitar, per poi ridistendersi in una traiettoria planare in cui incorporiamo con estrema naturalezza le forze della gravitazione, variabili a seconda dell’altitudine, in uno stravolgimento delle leggi fisiche, fino a tornare esattamente al punto di partenza in posizione eretta.

Roberto Mattei