TEMPLE OF PAIN – Lord of the Undead Knights
Il latino, si sa, col doom è sempre andato d’accordo. Ricorda una certa sacralità visto l’impiego che ne fece la Chiesa di Roma sia dai suoi albori, ricorda anche i tempi atavici e bui del declino dell’Impero e l’avvento della barbarie (accezione negativa con la quale non sempre ci si sente di concordare) e di epoche per consuetudine definite buie e ignoranti. Se dovesse esistere una locuzione latina adatta a rappresentare il doom classico, e di conseguenza questo lavoro, è sicuramente «Memento Mori». A parte le reminescenze della premiata coppia Benigni-Troisi, “ricordati che devi morire” aveva un significato profondo e spiritualmente superiore. La morte è una costante nella vita dell’uomo e l’uomo deve sempre riflettere sulla sua immensità e sulla sua necessaria esistenza come legittimazione della vita. Se non vi fosse la morte, diceva Eraclito, non esisterebbe neanche la vita e nulla avrebbe senso. L’esordio dei Temple Of Pain mette al centro di tutto, dai testi al titolo e alle musiche, l’imago mortis e la sua inesorabile presenza al fianco dell’umanità.’Lord of the Undead Knights’ è l’avventura solista di Fabio “Thunder” Bellan, leader e chitarrista dei bergamaschi Thunderstorm: si tratta di un progetto parallelo alla band madre, attiva dal 92 ed apprezzata da fan e critica a livello internazionale. Iniziamo subito col dire che rispetto alla sua band madre, il suono dei Temple of Pain – chimera interamente nata dalla mente di mr. T – si distacca pur restando nell’ambito del doom metal. Nel nostro caso è un doom di matrice classica, europea, epic true come direbbero gli amanti delle etichette musicali, con i Candlemass come punto di riferimento. La scelta di alternare i musicisti presenti nei cinque brani (tranne Dario Fava, costantemente alla batteria) ha premiato il lavoro, risultando gradevole senza ricadere negli stereotipi stilistici del genere. Dopo l’intro sepolcrale e abbandonato tra le nebbie del tempo, emerge con regale e spettrale maestà il monarca defunto, accompagnato dalla sua coorte di spettri in armatura. Tra granitici riff di scuola metal, il brano si snoda con incedere marziale ma senza risparmiarsi momenti melodici ed orecchiabili, come nella title-track (miglior brano del lotto).
Uno dei punti di forza del disco è sicuramente la capacità di bilanciare passaggi cupi, sofferenti e funerei con ottimi ritornelli e virate verso una melodia accattivante. Questo non indica un ammorbidimento del suono in favore del riff catchy, perché lo scenario lugubre e ultraterreno non cambia di un istante. “When Death Loses Control” e “Witchmaster” sono le armi con cui l’armata dei dannati avanza e conquista: chitarre evocative e possenti, prestazioni vocali teatrali e marziali che dipingono scene apocalittiche e degne dei quadri di Hieronymous Bosch. L’evocazione della mortalità e della flebile esperienza terrena è racchiusa nella profondità dei toni, gravi e sordi, che risuonano per tutto il disco. Scommessa vinta, per adesso non ci resta che attendere e vedere se questo disco farà parlare di sé come si spera.
Gabriele Sgabrioz Mureddu