Mansur – Temple

Cercare di immaginare un futuro spingendo sull’elettronica e al tempo stesso allargando lo sguardo e la mente tra i generi e i luoghi del mondo, nella storia della musica globale. È questo l’obiettivo dei Mansur, nuovo progetto di Jason Köhnen, ex bassista e chitarrista del collettivo olandese The Kilimanjaro Darkjazz Ensemble, noto agli appassionati come Bong-ra.

In quest’avventura artistica senza confini, promossa dalla tedesca Denovali Records e realizzata in fase di masterizzazione da James Plotkin, Köhnen si fa accompagnare da Dimitry El-Demerdashi, già polistrumentista dei Phurpa, l’ensemble russo fondato da Alexei Tegin che ha riportato alla luce le antiche tradizioni sonore Bön.

Con la coppia ci sono Gadjo Dilo Vendigo al duduk, il tradizionale strumento armeno ad ancia doppia, e Martina Hórvath, cantante ungherese che vanta collaborazioni dalle parti del metal d’avanguardia con Thy Catafalque e Nulah.

Temple è il loro EP d’esordio. Dalle origini e dalla fine dei Kilimanjaro Darkjazz Ensemble è partita la riscossa di Köhnen che oggi suona tutto, arrangia, produce e dirige questa creatura che di jazz e doom ha poco o nulla, ancor meno trame oscure e fumose. La cadenza lenta e pachidermica è appena accennata in Temple Revisited I.

Temple: l’escapologia dei Mansur

Le cinque tracce di Temple cercano piuttosto un effetto trance, in bilico tra musica tradizionale mistica ed evocativa ed elettronica moderna magica e sognante. Un vero e proprio viaggio escapista profondo e avvolgente, durante il quale i quattro si sbizzarriscono con la strumentazione, l’esplorazione e la scoperta.

Dentro Temple si ascolta di tutto: la kalimba, il violino e il cello, il ney (il flauto della tradizione turca e persiana) e i tipici violini cinesi (erhu, zhonghu e jinhu), il kemenche del Mar Nero, la dilruba dell’India e il bansuri, un altro dei più antichi strumenti della musica classica indiana.

Il sound è ricco e composito. La reiterazione è perpetrata dall’armamentario di percussioni: tamburi e hang armonici, il cajón del Perù, il khartal dei canti devozionali indiani e le nacchere andaluse.

L’effetto finale non è mai da National Geographic. Persino i registri vocali di Martina Hórvath riconducono a uno stato di liberazione, di meditazione cantata. Temple ha un unico difetto: dura troppo poco. Si arriva alla fine dei cinque brani in fretta. Sono 25 minuti scarsi: il tempo è elastico, la ripetizione (e quindi la lunga durata) è importante. L’attesa ora è concentrata tutta sul secondo capitolo (decisamente più corposo, si spera), il debut album Karma, che uscirà alla fine del 2020.

Nota per i completisti: Denovali Records accompagna l’uscita dei Mansur con le ristampe di From the Stairwell dei Kilimanjaro Darkjazz Ensemble e Succubus dei Mount Fuji Doomjazz Corporation, side-project della band-madre che compone materiale inedito (sempre lento, malato ed elegante) registrato rigorosamente dal vivo.

Alessandro Zoppo