Ci attende un tempo meraviglioso a Clisson e le previsioni sembrano promettere bene per tutto il weekend, infatti il sole non ci abbandonerà mai in questa edizione. Niente scherzetti meteo questa volta e una line-up come sempre sopra le righe. Dopo l’esperienza della carta cashless, da quest’anno tutto si fa con il braccialetto, dotato di microchip, valido sia per accedere al festival che per pagare ovunque: dal bar, agli stand del cibo fino addirittura al merch. Per combattere il caldo inoltre, coreografiche fontane con cascate posizionate poco lontane dai Main Stage offrono refrigerio al solito fiume di persone provenienti da tutto il mondo.
Venerdì 22 giugno
Il mio Hellfest inizia all’insegna dell’heavy rock più viscerale con i Mos Generator, confermati poche settimane prima in sostituzione degli Electric Mary e piazzati sul Main Stage alle undici di mattina. Tony Reed e soci svegliano gli astanti affamati di rock’n’roll con la loro miscela di stoner ed heavy metal pescando sia dal recente Shadowlands con l’energetica title track, sia da classici del passato come Lonely One Kenobi e On the Eve.
Con le orecchie ancora ronzanti mi dirigo verso la Valley, vero e proprio festival nel festival per noi perkeliani. Lo stoner doom dei Sons of Otis è lisergico ma al tempo stesso monolitico, elementi che hanno reso il trio canadese una versa e propria leggenda nel campo. I connazionali Dopethrone si muovono su coordinate simili con l’unica differenza dovuta ad una minore vena psichedelica ed una maggiore concentrazione di fango nelle vene. Sì, perché la voce urlata in quel modo ricorda molto Weedeater e Bongzilla, mentre musicalmente non ci spostiamo di un millimetro dalle band appena citate oltre ovviamente ai vecchi Electric Wizard, quelli di Dopethrone proprio, non a caso. Il limite del genere è proprio quello di essere uguale a se stesso e ai tanti suoi cloni, di cui i Dopehtone stessi fanno chiaramente parte. Concerto un po’ sottotono, che per musica così derivativa si traduce in noioso.
Non ci si annoia invece con gli Schammasch nel Temple. Gli svizzeri mettono sul piatto una reinterpretazione personalissima del black metal, accostabile per attitudine a Secrets of the Moon e Deathspell Omega, ritualistica ed atmosferica al punto giusto, che funziona bene nonostante la luce del giorno. Anche i francesi Celeste reinterpretano in qualche modo il black metal secondo parentele più vicine al post hardcore e al doom, spogliando di fatto il genere della sua austerità. Senza il favore delle tenebre non possono sfoggiare le torce rosse che sono solite squarciare il buio del loro show, ma offrono un esibizione molto coinvolgente.
Nominati poche righe prima invece i Bongzilla, cult band americana per quanto concerne lo sludge doom metal, tornati di nuovo insieme nel 2015 sono abbastanza una rarità in Europa. Prima volta per loro a Clisson, cavalcano il palco della Valley con i loro riff opulenti e la voce sguaiata di Muleboy a trainare il carrozzone, divertendo e passandosi con nonchalance grossi joint. A circa metà set abbandono a malincuore per intercettare i Converge su uno dei Main Stage e, per quanto mi è dispiaciuto abbandonare i Bongzilla che distruggevano tutto, mi sarebbe dispiaciuto ancor di più dovermi accontentare di vedere i Converge su YouTube. Sì, perché anche se sembra strano non vederli alla War Zone, i Converge il Main Stage tra Meshuggah, A Perfect Circle e Judas Priest se lo meritano tutto. Mi accoglie la furia hardcore di Eagles Become Vultures, storico brano tratto da You Fail Me, per poi proseguire con la recente I Can Tell You About Pain dal recente, ottimo The Dusk In Us, per poi salutarci con Concubine, tratto da quel capolavoro che risponde al nome di Jane Doe.
Gli scozzesi Saor offrono un’ottima prestazione al Temple, con il loro folk black metal attraverso il quale traspare una forte ispirazione dalle melodie della propria terra, reso ancor più interessante dalla presenza live di un violinista. Tutta un’altra storia nei pressi del Main Stage con Joan Jett & The Blackhearts. La sessantanovenne sembra vestire i panni di una ragazzina, la setlist scorre fluida tra classici intramontabili come Cherry Bomb, Bad Reputation e ovviamente I Love Rock’n’Roll, con la sua voce roca ancora ad alti livelli, una vera icona punk e hard rock senza tempo.
Sul palco affianco sono pronti i Meshuggah, i mostri svedesi della musica estrema con groove. Una delle poche band a vantare un trademark talmente riconoscibile che ormai dire “alla Meshuggah” è diventato un modo per descrivere band che fanno musica estrema con tempi dispari e riff cervellotici. Cinquanta minuti di set che apre con Born In Dissonance e chiude con Demiurge, nel mezzo una manciata di mine, tra cui Rational Gaze e Bleed. Una live band di manifesta superiorità che continua a stupire ancora oggi dopo trent’anni di carriera.
Molte le band interessanti al Temple oggi, non da meno i Mysticum, storico trio industrial black metal norvegese tra le cui fila sono passati nei primissimi anni 90 anche Ivar Bjornson degli Enslaved e per un periodo brevissimo anche Hellhammer dei Mayhem. Per il resto la band è nota fin dagli esordi per l’utilizzo di drum machine, componente che viene proposta fedelmente in chiave live. I Mysticum sono tornati ad esibirsi live nel 2016 dopo venti anni di lontananza dai palchi e l’hanno fatto in maniera eclatante, con una vera e propria performance live senza la quale non potrebbe esserci uno show dei Mysticum. Per me è la terza volta ad un loro concerto – dopo Inferno Festival e Roadburn – quindi devo dire che l’effetto sorpresa è ampiamente svanito, ma ho sempre la fortuna di avere con me un amico nuovo a cui dire «vieni a vedere i Mysticum, non te ne pentirai», i loro piedistalli videomappati a tempo con la loro musica violentissima sono la cosa più malata e al tempo stesso psichedelica che ci sia.
Tra Carnivore senza il compianto Pete Steele e i Church of Misery preferisco i giapponesi, anch’essi estremamente derivativi come i succitati Dopethrone, ma con un carico di groove nettamente superiore. Sabbath fino all’eccesso, ma in alcuni casi è un bene. Di nuovo al Temple per i Solstafir per uno dei concerti più intensi della giornata. Gli islandesi dimostrano di essere temprati al caldo di queste latitudini, d’altronde la stagione dei festival è appena iniziata e la band suonerà un po’ ovunque nelle settimane a venire. Il sound dei Solstafir è qualcosa di unico, molto istintivo e a tratti rude, con una patina di malinconia sempre ben presente, condito da testi in islandese che suonano poetici anche senza conoscere una parola. La summa di tutto questo è rappresentata dal pezzo-simbolo Fjara.
Nella Valley è il turno degli Eyehategod. Rivedere Mike Williams finalmente sobrio e in forma dopo il trapianto di fegato rende tutti molto felici e, nonostante si senta un po’ la mancanza di Brian Patton alla seconda chitarra, ci pensa il buon Jimmy Bower a sfoderare una presenza così massiccia da rendere tale mancanza meno ingombrante. Mike urla la sofferenza ed il marciume a cui la band di New Orleans ci ha da sempre abituati e tutto assume improvvisamente un significato ancor più profondo, un uomo gracile che ha scampato la morte per un soffio è lì, su quel palco, ad urlare ossessivamente. Commovente.
Prima tappa in Warzone per i Bad Religion. La Warzone è un’area che si è sviluppata a dismisura negli ultimi anni, fino a diventare una vera e propria appendice del festival stesso, recintata da mura, filo spinato e torrette di guardia, sembra davvero di stare in una zona militarizzata, chiaramente nel bel mezzo dell’inferno. È il tour per il trentennale di Suffer per cui si parte diretti con Do What You Want per poi proseguire con altri classici del disco che ha cambiato le sorti dell’hardcore melodico. Sono molti gli inni generazionali di cui Prof. Gregory Walter Graffin e soci sono responsabili, a gusto personale cito Punk Rock Song, Sorrow e American Jesus, ma l’intero concerto è un sing-along continuo.
Prima tappa odierna anche all’Altar, dove è la volta dei Napalm Death, i quali ho il piacere di vedere in terra francese per la terza volta. Moltissimi i pezzi da Scum, dalle iniziali Multinational Corporations e Instinct of Survival fino all’iconica You Suffer, che fa il paio con l’altra brevissima Dead. Fanno capolino anche due storiche cover: Victims of a Bomb Raid degli Anti Cimex e Nazi Punks Fuck Off dei Dead Kennedys. Barney è sempre una spanna sopra, il frontman grindcore per eccellenza, con le sue movenze epilettiche e la voce rabbiosissima.
Congedo affidato agli A Perfect Circle, band sulla quale si era accumulata una grossa attesa per via di un gap temporale di 15 anni dal precedente album in studio e la relativa lontananza dai palchi, attesa che sembra essere una costante di tutti i progetti che coinvolgono Maynard James Keenan. Lo spettacolo è coinvolgente, con molti brani tratti da Mer De Noms e ovviamente dal recente Eat the Elephant, posti perlopiù nella seconda metà di scaletta, e poi qualche estratto da Thirteenth Step come le bellissime Weak and Powerless e la conclusiva The Outsider. Spiazza e diverte la cover di Dog Eat Dog degli AC/DC. Giochi di luci, scenografia e disposizione anti-classica sul palco, rendono lo spettacolo unico e degno di essere ricordato come una delle migliori chiusure che Clisson ricordi.
Sabato 23 giugno
Il mattino inizia con i Black Rainbows nella Valley, un traguardo ragguardevole seppur con uno slot alle 10:30. La band di Gabriele Fiori regge il palco alla perfezione e il pubblico numeroso e attento sembra essere dalla loro parte. Si prosegue con gli svedesi Monolord, band chiacchieratissima nel giro stoner/doom ormai, per niente nuova a questo genere di festival. La mezz’ora di set a disposizione permette loro di eseguire appena tre brani, chiudendo in bellezza con l’iconica Empress Rising. Riffing ripetitivo ma incisivo ed una voce volutamente monocorde ed effettata vanno a braccetto con una sezione ritmica potente ed ossessiva.
Dopo qualche attimo di pausa è il momento di una capatina al Temple per lo show della new sensation del black metal islandese: i Misþyrming. Giovanissimo quartetto salito agli onori della cronaca grazie all’interessamento del Roadburn Festival che li ha catapultati sui palchi del fest di Tilburg come Artist in Residence nel 2016, suonando ben tre set in tre giorni. Io c’ero in tutte le occasioni perciò posso affermare di essere piuttosto familiare con la band in questione. La freschezza nel loro sound è capace di avvicinare sia vecchi che nuovi fan del black metal, complice anche un’approccio molto diretto ed una presenza scenica esplosiva e quasi spavalda.
Si torna nuovamente alla Valley per i 1000Mods, combo stoner greco in costante ascesa. Sul palco un muro di amplificatori da cui fuoriesce uno stoner rock canonico di scuola Kyuss/Fu Manchu in salsa mediterranea suonato con tanto cuore. Ben tre pezzi su sei estratti dal loro album di esordio del 2011 posti nella seconda metà del set uno dopo l’altro – El Rollito, Vidage e Super Van Vacation – accolti da un pubblico carico e da una Valley pienissima. Ennesimo rimbalzo Valley-Temple per il black metal psichedelico degli Oranssi Pazuzu, anche loro di casa al Roadburn e in tutti quei contesti in cui è di casa la sperimentazione sonora. Sembra di sentire Emperor e Darkthrone flirtare pesantemente con Pink Floyd, King Crimson e Hawkwind, una psichedelia disturbante proveniente da un pianeta fatto di demoni distorti e colorati. Fuori di testa. Ed è ancora Valley con gli Orange Goblin. Scaletta variegata che pesca un po’ da tutti i lavori della band londinese, con un occhio di riguardo per l’ultimo validissimo The Wolf Bites Back ma con ampi tuffi nel passato con Saruman’s Wish, Scorpionica e Quincy the Pigboy che scatenano un putiferio unico. Tuttavia la live-song per eccellenza rimarrà sempre Some You Win, Some You Loose, qui riproposta nel tripudio generale, suonata da una band in perfetta forma, che diverte e si diverte dopo oltre vent’anni di carriera.
Al Temple ci sono gli Enslaved invece, presenza quasi fissa qui a Clisson dove due edizioni fa avevano portato un set old school per i venticinque anni di carriera dove non ci fu concessione per alcun brano post-Ruun. Questa volta invece la set-list è maggiormente legata al presente con brani tratti dal trittico più recente Riitiir–In Times–E oltre a brani storici come Ruun e Isa e fino al black metal vichingo degli albori con Allfǫðr Oðinn. Tuttavia è davvero una strana sensazione assistere ad un concerto degli Enslaved senza Herbrand Larsen, membro della band norvegese dal 2004 con Isa, responsabile di tastiere e voci pulite, che ha contribuito a portare gli Enslaved verso la direzione odierna. Al suo posto il nuovo giovane arrivato Håkon Vinje, che per fortuna sembra essersi ambientato benissimo.
Dei Dead Cross che dire: vedere Mike Patton e Dave Lombardo sullo stesso palco è già un’emozione di per sé. I due mostri sacri sono affiancati da Mike Crain (Retox) alla chitarra e Justin Pearson (The Locust, Retox), che uniti al beat inconfondibile di Lombardo e alla voce esplosiva di Patton creano una miscela vincente di hardcore punk sperimentale, con spunti crossover thrash niente male. I Watain sono tra le band black metal scandinave (svedesi, non norvegesi) ad aver mantenuto un approccio quasi sacro al genere, pur avendo raggiunto un pubblico più vasto; divertente è stato leggere il loro nome nel bill del Primavera Sound di Barcellona ad esempio. Tra croci rovesciate, tridenti, fiamme e sangue animale, lo spettacolo dei nostri è esattamente come mi piacerebbe descrivere un concerto black metal ad un timorato di Dio non avvezzo al genere. E non c’è modo migliore per concludere l’ennesima lunga giornata se non con i pionieri di ciò che viene definito post metal: i Neurosis. Non è la prima volta che ho modo di assistere ad un loro concerto qui a Clisson o altrove, una band che dal vivo non delude mai. Da Given to the Rising a Through Silver in Blood, il quintetto di Oakland offre un’ora di un’intensità allucinante, con le voci di Scott Kelly e Steve Von Till che si intrecciano amorevolmente in un vortice di violenza e rabbia. Un altro giorno all’inferno volge al termine.
Domenica 24 giugno
Anche oggi la carne la fuoco è tanta e la qualità elevata, tuttavia decido di dormire un po’ di più, per cui la mia giornata inizia poco dopo mezzogiorno con i Warning nella Valley. Un’album come Watching From a Distance è in assoluto tra i miei dischi doom preferiti di sempre, e ascoltando la traccia omonima o Footprints dal vivo a stento si trattengono le lacrime. La voce di Patrick Walker è una nenia dolcissima, adagiata su arpeggi distorti di chitarra, desolanti e magistrali. The Great Old Ones invece sono un combo francese di (post?) black metal dai temi Lovecraftiani. Benjamin Guerry e soci mettono a ferro e fuoco il Temple, traghettando tutti noi attraverso sonorità apocalittiche.
Dalle ceneri dei Beastmilk nascono i Grave Pleasures, band post punk finlandese capitanata da Mathew McNerney, cantante/musicista di origini inglesi già dietro al microfono per Dodheimsgard e attualmente in forza agli Hexvessel. Motherblood è l’album più recente della band ed ha ottenuto un ottimo riscontro, complice brani orecchiabili ed un songwriting fedele agli stilemi gothic e post punk ma con una produzione potente e moderna, che rende canzoni come Haunted Afterlife e Infatuation Overkill degli episodi estremamente godibili. I prossimi nella Valley sono i Nebula, storica stoner rock band californiana, fondamentali nello sviluppo del genere nel periodo post-Kyuss e da poco riformati dopo una pausa durata sette anni. Un platinato Eddie Glass ci accompagna lungo questi tre quarti d’ora di heavy psych lisergico e dal forte sapore nostalgico.
La vera rivelazione di questo Hellfest per molti sono stati gli Zeal & Ardor, non per me perché sapevo già cosa aspettarmi dopo l’esibizione al Roadburn dell’anno precedente (o quella a Roma nel loro tour italiano). La band svizzero-statunitense unisce due mondi distanti tra loro, ovvero quello degli spiritual dei neri americani a quello del black metal. Il risultato è qualcosa che non avete mai sentito prima, reso ancor più vincente dall’utilizzo massiccio delle voci e della coralità come elemento principale. Pezzi come Don’t You Dare o Devil Is Fine ti entrano in testa e non ti lasciano facilmente. Batushka porta invece il black metal ad un livello quasi teatrale, attingendo a piene mani dal rituale cristiano ortodosso e presentando uno show che altro non è che la messa in scena di un rituale ortodosso. L’immobilismo dei musicisti incappucciati e vestiti da sacerdoti viene compensato da una scenografia e un’austerità senza eguali e dall’odore incessante di incenso, conferendo un’aura di sacralità.
È forte l’attesa per i Baroness, nonostante li avessi visti da poco in quel di Bologna. La formazione però non è al completo, manca all’appello il batterista Sebastian Thomson e sarà lo stesso frontman John Baizley a comunicarci che è dovuto tornare d’urgenza negli Stati Uniti per problemi familiari. La band avrebbe potuto interrompere il tour ma non l’ha fatto, portandolo a termine proponendo un set acustico del tutto improvvisato. La data francese rappresenta la prima in assoluto in questa circostanza. A detta di John, i pezzi sono stati arrangiati alla buona in tour bus il giorno stesso, ma nonostante tutto assumono una veste ancora più intima così spogliati di ritmiche e distorsioni. È stato un po’ come mettersi a nudo completamente, un concerto emozionante ed inaspettato.
In una delle rare incursioni in zona Main Stage trovo gli Alice In Chains in splendida forma, con una scaletta quasi esclusivamente incentrata sui classici e poco sul nuovo corso della band, quello con William DuVall alla voce. Jerry Cantrell prende la parola per annunciare Nutshell, dedicandola ai compianti Layne Staley e Mike Starr, e per l’occasione anche a Vinnie Paul. Le note di Doctor Doctor degli Ufo preannunciano l’imminente apparizione degli Iron Maiden. Si parte con Aces High, esattamente come ai tempi di Live After Death e si prosegue dritti per due ore attraverso i grandi classici della band britannica, con qualche chicca come The Clansman e Sign of the Cross, due brani dell’epoca Blaze Bayley, stupendamente interpretati dal magistrale Bruce Dickinson. Ogni concerto dei Maiden è un’esperienza da vivere fino alla fine. Run to the Hills chiude una scaletta senza sbavature, preludio perfetto per i fuochi di artificio dell’Hellfest e la conseguente esibizione di Marilyn Manson. Non prendiamoci in giro, Marilyn Manson non è più quello di una volta, la voce è andata e i segni di un cedimento fisico ci sono tutti, ma ragazzi che scaletta. Un’abbondante manciata di pezzi dal capolavoro Antichrist Superstar e poi The Dope Show e Sweet Dreams oltre chiaramente a roba più recente che lascia il tempo che trova. Invita sul palco delle ragazze dal pubblico e le fa danzare per lui, senza reggiseno. La scenetta dura a lungo catalizzando parecchio l’attenzione, fino a tal punto che non importava più che pezzo stesse facendo. Le signorine stanno al gioco e a conti fatti trasformano un concerto mediocre in qualcosa di stimolante.
Come lo scorso anno con Perturbator, questa volta tocca a Carpenter Brut l’onere di chiudere la giornata conclusiva dell’Hellfest. La scena si ripete, con gente che balla e si diverte a suon di retrowave in un Temple stracolmo. In scaletta brani come Leather Teeth, Disco Zombi Italia, Beware the Beast (in cui fa capolino Mat McNerney dei Grave Pleasures) e la conclusiva cover del brano di Michael Sembello reso famoso dal film Flashdance, Maniac. Si conclude nel migliore dei modi un’altra bellissima edizione dell’Hellfest, un festival che riesce ad offrire tanto in termini di offerta musicale e che si conferma molto più di un festival musicale.
Davide Straccione