Ciò che stupisce nell’ascolto di questo nuovo album omonimo di Brant Bjork è la caratteristica dell’autore di essere alla ricerca della canzone perfetta. Arrivato in questo strano 2020 al tredicesimo lavoro solista (ad appena un anno da Jacoozzi), Brant cesella di fino: compone e ricompone i suoi riff, struttura i passaggi melodici e toglie il superfluo, sempre nell’ottica di un’evoluzione del proprio percorso musicale post Kyuss.
Non è importante che qualche passaggio, come nel caso di Mary (You’re Such a Lady), ricordi altri suoi vecchi pezzi: l’importante è tenere in vita la fiamma del Monkey Boy per eccellenza. Anche se nei suoi dischi troviamo nomi diversi e svariate band d’accompagnamento (Brant Bjork & The Operators, Brant Bjork and The Low Desert Punk Band, Brant Bjork and The Bros), il risultato è sempre il prodotto genuino della sua ispirazione.
Come non amarlo quando riesce ad intitolare un pezzo Jesus Was a Bluesman? O la già menzionata Mary (You’re Such a Lady), esplicita dichiarazione d’amore verso la pianta che tutti noi conosciamo ed apprezziamo? Brant è così: prendere o lasciare. Qualcuno che ha diviso la sua esperienza musicale con pezzi da novanta come Josh Homme, John Garcia, Nick Olivieri, Scott Reeder, Eddie Glass, Scott Hill e moltissimi altri, riuscendo ad invecchiare bene e meglio di alcuni tra questi.
L’album è comunque bellissimo. Tra i passaggi sospesi di Duke of Dynamite, le incursioni funk di Stardust & Diamond Eyes, il blues di Shitkickin’ Now e il finale acustico di Been So Long, l’ex batterista di Kyuss e Fu Manchu riesce a tenerci per mano con sicurezza, portandoci tra i cactus del Rancho de la Luna (in questo caso con il boss della psichedelia ed ex Monster Magnet, John McBain) a rollare un joint (niente tabacco: guardate il bel documentario su di lui con il titolo in italiano Sabbia) come un caro amico, che ogni anno torna a trovarci.
Eugenio Di Giacomantonio