Nebula – Apollo

Quando si parla dei Nebula lo si fa con una certa deferenza in ricordo del fatto che sono stati tra i prime-movers della scena stoner-rock mondiale, nati da alcuni transfughi dei Fu Manchu, e del fatto che nei primi passi della loro carriera hanno realizzato dei dischi “must” in una discografia essenziale dello stoner-rock fan che si rispetti.

Con il passare degli anni hanno cercato di rimanere fedeli alla propria formula fatta di fuzz-rock e psichedelia leggera che tra alti e bassi ha generato dei dischi non superlativi ma comunque di buona qualità. Con Apollo sembrano aggiungere all’offerta un certo piglio punk che rende certe canzoni ancora più dirette che in passato, in un certo qual modo selvagge ma anche abbastanza anonime. I tentativi scorrono tra le note di Fever Frey e di Ghost Ride.

Non è proprio una svolta definitiva perché i Nebula non potrebbero abbandonare quello che sanno fare ossia suonare hard-rock pieno di fuzz e di acidità – soprattutto negli assoli di Eddie Glass – e che anche in questo album occupa il maggior numero di canzoni nella tracklist. Canzoni piacevoli da ascoltare ma che non conquistano più di tanto.

Loose Cannon, The Eagle Has Landed, Future Days con accenni di sitar, Opiate Float>Orbit che parte con fare avvolgente per poi lasciare posto ad una jam pura che si ricollega nel tema alla iniziale Orbit, portano stampato il marchio di fabbrica della band californiana, richiamano i fasti passati in alcuni momenti ma sono decisamente meno ispirate.

Su livelli decisamente superiori si posizionano The Alchemist e Fruit of My Soul che scuotono un po’ la scaletta del disco, la prima con un bel groove di base e la seconda per essere un omaggio, non si comprende quanto inconsapevole, ai Mudhoney.

Insomma sembra che i Nebula si barcamenano dentro il proprio orto senza grossa ispirazione, realizzando un disco che stavolta è inferiore alle aspettative.

Francesco ‘Ciccio’ Imperato