JPT SCARE BAND – Past is prologue

Spesso è duro riscrivere il passato, rivivere ciò che il tempo ci ha negato, cercare in ogni modo di restituire a chi di dovere la gloria che lo scorrere inesorabile delle lancette e la cattiva sorte hanno estorto… Negli anni ‘70 si sono sviluppate tutte le più grandi esperienze che il rock ricordi. Tra queste va annoverata anche quella della JPT Scare Band, gruppo americano che proprio in quel periodo cominciava a muovere i primi passi nella scena hard psichedelica e che purtroppo ha racimolato poca fortuna. Ma oggi, a quasi trent’anni di distanza, questo “Past is prologue” si riprende ciò che non gli è stato mai concesso e rende giustizia ad una band dal grande potenziale: si tratta infatti di una specie di ponte che unisce le lunghe jam dei favolosi seventies con la grande volontà del presente di continuare a esprimere ciò che solo la musica può comunicare.
J sta per Jeff Littrell, batterista dal tocco fatato, molto a suo agio sia nel ruolo di gregario che in quello di protagonista; P sta per Paul Grigsby, bassista propulsore di ritmiche ossessive e pulsanti; infine, T sta per Terry Swope, chitarrista e cantante, nonché vero leader del gruppo, un maestro della sei corde furioso e riflessivo al tempo stesso, degno di un posto nell’olimpo dei guitar players che la storia ricordi. Il sound del gruppo è accostabile a quello dei mostri sacri dell’hard blues, e allora parliamo di Led Zeppelin, Jimi Hendrix, Cream, Groundhogs, Ten Years After, Cactus e tanti altri.

Lo dimostra “Burn in hell”, track d’apertura risalente al 1974 e risuonata per l’occasione, basata su un racconto di science fiction e in questo influenzata dai primi Rush (quindi di riflesso dagli Zep…), muovendosi agilmente tra arpeggi sognanti alla Neil Young e assoli coinvolgenti ed epici come pochi. “I’ve been waiting” (registrato nel 1993) è un vero e proprio tributo ai Black Sabbath, dove da una parte la voce di Terry si fa aspra e tagliente come l’Ozzy dei bei tempi (inoltre il testo fa riferimento a temi come l’angoscia e la paranoia, cari ai primi Sabbath…), mentre dall’altra i ritmi sincopati rimandano alle esperienze di Tony Iommi con quel mostro di bravura di Ronnie James Dio alla voce, “Heaven and hell” su tutte…

Con “Wino” si esplorano territori acid folk-rock, si tratta infatti di una cover del folk singer Bob Frank resa in un formato più aggressivo, dall’appeal onirico e trascinante, con dei grandissimi soli di Terry che farebbero venire la pelle d’oca anche al più insensibile tra gli ascoltatori… Davvero una grande song! “Sleeping sickness” (1976) è il pezzo più lungo del cd, quasi quattordici minuti per una favolosa jam di hard blues psichedelico, con fantastici vocalizzi sparsi qua e là nel brano, assoli hendrixiani e al tempo stesso funkeggianti con fuzz guitars e wah-wah immensi, partiture al limite del southern alla Lynyrd Skynyrd, infiltrazioni heavy alla Sir Lord Baltimore, basso ficcante e batteria senza limiti…”Time to cry” è il massimo raggiunto dal gruppo: è la vetta, l’apice compositivo dell’album, tracciato nel lontano 1975 in tredici minuti di assoluta goduria per le orecchie, con un inizio che pare uscire proprio dalla chitarra di Hendrix grazie a un Terry in stato di grazia, indiavolato alla sei corde così come rilassato nelle vocals dal mood jazzato, mentre intanto Jeff e Paul picchiano come dannati in assoluta libertà, esprimendo il vero lato senza limiti e senza concessioni della musica, quello che ormai tutti i pupazzi mascherati di oggi sembrano aver dimenticato, se mai lo hanno conosciuto.

“Titan’s sirens” (altro episodio del 1975) pigia notevolmente sull’acceleratore, incrociando sulla sua strada l’operato di acts storici come Budgie, Andromeda e Mountain in una fusione di hard rock, momenti acidamente speedy e inflessioni decisamente heavy, mentre la successiva “Jerry’s blues”, track del 1976, è un tributo a Jerry Wood, leggendario bluesman del Wichita, molto orientata sul blues tradizionale (per certi versi sembra di ascoltare un mix di John Lee Hooker, Eric Clapton e Buddy Miles…) ma contaminata da un basso al limite del funky e dall’estro chitarristico di Swope. A chiudere il disco ci pensa “It’s too late (revisited)”, song del 1977 leggermente diversa da quanto proposto nel resto dell’album in quanto si orienta su lidi di psichedelia mesmerica e allucinata, dal sentore molto rarefatto alla ultimi Beatles, dunque una chiusura perfetta per un disco del genere.

Giunti al termine dell’ascolto, sembra davvero di aver fatto un tuffo nei favolosi anni settanta, ma la genialità della JPT Scare Band è proprio quella di far rivivere la storia con un occhio sul presente e per questo sono un gruppo solo da elogiare…eh già, è proprio vero, il passato è soltanto il prologo…

Alessandro Zoppo