Finalmente si parte. Non mi facevo un festival serio dai tempi dello Swamp Room Mania e quindi sono più carico di un adolescente ai primi appuntamenti galanti.
Giusto il tempo di mollare tutto in hotel e ci precipitiamo al concerto: il Feierwerk, location scelta dal Keep It Low, sembra molto carino e tutti sono cordiali. È bastata qualche ora per respirare ottima aria e sentirmi nel mio habitat naturale.
Vi anticipo che il festival mi è piaciuto molto e che la parola d’ordine per l’esibizione di quasi ogni band è “coinvolgenti”: me la brucio subito per evitare di doverla ripetere sempre, ma fate come ogni volta se fosse lì a guardarvi. “Coinvolgenti”.
Il primo gruppo che riesco a vedere sono i norvegesi The Devil and The Almighty Blues, e mi portano subito nel Delta alle radici del blues e del rock sanguigno. Il loro è uno show carico e dinamico, sanno tenere il palco e l’attenzione del pubblico. Ottimi.
Il tempo di spostarmi in un’altra stanza ed arrivano gli Acid King. Questo era uno degli show che aspettavo di più perché ascolto il gruppo di Lori praticamente da sempre ma senza averli mai visti: le prime note annichiliscono il pubblico e sono come me li sono sempre aspettati: grezzi e potenti. Una goduria.
Realizzo che finalmente sto per rivedere i Colour Haze dopo una decina d’anni e penso che voglio bene a Stefan Koglek: mi mancava la loro classe, il suo stile, il suo modo di suonare con quel polso destro così strano. Sono un gruppo che mi fa stare sempre bene e per questo voglio bene a tutti e tre. Manca poco, l’atmosfera cresce ed un sosia ubriaco e sorridente di Bruno Ganz mi rotola addosso ma senza fare fallo, il gioco continua e finalmente arrivano. Con loro devo spararmi tutti i “coinvolgenti” che ho a disposizione perché sono un’esperienza mistica, padroneggiano i crescendo con la maestria di un’orchestra e nell’alternanza tra fasi oniriche e riff più incisivi costruiscono un legame indissolubile con la psiche di ogni anima presente. Rispetto alla decade precedente la scaletta è più rarefatta e c’è meno spazio per i momenti pesanti, come del resto accade nella loro discografia: io avrei gradito qualche scapocciata in più ma non si può volere tutto. Insomma, vincono sempre loro. Eterni.
Finisce così il primo giorno che in realtà è il secondo perché il Keep It Low offre anche un pre-party il giovedì con Naxatras, Timestone ed i connazionali Humulus. Si torna in ostello carichi a pallettoni per il giorno seguente.
Il sabato arriviamo appena in tempo per vedere la fine dei greci Supersoul, non li conosco ma sono in palla e con un bel tiro. Da approfondire.
Cambiamo palco e ci sono i Dune Pilot: il nome mi ricorda qualcosa ed effettivamente sono bravi nel pilotare la duna, nonostante gli evidenti riferimenti agli (immensi) Slo-Burn di John Garcia a me sono piaciuti molto, bei riff e voce graffiante. Promossi a pieni voti.
È il turno degli High Fighter e della loro istrionica cantante Mona Miluski: freschissimi di contratto con l’italiana Argonauta Records ci aggrediscono con un misto teutonico di sludge, punk, growl e qualche momento più rilassato e vicino all’umanità.
Il power trio The Well arriva da Austin per calarci nelle tenebre sabbathiane del loro show: le due voci di Lisa e Ian danno un tocco di classe al cupo incedere del muro sonoro sprigionato. Fanno sul serio.
Gli israeliani The Great Machine sono una piacevole sorpresa live, come su disco nelle poche parti cantate si alternano bassista e chitarrista e tutti e tre sono degli animali da palco indiavolati e fuori di testa. Il pubblico ha apprezzato molto la loro proposta.
Con i Somali Yacht Club arrivano i primi problemi logistici, perché quando mi presento all’entrata della sala dove suonano è già tutto pieno e devo aspettare fuori: non mi fa piacere ma nel resto della serata scopro che da un certo ‘calibro’ di band in poi capita ma basta aspettare qualche minuto poi il via vai di gente permettere di fare spazio ed entrare. Loro sono esattamente come me li aspettavo dai dischi: pacati e trascinanti.
Ammetto di non essere un gran fan degli Ancestors ma conosco la loro musica e sul palco ci sanno decisamente fare, il pubblico gradisce e c’è una bella atmosfera. Pollice alto.
È il turno dei i pezzi da novanta, uno dei gruppi che amo ed aspettavo di più: i Sasquatch. Il loro sound energico e melodico non fa prigionieri, i loro ritornelli ficcanti stanno ancora girando nelle teste dei presenti. Dopo lo show incontriamo il bassista Jason ed il chitarrista-cantante Keith che quando gli diciamo che siamo italiani ci abbracciano e ci apostrofano con un: “Paisà! I miei genitori sono di Bologna, la mia famiglia è di Napoli”. Ottimi. Ottimi, caspita.
Salgono sul palco i tedeschi The Picturebooks e sinceramente non impressionano più di tanto, sono un duo energico chitarra acustica e batteria con un bel tiro ma un po’ meno sostanza. Il pubblico italiano li ha potuti apprezzare recentemente di spalla ai Clutch.
Presenza imponente quella dei Wo Fat, in tutti i sensi. La potenza ed il marciume che riescono a sprigionare è impressionante, il riffing di Kent Stump prima ti avvinghia poi ti stritola senza neanche una parolina di conforto. Uno degli acts più intensi del weekend: mortali.
Da grande fan della prima ondata di stoner nel globo terracqueo aspettavo con trepidazione l’esibizione dei Lowrider, spariti dalle scene eoni fa poi ritornati negli ultimi anni con qualche live: un anno fa fece notizia il fatto che anche James Hetfield si dichiarò loro fan, ma l’ultima loro incisione risale all’anno 2000 e noi tutti ne vogliamo ancora. Partono però sottotono, poi dopo una ventina di minuti si scaldano, ingranano la marcia giusta ed infilano una serie di pezzi da farli uscire tra gli applausi di tutti. Nonostante da qualche anno partecipino a festival grossi hanno ancora la patina da gruppo che si è riunito ed ha bisogno di una spinta per partire, spero che riescano a dare più continuità a questo progetto. Nostalgici.
Per quanto mi piacciano i Crowbar mi sembrano l’unico gruppo leggermente fuori ‘mood’ in questo festival: non sbagliano un colpo e sono degli schiacciasassi live, ma i suoni estremamente metallosi delle chitarre stridono un po’ con l’atmosfera. Ma non siamo qui per cercare il pelo nell’uovo e ce li godiamo alla grande, Kirk Windstein poi è in gran spolvero ed intrattiene di mestiere noi branco di debosciati. Pochi scherzi, qui c’è Doom a fiumi.
Giusto il tempo dell’ultimo falafel e via verso l’atto finale del festival. Purtroppo il venerdì ci siamo persi i primi show di Child, Sundog, Ananda Mida e Farflung ma il bilancio è comunque ottimo e guardiamo già alle prossime edizioni.
Tocca agli Elder chiudere in bellezza e non ci potrebbe essere scelta più azzeccata: il combo di Boston capitanato da Nick DiSalvo viene da anni in costante ascesa ed una ultima fatica, Reflections of a Floating World, che per il sottoscritto ha dell’incredibile. Come i Colour Haze dal vivo si presentano in formazione a quattro ed il loro spettacolo ricalca i lavori in studio: jam ipnotiche farcite di riff maestosi e melodie fluttuanti, una classe ed una creatività che ritrovo solo in band eccelse come i Motorpsycho e pochi altri. Loro suonano e sorridono come se fosse tutto facile, il pubblico va in estasi e vorrebbe che non finissero mai. Quando arriva la fine sono sempre più convinto che siano un gruppo che va visto dal vivo obbligatoriamente almeno una volta.
Si riaccendono le luci ed usciamo: è stato molto bello, arrivederci Monaco. Arrivederci Keep It Low (la prossima edizione è stata già annunciata: 11 e 12 ottobre 2019).
Luca Frazzoni