The Glasspack – Bridgeburner
Una vita ai limiti, dominata dalla nevrosi e dalle abitudini dislettiche, che sbeffeggia l’ipocrita linearità del quotidiano, permettendoci di osservare azioni in accelerato stop-motion, in un ribaltamento sfocato dei principali sistemi di riferimento: questo è in sintesi il nuovo album dei Glasspack, tra i migliori rockers radicali attualmente in circolazione.
Detta così si potrebbe pensare alla solita orgia di feedback, riff minimali e cavernosi, alternanza di tempi pachidermici ad altri esasperati, il tutto appositamente concepito per vomitare alienata frustrazione; piuttosto, questi elementi sono sicuramente contenuti nei brani degli invasati americani, ma il tasso creativo è molto alto, a tratti stupefacente, e unito alla loro drogata foga rende questo disco imperdibile.
Le chitarre sono sanguinosamente metropolitane, fissate da una ritmica dalla notevole potenza, fantasia e precisione, su cui si agita una parte vocale che riecheggia sia il primissimo Wyndorf di “Snake Dance” che i Ministry di “Psalm 69”, e l’album si sviluppa tra sonorità fangose e ultra-psichedeliche, una specie di bel ceffone da accusare inebriati.
“Twenty Five Cents” è un regolamento di conti, il dazio da pagare per uscire vittoriosamente martoriati dopo aver devastato mezzo quartiere, così come “Barn Party” sfiora il parossismo con quella tachicardica chitarra noise.
“Oil Pan” sembra nata dalla fusione degli hard-rockers di trenta anni fa con gli Oneida, e irresistibile è la dissacrata formula rock di “Gimme Shelter”, che dimostra di come i Glasspack ci sappiano fare anche lo stoner urbano.
Dopo “Hydroplane”, uno strumentale di due minuti in bilico tra hardcore e metal, viene “Hairsoup”, che partendo da un incedere iniziale Sleep/Church of Misery lascia spazio a spettacolari progressioni space-noise acidissime, con l’iterazione mega-ipnotica della voce effettata, per poi tornare al circolare giro di basso su cui continua il loop delle chitarre: fottutamente grande.
Da far invidia agli Shellac più sperimentali, ma sempre radicalmente stoner, è invece “Lil’ Birdie”, e dobbiamo piegarci alla vorticosa “Bridgeburner”, una specie di boogie-rock futuristico in cui, più che la destrutturazione tanto cara al post-rock, sembra trionfare una forma psycho-rumorista straripante.
La conclusione viene con un altro strumentale, “Peepshow”, ed è un arco trionfale heavy-psych, di quelli che erigevano gruppi fantastici e ignobilmente sottovalutati come Core e Red Giant.
Roberto Mattei