Greenleaf – Nest of Vipers

Si rimane sempre sorpresi quando la somma delle parti produce molto di più della semplice aritmetica. E quando le parti sono groove, Seventies guitar, Southern Comfort e il risultato sono i Greenleaf, la sorpresa è ancora più piacevole.

Nati dalla mescola di elementi di Dozer e Demon Cleaner e negli anni aperti a collaborazioni con Oskar dei Truckfighters e Peter dei Lowrider, si erano perse le tracce dall’ultimo “Agents of Ahriman”, uscito nel 2007. Ora la Small Stone è pronta al rilascio del nuovissimo “Nest of Vipers”, album che cattura la band in stato di grazia dato che si è prodotta una sintesi perfetta di stoner e psichedelia evoluta.

L’uno/due/tre iniziale è da manifesto: intro dal sapore “Meddle” e massicci riff di natura post QOTSA, legati a ritmiche basso e batteria direttamente ripescate dalla pozione Mel Schacher/Don Brewer di Gran Funk Railroad memoria. Una goduria. Forma e Sostanza. In poco più di dieci minuti rispolverano le influenze hard di 30 anni donando un suono unico alle nuove generazioni.

Con “Tree of Life” (omaggio a Terrence Malick?) il viaggio torna a farsi introspettivo, ma è questione di attimi perché “Dreamcatcher” torna a sondare l’immaginario Fu Manchu solo come gli originali sanno fare. Si risente l’eco space di tastiere intergalattiche nella bellissima “At the Helm”. Un pezzo che non fa rimpiangere la dipartita dei confratelli Mammoth Volume. Che dio li abbia in gloria. Noi ci consoliamo con i loro eredi più prossimi.

West Coast e chitarre acustiche da falò in riva al mare ci portano le “Sunken Ships” all’orizzonte; anche questo è un brano straordinariamente costruito, bilanciato com’è tra hard da bere tutto d’un fiato e intermezzi prog/sabbattiani. “The Timeline’s History” ci riporta quando la storia la scrivevano i duelli tra i solos di chitarra e quelli di basso, e la batteria faceva da combustibile per tirare avanti, avanti e avanti sempre, ancora… fino allo stordimento dei sensi, e qui, persi into the void, arriva la title track, moltitudine dei nostri peccati.

Otto minuti pieni di flower trip, con Per Wiberg, ex Opeth, a trovare rifugio psych nelle tastiere, bellissime e magniloquenti per esaltare al massimo l’idea di compenetrazione dell’ignoto anche quando tutto intorno a noi è nero pesto.

Se fossero nati nella metà dei Sessanta, i Greenleaf avrebbero potuto aprire per i Cream senza sfiguare e con la mente sono sicuramente ancora da quelle parti, dispersi tra un Woodstock in acido e un live all’isola d i Wight, lanciando strane frequenze distorte nell’etere, giunte fino a noi, oggi, anno domini 2012. (Heavy) Rock save your sinful souls, brothers!

Eugenio Di Giacomantonio