Stonewood – Stonewood

Con una copertina che vale da sola la nomination a miglior sogno erotico/elettrico/perverso del 2018 si presentano gli Stonewood da Roma. Sono in cinque ed hanno scolpito nel cuore l’amore per le band del Rancho de la Luna (Legs sembra davvero un brano dei QOTSA del periodo Rated R mescolato a quell’attitudine lirica che avevano le band grunge e allo scazzo creativo delle Desert Sessions).

Augusto, Carlo, Fabio, Francesco e Vito hanno fatto un album da soli, come le cose fatte in casa di una volta, le cose buone e genuine. C’è ovviamente lo spirito di tutte le band post Kyuss che hanno nutrito l’ordine accademico del riff heavy (su tutte i nostri assomigliano compiutamente a 7 Zuma 7, Dozer e Lowrider) ma Vito cerca di iniettare siero esistenziale nelle voci che sortisce due effetti: affrancarlo dai cloni di John Garcia e saldarlo alla tradizione delle band di Seattle, fatta di passione, densità, accoramento.

Bluestone, Down From the Stars e Space Goat sono iscritte nel solco della tradizione hard stoner (riff killer + rallentamento sabbathiano = vi apriamo in due come una cozza) mentre China White, Party Crasher e Ask the Dust, pur mantenendo intatta la personalità del gruppo, allarga lo spettro compositivo verso elementi di crossover e musica contaminata degli anni Novanta (Tool e Faith No More in particolare) facendoci constatare come gli ascolti dei nostri siano più di quelli ipotizzati all’inizio dell’ascolto. Una band che sa quello che fa e cosa vuol fare: da tenere a mente.

 

Eugenio Di Giacomantonio