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NACHTMYSTIUMN – Assassins
Ultimamente negli States abbiamo assistito ad un’ondata di gruppi che si sono cimentati in una forma di black metal di chiara matrice nordica. Penso a Xasthur o ai Wolves in the Throne Room senza dimenticare la lezione dei SunnO))).In questa schiera possiamo senz’altro inserire a pieno titolo i Nachtmystium di Chicago anche se la loro proposta va decisamente oltre. Ma andiamo con ordine. Dopo due lavori chiaramente improntati con il black più puro come “Reign of the Malicius” e “Demise”, i nostri iniziano a cambiare lentamente rotta con l’album “Instinct: Decay” di due anni fa in cui le sonorità “nere” assumevano una forma più ampia. Il recente Ep “Worldfall” segna il passo; addirittura compaiono alcuni punti di contatto con lo stonerdoom seppure accompagnato ancora da una voce cupa e maligna. Il leader fondatore Blake Judd (tra l’altro membro anche dei Twilight) ha dichiarato come il termine “black” stia piuttosto stretto al gruppo. E direi a ragione. Addentriamoci allora in Assassins: Black Meddle part I e vediamo che fin dal titolo l’omaggio è rivolto ai…Pink Floyd! Ebbene si, proprio a loro. Ma cosa c’entra la band inglese con i Nachtmystium? Quali sono i punti di contatto? Innanzitutto i quattro si sono sempre dichiarati ammiratori di Waters e soci; l’intro iniziale “One of these Nights” e la chitarra di “Code Negative” lo stanno a dimostrare ampiamente. Ma un po’ tutto l’album è circondato da una decisa influenza pinkfloydiana. Basti pensare a Seasick (divisa in tre parti) in cui il clima si fa perfino riflessivo, pacato, piacevolmente ipnotico e dove a sorpresa spunta anche un sax (quello di Bruce Lamont dei Yakuza) ad allietare l’atmosfera. Da brivido! Non mancano però riferimenti con il passato più recente come ad esempio la titletrack, in cui fanno la comparsa alcuni elementi di elettronica, la micidiale “Your True Enemy” e l’ossessiva “Omnivore”. Ottima la produzione di Sanford Parker (Minsk) per un disco che può interessare senza dubbio anche chi non è amante di sonorità tipicamente “scure”. A questo punto in futuro siamo portati a pensare in grande. Cristiano "Stonerman 67"
NADJA – Skin turns to glass
Dietro il moniker Nadja non si cela un gruppo vero e proprio, ma il solo Aidan Baker, polistrumentista canadese che si divide tra chitarra, basso, voce e drum machine per creare un raggelante mix di doom, ambient e drone metal. “Skin turns to glass” è la seconda uscita a nome Nadja, dopo il debutto “Touched” (uscito su Deserted Factory Records, label giapponese) e svariati lavori in ambito experimental/ambient cui Baker ha preso parte.
NAGA – Hen
Esordio per il trio napoletano Naga, nati dalle cenerti dei Kill the Easter Rabbit. Archiviata quell'esperienza, i tre si ripropongono in questa nuova incarnazione, già rivelata con un promo di due tracce. L'album esce in vinile edizione limitata 300 copie (di cui 100 colorate e 200 nere), edito dall'olandese Lay Bare Records e distribuito dalla Burning World, mentre il CD (che contiene la bonus track "Vitriol") è distribuito dall'italiana Fallo Dischi. "Hen" è un termine che deriva dal greco antico e significa l'uno, l'idea somma, identificazione del divino da dove tutto fu originato e verso cui tutto tornerà. Il lavoro è aperto da "Naas" ed è subito portento: riff devastanti e voce sofferta per un heavy sludge doom con vaghi accenni post-core. Qualcuno troverà similitudini con il sound che ha reso celebri i Neurosis, ma i ragazzi astutamente celano questa influenza (se mai esista) macchiandola di personalismo. Con queste premesse, i Naga si candidano a diventare una delle band più heavy del nostro panorama. L'animus dei tre è essenzialmente il doom; talvolta la materia viene straziata, altre sgraziata da insolenti e ossessivi mid tempo, tenendo sempre ben presente l'incredibile pesantezza. Con "Hierophania" la band assume toni più scuri e sinistri grazie all'uso delle screaming vocals: ne consegue un'epica odissea doom color pece, introdotto da un estratto di "Un borghese piccolo piccolo", tanto per rimarcare il nichilismo di base. Con "Eris" si prosegue nei tormentati meandri cui il trio ci conduce ed è un altro tassello di grande doom ossianico. A dimostrazione di quanto la band sia disposta ad aperture che arricchiscono il loro sound altresì monolitico: leggi influenze psych stoner e a tratti persino space. "The Path", brano già presente sul promo, è una pesante litania heavy psych doom, un sentiero da seguire per scoprire una meta ignota. Chiude il disco la title track, mastodontica summa della scrittura dei Naga, ribadita dalla bonus track "Vitriol" (presente solo nell'edizione in CD), ennesimo momento di estenuante pesantezza. Ottimo esordio questo dei partenopei, indubbiamente uno dei migliori prodotti sludge doom della penisola e non solo. Claustrofobici, ossianici, pesanti ed oscuri. Nota doverosa a margine per il lavoro produttivo svolto da Lorenzo, Emanuele e Dario con la registrazione e il mixaggio di Maddalena Bellini e la masterizzazione di James Potkin. Antonio Fazio
NAGA – Naga
NAGA è il nuovo corso dei defunti Kill the Easter Rabbit. La line up consiste dei medesimi elementi, band quest'ultima autrice di una demo, uno split con i Black Land ed un album. Sostanzialmente il terzetto modifica il sound in un'ottica piu mistico spirituale e visionaria rispetto al precedente progetto, fermo restando lo sludge doom che agita ancora il sonno del trio. Il gruppo ci propone due brani, verosimilmente l'antipasto di ciò che verrà o sarà. Che c'entra lo spiritualismo, direte voi? Intanto la scelta del nome Naga: un'antica razza di uomini-serpente presente nella religiosità e nella mitologia vedica e induista a partire dalla tradizione orale; storie di Naga fanno ancora parte della tradizione popolare di molte regioni a predominanza indù (India, Nepal, Bali) e buddhista (Sri Lanka, sud-est asiatico). Tutto ciò fa sì che la band si avvicini ad un'idea di misticismo ed è questa la prima sostanziale differenza con gli autori di "Apokatastasis".Musicalmente NAGA è sludge doom con accenni stoner, i due pezzi "The Path" e "Vitriol" (di medio-lunga durata, rispettivamente 9 e 13 minuti) mostrano il chiaro intento dei tre di unire psichedelia pesantissima macchiata di doom e riff caterpillar, sostenuti da una massiccia sezione ritmica. Alla band sembra che non sia sfuggita l'importante lezione impartita da colossi quali YOB, OM, Naam ed i seminali Sleep. I NAGA hanno oggi un'impronta più riflessiva rispetto ai KTER, che mostravano un'attitudine più "bizzarra". Ancora, altra differenza è la totale esclusione di elementi avantgarde, black e thrash, che avevano contraddistinto lo sludge doom dei KTER. Insomma, la proposta del trio partenopeo è un interessante space doomened sludge da tenere assolutamente d'occhio. Antonio Fazio
NAHUI – Around The Shadows
Nahui è in pratica il progetto solista Luca Giancotti, in passato membro della band capitolina Die e qui alle prese con tutti gli strumenti suonati nel CD, compresa la programmazione della batteria elettronica. Il lavoro si basa su un post-rock nel quale vengono innestate chitarre metalliche e una voce velata di malinconia che rende il tutto abbastanza oscuro e freddo, complice le sonorità dettate dalla programmazione delle percussioni. Buoni i brani proposti, in particolare l'opener Painter (forse il pezzo meno malinconico e più vicino a certo rock alternativo) e la chiusura affidata a Tomorrow, pezzo nel quale ho trovato particolarmente riuscita la voce e che sicuramente può essere preso come esempio dell'arte malinconica di Nahui.Il prodotto è comunque ben confezionato dal punto di visto della produzione e anche qualitativamente il songwriting di Luca si dimostra agile e personale, sicuramente in grado di colpire l'attenzione di tutti coloro che sono attenti alle atmosfere dark metallizzate; per tutti gli altri questo Ep rischia di risultare un po' noioso a causa delle particolari atmosfere proposte, anche se almeno un ascolto lo merita sicuramente. The Bokal
NARRENSCHIFF – Of Trees and Demons
Leggere il nome di James Plotkin nel retro copertina di un CD è sinonimo di qualità. La mente aperta che ha forgiato il suono pesante con Khanate, Scorn e moltissimi altri, presta la sua sensibilità a molti di coloro che richiedono i suoi favori. Ultimi in ordine di tempo sono i Narrenschiff, la nave dei folli (titolo del romanzo di Sebastian Brant), band di Senigallia che ha richiesto il master dei propri pezzi a Mr. Plotkin per creare un wall of sound post kyussiano formidabile. I ragazzi, dopo una demo autoprodotta nel 2014, vengono intercettati dalla Red Sound Records (Le Scimmie, Choriachi, Palmer Generator, tra gli altri) per il nuovo "Of Trees and Demons", album feroce e viscerale da buttare giù come un whisky dalla torba robusta.
I primi tre brani ("Ocean", "Atomic Axilla, Robot Godzilla" e "Suzy") pagano il pegno agli ascolti ripetuti dei grandi quattro provenienti dalla Sky Valley, anche se non mancano le sorprese come il rallentamento finale in "Suzy" che dona all'ascolto dinamismo e piacevoli sorprese. La title track vede un leggero cambio di influenze e il suono si tinge di colori industriali. Immaginiamo dei Killing Joke in botta sabbatthiana con cilum appena spenti. "Desert" è Orange Goblin al cento per cento, ossia lo stoner da una prospettiva di metallari fumati. Il finale di "57" e "Event Horizon" meglio rappresentano il concept dei Narrenschiff: venti minuti di briglie sciolte dove il THC ha prodotto il suo effetto, i ritmi scendono e si gode più lo stile che la forza bruta, anche se non si rinuncia al riff mammut ed al cantato al vetriolo. Mattia Leonardo, Riccardo e Gerson De Oliveira hanno prodotto un bel disco di classic stoner rock con uno stile personale e riuscitissimo. Seguiteli e puntate su di loro. Eugenio Di Giacomantonio
NATIVA – Lato B
Non è da sottovalutare quella parte del rock underground cantato in italiano che oltre ai consueti, classici suoni alternative e grunge, ha finalmente introdotto nel proprio codice genetico anche le fibrillazioni hard-psych, una soluzione che risulta vincente quando si hanno solida preparazione e cultura musicale adeguata. Sebbene meno legati allo stoner rispetto ad Alix e Mesas, e più orientati verso il rock italiano, i Nativa dimostrano di possedere quel background che li rende nettamente convincenti e mai banali, soprattutto perché il livello del songwriting risulta livellato verso l’alto, cosa non facile quando si mettono insieme le due diverse tradizioni. “Zero” è proprio un brano hard rock di questo tipo, molto ben costruito, che si stampa nelle orecchie già dopo qualche secondo. I nostri citano Led Zeppelin e Pearl Jam, ma personalmente aggiungerei anche Therapy, Bush e i Life Of Agony più melodici, in virtù di refrain iterati e ipnotici, soprattutto nella seconda “I Like It”, l’unico pezzo in lingua inglese (ma funziona bene). Cosa dire poi della struggente “Era Di Miele”? Più che fare il verso al rock sedicente indipendente tanto in voga alla televisione, risulta figlia di quella lunga striscia che in Italia è partita dai Litfiba ed è arrivata al grunge, ed è un bellissimo brano. Idem dicasi per le introspettive “Nudo” e “Momenti”, che richiamano i migliori episodi del gruppo di Pelù, con però il substrato psichedelico costantemente ben radicato, non solo negli assoli e nella voce del bravo Sandro Morrocchi, ma anche nel basso di Enzo Falchini e nei tamburi di Marco Priolo. Roberto Mattei
NAUSEA – Demo EP
Arrivano al terzo lavoro i Nausea di Prato, ultra energico combo che mescola stoner, noise rock (la parte più preponderante), rock alternativo e a tratti pure livore crust/hardcore di vecchia scuola, il tutto condito da un cantato in italiano acido, punkeggiante e piuttosto aggressivo. I brani sono sincopati, ma nel complesso godono di una certa originalità, visto che i nostri attingono parecchio da Melvins, Fugazi, Unsane ed Helmet, alternando con buona perizia sfuriate ritmiche a rumorismi cadenzati e marziali. Gli assalti di "Defecatio Isterica" e "Rettiloscopia" mettono subito in riga l'ascoltatore con testi sfrontati (ma intelligenti) e un malato chitarrismo hard/noise da pogo selvaggio, mentre "Uso e Abuso" fa leva su un incipit ai limiti del post-thrash, parti centrali vagamente sabbath e sapori industrial analogici, per poi ripartire in quarta con la solita foga. Lo strumentale "Malleus Malleficarum" e la lunga Pronto-Saurus (che contiene anche alcune vocals melodiche) seguono all'incirca lo stesso canovaccio, introducendo però farfisa e parti psichedeliche.Complessivamente è un buon EP, che può fare presa sui cultori di sonorità al vetriolo, inoltre la registrazione è molto azzeccata: genuinamente low-fi ma realizzata in modo professionale. Ai Nausea non manca poi molto per fare il salto di qualità definitivo, nel frattempo continuano la loro attività live al fianco di altri validi gruppi italiani, quindi non vi resta che continuare a supportarli. Roberto Mattei
NAVAJO CODE TALKERS – Heavy dirty sounds
Gradita sorpresa questo “Heavy dirty sounds”, disco di debutto del canadesi Navajo Code Talkers. In ambito stoner il paese nord americano è noto soprattutto per l’operato “sabbathiano” degli sHEAVY, in questo caso notiamo con molta gioia quanto sia florido anche un retroterra smaccatamente rock’n’roll.I Navajo Code Talkers infatti ci propongono uno scatenato garage rock infarcito di punk e blues, notevolmente arricchito da una spruzzata di stoner (che non fa mai male…) e da una simpatica innovazione, la presenza di un sax baritono suonato dalla bella Izabelle. A completare la formazione troviamo l’altra “garage queen” Cynthia (basso e voce), Guillaure alla chitarra e Mucky alla batteria. Un quartetto che sprigiona una notevole quantità di energia per una mezz’ora di totale disimpegno garantito a colpi di focoso rawk’n’roll. Pezzi come “On and off”, “Redrhum” e “L’estie de tourne” sono sporchi e veloci, sfrontati e travolgenti, capaci di far muovere il culo anche al più pigro degli ascoltatori. Dove la rapidità viene meno ci pensano gli inserti di sax (“Ochlophone”, “En construction”, “Opération fibre optique”), la passionalità del blues (“Bell bottom blues”) e l’assalto lisergico della psichedelia (“Electric cool and acid test”) a riequilibrare le parti in campo. C’è poco da fare, “Heavy dirty sounds” è un lavoro simpatico e diretto, ben composto, suonato e prodotto. Non cambierà la vostra esistenza ma una chance ai Navajo Code Talkers va data. Quanto meno perché sanno osare e questo al giorno d’oggi è un particolare non da poco. Alessandro Zoppo
NEBULA – Atomic ritual
I Nebula non sembrano essersi stancati di suonare stoner rock e lo dimostrano appieno convincendo con questo nuovo album. Durante le registrazioni di "Atomic ritual" il bassista Mark Abshire aveva spiazzato tutti abbandonando la band. Nonostante questo inconveniente i nostri non si sono lasciati scoraggiare trovando in Dennis Wilson il degno successore. La produzione affidata nelle abili mani di Chris Goss (leader dei Masters of Reality e produttore di lavori dei Queens Of The Stone Age, Kyuss e Stone Temple Pilots), risulta impeccabile. Le sonorità che scaturiscono da questo full lenght sono elaborate e ricercate. Il power trio californiano ha volutamente cercato qualche soluzione diversa rispetto ai precedenti album. Brani come “Out of your head” e “Paradise engineer” fanno comprendere appieno quanto sia riuscita e azzeccata questa 'sperimentazione'. Infiltrazioni psichedeliche che elevano il giudizio complessivo, non appiattendo l'album su quell'heavy rock che ci aveva lasciato perplessi in "Dos EP's". Nonostante sia innovativo per certi versi, Atomic è ben lontano da quanto proposto da Josh Homme e soci, ma resta il fatto che certe sonorità sanno di fresco e ciò basta per premiare lo sforzo di questi ragazzi. Anche i testi sembrano aver acquisito maggior spessore rispetto ai lavori precedenti. "So it goes" ce lo dimostra. Mentre appare un quasi tributo ai Led Zeppelin "The beast" imperneata su un riff principale accattivante. Brano peraltro cantato dal batterista Ruben Romano... La conclusiva "Fin" ci propone un ellittico giro nello spazio. Brano interamente strumentale dove arpeggi di chitarra e tastiere creano un'atmosfera onirica. "Atomic ritual" si colloca un po' più in alto di "Charged", soprattutto per l'ottimo suono della chitarra e qualche memorabile riff, e qualche centimetro al di sotto di "To the center" che rimane il capolavoro del power trio californiano. Rappresenta sicuramente una gradita sorpresa, o un gradito ritorno, dei Nebula agli alti vertici di queste amate sonorità. Il rituale atomico esploderà nelle vostre orecchie! Peppe Perkele
NEBULA – Dos EP’s
Nella dolce attesa di un nuovo full-lenght dei Nebula possiamo spezzare l'appetito con i tre brani inediti contenuti in Dos EPs e la riedizione 'riveduta e corretta' di due EP, Sun Creature e lo split con i Lowrider . L'operazione, va detto subito, non passa per quelle di semplice raccolta poiché ai vecchi pezzi è stato dato un nuovo remix ed una rinfrescata agli arrangiamenti senza intaccare l'essenza originale. Ci fa un tantino preoccupare che le nuove canzoni non tengono il passo delle vecchie. Mentre Rocket e Bardo Airways si muovono tra tentazioni AC/DC e street rock su riff efficaci ma stra-sentiti, è Long Day che si distingue per la sua pregevole fattura rock blues, molto più vicina per intenderci al sound classico dei Black Crowes che alle tipiche cavalcate dei Nebula. Sul fronte del già edito spiccano Smokin' Woman il cui tipico sapore hendrixiano è arricchito da spolverate di fender rhodes, e Fly On ancora più lisergica grazie ai dialoghi semi-jam tra la suddetta gloriosa tastiera vintage e la chitarra nella coda finale. Chi possiede gli originali se li tenga stretti, lo split uscirà presto fuori catalogo della Meteorcity e Sun Creature è già un pezzo raro perché edito con il marchio della fallita Man's Ruin; a chi invece non conosce ancora questa importante rock band americana o non possiede le rarità consigliamo di acquistare questo disco, è un buon mezzo per familiarizzare con i Nebula, a patto che recuperiate assolutamente To the Center. https://www.youtube.com/watch?v=Y9CLzp9i19g   Francesco Imperato
NEBULA – Heavy Psych
C'era chi scommise che i Nebula erano finiti ed i fasti di Let It Burn e To the center erano distanti anni luce, perchè oramai si erano abbandonati al riposo sugli allori ed erano colpevoli di una qualità che stava diventando scadente per via di ultime produzioni non troppo all'altezza.Ciò era parzialmente vero, tenendo presente il fatto che i primi lavori dei Nebula erano dei veri e propri masterpieces e che dal 1998 (esordio) al 2002 (Dos Ep) aveva fatto sfaceli, collocandosi tra i vertici del movimento stoner rock. Vuoi perchè erano riusciti a crearsi uno stile nebuliano, vuoi perchè Eddie Glass e Ruben Romano erano e sono due tra i migliori musicisti del panorama, vuoi perchè è dall'accoppiata Atomic Ritual (2003) ed Apollo (2006) che diversi fans hanno iniziato a storcere il naso, con le dovute ragioni. Perchè si stavano fossilizzando, senza necessariamente perdere la loro carica, ma iniziavano ad apparire scontati. Nel 2008 una svolta, preceduta da una notizia che aveva scioccato i fans: il divorzio consensuale e pacifico tra Ruben Romano ed i nebula. Allo stesso tempo il nome del sostituto ha confortato i fan, riconoscendo in Rob Oswald la stessa persona che stava dietro le pelli degli immensi Karma To Burn e dei meno eccelsi Mondo Generator. I Nebula tornano alle origini, ancora più grandi di prima e dimostrano come l'ep sia la loro dimensione naturale, il liquido nel quale fluttuare aggrazziati, forse perchè la prova sulla lunga distanza sembrava fiaccare le idee, meglio concetrate ed efficaci in un disco da 40 minuti circa, piuttosto che sforare e lasciare qualche perplessità con un disco da 60 e passa minuti. E questa è una prima considerazione da non sottovalutare; a cui potremmo aggiungere che il nuovo innesto conferma di essere un musicista duttile, capace di afferrare la staffetta tra batteristi ed addirittura far segnare nuovi tempi, conquistando il favore sia degli addetti ai lavori, sia del pubblico in generale. E soprattutto perchè, nel confronto, Eddie batte Ruben 1 a 0, visto che il nuovo lavoro di Double R non ha riscosso altrettanti successi di quello di Edoardo Vetro. L'ep si snoda in un continuo flusso di psichedelia heavy e dal grande tiro, con ottime idee poste in una sequenzialità dove ogni tessera si incastra perfettamente nella costruzione finale, al punto tale che questo ep è risultato migliore di altri lp usciti lo scorso anno. Tutto sembra studiato con grande acume e intelligenza, senza perdere quella capacità di calibrare la jam session, tipica della psichedelia acida, la carica galvanizzante dei Nebula, vero e proprio marchio di fabbrica, e la realizzazzione di melodia trascinanti e veramente orecchiabili. Una cometa che brucia, nella cui scia si rincorrono fuzz e wha-wha, distorsione e space rock, incantando lo spettatore e dando spessore e volumetria ad un lavoro di cui ci dimentichiamo il tasto skip. Tra un intro ed un outro parlato, con una voce femminile registrata, nel mezzo si stagliano brani che, aprtendo da uno stile nebuloso 100%, ora strizzano l'occhio ai Monster Magnet di Spine of God (In the Dephts), ora ai Captain Beyond dell'omonimo capolavoro del 1972 (the dagger). I Nebula sono tornati, alle posizioni di comando come nocchieri dello stoner attraverso le acque lisergiche del fuzz e della psichedelia. Gabriele "Sgabrioz" Mureddu
Nebula – Apollo
Quando si parla dei Nebula lo si fa con una certa deferenza in ricordo del fatto che sono stati tra i prime-movers della scena stoner-rock mondiale, nati da alcuni transfughi dei Fu Manchu, e del fatto che nei primi passi della loro carriera hanno realizzato dei dischi "must" in una discografia essenziale dello stoner-rock fan che si rispetti. Con il passare degli anni hanno cercato di rimanere fedeli alla propria formula fatta di fuzz-rock e psichedelia leggera che tra alti e bassi ha generato dei dischi non superlativi ma comunque di buona qualità. Con Apollo sembrano aggiungere all'offerta un certo piglio punk che rende certe canzoni ancora più dirette che in passato, in un certo qual modo selvagge ma anche abbastanza anonime. I tentativi scorrono tra le note di Fever Frey e di Ghost Ride. Non è proprio una svolta definitiva perché i Nebula non potrebbero abbandonare quello che sanno fare ossia suonare hard-rock pieno di fuzz e di acidità - soprattutto negli assoli di Eddie Glass - e che anche in questo album occupa il maggior numero di canzoni nella tracklist. Canzoni piacevoli da ascoltare ma che non conquistano più di tanto. Loose Cannon, The Eagle Has Landed, Future Days con accenni di sitar, Opiate Float>Orbit che parte con fare avvolgente per poi lasciare posto ad una jam pura che si ricollega nel tema alla iniziale Orbit, portano stampato il marchio di fabbrica della band californiana, richiamano i fasti passati in alcuni momenti ma sono decisamente meno ispirate. Su livelli decisamente superiori si posizionano The Alchemist e Fruit of My Soul che scuotono un po' la scaletta del disco, la prima con un bel groove di base e la seconda per essere un omaggio, non si comprende quanto inconsapevole, ai Mudhoney. Insomma sembra che i Nebula si barcamenano dentro il proprio orto senza grossa ispirazione, realizzando un disco che stavolta è inferiore alle aspettative. https://www.youtube.com/watch?v=2PSSfyIzXoM Francesco 'Ciccio' Imperato
Nebula – Holy Shit
Da tempo aspettavamo un nuovo lavoro dei Nebula. Dal lontano 2008, anno in cui è stato pubblicato Heavy Psych, didascalia appropriata per un suono, un mood, un gruppo che in quel momento si (e ci) stava salutando. Coincidenza delle coincidenze, da lì a poco sarebbe nata la Heavy Psych Sounds Records che, dopo il gustoso antipasto di demos e outtakes di qualche mese fa, ci propone Holy Shit, il nuovo lavoro del trio più figo che esista in ambito stoner rock. I Nebula sono tornati e quel carico di Hawkwind + Motorhead + Cream è ancora più efficace che mai. Man's Best Friend parte con un tiro astrocosmico che si frantuma in rallentamenti con acustica che mettono i brividi. Ecco, questa è la cifra stilistica dei Nebula: sdoganare il suono acustico per irrobustire il contesto hard, donando all'ascoltatore quella magia di essere trasportato verso mondi sconosciuti. La coppia Messiah e It's All Over ci riporta con mano ai fasti di To the Center, album faro di come si possa intendere il rock attraverso una classe inaudita. Il suono di Eddie Glass è una garanzia, solo lui riesce a dosare il fuzz con i feedback del delay in una maniera così dolce. Ma se questo è tutto ciò che già conoscevamo dei Nebula, non mancano le sorprese. Parliamo di Fistuful of Pills, che suona davvero strana e che ci fa pensare che ai nostri piaccia ancora divertirsi, o come la parte centrale di Tomorrow Never Comes, dal ritmo flamenco e piccante. Gates of Eden riporta alla luce i sapori di Apollo, album del 2005 in cui i Nebula affondavano il colpo verso la parte della loro musica affogata nel garage rock, così come Let's Get Lost è grezza e stoogesiana alla maniera di Let It Burn. Il finale di The Cry of a Tortured World è una semi-ballad dal sapore acido e dissoluto che non sfigurerebbe nell'ultimo film di Quentin Tarantino. I Nebula sono tornati: una gran quantità degli di album che abbiamo sentito negli ultimi dieci anni appare semplicemente sbiadita. https://www.youtube.com/watch?v=IWc3eHBLlo4 Eugenio Di Giacomantonio
Nebula – Transmission From Mothership Earth
Tornano i Nebula con Transmission From Mothership Earth, successore di Holy Shit del 2019 che aveva rotto il silenzio dopo 10 anni. La band sta in piedi solo per volontà di Eddie Glass, guitar hero con uno stile riconoscibile che ha influenzato decine di stoner addicted. Il nostro conosce bene il mestiere e le sue intuizioni fioriscono mano a mano che il disco scorre sulla puntina. Ci sono le impalcature ritmiche sorrette dalla chitarra acustica (la title track Transmission From Mothership Earth) e abbondanti fuzz a trasportarci nel cosmo più profondo. Questa volta la voce di Eddie è affogata in effetti spaziali che rendono non del tutto intelligibili i testi, ma non ne facciamo una preoccupazione. Il viaggio deve essere sensoriale e non intellettuale. La fascinazione verso gli Stooges è evidente e in più di un’occasione respiriamo quell’aria tossica e debosciata che i fratelli Asheton e Iggy Pop sono riusciti ad evocare nei primi Settanta, all'epoca di Raw Power o giù di lì. Non a caso, nonostante le ingerenze del Duca Bianco, di quel periodo sono le novità del sound griffato The Stooges come I Need Somedody, che i Nebula coverizzano nella pietra miliare To the Center. E da lì possiamo affermare tranquillamente che i nostri non si sono più mossi. Non che sia brutto quest’ultimo album, tutt’altro. Ci sono dei passaggi ispirati (su tutti Warzone Speedwulf e I Got So High) che faranno la gioia dei fan di vecchia data. Tra le band della prima ondata di stoner rock i Nebula continuano ad occupare una posizione di rilievo. Ma qui si sente che la band è poco rodata (a Glass si affiancano il bassista Tom Davies e il batterista Mike Amster) e che è il riflesso di un unico membro, piuttosto che la commistione di più menti che lavorano sinergicamente. Eddie proseguirà nella sua carriera a sfornare riff e dischi eccellenti, ne siamo sicuri. Ad ognuno di noi la scelta di accompagnarlo e supportarlo nelle prossime uscite o rimanere fedeli a quei due/tre dischi che ha fatto tra Nebula e Fu Manchu e che restano parte fondamentale della storia heavy psych. Da sottolineare che Transmission From Mothership Earth esce per la nostrana Heavy Psych Sounds che ha pure ristampato in vinile colorato Heavy Psych del 2009. https://www.youtube.com/watch?v=Jx5TvBTpgZk&ab_channel=HEAVYPSYCHSOUNDSRECORDS

Eugenio Di Giacomantonio

NEGATIVE REACTION – Endofyorerror
Era il 1996 quando da New York venivano alla ribalta tre sudici motociclisti con la passione per l’hardcore ed il doom. Un breve periodo di assestamento ed ecco il primo album, registrato in proprio e senza grandi mezzi. Da allora di tempo ne è passato e frattanto i Negative Reaction sono diventati tra i migliori esponenti dello sludge contemporaneo. La sempre attenta PsycheDOOMelic ne ha approfittato e ha riportato alla luce “Endofyorerror”, debutto riproposto con una nuova veste e l’aggiunta di una bonus track (la terrificante “Dianoga”, tratta dall’EP “The Orbit”). Certamente i Negative Reaction di oggi hanno affinato notevolmente il loro stile (per rendersene conto basta porre attenzione alla meravigliosa “Nod”, presente sullo split con i Ramesses) ma l’ascolto del loro esordio fa comprendere in pieno quale sia il retaggio della band newyorkese. Un miscuglio di hardcore e doom da sobborgo urbano, interpretato con rabbia ed estrema esasperazione. I quasi 70 minuti di durata del dischetto rendono la fruizione a tratti pesante: non è certo “Endofyorerror” il miglior lavoro con cui cominciare se non si conosce la discografia dei Negative Reaction. Un senso di soffocante stasi basato su urla strazianti, ritmiche più lente della corsa di Del Piero e sparute accelerazioni che a tratti risollevano dal torpore nichilista creato. Non si tratta di un cd da buttare, sia ben chiaro, ma solo gli amanti di queste sonorità potranno goderne i frutti senza essere preda di sbadigli precoci. Undici brani di potente e distruttivo hateful sludge doom, dalla cui sporcizia emergono comunque alcune gemme degne di massimo rispetto. Innanzitutto “Sludge”, manifesto programmatico poi riproposto nel mastodontico “Everything you need for galactic battle adventures”. In secondo luogo le lunghe “Nebula & the two toed sloth” e “Us”, macigni che alternano sfuriate acide e abili divagazioni psichedeliche. Infine, il trip nel futuro di “Plutonium Nybord”, viaggio interstellare a bordo di un cavallo infuocato… Il resto è coltivazione per preparare il terreno. “Endofyorerror” non è un disco per tutti (neanche da tutti…). Consigliato ad appassionati e stomaci forti. Alessandro Zoppo
NEGATIVE REACTION – Everything you need for galactic battle adventures
I Negative Reaction o si amano o si odiano. O si adorano spasmodicamente per la loro vena oscura, lercia ed agghiacciante, o si deplorano per la loro lentezza soffocante e la loro assoluta mancanza di armonia. Personalmente appartengo alla schiera di adoratori della "Reazione Negativa" e non esito a dire che "Everything you need for galactic battle adventures" è un nuovo punto di partenza per lo sludge doom. Dopo la sbornia monolitica del precedente "The Orion chronicles" (composto da due brani di cui uno di oltre 30 minuti…), la nuova release della band si dirige infatti verso una forma canzone compiuta ma decisamente più devastante, dove i feedback martellanti delle chitarre si combinano alla perfezione con le vocals urlate (entrambe ad opera dell'indemoniato Ken E.Bones) e con la precisione chirurgica della sezione ritmica, composta da John Old McDonald alla batteria e Damon Limpy al basso. Gli otto pezzi proposti possono sembrare ripetitivi, ma ad un ascolto attento non è affatto così: dal profondo emerge una capacità compositiva eccellente, abile nel giostrare con walls of sound opprimenti e allo stesso tempo nel sorprendere con arrangiamenti intricati, aperture atmosferiche e ricami spaziali che rendono il tutto ancora più lisergico. Un colosso come "Spaceport" non lascia dubbi sulle qualità del gruppo: giro di basso introduttivo, sfuriata che tende verso l'hardcore, rallentamento doom e finale psichedelico, insomma, una vera e propria summa di quello che può essere definito "hateful doom". Ma non c'è solo questo: "The tradoshan" trascina in un vortice perverso ed infernale, "Price on a head" stordisce con le sue ritmiche micidiali ed i suoi effetti stranianti, "Bible whore" avanza minacciosa prima di esplodere in un fragore allucinante. Per porre poi fine a tutto, "Sludge" diventa manifesto programmatico di un modo preciso di intendere l'estremismo sonoro. Non c'è che dire, i Negative Reaction si confermano nuovi profeti di un genere sempre a rischio di estinzione creativa. Sicuramente qualcuno non sopporterà questo dischetto, ma per chi ama Bongzilla, Grief e Eyehategod e per chi cerca sensazioni estreme dalla musica, questi tre cosmobikers rappresentano una delle poche e valide ancore di salvezza esistenti al giorno d'oggi. Alessandro Zoppo
NEGATIVE REACTION – Under The Ancient Penalty
I Negative Reaction ritornano con nuovo album, ritornano tenendo alta la bandiera dello sludge doom più ostico ed intransigente. Il nuovo “Under The Ancient Penalty” non lascia scampo, proprio come la ghigliottina riprodotta in copertina, pesante ed estremo com’è farà la gioia di chi di queste sonorità non è mai sazio. Riff pachidermici e cupi, sfregiati da vocals alquanto arcigne che sono forse la parte più debole della loro miscela sonora.I Negative Reaction non inventano nulla ma estremizzano quanto ci sia di pesante nel metal e nel doom e per affinità artistiche possono essere messi tranquillamente in compagnia di gente come i Bongzilla. La band offre il meglio di sé quando rallenta i ritmi o meglio ancora quando aggiunge visionarie dosi di acida chitarra solista, esemplare in questo senso l’ottima “Pain”. Un disco che martella in modo ossessionante dall’inizio alla fine, lasciando spazio qua e là a sulfuree parentesi psichedeliche che per quanto effimere permettono di respirare per qualche secondo prima di tornare a farsi travolgere dall’incedere micidiale ed inquietante di questi soffocanti quadri sonori. Giunti alla fine vi aspetta la lunga e ossessiva odissea chiamata “Alone”, insistente e a tratti aperta a qualche accelerazioni che non fa altro che aumentare la pesantezza dei successivi rallentamenti. Un buon disco, ottimo per gli amanti del genere, penalizzato (come spesso accade nell’ambito di gruppi analoghi) da una voce che pur riuscendo ad essere estrema risulta a volte un po’ troppo fastidiosa e poco incisiva. Bokal
NEGATIVE TRIP – EP
Il nuovo lavoro dei Negative Trip è una piacevole sorpresa, una di quelle cose che ti coglie impreparato. Dagli esordi in cui lo spettro di Kurt Donald Cobain aleggiava minaccioso sulla band pescarese, di tempo ne è passato. Dopo anni di silenzio, cambi di line-up, un rinnovato approccio musicale, finalmente viene dato alla luce questo Ep, manifesto di ciò che i Negative Trip sono ora: una band valida, che può finalmente fare i conti con la realtà, che può finalmente farsi valere e girare questa italietta, che può finalmente godere di una personalità propria.Quattro soli brani, ben composti, ben registrati, ben confezionati. Un disorientante trip nel noise più godibile, una proposta frizzante e adrenalinica, capace di regalarci anche situazioni ambientali di calma apparente mai fuori luogo (l'apice viene raggiunto con l'ottimo arpeggio della seconda traccia). La particolarità di questo trio è l'assenza del basso, compensato però da un synth che sviluppa le proprie trame su partiture monocorde e basse appunto, creando quel tappeto necessario affinchè batteria e chitarra possano meglio svolgere il proprio compito. Batteria potente ed equilibrata; chitarra semplice e diretta, la cui semplicità è anche il suo punto di forza; voce ruvida e grossolana. "Implosion" apre questo Ep con classe, eclettica quanto basta. Segue la bellissima "Gonzales", meritevole sia per il suo attacco, sia per la parte centrale sia per l'arpeggio succitato e la conclusione trionfale. Non da meno è il groove assassino di "HTF", con quel finale in cui la chitarra sembra suonare collegata ad una muraglia fatta di ampli. Conlusione affidata alla malinconica "Zero Drive", altro tassello che contribuisce a rendere questo prodotto un biglietto da visita di tutto rispetto. Per i fan di Sonic Youth ed affini un must, per i semplici curiosi e gli scettici un'ottima scelta. Davide Straccione
NERDS ROCK INFERNO, THE – Murder is Now
Nel panorama punk rock italiano il nome dei The Nerds Rock Inferno (all’epoca semplicemente The Nerds) ha sempre brillato nel corso degli ultimi 10 anni come sicuro riferimento per un sound intransigente, ispirato e fortemente motivato, tanto da essere arrivati anche all’estero, forse più che in patria, a rappresentare un icona nel suo genere, soprattutto al di là dell’oceano.Il 2007 che si sta per chiudere rappresenta il ritorno del quartetto lombardo supportato dalla torinese Chorus of One Records, la quale da alle stampe il presente Murder is Now, 10 tracce nella più pura tradizione a cui i nostri ci hanno abituato negli anni. Il punk rock a tratti pungente e velenoso, in altri momenti più disteso e cadenzato, come nella conclusiva “Child of God”, imperversa per tutta la (breve) durata del disco, tra riff dal sapore vagamente Motorhead e un’attitudine che pesca a piene mani dal calderone punk rock degli ultimi 20 anni, il tutto arricchito dalla personale interpretazione della band, in particolare dell’ottimo The Boss alla voce. Niente di nuovo sotto il sole, questo non è nemmeno il caso di dirlo di fronte ad un disco dei The Nerds, è anzi proprio la coerenza e la dedizione alla causa che hanno fatto di questa band un punto di riferimento nel suo genere e questo Murder is Now non fa che confermare quanto di buono i nostri hanno fatto durante gli anni. Un disco da ascoltare tutto d’un fiato almeno 2/3 volte di fila, a volume rigorosamente ben sostenuto. Marco Negonda
NERDS, THE – A black star burning trails to nowhere
Non sono certo tipi che si perdono in convenevoli i Nerds. "A black star burning trails to nowhere" è il loro secondo disco (dopo il debutto del 2000 "Just because she didn't wanna fuck") e suggella un percorso evolutivo in continua espansione. Nati nel 1997 e con alle spalle una quantità enorme di esibizioni dal vivo, 7" e split (tra i quali quelli prestigiosi con Orange Juice From The Crypt e Frankstein Drag Queens From Planet 13), i quattro ragazzi di Voghera sanno come far vibrare gli animi di chi li ascolta con dosi massicce di rock sporco ed assatanato. Avendo come punti di riferimento Antiseen, GG Allin, The Bulemics, Misfits, Motorhead, Zeke e Turbonegro, i Nerds trovano la giusta strada nell'elaborazione feroce di un "evil rock'n'roll" che non lascia prigionieri. Scariche di adrenalina lungo tutto l'ascolto fanno sobbalzare dalla poltrona: viene voglia di scendere in strada a far baldoria nel bel mezzo della notte! Un risultato vincente insomma, che si fonda su basi più che solide. Innanzitutto l'appoggio della Scarey Records, agguerrita etichetta di Torino. Ma soprattutto un suono essenziale e potente, basato su componenti tutte fisiche e muscolari. La vocals sono infatti sgraziate, i cori altamente contagiosi, le ritmiche veloci e compatte, riff e assoli affilati ed incisivi. In parole povere tutto funziona che è un piacere. In particolare risulta indovinato in pieno il rilievo dato alle chitarre, vera colonna portante del rock targato Nerds. Ecco allora sfilare rapidi e devastanti furiosi assalti rock'n'roll (batoste come "Cry havoc", "The black sheep" o "Burning ambition"), sulfurei tempi cadenzati ("Reflections of a broken mirror", "Satan's rise") e irriverenti deflagrazioni tra il punk e l'hardcore (magistrale "The tractor", violentissima "Harder than life"). Un campionario di prodotti che faranno la gioia dei più ferrei consumatori del rock più crudo. The Nerds non scherzano affatto. Fate attenzione, vederli dal vivo potrebbe procurarvi un infarto.. Alessandro Zoppo
NERONOIA – Il Rumore Delle Cose
"Provo a dare un sostegno a questo mio mondo che perso nel nulla in piedi da solo più stare non sa". Il refrain della bellissima "XIII" è capace in poche parole di descrivere perfettamente il mondo dei NeroNoia. Un mondo dove l'apatia incontra la rassegnazione, dove la voglia di vivere è ridotta al minimo e quindi si cerca di condurre una vita ai margini dell'esistenza, un mondo dove anche il minimo tentativo di risollevarsi viene visto come uno sforzo enorme, se non inutile."Un mondo in me" è il nuovo lavoro dei NeroNoia e segue il "successo" dell'acclamato debutto "Un mondo in me" pubblicato un anno e mezzo fa sempre dall'egregia etichetta milanese Eibon Records. Laddove il primo disco cementava una miscela di dark/doom immersa in scenari industriali, questo nuovo album poggia invece su ritmi ipnotici e nere atmosfere ovattate, apparendo come un abissale post rock dai toni drammatici e, talvolta, psichedelici, soprattutto in certi suoni e soluzioni chitarristiche. La citata "XIII" e le seguenti "XIV", "XV" e "XVI" (le canzoni, come per il debutto, non hanno titoli ma semplici numeri romani a rappresentarle) sono il cuore dell'album, un cuore che batte a rilento e che sembra quasi fermarsi ed emanare l'ultimo sofferto battito, prima di riprendere, stancamente, il suo incidere pacato e raggiungere una flebile luce/speranza nella meravigliosa "XIX". Un album che ad ogni nuovo ascolto regala nuove sfumature tendenti a portare l'ascoltatore in un mondo dove la solitudine e la nostalgia diventano necessità e non desiderio. Un disco dedicato a chiunque creda e voglia che possa anche piovere per sempre. Marco Cavallini
NERONOIA – Un mondo in me
Il flyer promozionale parla di “dark”; dark intenso nel termine originario della parola e del genere, ovvero musica buia, oscura, triste, solitaria e malinconica. In questo disco c’è molto più malessere di quanto ne possiate trovare nel 90% di tutta quanta la scena depressive black ha generato negli ultimi anni. NeroNoia sono un progetto formato da membri dei Canaan, i quali, una volta terminata la fase strumentale, hanno affidato il lavoro vocale e lirico a Gianni Pedretti dei Colloquio, un’artista che come pochissimi altri riesce a trasmettere il mal di vivere in parole e musica.Ne nasce un disco nel quale ad una base musicale di derivazione Canaan (tristi atmosfere dall’andamento lento, ipnotico, quasi catartico) si uniscono desolanti liriche dedicate allo stato malinconico dell’esistenza. Musiche e testi (date anche un’occhiata all’inquietante artwork interno del libretto) s’intrecciano per formare dieci quadri, quadri che trasmettono in note la triste consapevolezza di aver vissuto un’esistenza non voluta, ma comunque accettata e trascorsa nella sua grigia routine quotidiana. Dieci brani senza titolo, un solo e semplice numero a scandirne l’esistenza e il cammino. L’iniziale “I” è lo specchio del concept che sta dietro a NeroNoia; ascoltatela, e ditemi se avete sentito qualcosa di così mostruosamente nero negli ultimi tempi. Le seguenti “II” e “III” proseguono il sentiero verso l’annientamento dell’animo; tristi tappeti sonori accompagnano inumane voci effettate decantanti poesie di rara bellezza. La malattia di brani come “IV” e “V” echeggia certe soluzioni sperimentali adottate dai compianti MonuMentuM nel glaciale “Ad nauseam”. Infine “IX” è la descrizione in musica delle grigie e nebbiose giornate passate in solitudine in casa, mentre la gente corre per strada andando in cerca del divertimento che comunque non riuscirà a trovare. “Un mondo in me” è la colonna sonora per chi non ripone nessuna speranza nella vita, ma ne accetta il suo lento scorrere verso l’inesorabile fine/conclusione. Marco Cavallini
NEUMA – Totentanz
La scorsa estate sono capitato alla prima edizione del Desert Odissey, un festival che si tiene sulla spiaggia di Capitolo, dove, sbronzo marcio, c'è stato un momento in cui, seduto in riva al mare, drizzai le orecchie come un gatto, improvvisamente serio. Era arrivato il turno dei Neuma, nome che rimanda alla simbologia dei canti gregoriani, che con il loro sound strumentale diretto e compatto avevano subito attirato la mia attenzione. Ma cosa propone il loro "Totentanz"? Una varietà di riff e sound non indifferente, che passa da atmosfere desertiche a post rock/metal mediante elaborati passaggi progressivi ben strutturati, quasi matematici, che ricordano però, più che un math rock, una venatura molto Tool. Il disco inizia con la kyussiana apertura di "Punctum", che mostra già da subito un cuore tutto post metal dai riff possenti e distorti, nonché armonizzazioni melodiche ben studiate che ricordano la psichedelia più melodica dei Grails. "Bivirga" rappresenta un passo avanti a livello di composizione rispetto al precedente. Comincia con un aspetto cupo, prima alleggerito da un sapiente utilizzo del synth, poi appesantito da un riff potente che tende sin da subito ad evolversi. È ancora più marcata la venatura Tool, specie nella seconda parte, dopo lo stacco di basso che pompa il suono fornendo un bagliore di luce attraverso il quale passa un'onda decisamente post rock. Non è un caso che "Podatus" e "Quilisma" siano posizionati nella parte centrale dell'EP: i due pezzi coesistono simbioticamente, letteralmente. Dove finisce uno comincia l'altro, anche perché ascoltando solo "Podatus" si ha l'impressione che manchi qualcosa. Questa parte grezza procede per lo più secondo armonizzazioni e muri d'effettistica alternati a parti più statiche. Poi però parte "Quilisma" e tutto trova il suo perché: una grande quantità di energia si libera per quasi metà pezzo, stroncata poi da una matrice prettamente post rock molto armonica che si chiude nuovamente con riffatura statica. Con "Episema" prevale la componente matematica, ma le armonizzazioni sono le vere protagoniste e torniamo così a sentire qualcosa dal sapore di deserto roccioso. Il disco si chiude con il pezzo più lungo, "Liquescenza", quasi 8 minuti che lavorano molto sul cambiamento del muro di suono. Nomen omen, le parti più tranquille sono assolutamente "acquatiche" e la composizione è molto complessa proprio a sottolinearlo. "Totentanz" è un EP molto dinamico, consigliato ai seguaci del post metal strumentale in generale, ma anche a chi vuole trovare ispirazione per dipingere o scolpire. Ma soprattutto consigliamo vivamente di ascoltare Giuseppe Gravina, Fabio Savino, Danilo Camassa e Francesco Volpi dal vivo, non ne rimarrete delusi. Gianmarco Morea
NEUROSIS – Given To The Rising
Notte, mare aperto, tempesta. Siete su una barca in balia di enormi onde schiumose, come un cane idrofobo. Remate con tutta la vostra forza verso la riva, ma la fatica vi piega la schiena. Il cielo rovescia tonnellate di acqua, il mare sembra si voglia congiungere con esso. Il dolore che provate nelle viscere vi acceca, impedendovi di far fronte alla corrente marina.Vi svegliate sul bagnasciuga, il mare vi ha rifiutato e gettato sulla terra ferma, bagnata e fangosa a causa della pioggia torrenziale. Cadaveri di animali, relitti di barche e piante vi circondano. La testa vi pulsa sempre più forte, la disperazione ormai è padrona del vostro corpo, siete terrorizzati e deboli. Vi alzate cercando con lo sguardo un riparo dal temporale. Vi dirigete verso un promontorio roccioso a picco sul mare. Trovate un antro buio da dove arriva un vento gelido, come un ululato concavo: entrate, ma il freddo vi fa cambiare idea. Dalle profondità della terra sale un puzzo di morte e malattia. Cercate quindi di uscire, ma il buio e le ombre vi afferrano per le caviglie e vi tirano verso l’abisso. La terra vi inghiotte, e voi perdete i sensi, ma non ne siete convinti: la realtà e gli incubi si mescolano fino a fondersi in una visione di dolore e vacuità senza fine. La vostra coscienza vacilla, ma capite quanto sia necessario arrivare all’origine di tutto questo, all’origine del dolore umano. In ginocchio procedete sempre più in basso, verso l’abisso, e ogni passo è una coltellata al petto, tanto che la sofferenza fisica tende a svanire, lasciando spazio a quella psichica. Sempre più in basso, verso l’origine di tutto, per capire, per purificarsi da tutto. Eccola, in fondo, una piccola luce nera, un sole eclissato da se stesso. Matteo Castellini
NIBIRU – NETRAYONI: Ritual I the Kaula’s Circle & Ritual II Tears of Kaly
Nibiru è un'esperienza limite tra misticismo, fantascienza e psichedelia estrema. Qui confluiscono forme di drone alternativo incastonato in momenti di black atmosferico, passaggi sludge e extreme experimental psych. Come dire, Burzum incontra i Pink Floyd che a loro volta si imbattono negli Electric Wizard ed urtano i sunn O))) sciogliendosi in un abbraccio con Can, Ufomammut, Orthodox e Windhand. Nibiru è un viaggio allucinogeno fatto di visioni apocalittiche, sumeri babilonesi, Sitchin, il dio Marduk ed il pianeta Tiamat, il Tibet e altre antiche forme mitologiche. Tuttavia c'è dell'altro: la psichedlia spinta dei ragazzi di Torino cela messaggi occulti di estrazione satanica, frutto del retaggio black, un affascinante mondo immaginato e narrato a partire dagli scritti degli antichi sumeri e dello stesso Sitchin. Lasciando agli ufologi l'incombenza dell'interpretazione, la musica dei Nibiru potrà risultare a molti ostica. La loro proposta è totalmente immersa nella psichedelia ritualistica, nell'ipnotismo e nello sperimentalismo. Il consiglio è di essere avventurosi: addentratevi senza remore nell'insano mondo dei Nibiru e scoprirete un universo per menti aperte. L'album è un doppio in edizione limitata a 300 copie, scaricabile su Bandcamp. 95 miniuti di puro ostracismo psych! Nota a margine: la band aveva precedentemente esordito con il debutto "Caosgon", per cui chi aveva già apprezzato lo sforzo precedente, non potrà far altro che riconfermare tale apprezzamento. Se non aumentarlo. Antonio Fazio
Niggght – Violent Delicacy
Violent Delicacy dei Niggght è uno dei dischi rivelazione del 2019. Parliamo dell'EP d'esordio di questo progetto che arriva da Montréal e vede protagonisti il frontman dei Dopethrone, Vincent Houde (voce, basso e chitarra), e il suo compare Double D, impegnato tra batteria, sintetizzatori e macchinazioni infernali. I Niggght vengono descritti dal loro ufficio stampa come Nick Cave + Massive Attack + Eyehategod. Accostamenti azzardati ma tremendamente corretti. Questi quattro brani, esilaranti e terrificanti in egual misura, sono infatti un mélange sonoro di deliri etilici e morbosità. Un glorioso crogiolarsi nella violenza che racconta di come l'alcool sia capace di far calare la gioia e l'oblio sulla nostre menti. Loro lo etichettano come sleazy blues, che pure suona bene. D'altronde Hell Rising, con quella chitarra slide tutta tensione e liberazione, è subito pronta a dimostrarlo. I'm a demon on the go, canta Vince nell'iniziale Leavin', accompagnato da una soave voce femminile su un refrain che non si dimentica facilmente e da un andamento in slow-motion che suggerisce emozioni depravate a fior di pelle.

Niggght, Violent Delicacy: sleazy blues alcolico

Rudolph è la renna dal naso rosso di Robert L. May, che invece di illuminare e rendere visibile il sentiero a Santa Claus si dedica al gin a buon mercato. Una perfetta Christmas song per serial killer (non a caso i Niggght si sono formati due anni fa durante una buia notte di Natale), suonata come se alla Vigilia a tavola o meglio ancora sotto l'albero ci fossero Mike Williams e Jimmy Bower a farvi gli auguri. Sloppy Drunk, cover di Sloppy Drunk Blues di Lucille Bogan (ma la sua prima versione va fatta risalire al misterioso armonicista Sonny Boy Williamson I, morto durante una rissa nel giugno del 1948), chiude il cerchio parlando di ubriacature moleste e di come ci si sente ad essere sbronzi. Altro che Lord, Oh Lord. Completa l'opera l'artwork degenerato di Alexandre Goulet, che fa molto queer e Rocky Horror Picture Show. Attendiamo con ansia il full-length: bottiglia alla mano. https://www.youtube.com/watch?v=NCBPpgWXhZ4   Alessandro Zoppo
Night Beats – Rajan
Continua il suo viaggio ad alta densità lisergica il nostro Lee Blackwell, al secolo Danny Lee Billingsley. Dopo aver omaggiato i Sonics risuonando per intero il loro classico Boom del 1966 e dopo il riuscito Outlaw R&B, per i Night Beats è arrivato il momento di quello che è il loro capolavoro: Rajan. La loro lisergica messa gospel era stata già apprezzata dal vivo. Ma non tragga in inganno l’influsso orientaleggiante dell’iniziale Hot Ghee: il vinile si muove sinuoso nella metà degli anni Sessanta, partendo da garage e sfiorando la lounge music e l’eleganza di Burt Bacharach. Indicazione vividissima da dove venga il sapore di quest’album è Thank You, una citazione diretta ed incosciente del classico Sunny di Bobby Hebb. Nightmare e Dusty Jungle percorrono la black music nella stessa maniera del coetaneo Curtis Harding – seguitelo se siete devoti della tride Marvin Gaye, Isaac Hayes e Curtis Mayfield: ne rimarrete incantati. Le chitarre girano su ritmi funk e soul, il distorsore è quasi bandito e le raffinatezze pop di Serge Gainsbourg fanno capolino a più riprese: calore bianco e calore nero uniti senza sforzo apparente. È questo il miracolo del disco. Ambrose Kenny Smith dei King Gizzard & The Lizard Wizard è l’ospite speciale in Osaka e tutto magicamente punta al motorik sound dei Neu! di Klaus Dinger e Michael Rother. A chiusura dei solchi arrivano 9 to 5, scuola Motown algida al cloroformio, e Morocco Blues, curiosa e riuscita collisione tra country a stelle e strisce e circolarità nordafricana. Dedica in calce alla madre. Questo ci fa capire direttamente quanto ci possa tenere David Lee Blackwell a questa manciata di brani. L'uscita è congiunta Suicide Squeeze Records e Fuzz Club. https://www.youtube.com/watch?v=SvYnkbwI-VI&ab_channel=NightBeats  

Eugenio Di Giacomantonio

NIGHT GAUNT – Night Gaunt
I Night Gaunt sono un quartetto romano nato nel 2013 col nome Hypnos. La band adotta il nome attuale ispirandosi agli incubi giovanili di H.P. Lovecraft, narrati poi in alcuni dei suoi scritti. GC (voce e chitarra), Zenn (chitarra), Arras (basso) e Kelèvra (batteria) giungono all'esordio nel 2015 con questo album edito dalla sempre attenta label genovese BloodRock Records, fiera etichetta che si prodiga all'interno dell'underground doom, heavy psych, prog, space e dark. La proposta dei quattro è proprio un doom metal tradizionale basato sulla vecchia scuola del genere: ritmi lenti e cadenzati riff heavy, atmosfere cupe ed ossessive (salvo rare accelerazioni). Insomma, gli ingredienti tipici della cosiddetta musica del destino.
Nessuna concessione a sperimentazioni e poco spazio alla ricerca sonora. Suoni dilatati ed opprimenti da manuale del doom quindi, con le liriche che trattano temi quali la paranoia e la psicosi. Il disco ha i suoi punti di forza nell'omogeneità opprimente e rituale. I ragazzi giocano con la materia non cadendo nell'ovvio: seppure figli della stessa catarsi, i brani – non facilmente assimilabili – non mostrano mai ripetività. Le influenze vanno ricercate nei classici Saint Vitus, Paul Chain, Cathedral e Celtic Frost. Le vocals di GC si rifanno proprio a Tom Warrior in diversi momenti, mentre in altri ricordano a tratti anche Michael Puleo degli Orodruin e Carlo Castellani dei Focus Indulgens.
Un lavoro onesto e profondo, fatto da ragazzi che amano il genere ed esso omaggiano, lodevole per l'impegno e l'esecuzione. Andrebbe rivista soltanto la scrittura, non particolarmente originale; ma la scelta l'abbiamo precedentemente ed ampiamente spiegata. Doom & gloom forever è il messaggio dei capitolini, uniti dal patto "inchiniamoci all'altare del riff". Per amanti ed oltranzisti del genere. Antonio Fazio
NIGHTSTALKER – Superfreak
Nuova uscita proveniente dal pianeta Meteorcity. I Nightstalker sono un trio che arriva dalla Grecia. Hanno un buon seguito di pubblico soprattutto in patria dove si sono fatti conoscere suonando in vari festival ed esibizioni varie. Ora si rifanno vivi, dopo ben quattro anni, con questo album numero quattro intitolato “Superfreak” che non si discosta di molto dalle precedenti sonorità udite sin qui dal gruppo. Vale a dire un potente e trascinante stoner’n roll ben suonato (i nostri sono in giro dai primi anni 90) con influenze southern sullo stile di gruppi quali Monster Magnet, Kyuss e Clutch.Quindi se vogliamo nessuna novità di rilievo. Dove però il trio ha fatto progressi è a livello compositivo. I brani sono ben strutturati e la band dimostra di saper maneggiare la materia con cura e abnegazione. Abbiamo parlato di Monster Magnet. Ed in effetti il gruppo di Dave Wyndorf viene a galla in brani come la title track, “Enough Is Not Enough”, “Baby, God Is Dead” o nella spiritata “Gun”, oltreché nella voce del cantante Argy (che tra l’altro stupisce per la straordinaria somiglianza con Rob Zombie). Altrove vengono in mente certi Black Sabbath (“The Pain Goes On”) e i già citati Kyuss, ad esempio nell’affascinante space blues “Learn to Fly”, forse il brano migliore della raccolta. Un buon lavoro nel complesso dove non tutto funziona per il meglio ma la personalità non fa loro difetto. Cristiano Roversi
NIGHTSTALKER – The Ritual/Just a burn
Il nome Nightstalker suonerà sconosciuto ai più. In realtà stiamo parlando di una vera e propria istituzione nell’ambito hard & heavy greco, una delle band in giro da maggior tempo (il loro esordio, “Side FX”, è datato 1994, ma i tre sono in giro dall’inizio dei ’90) e che dal vivo riscuote in patria una vasta eco e grandi successi. Dopo “Use”, lavoro del 1996, del gruppo si erano perse le tracce a causa di vari vicissitudini e cambi di line up. Tuttavia mai dire mai. I Nightstalker sono tornati nel 2000 con “The ritual” e oggi con “Just a burn”.Il loro rock non è però cambiato. Tendente allo stoner e all’hard dei ’70, imbevuto di soluzioni lisergiche e tosto come un pugno allo stomaco. “The ritual”, mini di cinque pezzi, riprende proprio su questa scia, seppur con qualche pecca. L’iniziale “Galactic revolution” è infatti un brano heavy psych caldo e acido, che richiama alla mente i Monster Magnet di “Superjudge” e “Dopes to infinity” ma che rivela qualche carenza in fase di composizione. L’esecuzione è ottima, sprizza energia lisergica da ogni singola nota, manca tuttavia quel guizzo melodico che avrebbe reso il piatto ancora più ghiotto. “Hide your sun” e “Iron horse (born to lose)” giocano invece sull’hard rock maggiormente melodico e meno psych, cadenzato nelle ritmiche e pachidermico nei riff, molto ben riuscito nella commistione di pesantezza e soluzioni armoniche. Mentre “Never know (Supersonic)” è puro rock'n'roll grezzo e diretto (poche concessioni melodiche e impatto devastante, giusto qualche sprazzo psichedelico per tirare il fiato e poi di nuovo via, giù di chitarre selvagge e vocals coinvolgenti) e “Missing link” affronta la psichedelia classica lasciando fluire i suoni in grande libertà, senza schemi o barriere. In questo caso i risultati sono davvero stupefacenti (in tutti i sensi...) e smuovono con grande intelligenza e acume le cellule cerebrali dell'ascoltatore. Passano quattro anni da “The ritual” e si giunge all’ultimo “Just a burn”. Titolo azzeccato per una svolta sonora che abbandona quasi del tutto i vortici heavy psych e si getta a capofitto su un rock’n’roll “piacione” e senza tanti fronzoli. Proprio come accaduto ai Monster Magnet, con i quali i Nightstalker sembrano proprio tracciare un interessante parallelo. Infatti, in brani come “All around (Satanic drugs from outer space)”, la title track o “Silver shark”, il sound vira verso orizzonti meno psichedelici e più hard rock’n’roll: in questo senso la band sembra seguire pedissequamente la svolta che i Monster Magnet hanno affrontato a partire da “Powertrip”. Un suono più potente, rozzo e divertito, con meno pause lisergiche e più riff imbastarditi insomma. Tanto che “Line” sembra fare il verso in tutti i sensi alla “Spacelord” di “wyndorfiana” memoria. Altrove ovviamente predominano altri suoni. “Esplode” è una ballata elettroacustica dal sapore amaro, decisamente malinconica e carica di nostalgia; “Voodoo u do” è un heavy blues godereccio e lascivo, i cui perni sono la voce vissuta di Argy e l'impasto sonoro generale, ottimamente amalgamato nella base ritmica e nel lavoro solista delle chitarre di Tolis. “Iron” e “Give it all” rinverdiscono i fasti dello stoner sound potente e groovy, coinvolgente nei chorus e dal tiro micidiale, mentre “Shadows” è l’epilogo del disco, psichedelia soave e leggera, giocata su una sospensione lisergica da viaggio nel cosmo. Molti storceranno il naso o non approveranno la direzione intrapresa dai Nightstalker. “Just a burn” è invece un disco che diverte ed appassiona, oltre che un buon viatico per conoscere una band che rischia di passare del tutto inosservata. Alessandro Zoppo
Nijls – Il disco di pietra
Benvenuto lettore in questa storia fantastica dove luoghi ed ere storiche non hanno motivo di esistere, dove arti e mestieri si incrociano in un’esperienza unica. Le arti e i mestieri che si incrociano sono quelle del fumetto e della musica, in una contaminazione riuscita a nome Il disco di pietra dei piacentini Nijls. La prima considerazione da fare è sul progetto: il fumetto deve essere letto in sincronia con l’ascolto dell’album ed in nostro aiuto ci viene incontro una timeline disegnata in fondo a ciascuna pagina. Detto questo, cosa vi ricorda la commistione di musica ed immagini? Il cinema? Ecco! Certo, ci troviamo di fronte più ad un videoclip che ad un nuovo 8 e ½ di Fellini, ma la determinante che scaturisce dall’ascolto/lettura è quella di un terzo elemento ulteriore rispetto al solo ascolto o alla sola lettura. La storia spassosa narra di una congrega di quattro centurioni romani in viaggio verso il ritrovamento del pugnale ligure, arma forgiata all’alba dei tempi e custode delle anime dei guerrieri caduti. Per arrivare alla vittoria finale dovranno sconfiggere il golem di pietra e un esercito di giapponesi (!). Il fumetto introduce anche le figure dei quattro musicisti chiamati Centurione Valerio XIX, forgiato nella grappa e nel lardo delle costolette di maiale; Androide Markingenio, creativo, geniale e tiratore di sole intergalattiche; Toseland Tosynsky, creatore delle basse frequenze e fastidioso per natura; Maledetto))), mastro birraio casalingo e gran conoscitore delle sei corde. Dalla parte della musica, troviamo un viaggio strumentale di una mezz’oretta circa che viaggia su elementi Red Sparowes, Pelican, Godspeed You! Black Emperor et similia. L’elemento heavy psych è predominante rispetto al post rock o all’art rock: ci si assicura insomma di non annoiare l’ascoltatore nella reiterazione all’infinito dei soliti quattro accordi. In un certo senso potremmo associarli ai vicini Da Captain Trips, al netto di visone in LSD e con una spruzzatina di metallo pesante. La questione è come dar seguito ad un così bell’esordio senza ripetere la stessa formula. Ma i ragazzi sono simpatici e bravi: sapranno sorprenderci senza ripetersi. O magari daranno vita ad una vera e propria discografia/collana che prevede ad ogni uscita un CD associato ad un supporto diverso. https://www.youtube.com/watch?v=BlPavNj7B94

Eugenio Di Giacomantonio

NINE – Killing AngelsKilling Angels Killing Angels
Puro rock’n’roll dal freddo nord dell’Europa. I NINE sono di casa a Stoccolma, capitale svedese, e devo dire che si sente. Per chi ama gruppi come Entombed, High on Fire, Turbonegro questi vichinghi sono una manna dal cielo. Veniamo al disco in questione: Killing Angels è uscito per Deathwish nel 2004, mettendo subito in chiaro una cosa: il rock’n’roll lo sanno fare proprio bene questi svedesi. Rifferama di porfico, voce costruita in anni di Jack Daniel’s, sezione ritmica quadratissima e sempre ricca di groove. Brani come l’opener “Inferno”, o il singolo “Watching The Train Go By” ne sono una efficace testimonianza: canzoni veloci, dirette, senza fronzoli inutili, adatte al contesto live come il proverbiale cacio sui maccheroni. Ma le sorprese non finiscono qui: anche in brani più atmosferici come “Anxiety Report” i Nostri mettono a segno un bel colpo, proponendo una canzone fondata sulla voce graffiante e su una chitarra melodica dal sapore dardeggiante e sfacciatamente scandinavo. Certo, la varietà e l’originalità non sono i punti forti dei NINE, ma se cercate un ottimo disco Rock’n’roll, avete trovato pane per i vostri denti. Matteo Castellini
NONE DARE CALL IT TREASON – Preparing for the quiet wars
Solitamente quando si pensa alla Florida il nostro immaginario si indirizza verso belle ragazze in bikini e spiagge assolate… mai come in questa occasione tale preconcetto può risultare sbagliato! I None Dare Call It Treason giungono infatti da Miami e dopo una lunga militanza in acts storici della scena hardcore (il singer Adel Souto nei Timescape Zero e il chitarrista Bryan Elliott nei First City Militia) hanno dato vita a questo progetto che esprime in musica un concentrato di rabbia, violenza e frustrazione. Il substrato hardcore è ben evidente nelle 5 tracce che compongono questo dischetto, a partire soprattutto dall’iniziale “Plague”, veloce proiettile punk che ci centra in pieno volto. Tuttavia la vena oscura e distruttiva dei quattro si espande oltre comprendendo nel proprio stile un amalgama di generi e forme che vanno dal doom cinereo allo sludge più marcio, passando per inserti heavy psych e bordate in pieno thrash style. Sono soprattutto le chitarre ruggenti di Elliott e le vocals divise tra growls e urli hardcore di Souto (unite a lyrics che spaziano dal visionario al crudo e realistico, basta leggere il testo di “A poem of love and death for someone whom i love, but must die”…) a dare una marcia in più a questo lavoro, compendio necessario per capire come debba evolversi la concezione estrema della musica oggi. Pezzi come “Senor Bueno vs. Mr. Fistface” e “All I have is my shadow” mostrano come possano convivere doti compositive eccellenti, capacità tecniche elevate (la sezione ritmica, Alex Fuste alla batteria e Randall McMillan al basso, fa faville) e la creazione di un wall of sound che definire compatto è poco. Se amate tutto ciò che è estremo e multiforme, fare vostro questo dischetto: i None Dare Call It Treason potranno soddisfare benissimo i vostri istinti di sovversione sociale… Alessandro Zoppo
NORTHWINDS – Chimeres
Uno dei ritorni più lieti del 2006 è stato senza dubbio quello dei Northwinds. Band francese che giunge al terzo disco dopo il capolavoro “Great god Pan” e il mezzo passo falso (rispetto al debutto, ovvio) “Masters of magic”. Nel caso di “Chimeres” si tratta comunque di materiale composto tra il 2000 ed il 2004 e soltanto oggi arrangiato e suonato. Ciò non implica anacronismi o scarti dalla dubbia qualità, tutt’altro. Il sound che contraddistingue il gruppo è percepibile sin dai primi secondi e conferma le grandi qualità dei Northwinds.Il loro sinuoso misto di doom, progressive, metal classico e folk rapisce come ai tempi degli esordi. Se ci si aggiunge una ottima produzione si capisce come “Chimeres” sia un album da assaporare dal primo all’ultimo ascolto. “Master of magic”, “Never never land” e “Crystal ball” riprendono in pieno le atmosfere magiche e fatate dell’esordio, una delicata alternanza tra arpeggi soavi, il dolce suono del flauto, oscuri riff ‘sabbathiani’, melodie ammalianti e brusche accelerazioni. “Dusty pictures” è una luminosa avventura doom progressiva, caratterizzata da un riffing groovy, ariose tastiere ed inserti acustici che ci immergono nel pieno della natura francese, boschi selvaggi e aperture verso mondi fantastici. Se “Le cercle des fées” con le sue atmosfere romantiche - appesantite dal dovuto lavoro sulle chitarre e le ritmiche di chiara ispirazione doom - evoca la tradizione del progressive francese (Ange e Atoll su tutti, non a caso i primi vengono omaggiati con una pregevole cover di “Le soir du diable” – accoppiata ad un’altra grande cover, quella di “Friends of hell” dei Witchfinder General), “Life on the run” è invece un brano più immediato, il cui chorus si stampa immediatamente nel cervello, accompagnato in modo splendido dal lavoro delle tastiere. Una lentezza paralizzante dai toni drammatici che connota anche la bellissima “Winds of sorrow”. Infine, per chi ancora non fosse convinto dell’acquisto di questo disco, ricordiamo che nella versione in vinile ci sono due bonus track (tra cui la cover di “Dragons and fables” degli Hawkwind) e che in allegato al cd c’è un appetitoso dvd con il video di “Winds of sorrow” e due estratti dall’esibizione della band al Doom Shall Rise del 2004. Save me from this low valley, when the winds don’t blow… Alessandro Zoppo
NOSCRAPE – Noscrape
Non è proprio semplice dedurre quali effetti collaterali possa recare sugli ascoltatori il terzo "demo" (un'ora e mezza ! compresa la chilometrica ghost track !) dei Noscrape, quintetto di Bergamo tra i più estremi degli ultimi anni: il loro sludge/stoner è un insieme di radicalismo, pesantezza e abominevole devianza acida da lasciare basiti, e qualche difficoltà la avrebbero pure orecchie martoriate da anni... i nostri infatti ci sommergono di puro nichilismo sonoro alla Nightstick, Burning Witch, Melvins, esagerandone l'aspetto parossistico, completamente refrattari a qualsiasi concessione di speranza vitale.Sono comunque competenti nel farlo, e a loro modo evoluti, visto che l'apporto del synth dona una leggera aura sperimentale - sempre rigorosamente paleolitica - come già si evince dalla prima "The Room Of Smoke" (che rimarrà anche il pezzo migliore): dopo interminabili riff macinati in una betoniera di LSD, intervengono arpeggi grigiastri, solismi in feedback e soffi tastieristici da ripresa di coscienza, che ben descrivono il passaggio dallo stato di morte apparente alle prime funzioni corporee. "Hellfire" è ancor più soffocante ed emerge un'insospettata vena noise-crusty nell'inferno sludge, ma - anche se non immaginabili - le prove di forza devono ancora arrivare: "Stoning No.1 - Panzo On The Cross (b2)" che altri non è che la "Jerusalem", "9 Joint Spiritual Whip" o "Absolute Ego" dei Noscrape, marcia e putrefatta, ovviamente non ai livelli delle sopracitate, ma che risulta interessante visto che i Noscrape ricorrono di tanto in tanto anche a riff più fluidi (sempre seppelliti nel caos organizzato), e "Rastafari", ennesima mezzora, ma stavolta di pseudo-dodecafonia analogica. Non siamo ancora al capolavoro, ma i Noscrape si difendono bene, soprattutto se pensiamo a quella parte di sperimentatori con pretese intellettuali: qua c'è nefandezza, ribellione e rigor mortis, prendere o lasciare. Roberto Mattei
NOT BLIND – EaRthiCidE
Dopo l'esordio nel 2010 con un demo, arriva il primo full-lenght per il quintetto lodigiano nOt bLiNd. Intitolato "EaRthiCidE", autoprodotto con l'aiuto e il supporto di Valter Marchesoni, è il mezzo attraverso il quale il gruppo decide di esprimere tutto il proprio disagio verso un'umanità responsabile del degrado morale e sociale che impera nella civiltà moderna. Le coordinate musicali e l'ispirazione che hanno portato alla realizzazione di questo lavoro sono subito chiare. Ci troviamo di fronte ad un alternative metal a tinte groovy, debitore di gruppi come Godsmack, Disturbed, Soulfly e Korn. Basti pensare all'incedere ritmato e ai break del pezzo di apertura, alla compattezza di "dEad mAn WorKinG" o all'esotismo di "tAXi".Le sfuriate più propriamente thrash di "n.E.J.u.L., la nevrosi a tinte southern di "InFaNNo MeDiAtiCo" e il tribalismo urbano di "stAy HUmAn" rappresentano forse i migliori momenti di "EaRthiCidE". Che troppo spesso tende a perdere spinta ("mY bRo", "RuStEd fAith", "gLobaL SwArMinG") e a rimanere nell'anonimato di un genere che probabilmente ha dato il meglio di sé nei primi anni del nuovo millennio. Degna di nota risulta essere la cura con cui è realizzato il booklet dell'album. Tirando le somme di può dire che la proposta dei nOt bLiNd anche se a tratti risulta granitica, soffre di mancanza di originalità e personalità per proporre un discorso più elaborato che si distacchi dai modelli di riferimento. Sembra quasi che il tentativo di rivitalizzare un genere che ultimamente ha poco da dire sia da rimandare a data da destinarsi. Giuseppe Aversano
Not Moving – Live in the 80’s
Parlare dei Not Moving è come evocare un fantasma che ci appare di notte, ci indica la strada da seguire e scompare nel nulla. Gruppo fondamentale nell’Italia musicale degli anni ‘80, coraggiosi, innovativi e provocatori, con il loro suono tagliente, energico, oscuro, devoto all’high energy rock di scuola Detroit (The Stooges, MC5), alla psichedelia dei Sixties (13th Floor Elevators, The Seeds, The Sonics), al punk scuola New York (Dead Boys, Real Kids) e soprattutto al rock grezzo, minimale e dannato di Cramps e Gun Club. Insomma, una tremenda miscela dove punk, rock’n’roll, psych, beat, surf, blues, garage, punkabilly e new wave trovavano sfogo e definitivo compimento. È grazie alla Go Down Records se a 25 anni dalla loro formazione la band è tornata in pista con una reunion (conclusasi lo scorso settembre, anche in questo sono da esempio per tanti, troppi gruppi del passato che speculano sulla propria storia), una serie esclusiva di date e questo album celebrativo che rappresenta una vera e propria delizia per appassionati e semplici curiosi. Dany D. (basso), Tony Face Bacciocchi (batteria), Lilith (voce), Dome la Muerte (chitarra, voce) e Maria Severine (tastiere) sono colti nel loro momento di massimo splendore. Ventuno tracce e tre bonus track (dallo storico concerto di Torino del 28 maggio 1982), esibizioni dal vivo registrate tra il 1985 e il 1987 nelle quali si rivive in pieno lo spirito dell’epoca e si respira ancora la sconcertante attualità di lavori quali “Strange Dolls”, “Sinnermen” e “Jesus Loves His Children”. Tutto suona spontaneo e ‘rock’, nel senso pieno del termine. A partire da un pugno di esemplari cover come le ‘crampsiane’ “Baron Samedi” e “Psycho Ghoul”, “Wipe Out” (dal repertorio dei Surfaris), “I Just Wanna Make Love to You” (Willie Dixon riletto dagli Stones) e “Break On Through” dei Doors. Ma sono i classici dei Not Moving a fare la parte da leone: il punk beat di “Spider”, il rock’n’roll sfrenato e abrasivo di “Time of Resurrection”, le vibrazioni surf di “Dog Day”, il blues infuocato e sexy di “Cocksucker Blues”, l’acid rock notturno di “So Far from Heaven”, il grezzo punkabilly di “Goin’ Down”, il groove mozzafiato costruito su hammond e fuzz di “Stupid Girl”. Solo per citarne alcuni. Allegato al dischetto troviamo un ottimo documentario (per contenuti, non altrettanto si può dire della realizzazione tecnica, ma poco importa) dove è ripercorsa la storia del gruppo e sono presenti numerose testimonianze di chi ha vissuto in tempo reale questo straordinario fenomeno. Giornalisti e musicisti (da Claudio Sorge a Gianni Maroccolo, passando per Umberto Palazzo, Federico Guglielmi, Cristiano Godano, Max Pezzali e tanti altri) ricordano quello che oggi come allora si può definire una della maggiori ed influenti rock band che l’Italia ricordi. Fate vostro questo dischetto: è un obbligo. https://www.youtube.com/watch?v=5i5SyVV-rTw

Alessandro Zoppo

Not Moving – Live in the Eighties
Ci vorrebbe una vita per raccontare la storia dei Not Moving e di Dome La Muerte (in parte è stato fatto da Dome stesso nella bella biografia Dalla parte del torto, scritta a quattro mani con Pablito el Drito) e di tutti quei progetti in cui si è imbarcato il nostro. Per rimanere in attualità strettissima ricordiamo le puntate su OttolinaTv (“la Tv dei Boomer alla conquista dell’Internet”) in cui Dome si apre senza filtri ai telespettatori, dimostrando una conoscenza diretta del rock’n’roll degli ultimi cinquanta anni davvero notevole e una nobiltà d’animo senza precedenti. Ma tornando al dischetto in questione, questo Live in the Eighties dei Not Moving, siamo al cospetto di una fotografia storica del miglior punk rock del Belpaese, già evocata dalla Go Down con un'uscita celebrativa ai tempi della prima reunion. È una band zozza, putrida, consumata, quella che esce fuori dai solchi. La stessa miscela di mid Sixsties punk, psichedelia acida, rock’n’roll delle origini che ha nutrito menti malate come Rudi Protudi e Lux Interior. Qui la vediamo colpire tra i vicoli di Pisa, nello stesso periodo. E quello che ne viene fuori è una band folle, spericolata, loser fino al midollo. Riascoltare oggi queste registrazioni ci fa venire in mente che la band fa del rock la sua ragione e forma di vita. Tutti treni in corsa i pezzi: guidati dalla chitarra fuzzosa di Domenico e dal drumming serrato di Tony Face, colpiscono allo stomaco in maniera dura, con lo sguardo torvo e attitudine no compromise. C’è anche il tempo per ringraziare i numi tutelari che in questo caso e per pura coincidenza sono Rolling Stones, The Doors, Willie Dixon e Elvis Presley. Ma immaginiamo che in quegli anni i Not Moving infiammassero il pubblico con l’interpretazione violenta dei propri pezzi, in una decade decadente in cui synth e capelli cotonati andavano per la maggiore. Lunga vita a Dome! https://www.youtube.com/watch?v=8fXx0hEc40w

Eugenio Di Giacomantonio

NOVASMOKE – Double mine plus four
Bella sorpresa questi Novasmoke, band inglese (di Newcastle per la precisione) attiva ormai da quasi sette anni e già nota negli ambienti stoner grazie ad una serie di ep (“The Demon” del ’98, “Curb crawl ball” del ’99 e “The Unwashed masses” del 2000) e al disco autoprodotto “3000 Miles to the perfect monkey”, uscito nel 2001. A distanza di due anni (il promo è del 2003) tornano in pista con l’ennesimo minicd, altri cinque pezzi che testano l’abilità e la bravura dei quattro nel mischiare tonnellate di potenza, groove avvolgenti e melodie appiccicose. Mai ruffiani o fini a se stessi, i Novasmoke cercano una via personale allo stoner rock elaborando brani semplici e diretti, interpretati con grinta e la giusta dose di cattiveria, tenendo sempre a mente la strofa esatta ed il chorus che fa presa immediata. Ed è proprio su questo altalenarsi di emozioni che si gioca l’intero lavoro: se infatti “Ants” e “Moment” sono due macigni di stoner ruvido e pastoso che si rifanno allo stile torrido degli ultimi Orange Goblin, “Alley & drains” e “Riot” alterano uno stile lineare inserendo al loro interno toccanti parti vocali (come non pensare agli Alice In Chains…) e impalcature sghembe di chiara matrice Queens Of The Stone Age. Non c’è che dire, questo amalgama funziona bene, le chitarre sono in larga parte incisive ma sanno anche essere sognanti, le vocals sono molto ben strutturate e la sezione ritmica regge il tutto con grande dinamismo. Se a questo cocktail ci aggiungiamo anche la conclusiva “Medication”, ballata acustica da brividi lungo il corpo, possiamo senza dubbio affermare che John, Leon, Rob e Colin hanno svolto un lavoro più che egregio. Li attendiamo al varco del disco ufficiale per la consacrazione definitiva. Alessandro Zoppo
NUDE PUBE BANGLERS – New Wave of Norvegian Hard Rock
Certo un titolo altisonante come quello in questione non può passare inosservato e per lo meno far crescere un po’ di legittima curiosità nei confronti dell’album in oggetto.Ufficialmente all’esordio discografico su lunga distanza, i Nude Pube Banglers sembrano dichiaratamente volersi imporre come profeti o quanto meno degni rappresentati di quella che loro stessi definiscono “New Wave Of Norvegian Hard Rock” (NWONHR), sempre che una “old wave” di questa risma possa dirsi esistita. Partendo da questo titolo volutamente (si immagina) provocatorio, viene da chiedersi quanto poi nella pratica la band scandinava faccia del suo meglio per portare avanti questa icona. C’è subito da dire che, nonostante la sfrontatezza, i cinque norvegesi sembrano seriamente intenzionati anche sul piano musicale a rivendicare le proprie intenzioni, anche meglio di illustri predecessori loro conterranei. Il sound è ovviamente quel rock’n’roll con forti tinte ora garage ora punk, sempre dannatamente revival e di buon gusto, manieristico quanto si vuole ma al tempo stesso avvincente ed estremamente godibile. Le 10 tracce in questione si muovono costantemente su binari ben inquadrati di un genere che sembra sempre più vivere una seconda giovinezza, proprio grazie alla scena scandinava che da molti anni oramai può vantare una più che valida scuola, la stessa in cui sembrano essersi formati i Nude Pube Banglers. Per i più affezionati alla causa, per i nostalgici amanti di un sound che sembra destinato a rivendicare una sua seconda giovinezza, la NWONHR farà sicuramente al caso vostro! Marco Negonda
NUMBAH TEN – The end…of the beginning
Continuano a convincere i demos di giovani gruppi stoner provenienti dalla fucina Svezia. Questa volta tocca ai Numbah Ten, giunti ormai alla terza uscita e purtroppo ancora senza un contratto discografico. Sottolineiamo il purtroppo dato che i tre ragazzi (Gregory alla batteria, Mattias voce e chitarra, Per basso e voce) di potenzialità ne hanno davvero tante. Innanzitutto un sound fresco e spumeggiante che pur senza brillare per originalità risulta tosto ed ispirato. In secondo luogo per la registrazione dei brani, impeccabile per un demo. Infine per la bravura strumentale e la vena smaccatamente stoner che anima le composizioni.Appena parte il cd infatti ci si ritrova a muovere testa e piedino sulle note rocciose di “No way out”, focosa track d’apertura che sembra provenire dal cuore heavy psych svedese di Awesome Machine, Dozer e Sideburn. Altrettante emozioni ce le regala “Utilize utopia”, sassata basata su un riff circolare che provoca un piacevole stordimento e sulla prova vocale di Mattias, tanto passionale quanto un novello John Garcia. Ma i migliori colpi devono ancora venire. E sì, perché la successiva “Trip of madness” è il vero gioiello del lavoro: otto minuti di puro heavy rock psichedelico, contrassegnato da un’apertura sognante e dalla successiva colata di riff che gettano la nostra mente nel vortice più acido che possa esistere. Una fusione intelligente di trame e motivi che vanno dalle aperture slow degli Sleep alle mazzate targate Kyuss, per concludersi con una coda jazzata che fa aguzzare le orecchie. Non paghi di tanto splendore, troviamo ancora gioia nel passaggio strumentale della fuzzata “Olympus mons”, nella melodia a presa rapida di “Wicked black fever” (classico pezzo che fa venir voglia di uscire in strada e gridare a squarciagola “stoner!!!”) e nella compattezza della conclusiva “Sea of leaves”. Una chiusura con i fiocchi per una dischetto che non fa una piega e tiene alto il tiro dall’inizio alla fine. Alessandro Zoppo

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