Blues, Gospel and Soul meet harsher music: si presenta così Zeal & Ardor, il sorprendente progetto del musicista svizzero-americano Manuel Gagneux. L’hype generata dal suo debut album, Devil Is Fine (2016), ha fatto crescere la curiosità nei confronti dell’incarnazione live di questa band.
Da quando Walter Hoeijmakers gli ha chiesto di esibirsi al Roadburn Festival, Manuel ha messo in piedi una line-up fissa di sei elementi che sta girando con successo in tour per il mondo. L’appuntamento romano al Traffic arriva in un’umida serata di metà novembre, con un pubblico non troppo numeroso (peccato) ma molto attento.
In apertura perdiamo l’esibizione dei Witches of Doom, già testati in passato con la loro mistura di gothic, stoner e doom (su queste pagine abbiamo promosso a pieni voti il secondo album Deadlights). Arriviamo giusto in tempo per ascoltare i finlandesi Nyos, interessante duo strumentale (batteria + chitarra) che fonde le asperità spigolose del math rock con il prog e il post metal. Un genere passato un po’ di moda negli ultimi anni, ma che si fa assaporare con piacere soprattutto grazie al drumming preciso e selvaggio di Tuomas Kainulainen e ai passaggi più evocativi che ben si alternano a quelli maggiormente claustrofobici.
Quando scattano le 23:45 il Diavolo bussa alla porta del Traffic. Zeal & Ardor si fa portatore di una domanda inquietante: e se gli schiavi neri d’America avessero abbracciato Satana invece di Gesù? La risposta è uno dei mash-up più bizzarri e originali che si siano ascoltati nel metal recente: fondere black metal e “nigger music”. Come se Darkthrone e Mayhem incontrassero Robert Johnson nel celebre “crocicchio maledetto”, il fantomatico incrocio dove il più influente bluesman della storia del Mississippi vendette l’anima al Diavolo.
Paradossalmente, le radici non sono poi così lontane. Lo ha spesso spiegato Gagneux, raccontando come Zeal & Ardor sia nato quasi un po’ per gioco (Manuel, appassionato di death e grindcore, da ragazzino suonava in una band black, gli Hellelujah, e in un gruppo chamber pop, i Birdmask) e come il cristianesimo, in fondo, sia stato imposto alle popolazione native della Norvegia in modo simile a quanto fatto agli schiavi africani negli Stati Uniti.
Il black metal norvegese era una ribellione contro il monoteismo. Come il blues afro-americano, diventato nei campi di cotone uno strumento di resistenza culturale e adattamento ad un nuovo contesto sociale. Zeal & Ardor si nutre di queste suggestioni e le trasforma in sinful tunes di debordante violenza emotiva.
Manuel Gagneux ha ammesso che Deftones e Limp Bizkit sono i suoi guilty pleasures, e si sente. L’altra idea che questo live comunica è quella di un Ben Harper che canta e suona con i Dillinger Escape Plan. Insomma, ce n’è per tutti i gusti. Ciò che preme sottolineare qui è che questo concerto rimarrà impresso nella memoria perché non ci era mai capitato di ascoltare suoni così precisi e puliti al Traffic. Zeal & Ardor si dimostrano una band di professionisti: zero chiacchiere e let the music do the talking.
Sacrilegium I, In Ashes e Servants piazzate all’inizio sono una mazzata tra capo e collo. L’armonizzazione delle tre voci funziona alla perfezione, come dimostra la micidiale doppietta Ship on Fire e Stranger Fruit, capace di produrre un piacevole effetto di straniamento dal mondo. Blood in the River è una delle vette dello show, Come On Down e Children’s Summon ribadiscono il concetto con sfuriate e aperture di psichedelico occultismo soul. Le influenze citate per la composizione del nuovo disco (Tom Waits, Wendy Carlos, Erik Satie) ci sono tutte ed esplodono con la splendida Gravedigger’s Chant.
L’encore con la hit Devil Is Fine e la travolgente Baphomet ci invita a farci il segno della croce ed andare via in pace. Un’ora e più di concerto sono serviti a sgombrare il campo da ogni dubbio: Zeal & Ardor non sono un fake, sono qualcosa di devoto, profondo e molto serio.
A good god is a dead one.
Alessandro Zoppo