LLEORY – Juice Of Bimbo
Fermi tutti: se siete orfani di una certa concezione old-school di noise rock – ossia quella free, ipercinetica, violenta e aggrovigliata, che davvero se ne infischia di rientrare negli schemi intellettuali del post-rock da camera – procuratevi “Juice of Bimbo”, primo album dei mud rockers Lleroy, trio di Jesi che vi darà una bella lavata di capo, e si riferisce a voi, negletti consumatori abituali di cibo in scatola, pusillanimi campioni abili solo a maneggiare quel fottuto joypad in interminabili sedute davanti allo schermo e che recate sui palmi le stimmate delle vostre frustrazioni sessuali. Cosa c’è di meglio che sbattersi sotto montagne di watt, versarsi addosso liquidi ustionanti e farsi una scorpacciata di note armoniose come una battaglia combattuta tra testate valvolari, pedali rotanti e cavi serpentiformi?Date retta ai Lleroy allora, mettete su il loro cd, che schiaffa subito il violento harsh noise di “The Lost Battle of Minorca”, groviglio di riff alla Shellac, Pixies e Pussy Galore violentati sotto una pressa hardcore, per poi imbottirvi a dovere con gli steroidi della tiratissima e super ritmata “Magnete”, in cui la voce di Frè si concede qualche scorticata strofa melodica.
La radicale “Debbie Suicide” vi apparirà come certi nervosismi di Unsane e Mevins,tra feroci matasse post-punk, ampli dolorosi e abbozzi psichedelici, fino a quando le vostre orecchie avranno modo di infiammarsi con una notevole tripletta: “In my Head”, che riporta a Fugazi, Girls Against Boys, Voivod e inflitrazioni fuzzcore dal meritevole lavoro chitarristico (oltre all’incessante terremoto basso-batteria), “1-2-3 Kid”, aggrappata ancora alle frange più violente del noise-psych americano, e soprattutto l’oltraggiosa “Testsuo”, rifulgente di catalizzatori r’n’r in piena deriva fugaziana, che procurerebbe un bel macero in qualche malfamato centro occupato cyber-punk.
Non siete paghi? l’ipervandalica “Naked Violet” sa ancora dei Melvins più oltranzisti registrati con sessionmen hardcore fatti di colla, e per finire c’è pure il post-rock da laminatoio di “Border”, cadenzata e angosciata marcia pre-industriale di vecchio noise ottantiano rielaborato in saturazione.
Totale massimalismo musicale bruciato in una adolescenza forzata, ma per fortuna ghigliottinata a dovere.
Roberto Mattei