KYLESA – Ultraviolet

Avevamo lasciato i Kylesa col tentennante “Spiral Shadows”, li ritroviamo in forma smagliante e più oscuri che mai con questo nuovo lavoro che porta il nome di “Ultraviolet”. Sappiamo dell’esistenza dei raggi ultravioletti ma non siamo in grado di vederli, e come ha dichiarato Laura Pleasants su Pitchfork “noi, in quanto umani, siamo sempre alla ricerca dell’intangibile; qualcosa che vada aldilà delle cose puramente terrene”.L’artwork è più pulito e minimale rispetto al recente passato, e in qualche modo ne rispecchia il mood. Già con “Unspoken”, traccia prescelta per il lancio del disco, siamo in grado di capire la direzione intrapresa. Un feeling quasi orientale con significativi innesti new wave, rumorismi elettronici sullo sfondo, un brano di ampio respiro su cui la voce di Laura si adagia morbida e suadente, lontana dalle asprezze a cui ci aveva abituati, e Philip Cope si ritaglia uno spazio secondario con dei rinforzi in pieno stile mantra. La parte ritmica è dritta e rilassata, e le chitarre si destreggiano tra arpeggi ariosi e sludge riff non particolarmente irruenti. L’irruenza arriva con l’opener “Exhale”, in cui vengono fuori i Kylesa più radicali, quelli dal passato hardcore/crust, il cui legame è ancora forte e il cui impatto è altamente viscerale. I riff attingono sempre più spesso dalla tradizione stoner, in particolar modo in brani come la molleggiatissima “Grounded”, l’esplosiva “Vulture’s Landing”, ma anche negli sperimentalismi industriali di “Quicksand”. La carogna riaffiora in “We’re Taking This”, lampante esempio di sludge metal made in Savannah, con il suo chitarrismo spietato e le strofe gridate a perdifiato, quasi non riconosciamo la Laura angelica di cui sopra, che qui sembra sputare fuori tutto il proprio veleno.
“What Does It Take” è veloce, serrata, 2 minuti di ciò che possiamo tranquillamente definire grande punk psichedelico. La voce femminile è predominante in “Ultraviolet”, dove la blonde-lady occupa a tutti gli effetti il ruolo di lead singer, e questa volta il lavoro fatto sulle melodie è davvero encomiabile. Istinto sì, ma anche tanta testa. Melodie semplici, non dissimili da nenie oscure, come nel caso di “Steady Breakdown” o della successiva “Low Tide”, dove però è la controparte maschile a seguire questa direzione. La chiusura è affidata a “Drifting”, che per quasi tutta la sua durata mostra ancora una volta l’anima gentile dei Kylesa, ma nell’ultimo minuto sfoga tutta la rabbia accumulata esplodendo in un ultimo assalto sonoro che vorremmo durasse per sempre. Spesso nelle recensioni ci si impegna a trovare quanti più aggettivi possibili alla musica a discapito dei testi, che invece vengono relegati in secondo piano, se non proprio trascurati del tutto. Qui le liriche sono molto importanti, ricorre spesso il tema della perdita, affrontato sotto diversi aspetti. Tutto ciò che ci rende umani può essere perso: amore, vita, famiglia, amicizia, fortuna, speranza. In ultima analisi, 11 brani per 38 minuti di durata, nessun riempitivo, come dicono i colleghi americani “all killer, no filler”.

Davide Straccione