OBIAT – Emotionally driven disturbulence

Gli Obiat, gruppo londinese ma polacco d’origine e oggi con bassista italiano, non suonano propriamente doom, o meglio lo suonano, ma filtrandolo con altre sonorità e stili, fondendo il tutto con impressionante maestria. Quando vuole il quartetto sa essere davvero pesante e lentissimo, ma i nostri hanno dalla loro una varietà e dinamicità nelle soluzioni (avete mai sentito note di sax e armonica in un disco doom?) che gli Electric Wizard non hanno mai (voluto?) dimostrato, adagiandosi sul loro pachidermico lysergic doom. Qui i riff doom e ultra slow & heavy sono invece incastrati con porzioni post rock, liquide pause arpeggiate e psichedeliche, ed il tutto è suonato con un’attitudine decisamente rock. Qualcuno (e non sbaglierebbe poi molto) potrebbe collocare gli Obiat nel (sotto)genere post doom rock, già interpretato con classe da band come Callisto, Pelican, Isis e compagnia. Ma il primo gruppo che a me viene in mente sono gli Acrimony e il loro capolavoro “Tumuli shromaroom”, il più grande esempio di fusione fra doom, stoner, blues e psichedelia.Gli Obiat riescono nell’impresa (cercata in questi anni da moltissime band, ma fallita da tutte) di rievocare la bellezza e soprattutto l’intento di quel disco, ovvero suonare doom con il gusto rock, immergendo tutto in un vortice di psichedelia blues. Due canzoni in particolare rappresentano al meglio quanto detto, le lunghe “Stare the distance” e “Disobey (pt.2)”, song nelle quali il gruppo rilegge con sorprendente disinvoltura quanto accaduto nella scena doom rock di questi ultimi dieci anni. Chitarre slide e acustiche, pause psichedeliche, debordanti assalti stoner rock e pesantissime porzioni doom si fondono come rarissime volte è capitato di sentire. Ottime anche l’iniziale “Angry water”, la dinamitarda “By the way I think…” (i Black Crowes che suonano doom?), e la conclusiva “The vessel”, un giro di giostra verso lidi lunari. Una delle più liete sorprese degli ultimi anni.

Marco Cavallini