KING BONG – How I Learned to Stop Worrying and Love the Bong
Ricorderete che nelle posizioni più elevate della nostra classifica sui migliori dischi italiani del 2009 spiccava un nome nuovo e ancora troppo poco masticato all’interno della scena stoner nostrana, quello dei King Bong, grazie al loro album auto-prodotto “How I Learned to Stop Worrying and Love the Bong”.Composto da soli 4 brani (guai a definirle semplici “canzoni”…), della durata complessiva di circa 45 minuti, registrato in maniera cruda e diretta, confezionato in modo quasi artigianale dalle loro stesse mani, pubblicizzato soltanto attraverso il passaparola cibernetico e una discreta attività live (purtroppo ancora troppo poco estesa per rispetto ai loro meriti), questo disco propone un interessante assalto psichedelico, che si esprime attraverso la sua forma più pura e viscerale: la jam.
Proprio questa concezione libera da schemi e strutture è la pietra di volta del sound dei King Bong: non c’è voce, non ci sono né ritornelli né strofe, ma si ritorna ad una forma musicale più antica, composta da giri di base su cui ogni musicista plasma la propria parte in armonia con gli altri, ritagliandosi così lo spazio per la propria creatività, prima immergendosi nel flusso sonoro del complesso e poi di volta in volta riemergendo nelle proprie parti soliste.
Altrettanto semplice è anche la costituzione del gruppo: un trio batteria basso chitarra amante degli alti volumi, delle distorsioni grasse ma anche di raffinatezze blues psichedeliche più pacate.
I King Bong si esprimono dunque tramite i suoni e i volumi tipici dello stoner doom, ma la loro idea musicale trasmessa ha radici in una antica tradizione di stampo jazzistico. A ben vedere, considerarli una sorta di Cream moderni dell’heavy psichedelia nostrana non è un’affermazione affatto ardita.
I primi due pezzi del disco, “Wake and Bake” e “One Riff To Rule Them All”, sono probabilmente quelli più indicativi della loro idea musicale: due lunghe composizioni altamente improvvisate, nelle quali si passa senza problemi dalle suggestioni psichedeliche vintage dei Colour Haze alla lento magma sonoro degli Sleep, dentro alle quali vengono cosparse variazioni di ogni sorta, controtempi, divertenti cambi di ritmica, assoli di ogni strumento, mentre il paesaggio creato dai riff portanti si contorce e muta lentamente.
Curioso diversivo è invece “Zomblues”, un traballante e dissonante blues in 5/4 (che suona proprio come se fosse suonato dagli zombie). “All The Pretty Horses” è un pezzo stoner proposto con una velocità quasi hardcore, nel bel mezzo del quale viene aperta un ampia finestra di improvvisazioni condite da percussioni quasi tribali.
Concludendo, questo primo disco (scaricabile gratuitamente dalla loro pagina MySpace) riesce a catturare con merito la nostra attenzione sul progetto King Bong: tre musicisti di ottima levatura, con una proposta dalla forma semplice ma impreziosita costantemente da idee e trovate strumentali di rilievo, promettono sicuramente ottime performance live e un interessante futuro.
Sebastiano Bianco