KARMA TO BURN – Karma to burn

Forse l’era post kyuss-magnet-sleep, ossia il periodo 1996-99, è stata quella più significativa per quanto riguarda l’esplosione dell’hard-psych, una scossa tellurica che dalle esosfere vergini si è propagata nel resto del globo, influenzando in maniera determinante le sonorità del millennio attualmente in corso, e non parliamo solo dello stoner rock…
Le cronache underground di quegli anni avranno detto un po’ tutto sui Karma To Burn, a volte con superficialità, ma la cosa sicura è che riascoltando il loro omonimo debutto, quella sensazione di traslato panismo che pervade il nostro corpo rimane perfettamente la stessa.

I musicisti virginiani avevano abbandonato la loro città, troppo bigotta e conformista, per rifugiarsi appartati sui monti Appalachi, terra foriera di tempeste e brusche variazioni climatiche, per realizzare quello che avevano sempre desiderato: una vita scandita dai tempi di una musica heavy, visionaria e dilatata.

Bastano pochi istanti affinché il riff acido di “Ma Petit Mort” si evolva in un brano perfetto, caratterizzato dalla voce darkeggiante di Jarosz, diabolici contrappunti femminili e stupendi escursus chitarristici. Inenarrabile la crudele bellezza della seguente “Bobbi, Bobbi, Bobbi – I’m Not God”, un sabba consacrato a misteriose divinità boschive.

Morbide percussioni introducono la spettrale nenia indiana di “Patty Hearst’s Closet Mantra” intonata dalla voce, poi un susseguirsi di rincorse ancestrali tra i sentieri della mente, per un brano che nessuna band grunge, perdonatemi, è mai riuscito a comporre. Inizio a singulti anche per “Mt. Penetrator”, poi una cascata di riff e divagazioni strumentistiche, tutto uno più bello dell’altro; con gli occhi vediamo oltre la foschia e attendiamo trepidi la fatidica undicesima notte qui raccontata.

Da rimarcare come i Karma To Burn non producano alcun effetto ansiogeno.
Teniamoci forte perché parte lo strumentale “Eight” (riproposto anche nell’album successivo): niente da fare, veniamo trasportati ancora una volta nell’occhio del ciclone ad altezze inverosimili, e le onde sonore ci tengono in equilibrio mentre ammiriamo tutte le straordinarie bellezze naturali.

La prima, inquietante presenza umana è dovuta ad “Appalachian Woman” un southern-doom da brividi, da ascoltare mentre quei femminili occhi corvini ci fissano inesorabilmente.

Da non crederci, ma “Twenty Four Hours” dei Joy Division rifatta in questa maniera suona proprio come una premonizione stoner-psych di tanti anni prima, come se Ian Curtis abbia già visitato in sogno questi luoghi ancestrali.

Suoni slide-psichedelici, ma sempre oscuri, introducono “Six-Gun Sucker Punch” e poi via l’ennesima mazzata stoner vorticosa e paludosa, con sempre quei maledetti intrecci basso-chitarra-batteria e parti vocali inasprite.

“Thirteen” è un altro strumentale paradigmatico dello stile Karma To Burn, in cui si condensa alla perfezione il mood di questa band: sentieri polverosi, melma sludge e una frenetica battuta di caccia, e tanta, tanta perizia esecutiva.

Più vicina alla forma-canzone “(Waltz Of The) Playboy Pallbearers” un perverso stoner rock contaminato da dilatazioni dark e citazioni di Jefferson Airplane.

Quasi sudista anche “Twin Sisters And Half A Bottle Of Bourbon” se non fosse per le solite fughe oniriche compenetrate, senza la minima prolissità, nel contesto heavy.

Chiude “Six”, terzo brano interamente musicale, un addio struggente a questo mondo rurale e immaginifico che solo i Karma To Burn sono riusciti a ricreare.

Roberto Mattei