THE HOUNDS OF HASSELVANDER – Ancient Rocks

Lo conosciamo Joe Hasselvander: infaticabile, imperterrito, granitico. Una montagna d’uomo, in fatto di stazza e in fatto di esperienza musicale. Classe 1956, dagli anni ’70 non ha mai dato segni di cedimento, continuando a suonare nelle situazioni più disparate, ma sempre con piglio incisivo e risoluto. Dai progetti heavy metal più sotterranei (Devil Childe, Phantom Lord, Overlord) ai Raven dei fratelli Gallagher (no, gli Oasis non c’entrano un fico secco), passando ovviamente per i Death Row/Pentagram, Joe ha sempre dato un’impronta caratteristicamente energica all’economia del gruppo in cui di volta in volta si trovava a suonare. La stessa energia anima il suo progetto personale, The Hounds of Hasselvander, giunti con “Ancient Rocks” al quarto full-length.
Un album un po’ speciale, in verità. Una volta approntata l’ultima fatica degli Hounds, “The Ninth Hour” (2011), la Black Widow offrì gentilmente all’iperattivo capobanda di realizzare un sogno nel cassetto: l’opportunità di ridare lustro alle glorie del passato che avevano formato la sua coscienza musicale. Accettato di buon gaudio l’invito, Hasselvander decise di farsi accompagnare nel divertissement da una rosa di musicisti di tutto rispetto, tra cui spiccano Martin Swaney (anch’egli un tempo sodale di Liebling nei Death Row/Pentagram) e T.C. Tolliver (ex-Plasmatics) alla batteria. Frequenti e pregevoli anche gli apporti alla tastiera di Paolo ‘Apollo’ Negri, in prestito dai nostrani Wicked Minds.
Le cover di “Ancient Rocks”, sciolte in magma dalla SG del monumentale front man, vengono successivamente raffreddate in macigni spigolosi e, per qualche arcano processo fisico-chimico, ciò che ne risulta assume un peso specifico elevatissimo. Le linee originali sono preservate, ma rese più minacciose, buie, opprimenti: ascoltate la resa di “Strange Movies” dei Troggs per capire cosa intendiamo. Insomma, una vera delizia per gli estimatori tanto dell’heavy rock primordiale quanto dell’heavy psych di oggidì, un omaggio schietto, divertito ma serio, un ottimo album di ottime cover, costellato di cowbell, vocals sguaiate e wah wah.
Pare che Joe ventili l’idea di un secondo capitolo in cui dare nuova voce a tutte quelle perle che qui non ha avuto modo di rispolverare. E noi che gli diciamo? Keep ‘em coming!

Davide Trovò