Fuzz Club Eindhoven 2019 si conferma il festival più hot e psichedelico d’Europa. Il 23 e 24 agosto all’Effenaar, la seconda edizione del fest (dopo quelle precedenti di Eindhoven Psych Lab) è stata un evento da presidiare per chi ha la musica che scorre oppiacea nelle vene.
Chi conosce l’organizzazione di festival del genere sa bene di cosa stiamo parlando. Fuzz Club Eindhoven ha sede in un club d’eccellenza nel centro della città. Lo si raggiunge comodamente a piedi dalla stazione o in bicicletta. Oltre trenta band, due palchi e un’attenzione quasi maniacale per i visuals.
Le altre qualità sono note: atmosfera super friendly, un’etichetta come la Fuzz Club Records che permette al pubblico di osservare da vicino band che raramente capita di vedere dal vivo, quintali di merchandising tra vinili, magliette e poster, spettatori attenti e coinvolti, suoni ai limiti della perfezione, programma regolare e preciso, giardino esterno ideale per refrigerarsi nell’insolito caldo olandese. Perfino gli organizzatori e la security non sembrano per niente stressati.
Quello del festival è un modello da seguire: un weekend in un paradiso dell’umanità, dove i concerti si alternano al rilassamento cerebrale-muscolare in un meraviglioso rito collettivo. La missione di Casper Dee, Jack Palfrey e soci di Fuzz Club è l’idea tanto semplice quanto intrigante di fornire un’istantanea sulle tendenze dell’attuale rock psichedelico e unire linguaggi musicali e strumenti antichi di millenni con forme, stili e apparecchiature di oggi.
Dalla prima edizione del 2014, ne è passata di acqua sotto i ponti. Resta infatti un difetto da smussare per il futuro: variare la proposta. Spesso e volentieri, nel corso della due giorni, si è avuta la sensazione di un unico flusso sonoro indistinguibile. Il sound post-psych, nato dalle ceneri dei Velvet Underground, passato al setaccio di Spacemen 3 e filtrato dal tornado punk-wave e dalla riscoperta shoegaze, ha esaurito il suo ciclo vitale.
Se è vero che in questi anni il Fuzz Club è diventato un porto sicuro per band come gli Underground Youth o per nomi ormai storici come i Black Angels, forse è arrivato il momento di fare altre scelte. La riscoperta di questo stile ha lasciato una precisa scia dietro di sé. Ora occorre voltare pagina, magari guardando più a sud, alle tendenze che emergono dall’Europa dei tanto bistrattati PIIGS e dall’Africa. E per farlo bisogna cominciare dall’inizio.
Venerdì 23 agosto
Il concerto dei The Telescopes di Stephen Lawrie è stato uno dei momenti migliori dell’intero festival, quasi un’ora di catarsi rock a metà tra psichedelia e pura trance iptonica. La band britannica ha suonato come se fossero i loro ultimi minuti di vita, tirando fuori tutto ciò che va oltre i mondi normalmente conosciuti, tra brani del passato ma anche pezzi più recenti come You Can’t Reach What You Hunger (da As Light Return del 2017) e Until the End, dal bellissimo Exploding Head Syndrome. Su tutti hanno dominato i feedback asfissianti, che hanno attivato un transfert mentale e creato un ambiente saturo in cui c’è quell’atmosfera intima ma energica che solo i migliori sanno creare.
Poco prima di Lawrie e compagni erano stati The Oscillation a dominare la scena con una performance travolgente ed elegante. Puro heavy psych come non se sentiva da ore: Demian Castellanos si è dimostrato all’altezza della sua storia, portando sul palco la sua attitudine tesa e oscura che entra nelle vene e nutre corpo e spirito quando pensi di non averne più.
Tra le esibizioni più convincenti di giornata c’è stata anche quella dei Medicine Boy: il duo sudafricano di stanza a Berlino è tenebroso e maledettamente seducente, con quei brani tra noise, dark psych e cantautorato che fanno la gioia di chi ama Jesus and Mary Chain e i Bad Seeds.
Quanto agli altri nomi, troviamo di certo tra i migliori i giapponesi Minami Deutsch (un assalto space kraut saturo come non mai, posto non a caso a chiusura di giornata nella main hall), i Night Beats (il trio di Tacoma si smarca dallo shake, rattle & roll degli esordi e vira su una sorta di lisergica messa gospel) e The Myrrors, che sembrano i migliori amici che tutti vorremmo e cantano e suonano così bene da farti ritrovare disteso e sorridente.
Meritano una menzione speciale pure i nostrani The Gluts (perché la band milanese è più apprezzata all’estero che in Italia?), il duo britannico The KVB (dark e wave, pop e industrial: una musica che non ha frontiere) e gli storici The Warlocks, tornati alla ribalta con il loro violento suono ipnotico e trascendentale capace di creare un “rilassante” muro di fuzz.
I non più strumentali Radar Men From the Moon, in inedita versione noise-psych con cantante, sono ormai aficionados del Fuzz Club a tal punto che viene quasi da chiedersi se non siano già assessori comunali di Eindhoven.
Sabato 24 agosto
La giornata di sabato verrà ricordata come quella della consacrazione degli Snapped Ankles. È difficile assistere al concerto del gruppo londinese e non esaltarsi almeno un po’. La band domina la scena con una performance vorticosa e trascinante, quasi coreografata nella sua perfezione, dimostrandosi una formazione psichedelica completa. La musica degli Snapped Ankles è psych rock, ma non nel modo in cui siamo abituati a immaginarcelo. Non c’è niente di escapista né di maledetto nel loro stile. È piuttosto un rituale in bilico tra modernità e antichità, con una cifra precisa e identificabile, che mescola rock sbilenco, dance e ritmi sincopati. Bizzarri, e splendidamente inattuali: per questo veri vincitori.
Non sono stati da meno i giapponesi Kikagaku Moyo, che con il recente Masana Temples hanno tirato fuori un mezzo capolavoro. Le loro canzoni sono perfette per un festival di questo tipo: psichedelia, riff sabbathiani, architetture progressive, quel sitar così caldo e coinvolgente. Lo raccontano meglio di qualsiasi descrizione il silenzio assoluto che ha regnato nella main hall sulle pause di Dripping Sun e l’ovazione ricevuta al termine dello show. La musica e le immagini sui sei schermi si sono fuse in un unico flusso ed è sembrato di stare dentro una specie di liquido amniotico.
Stessa sensazione procurata dai Teeth of the Sea, che amalgamano con grande originalità jazz, psichedelia ed elettronica. Il concerto si è svolto in condizioni ideali: a notte fonda, con la sala non stracolma, in uno scenario perfetto per amplificare le suggestioni di un lavoro magnifico come Wraith. Il gruppo inglese ha suonato brani come la splendida I’d Rather, Jack e la più ritmata Responder, trascinando il pubblico con il loro rock ambient distopico, tra Jaga Jazzist e Giorgio Moroder.
Impeccabili (quasi alla noia forse) gli Iceage e i Whispering Sons, bellissimi i set di Juju, Lumerians e NONN, che si confermano tra le formazioni più personali in casa Fuzz Club. Le sorprese sono i romantici e malinconici Les Big Byrd (per una volta lo psych rock scandinavo non annoia dopo tre canzoni) e i cileni Vuelveteloca, che hanno messo in piedi uno spettacolo di rock classico e psichedelico tanto semplice quanto divertente.
La serata perfetta dei portoghesi 10 000 Russos, cioè il gran finale dalle 3 alle 4 di notte, finisce con la gente che balla sospesa e nell’aria quel profumo micidiale dell’esperienza che sta finendo. Tira un bel venticello fuori dall’Effenaar, la palette di colori della luce ora ha assunto toni rassicuranti. I sensi sono stati risvegliati e la mente è stata appagata in maniera indelebile. Se andrà avanti con un’apertura verso forme e culture altre, sarà ancora meglio. Perché davvero un clima così non è cosa da tutti i festival.
Alessandro Zoppo