KING BONG – Alice in Stonerland

Ai King Bong piace giocare di rimandi. E bisogna ammetterlo: chi ascolta apprezza. Dopo l’estasi kubrickiana di “How I Learned to Stop Worrying and Love the Bong” (Peter Sellers starà ancora ridendo dall’aldilà), è la volta di “Alice in Stonerland”. Lewis Carroll passa attraverso lo specchio di un rock strumentale psichedelico ed ispirato ad una logica free form. Cinque tracce registrate dal vivo, a mente completamente libera, senza scrivere o registrare alcunchè prima di premere il fatidico pulsante Rec. La sola via per il gruppo milanese di cogliere «l’energia e la vitalità dei rituali in onore del Re Bong». La logica del DIY impone anche il download gratuito e una confezione scarna ma elegante. È forse qui l’essenza della musica nell’avvicinamento inevitabile al 2012?
Una scarica elettronica pare immergerci in pieni anni 80. Quelli più beceri, da palla luminosa e spalline esagerate, tanto per intenderci. Poi partono gli effetti acidi di “The White Rabid” e ci sentiamo più felici. E rasserenati. Perché la fusione con “To Put It Bluntly, a Weed” macina psichedelia ad uso e consumo di teste calde che passano serate al lume di candela (e sostanze simpatiche) ascoltando Sleep, Electric Wizard, Earthless e Bongzilla e osservando i movimenti immutabili di un iguana. “I Say, You’ll Never Get High That Way” si lancia con sprezzo del pericolo in beat groove che “Unbongaday” trasfigura in riff doom lenti e ipnotici. Preparazione adeguata al gran finale di “We’ll Smoke the Monster Out”, atto di liberazione sotto forma di jam vitale ed impazzita.
Un bong al giorno leva il medico di torno. I King Bong lo sanno bene. «E la bestia guardò in faccia la bellezza. E tolse le sue mani dall’uccidere. E da quel giorno, essa fu come un morto.»

Alessandro Zoppo