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MAC BLAGICK – Mac Blagick
Che strano gruppo questi Mac Blagick. Il disco che ci propongono è il loro debutto assoluto e a quanto pare i quattro si sono guadagnati una certa fama grazie a stravaganti e coinvolgenti esibizioni dal vivo. Sensazione che viene confermata ascoltando gli otto brani qui presenti: un bizzarro heavy rock, che pesca dall’hard dei 70’s quanto dal metal classico, passando per impalcature progressive, scintillanti folgorazioni sleaze glam e una sana passione per quello che una volta i critici definivano art rock.Insomma, un piatto appetitoso seppur difficile da digerire al primo ascolto. Non basta infatti immaginare una fusione di Thin Lizzy, T. Rex, Sir Lord Baltimore, Iron Maiden, Agony Bag, Alice Cooper e Kiss per comprendere in pieno il contenuto di questo album. Brani epici e possenti come “Domination” e “Lyin’ king” si alternano ad altri melodici e pungenti (la bellissima “Murder”, “Good morning little schoolgirl”), evidenziando le qualità spiccate della band. Che certo non si accontenta, aggiungendo una ballata notturna appesantita a dovere (“Girl of the storm”) o un hard blues libidinoso quale “Stars”. Vocals altamente espressive (il singer Marino Funketti - !!! - passa con agilità dal falsetto a toni evocativi), ritmiche dinamiche, chitarre infuocate che si intrecciano spesso e volentieri. Sono questi gli ingredienti che fanno del gruppo svedese una realtà particolare da tenere d’occhio. Groove, sottili melodie, un alto tasso di spettacolarità. La ricetta dei Mac Blagick è questa. Una esperienza corporea ed erotica oltre che sonora. Alessandro Zoppo
MACROCOSMICA – Farewell to earth
Curioso ibrido di stili ed umori quello dei Macrocosmica, band scozzese che ci aveva già sorpresi con il positivo "Art of the black earth". La natura eclettica del gruppo è evidente a partire dalle passate esperienze dei membri della band: Brendan O'Hare (chitarra, voce) è un ex Mogwai, Telstar Ponies e Teenage Fanclub, mentre Keith Beacom (batteria) e Gordon Brady (chitarra, voce) hanno militato nei grandissimi Bangtwister (se non conoscete "The moon on a stick" rimediate immediatamente). La formazione è completata da Cerwyss O'Hare (basso e voce) e con questo secondo disco bissa i consensi ottenuti con l'esordio di due anni fa.Rock a 360 gradi, che si frammenta e ricompone come in un rapido montaggio, trovando la sua logica nel fluire indistinto di note aspre, calde, contorte. In "Farewell to earth" c'è un po' di tutto, c'è l'indie rock di matrice statunitense, c'è la costruzione complessa dell'art rock britannico, c'è l'heavy psych che fa ribollire il sangue nelle vene, c'è il post rock con la sua mania cerebrale, c'è una componente noise che scuote e sorprende. A tratti si paga dazio in coesione, la complessità esecutiva è materia bollente. Ma ai Macrocosmica il gioco riesce eccome, basta ascoltare l'iniziale "Crater style", emblema del loro suono articolato e multiforme, lo-fi ma dannatamente heavy. Se infatti "Reject amplified" sembra uscire da un disco degli Shellac (o, perché no, da uno dei One Dimensional Man…), la successiva "The casket" ammalia con il suo manto acustico e le sue progressioni emo psichedeliche. Mentre "Live death" e "Torch number one" (costellata dalle sinuose vocals di Cerwyss) rendono spessi e corposi i riff, andando a pescare dall'universo heavy psych che i Bangtwister hanno abbandonato. "Wound" e "Otto" tornano a pestar duro sul tasto del rumorismo, sempre con somma grazia e senza mai esagerare. Così come fa la conclusiva "Five wrongs" quando si tratta di chiudere i conti: otto minuti di splendente psichedelia, di quella condotta da wah-wah aggressivi, atmosfere dilatate e vocalizzi cosmici. Giusto atto finale di una band che è tra le poche a proporre qualcosa di intrigante ed originale nel panorama odierno. Per la serie, quando la parola crossover ha ancora un senso… Alessandro Zoppo
MAD CHICKENS – Kill, Hermit!
Come dice un vecchio adagio, i giovani hanno sempre ragione. Come hanno ragione le Mad Chickens mettendo su una band che si nutre di tutti quei generi che da adolescenti si amano. Post punk, riot girl, crossover e post rock. La rabbia deve trovare uno sfogo. E Valeria, Laura, Maria Teresa e Nicola lo riversano dentro "Kill, Hermit!", album ben composto, ben suonato, ben prodotto. C'è più di una conversione verso le Hole (Courtney Love deve essere un vero e proprio riferimento soprattutto per Valeria, nel modo di cantare) nei contrasti tra piano/forte e tra la dolcezza della strofa con l'urto del ritornello. Ma emerge anche una volontà di trovare una propria strada nei suoni, con keyboards e effetti. Si respira a pieni polmoni l'aria che girava attorno a Smashing Pumpkins, Green River, Nirvana, Screaming Trees, Soundgarden, Stone Temple Pilots e a tutte le altre band che a cavallo tra Ottanta e Novanta, dimenticando l'heavy metal, si riappropriavano di un guitar sound dei seventies mescolandolo a quel totem di confusione sexy dei Sonic Youth. Qualcosa va in direzione basica, come la ballad "Fell in Love" in chiave acustica e qualcosa ripropone riff pescati da un sentito tutto italiano ("Extremely Reflexed in Your Mirror" è "Morire" dei CCCP assorbita e risputata fuori al ralenti ben 30 anni dopo, segno che alcune intuizioni cavalcano il tempo senza perdere un grammo in espressività). Altro tende verso la spigolosità dei white noise come l'uno/due iniziale di "Kill, Hermit! Gun in My Head" e "Mr. Harvey (Lights a Candle for the Glory)", ma il tutto viaggia verso una sintesi compatta tra grunge e post rock. Giovani donne crescono. Rimanere sintonizzati, please. Eugenio Di Giacomantonio
MAD CITY ROCKERS – Black Celebration
Tenere in mano il bel digipack di "Black Celebration" (il cui cd è tra l'altro edito in due versioni, nero e argento, oltre ai vinili rosso e nero) è un motivo di orgoglio per diversi motivi: in primis è un disco sudista caldissimo e viscerale realizzato da musicisti italiani regolarmente iscritti alla Southern Rock Society. Un sound impeccabile e costato sudore, passione, competenza e fede assoluta nel linguaggio del puro rock, quello autenticamente statunitense, plasmato ai Mozart Studios da Kostadin Kamcev: si pensi solo che oltre al meticoloso lavoro in NJ, ci sono state lunghe fasi di mastering e missaggio che hanno coinvolto altre tre sale di incisione (Elefante Bianco e Skylab in Italia - a tal proposito eccellente anche il lavoro di Giorgio Speranza - e il Feldman's Studio a Palm Springs). Dopo aver accantonato 4 pezzi per poter offrire il massimo in termini di resa qualitativa e perfezionato le ritmiche in numerose sessioni, può nascere l'opera prima dei Mad City Rockers, un nome avvolto in toto nella stoffa delle stelle confederate. L'idea parte dal bassista (e produttore) romano Manuel Jensa (ex Ipernova) che vuole assolutamente al suo fianco Angus Bidoli - la Fender infuocata dei Fingernails - forse l'unico a potersi esprimere a certi livelli; poi altri incontri decisivi: il batterista Valter Sacripanti e soprattutto il vincente vocalist Mark Duda, influenzato da Blaze Bailey per quanto riguarda l'impostazione hard, ma dal peculiare timbro desertico e seventies. Non finisce qui, perchè come se non bastasse la terza traccia "Stronger" è interpretata dal mitologico John Garcia, giusto per far capire di quale rispetto godano i MCR dall'altra parte dell'oceano. Ma a parte il giusto tributo a Garcia, tuffarsi nell'ascolto di "Black Celebration" non tradisce di certo le attese. È un album calibratissimo, che trasuda rock duro ispirato, fresco e di livello, senza cedimenti di sorta. C'è il suono di Skynyrd, Black Oak Arkansas, Molly Hatchet, Outlaws, Hermano, ZZ Top, è naturale, ma la strada battuta non ammette repliche: i Mad City Rockers sono soprattutto loro stessi, sin dalla nera ricorrenza dell'esplosiva title-track. La tensione bluesy da spazio sconfinato di "I Still Believe", le soffuse concessioni melodiche di "Stronger" e l'anthem tutto stelle & striscie di "The Colour of a Star" non fanno altro che addentrasi in un ottimo album carico di contenuti. La ballata "Set in My Ways" è degna di un qualsiasi gruppo hard che si rispetti, al pari delle ariose "Fix My Love" e "Sarajevo" e delle arcigne "Scream Bloody Murder" e "Hard Livin' Headlines", tutte indistantemente impregnate di boogie, rifferama sudista e le interpretazioni di classe di Duda. Nell'ultima "Follow the Sun" - dopo qualche istante introduttivo noisy - Jensa, Bidoli e compagni optano per un suono più acido, e possono tornare in mente Blackfoot e Dixie Witch. Lunga vita a questi inossidabili rockers. Roberto Mattei
MAD SIN – Survival of the sickest
Suonare psychobilly per quindici anni e realizzare otto album significa che non te ne frega una mazza di come gira il music business per gli altri, ti basta sapere che gira alla grande per te, e basta! I Mad Sin sono ormai una istituzione europea e testimoniano il rinnovo di una scena che sta cercando di mantenere i legami con la tradizione ma di infondere anche maggiore groove ( segnaliamo anche i Nekromantix e i Tiger Army). Hanno anche avuto una brevissima esperienza major con la Polydor che ha pubblicato nel '98 'Sweet and Innocent? ... Loud and Dirty!!!' per poi scaricarli regolarmente subito dopo perchè poco mainstream. Eppure, se vogliamo soffermarci su questo punto, Survival Of The Sickest ha un grandissimo appeal commerciale, perché suona fresco e coinvolgente, è prodotto molto bene con suoni moderni ma rispettosi del passato, è un disco vivace e gustoso come una sfilza di bubble-gum coloratissime. La formazione è classica del genere: due chitarre ( novità per la band, ma ottima scelta perché il sound spinge di più), un contrabbasso slappato, una scarna batteria picchiata con le spazzole, e una voce 'molleggiata'. Tra le diciassette canzoni spiccano Revenge, energico esempio psychobilly con una coinvolgente coda 'sing-a-long; Sin Is Law tra chitarre 'horror' e atmosfere Misfits e 1000 Eyes, la canzone più rilassata del disco, dolce solo in superficie ma squarciata da isteriche grida femminili alla vista della 'swamp thing'. L'immaginario cinematografico degli horror b-movies anni '50 è fondamentale per capire le tematiche horror-hotroad dei Mad Sin. Tanta cattiveria, attitudine funny, suoni molto distorti, vocals psicopatiche completano il quadro. She's So Bad It's Good è un omaggio alle bad girls; mentre Senseless Generation dimostra come essere veloci ma non rumorosi. Un disco dunque che scorre da favola, che ti tiene compagnia ovunque, in metro come in treno (e non potete immaginare i movioloni che partono…!), divertente e sottilmente maligno. Questa è una delle tante facce del rock'n'roll del nuovo secolo, non si può non tenerne conto. Un pugno (e ghigno) in faccia a chi non trova nuovi stimoli nell'elettricità. Sveglia! Francesco Imperato
MADKIN – Perdone la molestia
Due anime ben distinte animano il progetto chiamato Madkin. La prima vive nell'ipotalamo ed ha memoria della scena di Seattle, con tutte le sue varianti oltreconfine (Stone Temple Pilots); l'altra è situata nella ghiandola pineale, terzo occhio preveggente che guarda agli spazi desertici che circondano il Rancho de la Luna. Le due anime sono tenute insieme da Serena, vera e passionale riot girl che ha più di una onesta infatuazione per Courtney Love e un pezzo come "Bandwagon" sta a dimostrare come si può amare la vedova Kobain senza fargli il verso, ma rinnovando le coordinate: grande riff, elevato tasso energetico e chorus da manuale. Una probabile hit per le radio rock.Ma anche altri elementi navigano nel mare di "Perdone la molestia" , primo album autoprodotto, come la bella coda al sapore Marlene di "Shihong", un tuffo nell'alternative italiano degli anni Novanta, e come "Speeding Bullets" che si abbevera del sacro fuoco Queens of the Stone Age degli splendori di "Songs for the Deaf". Tutto scorre via senza intoppi e la caratteristica che viene fuori riguarda la capacità del gruppo di inserire cose semplici e ben arrangiate in un contesto melodico raffinato. Non si hanno problemi a risolvere le composizioni in anthem orecchiabili, insomma, e tutto questo depone a loro favore. "St. Louis Casno" fa il paio con "Letter from a Unknown" per riaggiornare il concetto della New Wave di Ottantiana memoria con una costruzione stratificata delle chitarre ritmiche; "Silk Dance" nasce nell' humus di PJ Harvey; "Orange Milagres" ha la stessa passionalità degli Smashing Punkins e "Intro for Lovers in Flames" sarebbe potuta benissimo stare all'interno di qualunque Desert Sessions. Il trittico finale abbassa di poco il ritmo ma solo per approfondire l'esplorazione della propria mappa sentimentale, senza essere mai languidi, né tantomeno patetici. Infine bisogna menzionare l'ottimo lavoro di registrazione e missaggio effettuato presso gli Snakes Studio che danno all'album un tono genuinamente internazionale. Noi, dalla nostra, auguriamo ai ragazzi un sano tour oltreoceano quanto prima, in modo tale da far conoscere la loro proposta anche ad una platea non provinciale come quella italiana: cheers! Eugenio Di Giacomantonio
MADKIN – Resig(Nation)
Grunge/punk ruvido che si nutre di suoni alternative e garage senza belletto, quello che furoreggiava già al morire dei ‘plastificati’ anni 80 per opera di Mudhoney, Nymphs, The Gits, e le miriadi di altri che non uscirono mai dalla botola di cantine disagevoli, ad onta del fenomeno di costume che travolgerà i media qualche stagione dopo: questo suonano i Madkin, gruppo capitanato dalla chitarrista/cantante Serena Jejè e completato da Giuseppe (chitarra), Francesco (Basso) e Riccardo (drums). Travolgente r’n’r dal groove bello tosto è la prima “My Zen”, con Serena che le suona a tante starlettes blasonate, mentre più tipicamente costruita su passaggi che cambiano di umore è la seguente “Kid Banf”.La semi-ballata sbilenca “Blue Sun” riporta ai Nymphs o anche a certi Dinosaur jr. in giornate piovose, ed è tra i brani più calibrati del lotto. Aperture psycho marchiano a fuoco “Oblomov”, mazzata di duro grunge ipnotico, e l’atmosfera si inacidisce ulteriormente nelle melodie ad ampio respiro, ma sempre in cima alla punta della lama, di “The Lunar Cycle”. Gran bel dischetto, addirittura commovente nella sua totale dedizione al riot sound, e con cinque canzoni riuscite. Roberto Mattei
MADKING LUDWIG – Madking Ludwig
Una delle rivelazioni 2005 viene dal Canada, il suo nome è Madking Ludwig. Band che ruota intorno alle figure di Stéphane Bellemare (voce, flauto, clarinetto), Sophie Bourassa (voce) e Stéphane Vigeant (chitarra). A completare la formazione la base ritmica, Raphael Corbeil (batteria) e Patrick Falardeau (basso). Cinque personalità differenti e sfaccettate, dalla cui alchimia emerge un sound originale e sorprendente. Immaginate la potenza dello stoner rock (Kyuss, Beaver e primi Queens Of The Stone Age su tutti), la complessità del progressive (pensare ai King Crimson non è affatto un reato, così come a Jethro Tull e Traffic), ampie dosi di psichedelia, hard rock e metal 'voivoidiano' (non a caso alla produzione del disco ha collaborato Pierre Remillard). Il risultato è questo cd di nove brani, ben scritti, suonati e registrati. Tanto più che di fronte ad uno stile così multiforme non si corre mai il rischio di stancare o risultare confusionari.La forza ed il nervosismo 'crimsoniano' rendono "Grains of sand" un inizio scintillante. L'intreccio di vocals tra Stéphane e Sophie funziona a meraviglia, supportati dal lavoro instancabile di basso e batteria e dal riffing sostenuto delle chitarre. "Green giant" ci immerge in pieno 'voivoda', universo tecnologico galleggiante. "Firefly" e "Aqaba" sono lunghe suite heavy psych progressive, tratteggiate da ondate di fuzz e sognanti parti di flauto. "Awake again" e "Spinwheel" hanno invece l'andamento di uno schiacciasassi, ma il macigno oltre che essere 'sabbathiano' è segnato da sopraffini sapori esotici. Mentre "Tumbleweed" è un super heavy funk che viaggia su percorsi irregolari dannatamente pericolosi. Se si pensa a tanta generosità non c'è che stupirsi. Infatti il trip si conclude con lo stoner roccioso di "Double barrel" e la psichedelia epica e suadente di "The walls of Kerak", sigillo finale di un disco che necessita di ripetuti ascolti per poter essere assaporato dalla prima all'ultima nota. i can see a time where i can fly no fear of falling in a hole because now i see what i didn't know memories stay existence goes Alessandro Zoppo
MADRE DE DIOS – Madre de Dios
Dal Mezzogiorno d'Italia, assolato e mediterraneo, giunge l'EP d'esordio dei Madre de Dios. Neonato quartetto barese, fondato nell'agosto 2010 da Stefano "Jesus" Pomponio (chitarra), Gianpaolo "El Mosquito" di Stasi (chitarra e voce, già negli Steiner), dal bassista Gigi "El Flamingo" D'Angella e il batterista Marco "El Ninja" Ninni. Nell'attesa di mettere le mani su un full lenght, vero e proprio terreno di prova, i nostri si cimentano in live e contest, riuscendo a piazzare ottimi risultati. Il loro sound è stoner al 100%, con dosi massicce di hard rock anni 70 e un vago retrogusto di quel grunge così sanguigno ed esplosivo. Stoner di matrice americana, tuttavia molto vicino alla scena italiana, complice la scelta di prediligere canzoni incendiarie e senza compromessi, come nel caso di Gandhi's Gunn e Alcoholic Alliance Disciples.Registrato in analogico presso i Creepy Green Light Studios di Lorenzo "Funj" Signorile, l'EP omonimo si apre con "High Livin' in the Sunshine", esplosione di riff Seventies e amplificatori Orange che rendono perfettamente omaggio a tutti quei gruppi che hanno scelto la strumentazione di Cliff Cooper. "Ordinary Man" è la canzone più orecchiabile ed immediata del lotto, dall'anima blues ma rivestita di hard rock e stoner, con qualche capatina negli anni 80. Comunque sia, un mix di Led Zeppelin, Grand Funk Railroad e southern rock. La voce di Stefano, aka Sgt. Pompeaux, ricorda quella di Zakk Wylde e di Ben Ward degli Orange Goblin: raschiata dal whiskey e bruciata dalla polvere del deserto stoner. L'acida e figlia degli anni 90 (leggi Monster Magnet e space rock) "Orbit" è la degna chiusura di un EP che ci lascia speranzosi e allo stesso tempo fortemente incuriositi perché, diciamolo francamente, tre tracce sono poche anche se possono rappresentare un gustoso aperitivo in attesa di una portata più sostanziosa. Una postilla per gli adetti ai lavori: i ragazzi sono in cerca di una etichetta che voglia produrre il loro full, quindi andate sul MySpace ufficiale oppure rivolgetevi a Maria De Filippi. Gabriele "Sgabrioz" Mureddu
MAEL MORDHA – Gealtacht Mael Mordha
Avete mai sentito parlare di Gaelic Doom Metal? Allora aprite bene le orecchie.Se amate la maestosità dei Candlemass, la magia dei Primordial nonché dei Bathory dell’età di mezzo e l’approccio melodico dei faroesi Týr, allora questa band fa al caso vostro. Provengono dalla remota Irlanda, della quale si fanno fieri narratori raccontando le gesta di Mael Mordha - re di Leinster - cesellando un concept album che segue le orme del predecessore “Cluain Tarbh”, rappresentandone la naturale evoluzione artistica. Doom metal epico dalle tinte folk dunque, con chitarre granitiche e possenti in netto contrasto con il sapore ancestrale evocato dal pianoforte e dal flauto, elementi che rendono il lavoro ancor più interessante. L’opener “Atlas of sorrow” è epica ed austera, un lungo blocco di oltre dieci minuti in cui sono concentrate tutte le caratteristiche della band. Troviamo la dolcezza del flauto e del piano di cui sopra, la violenza primitiva delle chitarre, una sezione ritmica ora lenta e quadrata, ora più veloce ed aggressiva, sorretta da un cantato evocativo e melanconico ed infine da una chitarra acustica capace di iniettare maggiore folklore nel brano. Ma le ritmiche si sciolgono nel trittico composto dalle successive “Godless comune of Sodom”, “A window of madness” e soprattutto nella furiosa “Curse of the bard”, evitando così di cadere nell’oscura trappola della monotonia. Tuttavia gli irlandesi sanno essere ancor più sublimi al rallentare dei bpm, potendo così sfruttare appieno la propria indole doom, come dimostrato dagli ultimi tre brani dell’album. E poco importa se il flauto di “The struggle eternal” risulta essere un po’ stonato, perchè la bellezza del brano lascia passare inosservate le piccole sbavature. In alcuni punti la voce di Bob arriva a sporcarsi alla maniera degli Anathema di “Pentecost III”, e questa è una gran cosa. Ma il bello deve ancora arrivare. La stupenda titletrack ci regala dei momenti austeri e solenni, catapuldandoci nel bel mezzo della battaglia al fianco di Mael Mordha in persona. Chiude il cerchio “Minions of Manannan” con una apertura degna dei migliori My Dying Bride, ma uno sviluppo sempre in linea con quanto fatto finora dalla band irlandese, con tanto di voce che torna letteralmente a ruggire sul finale, per poi lasciare spazio al sinistro rumore delle onde. Maestoso! Davide Straccione
MAGNIFIED EYE – The last sun
Anche la Danimarca, dopo la Svezia, ha iniziato a sfornare grandi gruppi in ambito stoner rock, ecco così che dopo i favolosi On Trial giungono alle nostre orecchie questi Magnified Eye. "The last sun" è il loro album di debutto dopo una serie di demos apprezzati da tutti gli addetti ai lavori e bisogna proprio dire che tanto clamore intorno al quartetto era più che giustificato: questo disco spacca davvero! In quanto ad originalità c'è ben poco da segnalare, poiché la band in fondo non si discosta così tanto dalle solite coordinate heavy psych care a Kyuss e Monster Magnet, ma ciò che colpisce è una freschezza in fase di songwriting che raramente si segnala nelle solite uscite, cosa dunque rara per la Daredevil, specializzata in cloni kyussiani...nonostante il deja vù si faccia sentire in qualche episodio (l'iniziale "On the edge of a stone" ad esempio, molto influenzata dal sound di Unida e Kyuss, o la veloce "No big deal", ficcante ma scarsamente incisiva), è da lodare l'impegno di questi ragazzi nel proporre una miscela che non sappia mai stancare durante l'ascolto, anzi: Frode Bjerkely (batteria), Torben Ravn (basso), Klaus Riis (chitarra) e Torben Egebjer (chitarra e voce) hanno la capacità di inserire in brani di grande impatto trame melliflue e dilatate veramente accattivanti. Esemplari a questo proposito sono song come la lunga "Alcoholic haze" (miglior pezzo in assoluto) e "Keep distance", veri gioielli stonati dove le chitarre si fanno liquide e rilassate nel bel mezzo di travolgenti tifoni ritmici. Un punto in più lo conquista inoltre l'uso dell'armonica che dona un tocco bluesy al groove di "The last sun" (meravigliose le sue partiture di chitarra acustica) e "Diesel breath", episodio già apprezzato sulla compilation "The mighty desert rock avengers". Altri momenti degni di nota perché sempre sopra la media sono "Sacred mountain", track che ricorda molto da vicino i Soundgarden del periodo "Badmotorfinger", con in più una certa ascendenza doom, e "Speedwagonhippiechick", luogo di incontro tra eteree schegge psichedeliche e riff pachidermici provenienti direttamente dagli anni '70. La chiusura del disco è invece affidata a "Cunundrum", breve esperimento mesmerico e allucinato, e "Zero gravity", oltre otto minuti di puro e semplice stoner rock dove si incrociano chitarre fuzz, ritmiche incessanti, vocals melodiche quanto basta e break al cardiopalma. Un ottimo esordio, quindi, reso ancora più appetibile da una produzione impeccabile e da un artwork alquanto intrigante. Se queste sono le premesse, il futuro per i Magnified Eye è senza alcun dubbio pieno di prospettive rosee… Alessandro Zoppo
MAGNIFIED EYE – Transition
Seconda studio release per i danesi Magnified Eye, nella discografia dei quali troviamo l’esordio “The Last Sun” del 2002 al quale sono seguite un paio di partecipazioni a compilation del settore, tra cui il terzo volume della serie Burn The Street sempre dell’etichetta Daredevil, fino ad arrivare sul finire dello scorso anno alla presente pubblicazione da studio. I quattro danesi impressionano subito per la mole di materiale raccolto sotto il nome del presente “Transition”, ben 18 brani che mostrano le indubbie doti maturate nel tempo per questa band. Un rock energico e sostenuto intervallato da buoni spunti melodici e divagazioni introspettive, brevi intermezzi strumentali e l’inserto di strumenti acustici, percussioni, sequencer, effetti assortiti e pure un’armonica ad aggiungere il giusto feeling e pathos e una buona completezza a livello musicale e compositivo.Il tutto registrato con strumentazione proveniente direttamente dagli anni ’70 e messo sotto forma di CD rigorosamente in analogico, per preservare quell’intensità e quel calore tipico del sound legato ad un certo passato. In tutto questo i quattro musicisti ci mettono davvero tanta passione e tanta intensità, anche se alcune soluzioni, a partire dal cantato, non rendono altrettanto giustizia delle valide intenzioni e motivazioni alla base di questo disco. Alcuni passaggi perdono di convinzione e non riescono a lasciare completamente soddisfatti anche dopo numerosi ascolti, nello specifico nella mancanza di mordente e personalità della voce di Torben Egebjerg, impegnato anche in veste di chitarrista. Forse il concentrarsi su anche solo la metà dei brani qui proposti avrebbe garantito un risultato decisamente superiore rispetto a quello comunque valido del presente “Transition”. Una band decisamente interessante e dal buon potenziale ma ancora con ampi margini di miglioramento. Witchfinder
MAHATMA – Gilgamesh
L'epopea di Gilgamesh, mitologico re dei Sumeri, ben si presta alla trattazione di genere. Ne aveva fatto un naufrago spaziale precipitato sulla Terra Wilson Tucker in "Signori del tempo". In maniera simile i Mahatma prendono le caratteristiche proprie dell'epica mesopotamica (i tempi oscuri e senza alcuna speranza) e le adattano ad un concept album in totale atmosfera doom. Dolore e sangue scorrono nelle sei tracce di un disco (il secondo per la band capitanata dal "turbomatto" Ex) che si apprezza dopo ripetuti ascolti. Perché i primi ti lasciano basito, diviso tra innocenza e stupore. Ripetizione dopo ripetizione i suoni scarni e "garage" (in tal senso irrobustirli ulteriormente potrebbe essere l'ideale passo in avanti) rapiscono e fanno immergere in un universo psichedelico nero e distorto.Un turbinio di sensazioni forti che parte dalla paralizzante asfissia di "Blood on Uruk" e prosegue con il riff infinito, meraviglioso della title track. La lezione degli Sleep assorbita e risputata con somma eleganza. "Enkidu's End" è un commovente torrente acid rock, un brano dilatato fino all'inverosimile e caratterizzato da nuance visionarie. "Secret of Immortality" è riff circolare, mistero e terrore, dai padri Black Sabbath ai figli Electric Wizard: rappresentazione perfetta di Utnapishtim, re di Shuruppak "che ha visto la vita" ed è sopravvissuto al diluvio universale. "Find the Sacred Herb" – forse il miglior brano dell'intero disco – fa tornare alla memoria i signori dello psych rock strumentale 35007 e gioca di rimandi con i tempi di Hawkwind e Pink Floyd. È terreno fertile per il gran finale di "The Final Decline", un rituale cinereo ed aspro, tanto lontano nel tempo quanto vicino alla realtà odierna. È proprio questa la forza dei Mahatma, colpire nel punto più inaccessibile il cuore della decadente contemporaneità. Non resta che una soluzione contro la crisi, ascoltare questo disco. E attendere con impazienza il ritorno di Gilgamesh. Alessandro Zoppo
MAJESTIC DOWNFALL/ANSIA – Split CD
Ciclicamente si rompono gli argini nella musica underground, e stante la continua variazione dei poli attrattivi lungo i meridiani terrestri, può accadere che una delle label più attive in ambito doom diventi la russa Solitude Prod., abile a scovare formazioni impenetrabili che altrimenti non godrebbero di particolare opportunità di esposizione. Il rooster è di sicuro interesse, spaziando dal gothic/death fino allo sludge e al dark/funeral (citatiamo Heavy Lord, Ekklesiast, Evoken, Astral Sleep, Intaglio, Ocean of Sorrow, ma la lista è più lunga), e non per forza ristretto ai circoli nordici.L'etichetta di Orel ha deciso, tra gli altri, di riunire in uno 'split' (virgolette d'obbligo visto che si tratta di un platter di quasi un'ora!) i messicani Majestic Downfall e i nostri riminesi Ansia. I primi in realtà sono una delle due one man band di Jacobo Cordova (l'altra sono i Ticket to Hell, ma il genere è thrash/melodic death), già bassista di un gruppo dark-metal della seconda metà degli anni 90, gli Antiqua, e viaggiano su un gothic/death doom discretamente ispirato, a tratti di maniera ma di sicura presa emotiva. I tre pezzi presentano un minutaggio piuttosto elevato, perciò potete immaginare una versione dei primi Paradise Lost, My Dying Bride, Sadness, Paramecium, Saturnus, e il resto della superba scena gothic/doom dello scorso decennio, interpretata con numerosi cambi di tempo e buone atmosfere. Jacobo se la cava con tutti gli strumenti, comprese affilate tastiere che scavano come una lama nelle facciate di tenebrose cattedrali per poi riflettere i pallidi raggi della luna: la gloria decadente delle varie "A Birds Departure", "In An Ocean of Fears" e "A Tear of Understanding" è complessivamente convincente, e tenuto conto dell'atto di fede possiamo approvare l'operato dei Majestic Downfall. Invero più sperimentale (e stilisticamente scarna) la prova degli Ansia. Il loro è un dark/doom atmosferico estremo, che viviseziona il dolore umano fino a renderlo materiale: nella "Part I" il disperato cantato growl (in italiano) lacera riff funerei e violetti come gli interminabili istanti del trapasso, a cui si accompagnano vetrificate parti di basso e finale piano/tastiere dal sapore impressionista. L'incipit ultra scheletrico della "Part II" è il prologo ad un brano atmospheric-drone di buona fattura, e la " Part III" è un tormentoso (eufemismo!) e lungo pezzo di dark estremo dal rifferama non eccessivamente pesante, ma davvero sfiancante e ossessivo, che si concede anche a 4 minuti di effetti criptici... Se non è un viaggio nelle tenebre questo... Roberto Mattei
MALASANGRE – A bad trip to…
Un putrido viaggio nell’ego di un serial killer. Un trip malsano che attraversa le radici dell’odio. Un tour dell’Inferno con il solo biglietto d’andata. Tutto ciò e ancora quant’altro di melmoso e malefico vi viene in mente è il disco d’esordio dei Malasangre, giovane band italica (il cui moniker è ispirato al mitico “Santasangre”, film di culto di Alejandro Jodorowsky) dedita ad un sound sporco e senza compromessi, certo difficile da assimilare ad un primo ascolto e a mente lucida, con orecchie ancora inesperte, ma che cattura poco a poco, proprio per quella luce mefistofelica che emana da ogni suo poro. Si tratta di sludge doom lisergico, devoto ad acts quali Eyehatedog, Men Of Porn, Sons Of Otis, Iron Monkey e Green Machine, ma con frequenti puntatine verso lidi noise, hardcore e space rock. Curiosa e in linea con l’orientamento deviato che assume tutto l’album è anche la scelta dei nick compiuta dai quattro impavidi giovanotti, che molto probabilmente leggendo “We” di Yevgeny Zamyatin hanno optato per pseudonimi quali JN-18 (vocalist agguerrito e indirizzato su linee a volte in scream, altre volte in un pulito molto distorto), VP-33 (guitar player dal riffing plumbeo e monolitico), FH-37 (drummer ossessivo e davvero incisivo) e NC-9.5 (ottimo bassista dalle piste vulcaniche e funeree). Il via lo dona proprio un brano che può essere eretto a simbolo del modo di suonare targato Malasangre: “Bad acid” è cattiveria aliena che prende forma in rumori dannati, colpi di tosse inaciditi, ritmiche lente e lugubri inserti spaziali che ricordano molto da vicino i connazionali Ufomammut…”The last day” prosegue sulla stessa direzione, riff moloch in preda a deliri omicidi, batteria e basso a picchiare giù duro e via con la voce a spazzare il campo da ogni dubbio, questa è la musica del Diavolo! Tuttavia, in mezzo a tale sulfureo caos, spunta una certa, sorprendente vena melodica, che se nel brano precedente era evidente nelle linee vocali, in “Cerebral suicide” si fa più pressante sino ad impossessarsi dell’intero chorus, momento culminante di una lunga ed estenuante danza macabra, iniziata lungo correnti quasi hardcore, in ogni caso vicine alle frequenze degli schizzati Eyehategod, e sviluppatasi attraverso il riverbero di movimenti “sabbathiani” per poi concludersi in un vortice senza alcuna soluzione di continuità. A spezzare leggermente la tensione accumulata fino ad ora ci pensa una meravigliosa cover di “Venus in Furs” (non lo nascondo, ho sempre avuto un debole per i Velvet Underground…), resa per l’occasione più oscura e vagamente cibernetica, soprattutto nella scelta dei suoni. Ma il martirio riprende incessante e passando per le trame psichedelicamente ossianiche e neurotiche di “Transvirus” si arriva a “Dream machine…evil machine”, infinito carico di feedback, effetti e distorsioni varie che concedono poco spazio a cura e precisione per lasciar parlare solo il dolore, la sofferenza, il sadico piacere incanalati nelle intricate trame di basso e batteria, nelle chitarre letteralmente impazzite e nelle vocals acide e sciamaniche. La successiva “Sangre” apre uno spiraglio a soluzioni maggiormente flippanti, ricamate a dovere da wah-wah melliflui ma con un ottimo contrappunto fatto di atmosfere assolutamente tenebrose e messianiche… Tutto ciò è il perfetto trampolino di lancio per il finale, un gigantesco demone spaziale che prende il nome di “The holy cure”, dieci minuti divisi in tre sequenze (“The priest”, “Holy relics” e “Confession”) che portano direttamente sull’orlo di un abisso dove quattro maestri di cerimonia preparano il sacrificio da compiere. Gli strumenti del rito non sono altro che ritmiche in slow-motion, deliziosi flirt cosmici, chitarre in formato panzer e una voce che pur nella sua carica estrema è sempre capace di trovare un sottile filo armonico che lega il tutto con somma perizia. Non poteva esserci finale migliore, dunque…i Malasangre si avviano così ad essere una grande promessa nel sempre più affollato (ovviamente sia quantitativamente quanto qualitativamente) panorama heavypsychodoom tricolore, sono certo che se sapranno dosare ancora meglio le loro capacità ci troveremo presto di fronte ad una band pronta a rivaleggiare con chiunque altro a livello mondiale, parola mia… Alessandro Zoppo
MALASANGRE – Inversus
Vede finalmente la luce la nuova fatica dei nostrani Malasangre, molto apprezzati (purtroppo più all'estero che in Italia…) dopo l'esordio del 2002 "A bad trip to…". Le vicende produttive di "Inversus" sembravano infinite: solo oggi, con l'appoggio dell'etichetta belga Nothingness Records (che edita il cd in versione cd-r con confezione dvd), i quattro sono riusciti a realizzare il loro nuovo progetto. Un lavoro oscuro "Inversus", decisamente estremo, cupo e dannato.È cambiato qualcosa nei Malasangre. È come se le loro esperienze musicali si fossero fatte vive e pulsanti. Le sonorità dell'esordio rimangono un punto fermo, dal quale parte questa nuova parabola intrisa di odio e dannazione. Tre sole tracce, per la durata complessiva di oltre 50 minuti. Il nero doom claustrofobico si tinge di rosso, rosso sangue. Sludge marcio e paludoso da una parte, funeral doom asfissiante e cinereo dall'altra. L'urlo che "Inversus" sprigiona è quello del disagio, del nichilismo, della disperazione. "Sons" apre le (macabre) danze con quasi 18 minuti di estremismo sonoro. I samples dell'ospite Cria Cuervos creano la giusta ambientazione metafisica, sulla quale si stagliano le ritmiche paralizzanti di basso e batteria. È la loro marzialità a dettar legge. Sulla fitta trama che costruiscono si inseriscono infatti riff monolitici di chitarra e vocals mefistofeliche. Interrotte solo da qualche sprazzo psichedelico che dona un po' di respiro. D'altronde quanto chiesto ed evocato dai Malasangre non è certo un facile ascolto, anzi. Bisogna immergersi in questa orgia di suoni, farsi coinvolgere e aggredire fino a sanguinare… Proprio come fa "Werewolf/Echoes of the past": i primi e gli ultimi due minuti ammaliano con fascino dark, i restanti sei prendono alla gola con un riff mastodontico di chiara scuola Electric Wizard. E ascolto dopo ascolto emerge anche un barlume di melodia, una conformazione armonica che con la sua ripetizione ossessiva strega e mette i brividi. Come compie ancora il sigillo conclusivo, "Sharp contemplation". Una matassa che cresce con il passare dei secondi, una lunga, meravigliosa litania che sfinisce e logora, la cui lentezza è impreziosita da un carico malinconico che paradossalmente si imprime nel cervello. Quanta grazia esiste nella decadenza e nell'oscurità della notte… i Malasangre sanno coglierla in pieno e renderla in musica. Primitive nekro doom'll rape your soul. Alessandro Zoppo
MALE DI GRACE – Demo EP
Nel dedalo irto di spigoli del rock indipendente italiano vale sicuramente la pena segnalare i Male Di Grace, quattro ragazzi milanesi che hanno parecchio ascoltato Jesus Lizard, primi Marlene Kuntz, Dead Meadow e Verdena, assieme a moltissimi altri artisti sotterranei che camminano sullo sfocato terreno dei suoni alternativi. Ne scaturisce un primo demo ben inciso e con una discreta originalità, di sicuro migliore di molti prodotti più studiati a tavolino e forzatamente ibridi: i Male Di Grace appartengono alla parte 'nobile' del rock rumoroso, quello che raccoglie le spoglie dell'hard alternativo molto spostato sull'indie, arricchendolo di riff caldi e coinvolgenti, se non proprio prettamente psichedelici. I brani, mediamente complessi, ricreano un mood nervoso ma sempre controllato, e il cantato in italiano fa un buon lavoro nel cambiare registro dalle arie metropolitane di "Scena tragica" alle sensazioni più acri di "Dolce miele". Completano due strumentali: "Il paracadutista equino" e "Ninna nanna per Grisù", che aldilà dei titoli surreali riescono a tessere geometrie spoglie con un retrogusto leggermente noir. Per essere una prima prova non ci si può lamentare, se amate un certo tipo di approccio i Male Di Grace potrebbero col tempo rappresentare una garanzia. Roberto Mattei
Mammoth Volume – The Cursed Who Perform the Larvagod Rites
Per un certo periodo di tempo i Mammoth Volume sono stati il segreto meglio custodito dello stoner rock. I primi tre album, a cavallo del nuovo millennio, hanno istituito una forma di heavy psych non troppo distante dalle intuizioni dei Queens of the Stone Age ma con una caratteristica in più: un amore vero verso il grunge e il prog. Spariti per vent'anni, ci eravamo rassegnati a rimanere attaccati a quel terzetto di album (l'omonimo del 1999, “Noara Dance” del 2000, “A Single Book of Songs By” del 2001), ma a sorpresa la Blues Funeral Recordings (con in catalogo tanti gioielli come Josiah, The Obsessed, Solace e Lowrider) pubblica il nuovo album “The Cursed Who Perform the Larvagod Rites” per soddisfare la nostra sete. In questo lasso di tempo il gruppo svedese ha sviluppato il suo suono in maniera progressiva. Si sente il loro stile primigenio (“Diablo IV” e “Want to Join Us? Come Back Later!”), ma qualcosa in più emerge distintamente. Influenze jazz rock (“Medieval Torture Device”), suoni giocattolo, etnici e perfino solos spiritosi. Supponiamo che i Mammoth Volume abbiano sentito molta musica, che è riuscita ad infiltrarsi nelle loro composizioni, in questi anni passati lontano dalle scene e che abbiano preso per quello che è il suonare dopo i quaranta anni: un divertimento tra amici senza troppe aspettative. “The Cursed Who Perform the Larvagod Rites” è la sintesi perfetta di tutto questo: un esemplare, gioioso, riuscito manifesto alla voglia di stare tra amici con gli strumenti in mano. Difficile che sposteranno qualche altro stoner addict dalla loro parte, ma gli auguri da parte nostra sono quelli di rimanere una band ispirata che produce album di una bellezza disarmante. Lussuosa l’edizione limitata in vinile giallo traslucido pubblicata da Blues Funeral Recordings. https://www.youtube.com/watch?v=2ht2a5Lr0gM&ab_channel=BluesFuneralRecordings

Eugenio Di Giacomantonio

MAN’S GIN – Rebellion Hymns
Ritorna l'eclettico Erik Wunder – all'attivo come multi-strumentista nell'acclamato gruppo black metal dei Cobalt – con il progetto solista Man's Gin. Dopo l'ottimo album d'esordio del 2010, "Smiling Dogs", il nuovo "Rebellion Hymns" continua il viaggio nei meandri di un'America terra di sogni e contraddizioni, di libertà e oppressione, di speranza e disperazione. Un viaggio cupo e intimistico fatto di momenti dimessi e di esplosioni di vitalità, riflesso dell'America contemporanea. Si parte alla grande con "Inspiration", una struggente ballata cantata a squarciagola accompagnata da una fisarmonica simbolo dei tempi andati e da una batteria poderosa, uno dei momenti migliori del disco. "Varicose" è più cupa e intima, con una notevole lavoro del piano e della sezione dei fiati. "Off the Coast of Sicily" ci dimostra tutta la versatilità di Wunder, presentando un pezzo che si discosta dai precedenti. Tanto trascinante quanto vintage con una chitarra stile Fifties a farla da padrone. "Old House (Bark at the Moonwalk)" mostra i muscoli sterilmente, perdendo il fascino delle altre canzoni. Ma si recupera subito con "Never Do the Neon Lights", sanguigna all'inverosimile, con un break centrale e un crescendo a seguire da brivido. "Deer Head & The Rain" colpisce dritto nel segno con la sua atmosfera densa e nebulosa e il suo essere straziante. Dopo l'intermezzo pianistico di "Cellar Door" è la volta della maestosa cavalcata di "Sirens": 7 minuti intensi conclusi da un coro epico e un blast beat lancinante. "Hibernation Time" chiude il lavoro con una scarna ballata e un finale con un crescendo simil post rock. A fare da intermezzo alle varie canzoni ci sono tre momenti strumentali che fungono da brevi stacchi. Uno di quei dischi che non si apprezzano con il cervello ma con la pancia, talmente sentiti e struggenti da non passare indifferenti. Torna Erik Wunder e lo fa in ottima maniera, ripercorrendo il discorso intrapreso con "Smiling Dogs" e ampliandolo e impreziosendolo con "Rebellion Hymns". Giuseppe Aversano
MANGOO – Neverland
Consultare un press kit della Small Stone Recordings che cita, nell'ordine, Queens of the Stone Age, Foo Fighters, Dozer, Obiat, Rush, Yes, Luder, Giant Brain, Earthlings?, per identificare i finlandesi Mangoo in uscita con "Neverland", non può far altro che generare una pruriginosa curiosità. Se aggiungiamo una cover art con funghetto allucinogeno in ambientazione prog tardo seventies (Pink Fairies!) la curiosità diventa morbosa. Come faranno i nostri Pickles (chitarra e voci), Mattarn (chitarra), Igor (basso), Teemu (batteria) e Nikky (tastiere) a combinare questi elementi in un mantecato ad alto contenuto proteico è presto detto: free form heavy psych a servizio di una forte struttura delle armonie vocali.Pare proprio di sentire la magniloquenza Rush in un pezzo come "Deathmint" in scontro frontale con un idea espansa della percezione spacey e con finale epico da alzata di scudi. "Diamond in the Rough" parte con idee alla pubrock e finisce per citare roboticamente i QOTSA. Cose inpensabili fino a quando non le senti. Come "You" che fonde la ballad americana (quella che, per indenderci, passa indenne stagioni 60/70/80/90 mantenendo sempre una spiccata riconoscibilità) con i cugini Dozer e Lowrider. Quando affrontano lo stoner di petto con "Lose Yourself" bisogna riconoscere ai nord europei una sensibilità speciale nella produzione del suono. Riescono ad essere il punto medio tra l'America e l'Inghilterra e se pensiamo che la stessa band ha curato la registrazione e la post produzione, non possiamo far altro che riconoscere che la qualità dell'intera "sovrastuttura" musicale nordeuropea (sale prove, studi di registrazione, mezzi a disposizione) sono di gran lunga superiori alla disponibilità degli altri gruppi, di altri paesi. Ciò genera anche una libertà compositiva notevole perché migliori strumenti fanno migliori musicisti e l'intervallo pseudo lounge di "Interlude" è lì a dimostrarlo. "You Robot" torna ai Queens con cori da arena rock e la successiva "Moom" ribadisce che la band sa scrivere pezzi fast and furious di facile presa pop come i Foo Fighters. "Painted Black" non ha nulla a che fare con i Rolling Stones e fa combine "sentimentale" con "Hooks": due ballad mescolate a rinculi hard con sorprese di fiati e synth. Il divertissement di "Home", rustico honky tonky per banjo, prelude al finale heavy psych di "Datzun", mostodonte che replica l'iniziale "Neverland" e, in chissà quale modo, riescono a riportare tutto a casa. Astenersi chi ricerca una identità specifica e facilmente riconoscibile, i Mangoo sono qui per chi vuole farsi un volo d'uccello sui generi, con spensieratezza, senza appesantire il carico con intellettualismi: potreste correre il rischio di trovarvi a canticchiare le loro canzoni. Eugenio Di Giacomantonio
MANNHAI – Hellroad Caravan
Sulla fine degli anni ’90 Olli-Pekka Laine lascia gli Amorphis. Da qui ha inizio la storia dei Mannhai. Tre album interessanti alle spalle e poi un importante avvicendamento, il vecchio singer Janitor lascia il posto a Pasi Koskinen, anch’egli ex compagno di Laine negli Amorphis ed estremamente a suo agio nel rock a briglia sciolta. Pare che la dipartita di Pasi dalla band originaria abbia giovato un po’ a tutti, gli Amorphis hanno riconquistato credibilità e freschezza mentre i Mannhai hanno acquisito una maggiore personalità stilistica.“Hellroad Caravan” è stoner, la passione per gli anni ’70 è evidente in più di un episodio, ma la sensibilità scandinava nel riassemblare i pezzi in maniera intrigante e personale rende il tutto estremamente fluido ed eterogeneo. Sicuramente i fan degli ultimi Dozer apprezzeranno la band finlandese, le cui coordinate non si discostano molto da quanto messo in atto dai colleghi svedesi negli ultimi tempi. Vincono la schizofrenia di “Shellshock”, la fierezza di “Fuzzmaster” e “Dambuster”, la semplicità di “Spaceball” il groove assassino di “Back In The Red” (corna alzate per il finale doomy), di “Mojo Runner” e della conclusiva “Downer”. Molte soluzioni vocali di Pasi riportano la nostra mente ai lavori seventies-oriented degli Amorphis (Tuonela, Am Universum), e ciò crea un’amalgama di tutto rispetto; la sua voce si adatta magnificamente alla proposta selvaggia dei Mannhai. C’è anche spazio per divagazioni lisergiche, per rallentamenti liberatori e tutto l’occorrente per fare del buon rock. Massima fiducia in questa band, mi aspetto grandi cose in futuro. Davide Straccione
MANO-VEGA – Nel mezzo
Un lavoro che parte da molto lontano 'Nel mezzo', disco d'esordio dei Mano-Vega. Un album concepito e prodotto tra il marzo del 2004 ed il febbraio del 2010. Gestazione lunga e immaginiamo stressante per Valerio D'Anna, voce piano synth e programmazioni del gruppo di Isola del Liri (provincia di Frosinone). A collaborare con Valerio troviamo Giovanni Macioce (chitarra) e Lorenzo Mantova (basso), coadiuvati dal vivo da Andrea Scala alla batteria. Un trio che si pone in equilibrio tra elettronica, (math) rock, progressive deviato e psichedelia cibernetica. Un equilibrio che a volte si dimostra precario perché il gioco riesce in parte: se i rimandi al lavoro estremo e visionario di Trent Reznor e dei suoi Nine Inch Nails sono abbastanza espliciti, spesso è la materia prima che manca. Le canzoni. Lo si evince sin dalle prime composizioni: "Ondanomala", "La prova del vuoto" e "Nel mezzo" sono contenitori che ben presto mostrano d'essere vuoti, arricchiti da testi curati ed intelligenti (e cantare in italiano non è mai facile) e da dinamiche elettroniche piuttosto suggestive.Le cose migliorano con "Sfere" e "Magnum opus", brani che dimostrano una certa personalità (specie nelle trame strumentali) e soprattutto un distaccamento da modelli sin troppo abusati. Troppo confusi e forzati sono invece i dieci minuti di "Sinestesia", così come le derive à la Bluvertigo di "Opus". Il finale è affidato alla liquida "Dal nero al bianco", che con "Dal rosso al blu" forma un dittico sinestetico che pare evocare l'universo filmico dei 'tre colori' di Krzysztof Kieslowski. C'è ancora molto da migliorare in questa odissea di Segni, Numeri e Sfere. Per adesso a funzionare sono l'impianto strutturale dei Mano-vega, il concept di base ed il bellissimo artwork gelido di Luca Evangelista. Alessandro Zoppo
Mansur – Temple
Cercare di immaginare un futuro spingendo sull'elettronica e al tempo stesso allargando lo sguardo e la mente tra i generi e i luoghi del mondo, nella storia della musica globale. È questo l'obiettivo dei Mansur, nuovo progetto di Jason Köhnen, ex bassista e chitarrista del collettivo olandese The Kilimanjaro Darkjazz Ensemble, noto agli appassionati come Bong-ra. In quest'avventura artistica senza confini, promossa dalla tedesca Denovali Records e realizzata in fase di masterizzazione da James Plotkin, Köhnen si fa accompagnare da Dimitry El-Demerdashi, già polistrumentista dei Phurpa, l'ensemble russo fondato da Alexei Tegin che ha riportato alla luce le antiche tradizioni sonore Bön. Con la coppia ci sono Gadjo Dilo Vendigo al duduk, il tradizionale strumento armeno ad ancia doppia, e Martina Hórvath, cantante ungherese che vanta collaborazioni dalle parti del metal d'avanguardia con Thy Catafalque e Nulah. Temple è il loro EP d'esordio. Dalle origini e dalla fine dei Kilimanjaro Darkjazz Ensemble è partita la riscossa di Köhnen che oggi suona tutto, arrangia, produce e dirige questa creatura che di jazz e doom ha poco o nulla, ancor meno trame oscure e fumose. La cadenza lenta e pachidermica è appena accennata in Temple Revisited I.

Temple: l'escapologia dei Mansur

Le cinque tracce di Temple cercano piuttosto un effetto trance, in bilico tra musica tradizionale mistica ed evocativa ed elettronica moderna magica e sognante. Un vero e proprio viaggio escapista profondo e avvolgente, durante il quale i quattro si sbizzarriscono con la strumentazione, l'esplorazione e la scoperta. Dentro Temple si ascolta di tutto: la kalimba, il violino e il cello, il ney (il flauto della tradizione turca e persiana) e i tipici violini cinesi (erhu, zhonghu e jinhu), il kemenche del Mar Nero, la dilruba dell'India e il bansuri, un altro dei più antichi strumenti della musica classica indiana. Il sound è ricco e composito. La reiterazione è perpetrata dall'armamentario di percussioni: tamburi e hang armonici, il cajón del Perù, il khartal dei canti devozionali indiani e le nacchere andaluse. L'effetto finale non è mai da National Geographic. Persino i registri vocali di Martina Hórvath riconducono a uno stato di liberazione, di meditazione cantata. Temple ha un unico difetto: dura troppo poco. Si arriva alla fine dei cinque brani in fretta. Sono 25 minuti scarsi: il tempo è elastico, la ripetizione (e quindi la lunga durata) è importante. L'attesa ora è concentrata tutta sul secondo capitolo (decisamente più corposo, si spera), il debut album Karma, che uscirà alla fine del 2020. Nota per i completisti: Denovali Records accompagna l'uscita dei Mansur con le ristampe di From the Stairwell dei Kilimanjaro Darkjazz Ensemble e Succubus dei Mount Fuji Doomjazz Corporation, side-project della band-madre che compone materiale inedito (sempre lento, malato ed elegante) registrato rigorosamente dal vivo. https://www.youtube.com/watch?v=WHtwEj3pfjI

Alessandro Zoppo

MANTHRA DEI – Manthra Dei
Per avventurarsi nel mondo dei Manthra Dei bisogna idealmente travalicare le guglie montuose ritratte sulla cover del loro album di debutto, lasciandosi sballottare tra le forze del cosmo che governano sia le particelle elementari che i giganteschi corpi celesti. È questa almeno la sensazione che riesce a rendere il pirotecnico quartetto di Brescia, fautori di uno space rock evocativo ma capace all'occorrenza di ricorrere a ritmiche dinamiche penetranti. L'iniziale "Stone Face" rivela tutto il gusto e l'amore per la psichedelia progressiva, sospesa tra modernismo e soluzioni d'antan, una formula che si rivela vincente lungo il disco, grazie soprattutto all'ottima coesione strumentale. Chitarra e tastiere si intrecciano in continuazione, legate da una fantasiosa sezione ritmica, caratteristica che emerge con forza ad esempio nella nuova versione della splendida "Xolotl", mirabilmente giocata su bruschi cambi umorali. L'approccio acid blues di "Legendary Lamb" amalgama Astra, Motorpsycho e primi 35007, mentre "Urjammer" è un ferale e arcano frammento di kosmische musik, tanto da farci comprendere che anche Klaus Schultze e Tangerine Dream hanno una loro collocazione nel DNA dei Manthra Dei. Finale ad alta gradazione jam per la lunga "Blue Phantom", che in diciassette minuti sciorina solidamente un po' tutte le caratteristiche esposte sopra, senza dimenticare il reprise acustico di "Stone Face", che chiude piacevolmente il tutto. Roberto Mattei
MARCELLO CAPRA – Fili del tempo
Piace pensare a Marcello Capra come ad un menestrello dei nostri giorni. Un cantore folk che usa la chitarra non come una mitragliatrice per uccidere i fascisti, piuttosto come un galeone per condurci ai confini del (e oltre il) tempo. Proprio "Fili del tempo" è il titolo scelto per il suo nuovo disco solista ad un anno di distanza dall'ottimo "Preludio ad una nuova alba". Le note del "chitarrautore" piemontese intrecciano ancora folk e canzone d'autore, classicismo e modernità, mantra psichedelici e vagiti progressivi, a partire dall'iniziale, bellissima "Dreaming of Tinder", impreziosita dalla voce di Silvana Aliotta (cantante dei Circus 2000). A volte sembra di ascoltare un incrocio di Alexis Korner e David Allan Coe nella sua ruvidità country blues ancestrale (il classico di Skip James reso eterno dai Cream "I'm So Glad", con tanto di bollente Hammond e vocalizzi soul), altrove prevalgono i consueti toni magici e sognanti (l'eterea title track, "Standby", l'onirica e soave "Un sogno lucido").Quello di Marcello Capra è un escapismo libertario ed individuale (fatta eccezione per la conclusiva "For Tibet", dedicata ad una popolazione «che subisce da decenni una durissima repressione e mantiene integra la sua dignità e la sua grande spiritualità»), che in più di un'occasione si tinge di colori sfaccettati e differenti. Accade quando il flatpicking della sua Ovation Legend abbraccia l'ispirazione argentina di Astor Piazzolla in "Astor". O quando un doveroso tributo a Irio De Paula rende "Irio" una splendida, semplice e genuina session con l'amico Beppe Crovella (Hammond, storico tastierista degli Arti & Mestieri). Nostalgia progressive che riaffiora nelle cinque parti di "Procession", gruppo che tra il 1972 ed il 1974 ha pubblicato due album ("Frontiera" e "Fiaba") considerati storici e basilari per il prog italiano. "Fili del tempo" è l'ascolto ideale per chi è stufo di questo mondo. E invece di auspicare disordine e distruzione, cerca semplicemente una propria isola felice dove vivere lieto tra passato e presente. Alessandro Zoppo
MARCELLO CAPRA – Preludio ad una nuova alba
«Fonti d'ispirazione: Lulù, Praga, il buon vino, la costa turchese, i temporali, Valle Stretta, Paesi Baschi, treni lenti, la Toscana, i grandi del mio strumento». Basterebbero già solo queste poche note per comprendere la genuinità e l'ispirazione di un musicista come Marcello Capra, nome noto ai più per il suo passato con i Procession, storico gruppo progressive torinese.'Preludio ad una nuova alba' è il suo ultimo lavoro e testimonia una crescente voglia di rinascita, per questo "chitarrautore" che gioca tutte le proprie carte imbracciando la fidata Ovation Legend acustica e dandoci dentro di flatpicking. Quindici tracce strumentali che poco hanno a che vedere con la tradizione ortodossa del rock (nonostante Capra sia cresciuto a pane e Jimi Hendrix): qui siamo al cospetto di un folk diviso tra spunti blues, ispirazioni psichedeliche, sguardi ad Est e gli influssi di grandi chitarristi compositori del calibro di John Martyn, Tim Buckley e Anthony Phillips. È dal 1978 che Marcello Capra ha fatto di questa passione uno stile codificato e multiforme. Dai tempi di 'Aria Mediterranea', fino ad arrivare a questo nuovo album (l'ottavo da solista) che consacra anche la collaborazione con il produttore Beppe Crovella, altro nome noto ai prog maniaci per la militanza negli storici Arti & Mestieri. Un flusso sonoro che per un'ora ci accompagna da Oriente ("Danza turchese", "Danza russa") a Occidente ("Tipsy Guitar", "La-sol-fa-mi"), ricco di suggestioni mediterranee, tradizioni mitteleuropee e visioni mistiche. Tra tutte le composizioni, spiccano le trame fitte e ammalianti di "Preludio", le avventure ritmiche giocose, intricate ed intriganti di "Corsari" e la conclusiva "Aura", un piccolo gioiello che guarda ai Led Zeppelin dall'afflato gaelico inserendo tocchi magici di chitarra elettrica (Gibson Les Paul, ovvio) ed i vocalizzi delicati di Laura Ennas. 'Preludio ad una nuova alba' è un disco davvero suggestivo. Da assaporare come un buon bicchiere di vino. Con calma, senza fretta, seduti a contemplare un nuovo giorno che sta per nascere. Alessandro Zoppo
MARNERO / SI NON SEDES IS – Split EP 12”
Frutto di una coproduzione tra alcune delle etichette più importanti in fatto di musica pesante italiana, il 2009 ha ospitato anche il ritorno, anzi la rinascita, di due formazioni che faranno parlare di sé in futuro. Bologna e Roma a mano armata, di revolver e napalm, pronti a incendiare le vostre sinapsi e demolire le vostre good vibrations. Entrambe le band rappresentano la fenice che risorge dalle ceneri di due grandi realtà del panorama tricolore: parliamo di Laghetto da una parte e di Concrete dall'altra. Bolognesi i primi, capitolini i secondi, a cui poi si sono aggiunti membri di Lady Tornado e degli ED, come nel caso dei Marnero. Due anime contrapposte che si sfidano, mostrando due approcci diversi ma con una contrapposizione basata sul gioco degli opposti. Il lato più selvaggio e compatto del lotto è quello dei Marnero. La band capitanata da John D. Raudo e Ottone (voce e chitarra il primo, batteria il secondo) dei Laghetto, mostra un'epifania evoluta e molto più adulta. I tempi dei Laghetto sono andati ma rivivono in parte in questi tre brani. Testi sempre in italiano, cinici e più improntati ad un distacco ‘carmelobeniano’, lo sberleffo lascia il posto ad una maturità compositiva di maggior respiro dove le parti vocali si alternano tra parti recitate e parti urlate. Come le onde durante un maremoto, anche durante il maelstrom resiste un briciolo di lucidità e tutti e tre i brani si snodano lungo un percorso ora accidentato, ora più riflessivo. Il post-punk dei Massimo Volume (la voce di Raudo è costante nell'evocare lo spook di Mimì Clementi) che incontra il post core dei Neurosis di metà anni 90, i Laghetto più evoluti (tracce come “Requiem for CB”, “Mano senza dita”, “Amaritudinis”) ed i grandissimi e sempre rimpianti Breach di “Kollapse”. Gli ottimi intrecci chitarristici, supportati da una sezione ritmica di grande effetto, fanno da contraltare a testi intricati e deliranti, in cui persiste un margine di razionalità. Gli elementi più hardcore sono ridotti al minimo, figurando giusto in “Crossifiggil”. «La speranza la lascerei agli stronzi. Avere una bussola non dispensa dal remare, non esiste vento favorevole per un marinaio che non sa dove andare. Emergenza caldo, bere molta acqua. Mi viene il dubbio che il Governo voglia trasformarci tutti in meduse». Per adesso non possiamo che accontentarci di questa anteprima di grande livello e che fa sperare in un futuro full lenght di grande qualità e sostanza. Anche se il futuro è carico al 70% di amarezza, ed al restante 30% totalmente a caso. Si Non Sedes Is, Si Sedes Non Is. È un palindromo latino dal grande fascino. Soprattutto per il significato intrinseco della traduzione. Se non ti siedi procedi, se ti siedi non procedi. Due soli brani per il gruppo romano, ma di grande classe e valore, sebbene distanti dallo stile proposto dai loro compagni di merende. Figli di componenti di Concreti e Comrades, il loro sound è sicuramente più ‘elegante’ e ‘sofisticato’ di quello dei Marnero, ma questo non deve dare l'idea di una minore cattiveria e potenza. La voce di Giorgio Gregorio Luciani si veste di discrezione nei suoi sussurri ipnotici, ma sa scuotere quando incrocia black metal d'avanguardia e screamo di gran classe. Prestazione superba, alla pari degli altri componenti: chitarre eccezionali su un apparato ritmico straordinario. “Respekt der schiesse” è una discesa negli abissi della mente umana, costringendoci a riprendere fiato e sostare quando ci viene concesso. Questa possibilità ci verrà negata nella cupa “Zar”, galvanizzante e potente canzone di chiusura, un vero e proprio anthem per la nuova creatura di nome Si Non Sedes Is. Nella sua corsa verso il punto di non ritorno, verremo ipnotizzati dalla bravura e dalla tecnica di questi ragazzi, mentre la nostra ragione verrà polverizzata insieme a quello che rimarrà della fiducia nel genere umano. «Non lo senti sulla pelle? Nel tuo sangue si diffonde». L'unica cosa di cui avremo realmente bisogno sarà la pazienza, perché se queste sono le premesse, allora l'attesa sarà peggio di un attacco di craving. Gabriele “Sgabrioz” Mureddu
MARS VOLTA, THE – Amputechture
C'è chi cresce ed invecchia, c'è chi avanza con gli anni e progredisce. C'è chi alterna a seconda del momento. Solo i migliori vanno di pari passo con il tempo. E questo è il caso.Giovani giovinastri infilano pallets di idee in musica d'impatto e di poco ragionamento perché, giovinastri loro giovinastro il pubblico. Primo atto ormai concluso. Prima o poi si sente il bisogno di sfamare i neuroni, pressoché inutilizzati per analizzare 4 accordi pesanti in successione. Si ha bisogno anche di quello, certo, ma i giochi per bambini li sanno far tutti: le cose serie hanno bisogno di materia solida per reggere le questioni. Giovani giovanotti alle prime delusioni di una vita che non puoi prendere a calcinculo tutto il giorno senza che lei non te ne rimandi un po', sfornano anti-materia in fase di stabilizzazione ma con un cuore che se aperto rileva la sciughievolezza, irresistibile sciughievolezza di tanta malinconia. Malinconia per il fatto che, forse, si era perso troppo tempo fra un fuck due cazzo di accordi in croce e mezza rivoluzione tardiva e per di più andata a male. Giovani uomini, finalmente, accendono il cervello in ogni suo angolo sino al più remoto. Scoprono che gli accordi sono ben più di quattro e che è così bello sfamare le parti insaziabili dell'essere. Anche 50 cent sa far sculettare, anche i Buzzcocks san far fare yeah alla recita di fine anno della seconda elementare. Pochi sanno sfamare il bisogno di una trama, il bisogno di una vera e propria composizione che conduca per le vie del tuo cervello senza farti ripetere per forza ogni 5 secondi lo stesso, medesimo, idiota, fastidioso cazzo di accordo. Lo chiamano Francis, perché è un album sborone. Forse troppo, anzi leviamo il forse ed aggiungiamo "macchinoso". Sottolineamo Francis, in italiano Sborone. Esseri umani con i controcoglioni di 4mc per parte portano a compimento il triumvirato che governa il rock del nostro tempo. Trovano la via di mezzo fra l'istinto ed il cervello, scovano il punto g che ti fa capire che non sono solo canzonette. Ed hai voglia a dire "aòh ammazza però nun me fanno fa più yeah come i Draivin anvedi oh sticazzi à prova der nove è surrastrada". Loro il cervello l'hanno acceso. L'hanno capito che quattro accordi del cazzo li sanno far tutti. Quelle cose le facevano da bambini. E bambini non sono più. Musica gggiovane per gente gggiovane, è solo per non dire "canzonette stronze". Ripeto: anche quelle hanno la loro importanza, ogni punto di una "scala sociale" è indispensabile ma è di certo uno spreco far pulire le strade ad un fisico nucleare. Lo spazzino fa musica oh yeah, il fisico nucleare fa musica per gente che ascolta musica, questo sono ora i Mars Volta e non ci sono cazzi che tengono nedeqquà, nedellà. Lo dice la parola stessa: progredire. Progressione. Progresso. Mentre Proraso aiuta chi si rade. Perché bisogna sempre tener presente una cosa nella vita: la doppia elle. Il lato invernale è di lana, quello estivo: di lino. Pier "porra" Paolo
MARS VOLTA, THE – Frances the mute
A due anni da “De-loused in the comatorium”, i Mars Volta si ripropongono con “Frances the Mute”. Non è un ritorno facile, lo scoglio è il ‘secondo album’, dove il mercato comanda di confermare le premesse del primo senza sfruttare l’effetto-novità. Mettiamoci pure il fatto che Frances è disponibile da un mese abbondante su internet... forse si tratta di un mix non definitivo, ma il colpo è pesante (anche se in casi passati, come i Radiohead di “Hail to the thief”, il gruppo non è certo finito sul lastrico per questo...), ma nell'era internet ce ne dovremo abituare.Di questi discorsi i Volta però se ne sbattono ampiamente e, partendo dalle stesso impasto sonoro del primo disco, lanciano la sfida ben più avanti. In questo sicuramente hanno giovato i due anni di tour tra States, Europa e Giappone (dove il gruppo accennava già ai brani nuovi) ma, soprattutto, un maggiore affiatamento dovuto ad una line-up più stabile. Cedric perfeziona ulteriormente voce e testi, la sezione ritmica si muove come un tutt’uno, c’è più spazio per gli arrangiamenti di tastiere, ma è il chitarrista Omar Rodriguez-Lopez il vero regista della pièce, autore di quasi tutti i pezzi e co-produttore accreditato (nel tutto riesce anche a raccomandare il fratello, pianista salsa, nel gruppo, sembra li seguirà anche dal vivo). Su Frances i richiami al ‘fantasma’ progressive sono più che impressioni, ma, si badi, alla base c’è sempre la rabbia post-punk che caratterizza il gruppo sin dall’esperienza At The Drive In. Ad un primo ascolto l’impressione è un po’ fuorviante, ma come per tutti i grandi dischi, la miscela necessita più approfondimenti. Ci si accorge cosi che il discorso non è poi così cambiato da Comatorium, è cambiato lo spessore. Riunire in 75 minuti rock, psichedelia, progressive, salsa (“L’via l’viaquez”), fiati alla Morricone (“Mirando”), voci in inglese e spagnolo (per non parlare dei titoli latineggianti…), qualche pacchianata qua e là (il solo di apertura di L’via) senza risultare ambiziosi richiede personalità non indifferente. Presuntuosi? Forse. Ma allo stesso modo coraggiosi . Frances suona molto più organico ed omogeneo - dote rara, pensiamo, per i dischi di oggi – un vero concept album. Difficile soffermasi sui singoli episodi, ma “Cygnus…Vismund Cygnus” è una suite-trip di 12 minuti con tanto di discesa agli inferi (e risalita…) da brivido. “Widow”, il singolo, suona come unica ‘concessione’ all’FM, se non altro come minutaggio, ma il pezzo è all’altezza di tutto il disco e liricamente ispiratissimo (straziante il chorus!). ”L’via l'viaquez”, forse il momento più originale e bizzarro del disco, presenta un mix di cantato spagnolo-inglese, prima di sprofondare in un tema di salsa lentissima (registratata a Puerto Rico, immaginiamo il rum a disposizione...), vero esempio di rock 'totale' e di crossover tra generi tanto diversi. Su “Cassandra Gemini” viene invece in mente soltanto l’etichetta ‘art rock’, se proprio dobbiamo darne una: tra riff alla Santana, aperture psichedeliche, vibrati e gorgheggi passa via mezz’ora e non ce ne siamo neanche accorti. A chiudere il cerchio, si ritorna poi a Sarcophagi, che aveva aperto il discorso. Attenzione, niente facili entusiasmi, ma questo disco è formidabile. Grandissimi Volta, li aspettiamo con questi pezzi dal vivo. Sergio Aureliano Pizarro
MARSHAN – Brought to you by the goodtime girls
La grande tradizione hard rock scozzese di Nazareth, Writing On The Wall e Sensational Alex Harvey Band rivive grazie ai Marshan, trio di Glasgow che con questo “Brought to you by the goodtime girls” firma per la nostrana Beard of Stars Records il proprio terzo disco. I due precedenti erano stati il mini “Kings Thursday on the Friday street” (2001) e “Songs from southern and baseline” (2004), oltre l’eccellente partecipazione al tributo agli Hawkwind “Daze from the underground” con “Hurry on sundown”. Il nuovo lavoro del gruppo britannico vive di un rock grezzo e spensierato, ben scritto ed eseguito, che dona molto senza pretendere altrettanto, se non passione e sudore.Kevin (basso), Malcolm (batteria) e Graeme (chitarre, voce) ci divertono con un lavoro che riprende la tradizione classica dei vari Rolling Stones, AC/DC, Aerosmith, Nazareth e Cheap Trick, variando però registro quando necessario. Se infatti il trittico iniziale (“The great eastern hotel”, “Fun on tongue”, “King street conversion”), “Pocket full of fun” e “Back from the road” viaggiano sui sentieri del rock'n'roll più focoso e godereccio, altrove l’album acquista punti proprio in virtù di una smaccata eterogeneità. “Fieldgoals” e “Sedona, AZ” aggiungono un tocco acustico molto delicato e malinconico, così come “Sweet yuko’s oil” che suona come un omaggio alle sonorità psichedeliche e West Coast. Menzione particolare merita infine “Kalamazoo blues”, la migliore song del cd: grandissimo power hard rock ‘hendrixiano’ come non se ne ascoltava dai tempi dei migliori Spiritual Beggars. Insomma, se avete voglia di passare una mezz’ora di assoluta spensieratezza e di sano divertimento, “Brought to you by the goodtime girls” è il disco che fa al caso vostro. Alessandro Zoppo
MARY’S BLUECAKE – MBC Motel
Tosto è la parola giusta per definire il disco d’esordio dei Mary’s Bluecake, gruppo sardo ancora una volta prodotto ed edito dalla sempre più presente Wuck Records di Fabrizio Monni. Un dischetto rozzo e coriaceo che non soddisferà i palati fini ma quelli dediti alle sonorità più sporche e senza compromessi. “MBC Motel” è infatti un concentrato vitaminico di punk, grunge e rock’n’roll come non se ne sentiva dai tempi di Nirvana e L7. Ed il riferimento a queste ultime non è dettato solo dalla presenza in formazione di due ragazze (Barbara, voce e chitarra, e Sarah Blue, anche lei alla chitarra), ma perché lo stile dei Mary’s Bluecake è proprio impregnato di quell’attitudine selvaggia e graffiante, ma pur sempre melodica, che caratterizzava il sound delle quattro ragazzacce di Los Angeles. La mezz’ora del disco scorre via che è un piacere, diretta e vibrante come le veloci “Dry”, “Sonnet N.1 (Alter ego)” (con un intermezzo cadenzato davvero ben riuscito), “Fast one” e "Suicide in bed”. La tirata “MBC”, l’altrettanto convincente “Grey” e la bellissima “Sweet F” mostrano invece atmosfere più variegate: la prima è cupa ma ammaliante, la seconda ultra heavy nel suo incedere minaccioso, la terza sorprendente per via di riff lisergici ed un chorus malinconico che si stamperà immediatamente nella vostra testa. Forza, coraggio, voglia di osare: sono queste le caratteristiche dei Mary’s Bluecake. Altro colpo assestato al panorama italiano dalla Wuck Records, una label ormai in ascesa che si conferma come una della sorprese più piacevoli di questo 2003. Alessandro Zoppo
MARY’S JAIL – Mary’s Jail
La Load Up e gli studi Red House di David Lenci proseguono il proprio percorso di ricerca proponendo ancora una band italiana, i Mary’s Jail. I quattro (Christian - voce e chitarra -, Gigi - chitarra -, Andrea - basso -, Gianluca - batteria -) giungono al disco d’esordio con un lavoro ottimamente suonato e prodotto (e come potrebbe essere altrimenti…), incentrato su sonorità che ondeggiano tra l’indie rock dei primi anni ’90, venature psichedeliche e il sound creato e portato al successo dai maestri Motorpsycho.La miscela riesce bene perché gli 11 brani che compongono il dischetto sono suadenti e al tempo stesso frizzanti. Ciò che ancora manca a questi ragazzi è una personalità netta e definita che sappia affrancarli dalle pesanti ombre che li seguono. Soprattutto quella dei Motorpsycho, a volte davvero ingombrante (ascoltare “A perfect state of nervousness” e “Darkside” per rendersene conto). Per il resto tutto funziona alla perfezione: i suoni sono corposi e definiti (“Cold”), le sfumature sono diverse e numerose (hard quelle di “Mary’s jail”, bluesy quelle di “A new dawn”, ospite Lenci stesso alla slide guitar), i passaggi strumentali (“Psilocybe” e “Song eleven”) arricchiscono di spezie psichedeliche il piatto. Con un tasso di originalità in più questi ragazzi saranno in grado di ritagliarsi il giusto spazio nel panorama rock italiano. Mai come in questo caso osare è la parola d’ordine. Alessandro Zoppo
MASS, THE – City of Diss
Dalla sempre più intraprendente Crucial Blast arriva una proposta alquanto sorprendente come questi The Mass, autori in precedenza di un Ep e al debutto sulla lunga distanza con questo City of Dis. Punk-jazz, art-metal, progressive-grind.. difficile trovare una definizione ben precisa per lo stile di questi quattro americani: vi basti pensare che le note promozionali dell'etichetta chiamano in causa paragoni con Fantomas, Mr Jungle, Shellac, John Zorn o Frank Zappa! Sostanzialmente il disco si basa su frequenti cambi di tempo e di mood, break chitarristici alquanto pesanti e passaggi jazzati sottolineati dal sax del singer Matt Waters: ne è un chiaro manifesta il pezzo di apertura, La Porc, che nei suoi cinque minuti di durata sublima tutta l'arte di questo combo passando da momenti grind a parentesi più rilassate in bilico tra progressive e jazz. In lunghi pezzi come Trapped under A Ice o We Enclave Elves To built Our Death Machine (di cui è incluso anche un video live) il gruppo riesce ad espandere ulteriormente le intuizioni affiorate nel pezzo d'apertura, raggiungendo probabilmente l'apice di un lavoro alquanto spiazzante e schizofrenico. Su Buttlip sembra quasi di assistere ad un aggiornamento metallizzato dei certo progressive-jazz dei seventies (mi hanno fatto venire in mente vecchi lavori di Wyatt!), mood ripreso anche nella finale Marca Dos Invernos, dove gli improvvisi assalti chitarristici tornano a scuotere l'ascoltatore.Un lavoro sicuramente di non facile ascolto ma sorprendente e degno di almeno un ascolto: con questa release la Crucial Blast si conferma una delle etichette più interessanti del panorama underground e per le ardue e stupefacenti scelte artistiche non posso fare a meno di paragonarla alla più famosa e rinomata Relapse! Bokal
MASS, THE – Perfect Picture Of Wisdom And Boldness
Ho conosciuto i The Mass con il precedente City Of Dis e sinceramente mi avevano sorpreso con la loro miscela di prog-death metal impreziosito da gustosi interventi di sax. Ora, con il nuovo lavoro, la band riprende il discorso lì dove si era fermato con City Of Dis progredendo però sulla strada delle contaminazioni ed ampliando il lo spettro cromatico del proprio sound. Per farla breve, l'accostamento Crimson/Stayer azzardato dall'etichetta nella presentazione del precedente disco può ancora essere considerato valido, ma il souno di Perfect Picture presenta delle sfumature più varie rispetto al suo predecessore, soprattutto nel riffing delle chitarre (a volte meno "freddo" e metallico) e nell'uso della voce, nonché nel fresco ed accattivante songwriting. Ho trovato particolarmente intrigante la lunga Cloven Head dove, partendo da una ritmica prettamente doom si va via via ad incontrare voci prima brutali e poi epiche, solidi riff metallici e assoli dal vago sapore hard-rock/bluesy, delicati arpeggi e mazzate non indifferenti. Alquanto massacrante il rapido assalto di Gas Pipe (grind-core passato al tritacarne?) che fornisce un notevole contrasto con la seguente Meditation On The Some, soffusa ed ammaliante nei suoi vortici psycho-gotici, pregni di un'aurea progressive degna dei migliori seventies. A seguirne la falsa riga la buona Little Climbers of Nifelheim, mentre la band mi piace meno quando torna ad essere troppo metallica e fredda nel suo riffing chirurgico come in alcuni passaggi delle rimanenti tracks.Un bel passo avanti quindi per i The Mass, innovativi e sorprendenti, sicuramente uno dei gioielli di casa Crucial Blast. The Bokal
MASTERS OF REALITY – Give us Barabbas
Per fortuna non si commette un'eresia quando si scolpisce il nome dei Masters Of Reality a caratteri aurei sul libro della storia del rock, visto che la miracolosa creatura del genio Goss è in grado di competere con i maggiori nomi del passato, e contemporaneamente di brillare come la stella polare del futuro sonoro anteriore.
Masters of Reality – Flak ‘n’ Flight
Ci sono aspetti fondamentali da tenere a mente quando si ascolta un disco dei Masters of Reality: l’attitudine, la classe e l’eleganza nonché l’energia e il groove che si sprigionano dalle canzoni dei ‘Maestri’! Inoltre alla band, on stage, è sempre stato riconosciuto un certo talento non comune e questo live in particolare è semplicemente fantastico! Sin dall’intro elettroacustico tratto da una parte di “Ballad of Jody Frosty” che sfocia nell’open acustico e controtempo di drum ‘n’ bass in “Deep in the Hole”, title-track dell’ultimo ottimo album. Elettrica ed avvolgente “Third Man On the Moon”, magnificamente cantata da un ispiratissimo Chris Goss. Una illuminazione sovrannaturale sembra che lo avvolga durante le esibizioni live. Geniali interludi acustici riempiono spazi vuoti tra una canzone e l’altra e nel dettaglio, l’intro di “Why the Fly”, psichedelico e penetrante, rende irriconoscibile il pezzo stesso fino a che Chris non inizia a cantare, per finire in uno spettacolare ed elettrificato assolo che si differenzia quasi del tutto dall’originale. Fantasiose improvvisazioni confermano l’incredibile fantasia di questo strabiliante artista. Momenti di rilassamento e di ‘interazione’ con la platea che rasentano la magia sono la prosecuzione verso ‘Rabbit One’ nei cui periodi brevi/eterni mr. Goss e il resto della band, in perfetta sintonia in una eccezionale jamming session, fanno volare il pubblico: brevi ed elettrici assoli targati Josh Homme tagliano la base di basso e batteria di John Leamy e Nick Oliveri, eleganti e discreti, nessuno vuole strafare o scavalcare gli altri per dimostrare bravura o tecnica esecutiva, non ce n’è bisogno.

L'energia live dei Masters of Reality

La trascinante ed energica “John Brown” viene introdotta da una doppia chitarra, la prima è acustica: improvvisa la ritmica portante trasformandola in un boogey stoppato; l’altra è elettrica e staglia assoli brevi e veloci. Il risultato è fantastico. La song prosegue per oltre sette minuti tra altalenante cadenza ed energico cantato per finire in una avvolgente ovazione del felicissimo e privilegiato pubblico. Un impareggiabile Mark Lanegan, fresco dell'esperienza con i Queens of the Stone Age, ‘presta’ la voce in “High Noon Amsterdam” e si rivela probabilmente uno dei migliori pezzi del live, difficile scegliere. Queste sono le cose da tenere a mente quando si deve decidere se acquistare o meno un disco dei Masters of Reality e, secondo il nostro parere, non ha importanza se si hanno tutti gli altri album precedenti… il fatto è che questo live (come fu a suo tempo “Live at the Viper Room” al Sunset Strip Nightclub di Johnny Depp… sì, l’attore) è stupendo, registrato con altissima qualità audio e appartenente ad una delle più ‘gustose’ formazioni degli ultimi dieci anni. Un’ultima cosa: mai come in questo momento c’era bisogno di un live che non sia ‘solo’ divertimento ed energia, ma anche partecipazione e complicità con il pubblico, nonché grande feeling tra i componenti della sezione musicale, regalando grandi emozioni. https://www.youtube.com/watch?v=jvxN_R31BRc

Peppe Perkele

Mastodon – Blood Mountain
I Mastodon sono il miglior gruppo metal attualmente in circolazione. Dopo il notevole successo raggiunto con l’ottimo “Leviathan”, la band di Atlanta approda alla Warner Bros, e per gruppi simili firmare per una major potrebbe essere un’arma a doppio taglio. Non è il caso dei Mastodon, che continuano ad alzare il volume e seminare follia. La band, nel corso degli ultimi anni, è stata capace di stravolgere i concetti di post-core, progressive ed heavy metal, apportando soluzioni geniali e fondendo tutto in uno stile estremamente personale. Alcuni addetti ai lavori hanno provato a classificare la proposta del combo statunitense, ne sono venuti fuori etichette pittoresche quali post-metal, sludge-thrash-metal (e chi più ne ha più ne metta), che se da una parte sono utili per dare un indirizzo dall’altra creano solo confusione. “Blood Mountain” è un disco maturo (non che i precedenti fossero acerbi), la voce di Troy Sanders è versatile come mai prima d’ora, la melodia gode di spazi più ampi, l’hardcore predominante in passato è ora in secondo piano (“The Wolf Is Loose”), i tempi grind sono quasi del tutto scomparsi (restano alcune sfuriate nella schizofrenica “Bladecatcher”), si palesa l’amore per l’heavy metal più classico - come dimostrano gli incroci chitarristici - e per il progressive rock/metal - testimoniato dalle sempre più intricate trame strumentali. Non mancano canzoni dall’indole lisergica ed introspettiva come la sognante “Sleeping Giant”, la gustosa “This Mortal Soil” e la soffusa “Pendulous Skin”, una progressive ballad con voce dilatata ed avvolgente. Ma i Mastodon adorano soluzioni al di fuori di ogni controllo, ritmiche da emicrania (lode al drummer Bran Dailor) e riff vertiginosi, ovvero l’esatta trasposizione di brani quali “Capillarian Crest” e “Circle Cysquatch”... i Dream Theater in confronto sono ridicoli. Da segnalare inoltre la presenza di alcuni ospiti speciali: Josh Homme (QOTSA), Steve Von Til e Scott Kelly (Neurosis), e Cedric Bixler-Zavala (Mars Volta). Il primo degli ospiti citati fa capolino nella bellissima “Colony of Birchmen” con la sua inconfondibile voce. I Mastodon non sbagliano un colpo, sono una macchina da guerra ben collaudata e non conoscono limiti. “Blood Mountain” è un album eterogeneo in quanto a idee e soluzioni, omogeneo in quanto a qualità, tra i migliori album del 2006. Da avere! https://www.youtube.com/watch?v=VQo9bwQ2rQc

Davide Straccione

Mastodon – Crack the Skye
I Mastodon sono uno dei gruppi più importanti del nostro periodo e non solo in ambito metal. Su questo non vi sono dubbi. Se pensiamo a quello che hanno fatto i quattro ragazzi di Atlanta in tutti questi anni ci viene naturale supporre che probabilmente entreranno (o sono già entrati?) nell’elite dei più grandi di sempre. Un po’ come è stato in passato per Metallica, Slayer, Pantera e Sepultura, tanto per citarne alcuni. Dalle influenze sludge noise core di “Remission” del 2002, sono passati per il notevole “Leviathan” - grande disco di “metal evoluto” - fino ad arrivare ad un approccio più prettamente classico del precedente “Blood Mountain” - probabilmente il loro lavoro migliore fin qui ascoltato - ed in cui si iniziavano ad intravvedere sonorità “prog” sempre più marcate. Ora il nuovo ed attesissimo “Crack the Skye” accentua notevolmente tali influenze spogliandosi quasi interamente di quegli accenni post core che tanto vanno di moda in questi ultimi anni. Il disco è diviso in sette parti per la durata complessiva di 50 minuti presentando un cantato pulito (altra novità rispetto ai brani dei dischi precedenti) ed atmosfere più rilassate che in passato, epiche, in certi casi quasi sognanti ma senza abbandonare quello che è stato il tipico sound della band. Così si va dall’iniziale psichedelica “Oblivion”, al singolo “Divinations” destinato a crescere con gli ascolti. Molto ben riuscita risulta anche la title track con la presenza vocale di Scott Kelly dei Neurosis (già ospite in “Blood Mountain”), forse l’unico esempio in cui si trovano ancora trascorsi influssi post core. Ottime anche “Quintessence” e “Ghost of Karelia” che passano repentinamente tra aggressività e melodia. Ma la ciliegina sulla torta è data dalle due lunghe suite “The Czar” e la conclusiva “The Last Baron” che da sole valgono l’acquisto dell’album: la prima, in quasi undici minuti, cambia frequentemente il passo partendo lenta e delicata per poi diventare più dura e ritornare successivamente (quasi) sognante; la seconda è forse il brano più bello dell’album ed in tredici minuti dimostra cosa sia oggi il prog metal (con buona pace dei Dream Theater). Inutile parlare degli ammiccamenti della band con mostri sacri del calibro di King Crimson, Yes, Rush poiché tenderebbero a sminuire un’opera destinata a far parlare molto negli anni a venire. Un’opera che difficilmente non verrà inserita nei primissimi posti della classifica di fine anno. Anche perché ormai i Mastodon hanno dimostrato chiaramente di essere una garanzia assoluta. https://www.youtube.com/watch?v=jaJUEMdiHkY

Cristiano Roversi

MATADORS – Flame The WhisperFlame The Whisper
Dopo l'esordio del 2005 "The Muse of Senor Ray", tornano in pista gli ex Ridge, i simpaticoni Matadors. Cambio d'etichetta stavolta, la prestigiosa Devil Doll Records, e nuovo lavoro intitolato "Flame the Whisper". Ben 16 canzoni (davvero un eccesso) per quasi 50 minuti in bilico tra stoner, (scan) rock'n'roll, punk e qualche elemento particolare (tango, folk...) che scalda e mobilita l'atmosfera. In realtà non sempre l'obiettivo viene centrato e per certi versi (leggi personalità) permangono le stesse lacune del primo lavoro. Andreas (voce, chitarre), Jonas (batteria) e Johan (basso) sono bravi nel comporre e nell'eseguire ma spesso l'ostentata ricerca di novità conduce in un vicolo cieco. Per intenderci, piacciono alcuni intermezzi affascinanti come il feeling desertico che ammanta "The Duel" e la successiva "Ahead of My Time", gli influssi latini dell'ironica "So You Judge Me From the Volume of My Band?" e "Tango de la Muerte", l'approccio acustico di "Like a Matador pt I" o l'oscurità seventies di "Ode to L & G" (non a caso il miglior episodio dell'album). Non mancano guizzi rock'n'roll cazzoni e spensierati, sulla scia di quanto fatto di recente dagli Eagles of Death Metal ("Down in the Dumps (Like Nobody Else)", "Sod's Law"). Ma dove i Matadors cadono è quando pagano eccessivo dazio a Queens of the Stone Age ("New Wave Coke", "Ditched on a Pile") e Fu Manchu ("The Fresh", "The Luscious Cabaret", "Mere a Cipher"). Esattamente come ai tempi dei Ridge. Fortuna che i tre ragazzi svedesi continuano a non prendersi troppo sul serio, ispirando una immediata e genuina simpatia. Li rimandiamo all'appuntamento fatidico del terzo disco per una prova definitiva. Alessandro Zoppo
MATADORS – The muse of Senor Ray
In molti tra gli appassionati di stoner ricorderanno i Ridge, band giunta alla ribalta nel 2001 con "A countrydelic and fuzzed experience in a columbian supremo", disco che manifestava tutto l'amore (per non dire la totale devozione…) del gruppo verso i paladini Fu Manchu. Qualcuno gridò al plagio, qualcun altro si divertì e si esaltò ascoltando i quaranta minuti di "A countrydelic…" (ma quanti hanno fatto e fanno lo stesso per Dozer o Demon Cleaner…). Dopo quel lavoro però dei Ridge se ne erano perse le tracce. Oggi due terzi di quella formazione ritornano (Andreas - voce e chitarra - e Jonas - batteria -) dopo una esperienza a nome Fandango. Ed in compagnia di Johan (basso) escono allo scoperto come Matadors."The muse of Senor Ray" (titolo simpatico) è il loro debutto ed in fase promozionale si è parlato di una svolta sonora dei tre, ora diretti verso una maggiore eterogeneità (si leggeva di elementi metal, stoner, country e polka…). Beh, dopo aver ascoltato la mezz'ora abbondante di questo dischetto possiamo tranquillamente smentire tutte queste chiacchiere. I Matadors ci divertono sempre con il loro stoner fresco e fracassone ma quanto ad originalità non sono certo dei campioni. Bisognerebbe abbassare le pretese, anche perché quando ci dà dentro il gruppo ci sa fare. Pezzi che uniscono stoner e rock'n'roll come "I just tell you what you wanna hear", "Along came the halo" o "Next episode" (di chiara ascendenza Queens Of The Stone Age) sono ottimi passatempo, brani belli carichi ma senza pretese. D'altronde deve essere anche questo il fine di una band, i Fu Manchu lo insegnano da anni e anni. Le uniche variazioni sul solito canovaccio (riff carico di groove/cavalcata heavy/melodia appiccicosa) le donano i battimani di "Like a matador pt.II", i coretti femminili di "O Squartford Jr" e le trame spagnoleggianti di "Senor Ray" e "Deliverance", momenti comunque di puro intrattenimento. I Matadors ci piacciono perché non si prendono troppo sul serio. Fare il contrario sarebbe per loro un grande errore, per noi un immane dispiacere. Alessandro Zoppo
MATRA – Missione Delta
Direttamente da Milano arriva una nuova band chiamata Matra e il debutta, Missione Delta presenta un energico rock'n'roll che parte dal garage beat per andare a sfiorare certe lande stoner, con la particolare voce di Diego che risulta molta attaccata alla scena alternative italiana.Ottima partenza con la title track dove la band offre il suo lato più garage, ripreso poi in altri episodi come Deb'n'Furio's o Benzina, dove l'animo rock'n'roll alza la testa con sfumature melodiche che non dispiaceranno ad un pubblico più attento a certe linee vocali. L'aroma del deserto fa capolino nell'introduzione di La Recita, una sorta di ballata che prende un po' dal giunge degli anni d'oro e un po' dallo stoner più leggero e visionario. Molto interessante l'atmosfera de Il Baro, impreziosita da chitarre liquide a da un synth che sa molto di western soundtrack. Ancora un po' di alternative rock con C.R.U. Mangia Preti, un po' di giunge in L'odio e ancora sano rock'n'roll in Radici, mentre la conclusione del lavoro è affidata all'heavy ballad visionaria Acqua Dal Sole, un'ottima conclusione che riassume tutti i buoni aspetti di questa band. La produzione è molto buona e lo è altrettanto la registrazione, la band suona in modo egregio: le uniche cose che non mi son piaciute troppo sono l'artwork (una bella idea che poteva essere realizzata meglio) e lo stile della voce che a volte prende troppo dalla scena alternative rock italiana mentre l'avrei preferita un po' più selvaggia (hey, è solo questione di gusto personale, Diego è veramente un ottimo singer!!). Ad ogni modo, segnatevi i Matra sul vostro taccuino, prevedo che sapranno stupire! Bokal
MATRA – Roots 2 the Sky
"Missione Delta": era questo il nome del primo album dei Matra, uscito nel 2006. Il disco in questione era edito da Last Scream Records, la band cantava in italiano ed evidentemente non aveva ancora raggiunto una line-up definitiva. Insomma, dopo aver apportato cambiamenti di formazione e lasciato a macerare il progetto per qualche anno, finalmente i nostri raggiungono la serenità per concepire "Roots 2 the Sky". Quest'ultimo, distribuito e promosso da (R)esisto Distribuzione, si compone di dieci tracce che, come Ianus Bifrons, hanno due facce: una rivolta verso il futuro e una verso il passato. È questa la caratteristica principale dell'album. L'avvicendarsi di sonorità passate e moderne trasforma l'ultimo dei Matra in una miscela di stoner rock, blues, hard 60/70, metal, psichedelia. Non a caso se avrete la pazienza di andare a spulciare tra le influenze ufficialmente dichiarate dalla band, troverete una lista infinita di nomi rappresentanti le alte sfere della musica. "Roots 2 the Sky" è un disco schietto: diverte! La composizione fila senza intoppi esprimendo il meglio di se in brani come "Ufo Paranoid", "Shangai Killer Orang-Utan" (e i suoi rombanti giri di basso), "Hand Lines Rider" (con le ottime linee vocali di Matteo Perego) e la conclusiva "Spotlights Down Syndrome". Non un disco esaltante ma, quello dei Matra, è senz'altro un bel lavoro: elabora sapientemente i propri trascorsi musicali senza, con questo, farsi annullare dai mostri del passato. Enrico Caselli
MAXMILLION – Maxmillion
Altra uscita estrema in casa Retribuite: questa volta la label inglese pesca dal suo cilindro una band davvero devastante, tali Maxmillion. Scorgendo la biografia del trio americano si legge che Bobby Ferry (voce e chitarra) e Jason Corley (batteria) sono già stati compagni d'avventura nell'esperienza dei 16, sludge band autrice di un album considerato un classico del genere, tale "Drop out". Ora i due, coadiuvati al basso da Chris Jones, ritornano sulle scene con un disco d'esordio oscuro, potente e perverso. Le coordinate stilistiche non si discostano molto da quelle del loro precedente gruppo, orientandosi su un genere abbastanza arduo all'ascolto che miscela sludge, metalcore, doom, thrash e death. L'obiettivo sembra voler essere quello di comporre musica cupa e pesante fino al parossismo, in un modo che in quanto a paragoni può richiamare solo i Bloodlet e per certi versi gli ultimi Carcass. Brani come le iniziali "Waste of relations" e la successiva "The angel that fell through earth" mostrano una band compatta e desiderosa di spazzare via ogni resistenza in chi ascolta, con le vocals urlate di Bobby perfettamente amalgamate al wall of sound della sezione ritmica. Le chitarre sono sempre granitiche e aggressive (esempi ne sono l'impatto deathcore di "Night of the permanent scar" e l'assalto metallico di "Dilated eyes"), mentre l'unico momento di parziale respiro lo dona "Pure black", song che parte acida e dilatata per poi concludersi in modo sulfureo e apocalittico. Le visioni cupe e distruttrici dei Maxmillion continuano ad assumere forme esasperate anche nelle restanti tracks: "Cold steel warm heart" è puro sludge metal tirato e deviato con accelerazioni al limite del grind, "Burning the life" unisce la l'ossessione soffocante del doom alle schizofrenie dell'hardcore, la conclusiva "Designed by the vultures" è il perfetto finale per un viaggio così opprimente… Una proposta senza dubbio difficile quella dei Maxmillion, molto distante dai soliti canoni espressivi. Chi è in cerca di qualcosa di lineare e facile ne stia alla larga, chi invece è affascinato dal lato oscuro e macabro della musica si faccia sotto, qui troverà pane per i suoi denti… Alessandro Zoppo
Maya Mountains – EP
Continua l'invasione stoner tutta italiana. Stavolta tocca a Mestre e vede protagonisti i Maya Mountains, giovane e agguerrito power trio formato da Alessandro (voce, basso, synth), Emanuel (chitarra) e Marco (batteria). La band suona in giro dal 2004 e fa gavetta con la crema della scena nostrana, dagli OJM agli Small Jackets, passando per The Forty Moustachy, Underdogs, Three Eyes Left e Zippo. Una serie di live che cementa l'amalgama e porta alla registrazione di un pugno di canzoni, presenti in questo EP autoprodotto di cinque pezzi. Siamo in zona stoner rock tosto e nerboruto, scritto con potenza e passione ma soprattutto eseguito a volumi spasmodici. Black Sabbath, Kyuss, Motorhead come numi tutelari, una spruzzata di grunge e cromature metal. Il gioco è fatto. "Wanna Know What I Know?" e "Cosmic Comic" mostrano subito i denti con un sound cazzuto e prepotente, mentre "Hope" azzecca il giusto giro per coinvolgere in pieno cuore e cervello. Stesso principio adottato da "Fire Entrance", che si rivela essere anche il miglior brano del dischetto. "The Mudtrain" chiude i conti con un riff cattivissimo e ritmiche al fulmicotone, come se i Corrosion of Conformity si divertissero a fare gli Unida. Con una definizione sonora maggiore (e qualche linea melodica in più), i Maya Mountains potranno davvero fare il botto al disco d'esordio. Etichetta intelligenti disposta a farli debuttare cercasi. https://www.youtube.com/watch?v=b5jLB0JOH9k Alessandro Zoppo
Maya Mountains – Hash & Pornography
Dopo l’EP autoprodotto datato 2007, i Maya Mountains sono finalmente riusciti a compiere il salto più grande con la pubblicazione dell’album d’esordio grazie all’apporto della Go Down Records. Il trio di stanza a Mestre, composto da Alessandro (voce, basso, synth), Marco (batteria) ed Emanuel (chitarrista ed ultimo entrato a far parte dell’attuale organico), ce l’ha fatta. “Hash & Pornography” è un concentrato di stoner, hard, punk, psichedelia, grunge e quel pizzico di melodia contagiosa che ne ha accentuato l’adrenalina e che probabilmente mancava nella loro precedente uscita: dieci brani eccitanti sempre sotto l’attenta regia del “mitico” Giulio Ragno Favero, coadiuvato in questa occasione da Manuele Fusaroli in sede di mixaggio. Ora il sound del gruppo si è fatto decisamente più a fuoco. A partire dall’opener “Spring” dove riecheggia lo space rock dei Monster Magnet, oppure nelle chitarre sature di “Cosmic Comic” che sanno tanto di Kyuss o ancora nel robot rock di “Fire Entrance” degno dei migliori QOTSA. Non manca loro l’ironia (“My TV, My Sofa, My Food”) e la voglia di trascinare con potenti schegge grunge punk (“Dead Hurricane Saw”). Il trio possiede tutti gli ingredienti per poter emergere grazie ad una proposta eterogenea e coinvolgente. Bello pure l’artwork, pieno di colori, immagini femminili e trip psichedelici che riportano alla luce gli anni settanta. Menzione finale per la fenomenale “’74”: è come se i Led Zeppelin, alle prese con il punk, fossero successivamente spediti nello spazio più profondo in un viaggio senza ritorno. Sedici minuti di autentico delirio sonoro post psichedelico. Meglio di così da un debutto non è possibile pretendere. Dopo Doomraiser, Zippo, Skywise e Midryasi (e ne dimentichiamo sicuramente altri), alla prolifica scena stoner italiana aggiungete pure un altro nome. Quello dei Maya Mountains. https://www.youtube.com/watch?v=_kIkqOlGEwk

Cristiano Roversi

Maya Mountains – Era
Era, quasi come il tempo che hanno impiegato i Maya Mountains per dar seguito a Hash and Pornography del 2008. L’assalto è bruto e degno dei primi High On Fire con cui condividono una visione sabbathiana oscurata, basta ascoltare l’uno/due iniziale formato da Enrique Dominguez e In the Shadow. La chitarra di Emanuel è una schiacciasassi che produce metallo liquido dalle fucine dell’inferno. Quando si lancia in assoli spaziali (San Saguaro) percorrono visioni e ideali vicini ai Toner Low. Siamo in zona ultra heavy per intenderci, ma lontana dal doom tout court per via della colorazione melodica che i tre riescono a dare. Il cantato allucinato richiama alla mente i Beaver, sempre dalle parti dei Paesi Bassi: una lezione di heavy psych fondata sull’originalità. Matt Pike ricompare a pieno titolo in Vibromatic, che chiude la facciata A del vinile. Si riparte con la strumentale Raul, che mette in moto gli organi propulsori/oscillatori degli Hawkwind, padri tutelari di qualunque band che voglia fare di un riff una canzone di sette minuti lanciata nello spazio. Da qui in poi assistiamo alla parte più variegata dell’album, dove ritmiche alla Queens of the Stone Age si incastrano in stacchi alla Sons of Otis (Baumgartner), dolcezze punk rock guilt alla Brant Bjork e finali che sembrano registrati al Rancho de la Luna dall’Orchestra del Desierto. Una curiosità: Era è stato registrato nel 2014 ma vede la luce solo oggi, segno che il tempo (il loro primo EP autoprodotto risale al 2007) non è altro che una distorsione data dalla necessità di strutturare la realtà ad ogni costo e che il tempo, appunto, non è una prerogativa a cui amano sottostare i Maya Mountains. https://www.youtube.com/watch?v=3-sHNCONB8I

Eugenio Di Giacomantonio

MAYHEMIC TRUTH – In Memoriam
Quando mi è capitato per le mani questo In Memoriam dei Mayhemic Truth a giudicare dalla copertina pensavo di avere di fronte un album di mistico doom, ma una volta partita la seconda traccia (la prima è un semplice intro tastieristico) è apparso subito chiaro che le coordinate all'interno delle quali si muove il gruppo sono quelle dell'epico Viking Metal. Ritmiche aggressive e voce luciferina, il tutto reso maestoso dalla presenza del tappeto di tastiere che va a condire praticamente tutte le composizioni. Pur non essendo eccessivamente originale il lavoro risulta essere ben riuscito mantenendo un certo equilibrio tra i riff di chitarra e quelli di tastiere e con sporadici inserti di voci pulite che danno più respiro ed una certa varietà ai pezzi.Il CD in questione sembra fosse già pronto nel 99 ma viene proposto solo ora con l'aggiunta di un promo tape registrato nel lontano 94. Epico, evocativo e pregno di riferimenti ancestrali, questo è il viking metal offerto dai Mayhemic Truth indicato, manco a dirlo, a tutti gli appasionati del genere. The Bokal
MC5 – Kick Out The Jams
Gli MC5 sono stati uno dei gruppi più influenti ed attuali di sempre, perché con la loro miscela incendiaria di hard rock, protopunk e suoni valvolari, incarnarono più di tutti il trinomio sex, drugs & rock n'roll sia nell'aspetto che nelle sonorità, riuscendo a scatenare quelle reazioni a catena che tutt'oggi non si sono ancora fermate. Tutta l'anima della band di Detroit è racchiusa in quell'urlo nell'apertura della title track del disco, recitando come un inno alla ribellione e alla vita il titolo del disco live: Kick Out the Jams!, giungendo un motherfucker che farà storia e che all'epoca venne censurato in tante esibizioni live.Socialmente pericolosi per l'America buonista, gli MC5 furono gli artefici di quel Detroit rock, anticipando movimenti come il punk, il garage, il noise e persino lo stoner rock: fuzz come se nevicasse, bordate devastanti, amplificatori che vomitano scariche di decibel e di musica aggressiva nonostante la semplicità di una band che creava canzoni e dischi con quello che c'era in circolazione, ma caricandolo di elettricità dissacrante, iconoclasta e di scioccante irriverenza. Probabilmente uno dei migliori live della storia del rock, che potrebbe figurare benissimo affianco a dischi storici come 'Made in Japan' dei Deep Purple o l'esibizione di Jimi Hendrix a Woodstock. La carica che si sente sprigionare lungo le tracce dell'album è maledettamente irresistibile, merito di un cantante dalla voce accattivante come Rob Tyner e dal groove tirato fuori dalle chitarre marce e graffianti dell'asse Kramer-Smith, la cui differenza con Ron Asheton degli Stooges è che quest'ultimo crea delle melodie più cupe e più distorte, mentre il nostro rimane affascinato dalla potenza e dalla voglia di sudare ed esibire il proprio egocentrismo in pose da macho delle sei corde. "Tirate fuori le palle, figli di puttana" è solo una delle traduzioni di un disco che si colloca tra i più importanti e tirati degli ultimi 40 anni, rimanendo il capolavoro indiscusso della band, anche perché 'Back to the USA' (1970) e 'High Time' (1971) sono ideati e suonati in studio, mentre la jungla in cui si scatenano queste bestie dai capelli cotonati ed i pantaloni a stelle e strisce è proprio il palco. Dimensione live che è caratteristica comune di molti gruppi del periodo 1966-1976, che dal vivo creavano jam lisergiche dilatando la forma canzone (Cream, Jefferson Airplane, Doors, Hawkwind, Pink Floyd), aggredivano e azzannavano alla gola il pubblico (MC5 appunto, The Stooges, Led Zeppelin, Blue Cheer), costruivano proiezioni sonore ortogonali dove il barocco si poteva fondere con il gotico (Blue Oyster Cult, Black Sabbath), ammantavano il neoclassico con il manto progressive e hard rock (King Crimson, Genesis, Deep Purple). Insomma, 'Kick Out the Jams' è un manifesto di tutto quello che c'era e di tutto quello che ci sarà: guardate le registrazioni dell'epoca e noterete che due nomi come Omar Rodriguez Lopez e Cedric Bixler Zavala hanno copiato il modo di stare sul palco del signor Tyner. Scordatevi il track by track, compratelo perché: a) è un monumento, anzi pietra miliare del rock; b) costa intorno ai 10€ o anche di meno; c) è galvanizzante, vi risolve la giornata. Altrimenti potete pure andare a cagare e rimanere con i vostri gruppettini revival credendo che i Jet spacchino o che il garage rock sia nato nel 2000. Gabriele "Sgabrioz" Mureddu
MEATJACK – Days of fire
Rabbia ed intelligenza sono le doti principali dei Meatjack. In giro dalla metà degli anni ’90 (hanno all’attivo il convincente disco d’esordio “Trust” ed uno split con i Damad), il trio proveniente da Baltimora piazza la stoccata vincente con il nuovo “Days of fire”. Gli amanti delle sonorità nervose, brutali ed apocalittiche di Neurosis, Unsane, Melvins e Today Is The Day gioiranno non poco: 40 minuti di distorsioni acide, sterzate noise che lacerano i padiglioni auricolari, frammenti hardcore, riff possenti e vocals impazzite in tipico stile sludge. Ma la varietà ai fratelli Brian (chitarre, voce) e Jason Daniloski (basso, voce, chitarre), accompagnati alla batteria da Eric Dixon, non manca affatto: se pezzi come l’iniziale “Sleep” (andamento da caterpillar e chitarre che macinano riff su riff), la sparatissima “50 Years” o la malsana “Cold flight” trasudano disagio e violenza, ci pensano altri episodi strumentali a donare vigore e genialità al disco. “Face down” ad esempio unisce rumore e groove in ampie dosi, “Sea of tranquillity” viaggia su frequenze ambient psichedeliche e “Blue” si adagia su una struttura acustica di stampo zeppeliniano per poi creare un clima di tensione che esplode nella forsennata “.45”. Bellissimo è anche l’artwork (essenziale ma altamente suggestivo) ad opera di Stephen Kasner e azzeccata si rivela la produzione (realizzata dagli stessi Meatjack), che non si spinge oltre i propri limiti e sottolinea in maniera adeguata l’aggressività ragionata del songwriting. Basta ascoltare l’andamento in slow motion della title track (segnata da lugubri arpeggi di chitarra acustica e da una melodia à la Alice In Chains) o l’atmosfera asfittica creata dal monolito finale “Crawl” per rendersi conto di quanta personalità e valore fuoriesca dai microsolchi di questo dischetto. Se siete in preda a manie autodistruttive lasciate perdere la scarnificazione o il delirio, mettete nello stereo “Days of fire” e presto diventerete carne da macello… Alessandro Zoppo
MECHADDOAR – Oans + Zwoa + Dreist
L'esperienza di appassionato ed ascoltatore di rock conduce inevitabilmente attraverso gli anni ad un percorso sonoro sempre più variegato. Ciò permette di avviare contatti con le forme sonore più disparate, realizzando che se da una parte con sommo piacere si aprono nuovi orrizzonti, dall'altra se ne verificano tristemente la fine di altri. In particolare l'hard rock, l'heavy metal, il doom e lo stoner sono finiti in una sorta di limbo senza uscita, salvo rare eccezioni. Generi che ripetono spesso i consueti canoni, ma rivivono grazie ad altre forme di rock quali lo space, la psichedelia, il progressive e certo post / alternative, capaci di trovare soluzioni stilistiche tali da renderli non solo interessanti ma talvolta persino molto originali. A conferma di tutto ciò, dalla Germania arriva la one man band Mechaddoar. Totalmente e volutamente underground, il progetto (che nello slang bavarese significa qualcosa come «lo voglio fare» oppure può diventare "mekkadoor", la porta per la mecca) è la creatura di Christian Zinke.Mechaddoar è un laboratorio che si divide in 3 EP per un totale di 17 brani, chiamati "Oans", "Zwoa" e "Dreist". Questi lavori sono stati realizzati da Christian tra il luglio del 1997 ed il gennaio del 1998 e ora disponibili per ascolti e download su Bandcamp. Ne scaturisce un interessante viaggio sonoro che Zinke definisce alternative psychedlic Berlin. Con chitarra acustica, semi Gretsch e un organo a buon mercato su alcune canzoni, bongos, uova shake, bastoncini cinesi, un microfono, chitarra multieffetto Korg, Boss digital delay e un sacco di erba su altre, Christian registra su un Tascam 8-Track-Cassette-Recorder e improvvisa davvero tanto. La psichedelia regna sovrana, a volte più acida altre più sperimentale, talvota oscura, occasionalmente noise tra kraut rock, Velvet Underground e The Stooges. In un brano dall'eloquente titolo "Doom", viene in mente anche il nostrano Paul Chain, quello più sperimentale. Ma in generale, si colgono diverse influenze che attraversano le ultime tre decadi di psych rock sperimentale e alternativo. Il consiglio però è soltanto uno: ascoltate Mechaddoar, ad ognuno potrebbe dare una sensazione diversa. Antonio Fazio
MELVINS – (a) Senile animal
Descrivere l’essenza dei Melvins è dannatamente complicato, nonostante ogni loro disco suoni dannatamente Melvins anche a dispetto dei continui mutamenti di forma che questo mostro musicale continua a fare da 20 anni. L’ultima fatica della ditta Crover&Buzzo suona esattamente come l’anima di questi 20 anni, sotto la forma di un animale addomesticato.Un disco veloce, 10 traccie di cui la maggior parte sotto ai 3 minuti. Tutti i pezzi sono attaccati tra loro per mozzare continuamente il respiro e dopo le rade concessioni ai cali di ritmo subito sferragliano accellerazioni aggressive che spezzano nuovamente il fiato. Andiamo con ordine: l’ultimo periodo della band è stato segnato da collaborazioni di lusso (Biafra, Lustmord) a cui segue un periodo lungo di silenzio. Ma basta l’ennesimo licenziamento del bassista di turno per ripartire nella missione di stupire tutti. Per l’occasione Buzz e Dale decidono di inglobare non solo un bassista, ma un gruppo intero, così i Big Businness (duo di casa Hydrahead che suona veloce) entrano nella formazione per formare una mostruosa creatura a due batterie. Il risultato è l’ennesimo piccolo gioiello che al classico stile di riffing Buzziano e al drumming scomposto Croveriano aggiunge una rinnovata attitudine core e, sorpresa, una marcata vena per la melodia catchy nelle parti vocali. Il tutto sommerso dal saturo suono di due batterie. I melvins non sono (quasi) mai stati un gruppo semplice, anche quando hanno lasciato in panchina la loro propensione al “faccio tutto quello che mi passa in testa” il loro sound si è presentato sempre spigoloso e nauseabondo (attenzione, sono complimenti). Questo disco, pur avendo pezzi in cui la struttura classica della canzone è decomposta, pur avendo traccie con ritmi deliranti, pur essendo abrasivo, riesce a cullare l’orecchio e a imprimersi in testa come un disco della più abile pop-band. Il cantato soprattutto è un susseguirsi di liriche orecchiabili e i riff, seppur intricati, riescono facilmente ad incollarsi alle meningi. In sintesi un album in pieno stile Melvins. Veloci deliri e scatti di schizzofrenia che colorano la riconoscibilissima aria da serial-killer, ma stavolta con quel quel rassicurante sguardo di chi finge di essere normale. Federico Cerchiari
MELVINS & LUSTMORD – Pigs of the Roman Empire
Quindi, i Nirvana dopo 3 album li ritroviamo così: un politico, un batterista baldracca, un pirla morto suicida che rovina le menti dei ragazzini riempiendoli di immonde stronzate come “I hate myself and I want to die”. Grazie a dio si è levato dalle balle. Poi i Pearl Jam, dopo 3 album stupendi hanno passato gli anni a fare bootleg, dvd e altra monnezza riciclando il loro stile, però, almeno loro sono ancora in piedi. Poi i Mudhoney, a loro tanto di cappello. Gli Alice In Chains, purtroppo, ci han lasciato. Gli Screaming Trees di Lanegan... andati.E poi chi c’è? Mah, ci sarà di certo qualche altro povero pirla, che va in giro dicendo “granj”. Ma ‘sto grunge, una buona volta, ormai son passati dieci anni, qualcuno mi spiega che stracazzo è? No perché io mica l’ho capito, che hanno i Mudhoney in comune con i Nirvana? Ah, il luogo di nascita... e poi? Ah sì, che pirla, non ci ero arrivato. Sono tutti fan dei Melvins. Tutti, nessuno escluso, erano/sono fan dei Melvins, i primi veri grungers. Ma, piccolo particolare, gli altri dove sono? Eh? Andati... scomparsi... portati via dalle sabbie del music biz... sciolti come cacca nel deserto. I Melvins, ridendo e scherzando, nel 2004 hanno pubblicato il loro trentunesimo lavoro. Scandite bene, trentunesimo. E non ce n’è uno brutto, non hanno mai deluso, i Melvins, sono i Melvins, sono Seattle, sono il grunge. Il grunge non è morto: non è mai esistito, basta dire Melvins. Amo quest’uomo con i capelli come un autoclave, anche perché di donne ne capisce a palla. Basta vedere la traccia numero 6 di questo cd. Rock’n’roll, sempre & comunque rawk and rawl. Più li ascolto e più mi chiedo come ho fatto a vivere senza di loro, basta vedere il titolo della traccia numero 6 di questo cd. Pier ‘porra’ Paolo
MENDOZZA – HMCS Uganda
Strana band i Mendozza. Sono in tre (Deuce voce e chitarra, Bina batteria, Hank basso) e sembrano in venti. Non per amalgama o complessità ma per la pienezza del loro sound. Un heavy doom coriaceo, oscuro, tormentato. Mastodontico ed imponente come la nave HMCS Uganda che dà il titolo al loro promo d'esordio. Un disco di sette brani che picchia duro dall'inizio alla fine. Una mezz'ora scarsa di assalto sonoro che traversa varie sfaccettature del doom, sempre nel segno della potenza: Crowbar e Down da una parte, Wretched e The Obsessed dall'altra. In questo mare magnum spiccano le ritmiche ossessive della coppia formata da Bina e Hank, un ponte che sorregge il lavoro assatanato di Deuce, diviso tra riff grassi, assoli pungenti e vocals marce, dannatamente catramose. Qualche accenno melodico spunta solo nei chorus urlati ma a presa rapida di "Ground" e "Song 1", il resto è carica violenta che colpisce ai fianchi, adeguatamente sporcata di metal e groove stoner di ovvia ascendenza sabbathiana. Qualche break in più (armonico o dilatato che sia) non avrebbe certo guastato, anzi. Ma per ora ci accontentiamo, attendendo il gruppo canadese alla prossima uscita, un full lenght di durata corposa. Fin qui ci accontentiamo di bordate secche e lancinanti ("Swarm", "Inhaler") o di matasse solide ed intricate, giusto compendio di gusto e sensibilità doom (la bellissima "Old sparky", miglior brano dell'album). Velocità e compattezza, ecco cosa esprimono i Mendozza. La loro musica darà sicura gloria alla ciurma che sulla nave canadese ha perso la propria vita. Alessandro Zoppo
MESAS – Il turpe
A riprova di una vitalità crescente che sta invadendo i gruppi italiani, i Mesas tornano in pista con un nuovo lavoro dopo quanto di buono avevano fatto ascoltare con il precedente “Spaghetti stoner”. “Il Turpe” è un ep di quattro pezzi che prosegue il percorso intrapreso a partire dal 2002: bollente stoner desertico che si mischia agilmente con testi in italiano e suggestioni provenienti dal sound alternative di Afterhours e Six Minute War Madness. Tale sensazione è evidente in particolar modo nelle parti vocali di Lorenzo, acide e sgraziate come quelle del Manuel Agnelli di qualche tempo fa. A bilanciare questa tendenza ci pensano invece ritmiche afose ed incessanti (Yureck alla batteria e Stefano al basso) e soprattutto chitarre incandescenti (opera di Lorenzo e Samuel) che trasudano una potenza veramente vibrante. Ed è proprio quando la band riesce a coniugare queste due anime compositive che vengono fuori autentici bolidi come l’iniziale “Tosse” (vocals ruggenti, riff e assoli da levare il fiato per un mix agghiacciante!) o l’altrettanto riuscita “Mente ribelle”, giostrata su un andirivieni di parti psichedeliche e roboanti esplosioni heavy. La matrice kyussiana viene ancora fuori in “L'insetto”, bel concentrato di potenza e melodia con qualche concessione a sonorità indie noise. Tutto groove è infine la semi strumentale “X”, splendida matassa fumosa tanto indemoniata da poter competere con le staffilate targate Karma To Burn. Grande feeling, produzione impeccabile e grinta al punto giusto sono le doti vincenti dei Mesas. A questo punto il full lenght di imminente uscita si preannuncia un vero e proprio botto! Alessandro Zoppo
MESAS – Spasmi che sanno di me
Non è poi così male il male, vero Mesas? Domanda ricorrente in "Spasmi che sanno di me", un disco (il terzo del gruppo milanese, dopo gli ottimi "Spaghetti stoner" e "Il turpe") imbevuto di pura sensualità. Odori di sesso e lezioni di seduzione che esplodono fragorosi nelle dodici tracce che compongono l'album. Un lavoro che per le sue potenzialità può consentire ai Mesas il grande salto nell'olimpo del rock italiano.Produzione impeccabile, masterizzazione effettuata negli studi di Abbey Road da Sean Magee, un pugno di canzoni scritte ed eseguite con classe, grinta, intelligenza, passione. Tutto è messo a fuoco: la voce isterica e voluttuosa di Massimiliano, le chitarre robuste di Lorenzo e Samuel, le ritmiche incisive di Stefano - basso - e Yureck - batteria -. L'impasto sonoro è dei migliori: stoner rock sì aggressivo ma dannatamente intrigante, 'catchy' nelle melodie e con ampie concessioni ad un sound più spigoloso, che richiama Sux! e Six Minute War Madness. Con un buon lancio pubblicitario un brano splendido come "Sdegno" potrebbe essere tra i singoli più trasmessi della stagione. Ma anche le iniziali "Noia" e "Uh!" non sono da meno, pezzi tosti ma aperti ad ogni soluzione melodica. Tanto che quando arriva "Intermezzo III" ci si meraviglia dinanzi ad una ballata malinconica impreziosita da un dolce violoncello. "Vorrei essere (in) lei" è un altro bolide lussurioso ed esuberante, stoner rock come hanno insegnato i seminali 7Zuma7. Sonorità riprese con piglio frenetico anche in "Virus". "La mia regina", "Sterile" e "No, grazie" percorrono con forza ed ingegno i sentieri 'robotici' ed intricati segnati sulle cartine del rock internazionale dai Queens Of The Stone Age. "Smanio" è un divertente intermezzo 'stoner swing', mentre "Lirica" chiude il cerchio con la sua languida armonia, non prima di passare il testimone alla conclusione ironica di "L'aviatore". Speriamo voli sempre più in alto (e continui a cacarci in testa…) se i risultati sono questi. Alessandro Zoppo
METHADRONE – Retrogression
Ultra doom/drone metal senza le chitarre; sì, avete letto bene, anche se la cosa potrà sembrare assurda. Lo credevamo anche noi prima di scoprire questo gruppo americano che ci ha invece tramortito, producendosi in uno dei sound più doom e heavy mai ascoltati prima. I Methadrone sono il nuovo progetto di Craig Pillard (ex membro della death metal band Incantation) e quest’ultimo “Retrogression” (confezionato in un elegante formato DVD con tanto di bonus videos) rappresenta la terza prova del nostro, il quale sembra non avere nessuna intenzione di fermare la propria creatività (altri progetti e collaborazioni sono in cantiere). Craig fa tutto da solo: suona il basso, programma la drum machine e crea allucinanti effetti sonori, riproducendo, con questi ultimi, fedelmente il guitar sound tipico di certo doom, pur senza avvalersi delle chitarre (il cantato, maggiormente presente nelle passate release, è quasi completamente assente).L’insieme è proposto ad una lentezza e pesantezza allucinanti e amalgamato in un’atmosfera apocalittica dal taglio quasi mortifero. Eppure, in canzoni come la title track e “Transiet release” è possibile scorgere squarci melodici, i quali hanno l’effetto di rendere oniriche le composizioni; è come se dei raggi di sole entrassero, flebilmente, nel buio più nero che possiate immaginare. Un gruppo che farà la gioia dei fan dei seminali Godflesh (e ancor più dei loro “figli” Jesu) ma, ne siamo convinti, potrà regalare le giuste emozioni anche a chi adora band come Warhorse, Electric Wizard, Yob, Sons Of Otis (ovvero l’ala più pesante della scena lysergic doom) e a chi apprezza le visioni apocalittiche dei Neurosis. Segnaliamo la cover “Sex, god, sex” degli Swans (una delle cult band di Craig) resa in una versione mega slabbrata e degna conclusione di uno dei lavori più intriganti usciti nel 2005. Fatelo vostro. Marco Cavallini
MEXICAN MUD – Toroidal
In questa prima metà del 2008, tra le nuove realtà emergenti, stanno iniziando a farsi notare i Mexican Mud, terzetto ligure con appena due anni di vita alle spalle, ma con un background vario e di rispetto. Infatti nel sound dei Fango Messicano si combinano le esperienze – in certi punti in maniera più lampante - passate delle band dei tre componenti: l’old school hc dei Generation Waste, in cui suonavano Manuel (chitarra-voce) e Andrea (batteria); lo stoner rock dei Starship Pusher del buon Richard (basso), che peraltro figurava anche nei Entropic Degrade Behind Phylogeny, band grindcore. Non dimentichiamo anche i The Peewies, combo heavy rock'n'rool di Andrea, ed i punkers hc Evolution So far, in cui militava Manuel. Sottolineare il passato dei membri di questo power trio è importante per capire quale sia la loro proposta: sinteticamente potremmo dire che quello che immediatamente colpisce, nell'ascolto di ‘Toroidal’, è la capacità di creare delle melodie dirette e con un gran tiro, fondendo lo stoner con il doom di qualità ed insaporendolo con tanto groove.Le influenze che si leggono sulle pagine spartane, ma esaustive, del booklet dell'ep autoprodotto è la solita lista di numi tutelari per chi bazzica, come ascoltatore e/o musicista, questo genere e simili, ma un nome che non ci si sarebbe aspettato di trovare, tra i vari Kyuss e Saint Vitus, Hendrix e Grand Funk, Sleep e Black Sabbath, sono gli argentini Buffalo, ottimo gruppo che fonde uno stoner rock metalloide e massiccio, con dei riff contaminati da sludge e doom, con delle melodie frenetiche veloci. Anche i Toroidal sono così: prendono la pesantezza del doom, anche dal punto di vista delle ritmiche, e lo fondono nella loro fucina con il verve martellante dello stoner, la magia della psichedelia e un pizzico di carica ed attitude punk. Attenzione, non “sonorità”, ma attitudine fottutamente punk/rock'n'roll, che è quella che vi fa muovere il piedino e stringere un plettro invisibile, mentre scuotete la testa. Il lavoro dei tre è sicuramente validissimo, fuzzoso e ruvido, perché della produzione casereccia hanno fatto parte della loro forza, creando brani in cui il riffing sia velenoso e polveroso, mentre un basso corposo e onnipresente si divincola tra il supporto ad un batteria ora tarantolata, ora funebre, ed un duetto con una chitarra che erige muri e li abbellisce con dei piccoli momenti di attività solistica. Da segnalare, sia il brano da 9 minuti “Visceral-Halface”, sia “The Fault- For Freedoom Circus”, dal titolo accattivante e geniale. Se queste sono le premesse, speriamo che le conferme portino i Mexican Mud in giro per l''Italia e l'Europa. Magari in compagnia di El-Thule e Stoner Kebab, giusto per fare due nomi con cui li vedremmo bene. Ma potremmo dirne altri: per fortuna Perkele.it non è orfana di ottime band italiane. Per contattare la band, potete visitare il suo myspace, mandare una mail all'indirizzo: [email protected]. Gabriele "Sgabrioz" Mureddu
MEXICOLA OIL COMPANY – Slow Low Indigo
I Mexicola Oil Company vengono dalla Germania ma hanno il Messico (e le zone di confine degli States) nel cuore. Evidente da copertina, booklet e sonorità che caratterizzano il loro esordio “Slow Low Indigo”, dodici brani di bollente e polveroso desert rock, scritto in modo non del tutto originale, di sicuro sincero e appassionato. Ciò che rende questo disco piacevole è infatti una certa freschezza compositiva, non rintracciabile in tutti i gruppi desert/stoner di oggi. Ovvio che i Mexicola Oil Company non inventino nulla di nuovo, ciò che suonano vive però di luce propria, seduce e affascina con il giusto impeto, tra ritmiche avvolgenti, chitarre calde e vocals melodiche (di sicuro migliorabili in futuro).Brani come “Dust & Dawn”, “Go frog!” o l’esotico psichedelica “Caravan” propongono un sound desertico di chiaro stampo (primi) Queens of The Stone Age, (ultimi) Kyuss, Ché e Brant Bjork, con buone venature hard stoner per appesantire il tutto (i riff oscuri e corposi di “Klingon fever” ne sono un chiaro esempio). Tra la bellissima melodia di “Burn down” e pause acustiche nelle quali chitarre e pianoforte creano una piacevole atmosfera rilassante (la title track, “BB King size”), c’è anche il tempo per qualche variazione sul tema. Il riferimento va agli intrecci di organo e chitarra di “Bulldozer” e al moog ficcante condito di riff titanici di “Black dog”. Sono tra i momenti migliori dell’album, durante i quali ci troviamo di fronte una band davvero capace, motivata e dall’appeal fascinoso. È un ottimo lavoro questo “Slow Low Indigo”, perfetto per assolate giornate estive, serate a base di birra e lunghi viaggi in macchina. Come riporta il materiale promozionale allegato al disco, it feels like a neverending thunder in your heart. Alessandro Zoppo
MIDDIAN – Age EternalAge Eternal Age Eternal
Avvertenza: chi scrive è un incondizionabile fan degli Yob, inevitabilmente il giudizio su questa creatura nata dalle loro ceneri sarà influenzato dai peso di questa passione. Ma andiamo con ordine: Mike Sheidt, leader di Yob, scioglie il gruppo subito dopo la pubblicazione dell’ultimo album; e immediata è la formazione di questi Middian in compagnia di Will Lindsay (basso) e Scott Headrick (batteria), già dalle prime parole di Mike si mette in chiaro che questa nuova creatura malefica seguirà la strada percorsa dalla band defunta ma con un orientamento più oscuro e heavy. A un anno di distanza esce questo Age Eternal, e si rivela un album ambizioso e difficile da scoltare. La prima cosa che si nota è il sound, evidentemente debitore di quel che è maturato negli Yob ma con la differenza di essere più chirurgico, meno putrefatto e ubriacante, l’immaginazione è portata sul delirio di un medico allucinato che fra bisturi arrugginiti e anestetici saturi si fonde con la carne che sta martoriando. La chitarra è affilata, il basso meno grosso e grasso che negli yob e la batteria si rivela più marziale, forse manca un po’ di amalgama fra gli strumenti, ma è un aspetto che si affinerà sicuramente col tempo. Su questo sound particolare si libera tutta la vena compositiva di Mike, i 5 pezzi del disco sono lunghi e contorti, molto vari e basati sull’evoluzione e non sulla ripetizione. Ogni brano è un viaggio allucinato in cui si rincorrono fasi statiche e sognanti, ripartenze schizzofreniche e abbandoni alla pesantezza psicologica del doom più oscuro. Gli ingredienti li abbiamo sentiti già negli Yob ma qui sono miscelati su strutture più cervellotiche e “alte”. Al primo ascolto ci si trova storditi da questa spirale claustrofobica ma concedendo al disco l’attenzione che richiede non si riesce a rimanere passivi di fronte alle intense atmosfere di queste composizioni, ci si lascia trascinare con naturalezza per poi svegliarsi con quel sapore acido allo stomaco che solo un’ottima badn riesce a generare. Gli episodi migliori rimangono quelli in cui ampio spazio è dato agli abbandoni doom (The blood of Icons e la finale Sink to the Center) in cui l’abilità del gruppo viene fuori maggiormente, ma le premesse per una maturazione completa anche per le fasi più tirate ci sono tutte. Un ottimo disco, che rinquora chi sta ancora portando il lutto al braccio per gli Yob e che soprattutto fa sèerare bene per il futuro. Federico Cerchiari
MIDRYASI – Black, Blue & Violet
Ritorno sulle scene per i Midryasi, band che giunge dalla provincia di Varese. "Black, Blue & Violet" è il loro terzo album e arriva a quattro anni di distanza dal riuscitissimo "Corridors". In precedenza avevano licenziato nel 2005 il debutto omonimo (versione rimasterizzata della prima demo), cui vanno aggiunti lo split con i Doomraiser del 2008, "Behind the Same Cross", e la partecipazione alla compilation "Heavy Psych Italian Sounds" col brano "Hissybilum", sempre nel 2008. La prima novità di "Black, Blue & Violet" è l'inclusione di un quarto elemento nella formazione, ovvero Udz alle tastiere, già membro dei prog metallers Nekrosun. L'uso dello strumento in realtà non è una novità assoluta per il gruppo, che in passato aveva sperimentato questa formula, seppure in misura ridotta e soltanto in studio. Questo cambio di line-up porta i quattro ad un ulteriore passo avanti: il sound ne risulta indubbiamente arricchito, la vena ipnotica è accentuata ed una maggior enfasi si aggiunge al loro bizzarro psycho doom."Black, Blue & Violet" dovrà consacrare lo status di cult band a realtà indiscussa del nostro panorama e non solo: i Midryasi ci avvisano sin dal titolo, ad attenderci è un viaggio nei meandri inconsci. I tre colori citati non sono affatto casuali. Il nero è l'oscuro, il buio, il niente; parziale ritorno con il placido blu, colore della contemplazione; si ripiomba nel limbo con il viola, colore che annuncia il cordoglio ed è anche il colore dell'occulto. Apre l'album "The Counterflow" ed è subito malsana ipnosi. La band mette subito in chiaro un concetto: i 70's sono una grande lezione, non una mera ossessione. Il sound risulta attuale e personale, ci mostra sin da subito come la formazione sia cresciuta sotto tutti i punti di vista, tecnicamente e compositivamente. Un gruppo conscio del proprio potenziale. Lo stesso Convulsion – che si era fatto apprezzare per un timbro da novello Liebling – sembra aver trovato una propria identità stilistica. "Diagonal" è l'ennesimo atto di follia a metà tra occult e psichedelia; "Behind My Ice" è una ballata sofferta e delicata, momento riflessivo che conferma i passi avanti fatti da un Convulsion istrionico e disperato; "Back in the Maze" è hard psych ispiratissimo con l'imprenscindibile tocco ipnotico; la title track si apre in odore di funk psych, per poi diventare uno dei momenti più psicotici dell'album, nonché tra gli apici dello stesso. "The Nuclear Dog" è un passaggio free dove liberare il proprio wild side. A chiudere i giochi l'heavy doom riff di "Hole of the Saturday Night", altra song pazzesca e summa dell'ipnotica follia che pervade l'intero lavoro. Le influenze dei Midryasi vanno da Arthur Brown agli High Tide, dai Sabbath sperimentali ai Pentagram e fino ai Cathedral giù nello psych prog più oscuro. Insomma, i Midryasi hanno realizzato un grande album, tra le migliori uscite di questo inizio 2013: la band è cresciuta e ne dà notizia. Antonio Fazio
MIDRYASI – Midryasi
Come un vero e proprio fulmine a ciel sereno, da qualche settimana mi ritrovo tra le mani una delle più interessanti novità in ambito doom/psych rock degli ultimi tempi. Se a ciò aggiungiamo anche il fatto non trascurabile che si tratta di una band italiana, allora la cosa si fa ancora più attraente. Partito nelle mie aspettative come quello che doveva essere un normalissimo demo di una band emergente mi sono ritrovato davanti un disco completo di ben 12 tracce, registrato in maniera decisamente professionale e dalla proposta musicale assolutamente eclettica ed interessantissima. Nati solo 3 anni fa ma comprendenti musicisti dalle numerose e svariate esperienze alle spalle, i Midryasi sono un trio musicalmente stravagante, solidamente legato alle radici doom/rock dei maestri Black Sabbath, ma soprattutto Pentagram, in particolare per l’ottimo cantato di Convulsion, dalle quali radici la band prende le mosse per lanciarsi in una psichedelica e ipnotica ricerca sonora senza limitazione alcuna, allucinata e straniante jam, acida e sulfurea, dai cui fumi emerge la personalità e l’eclettismo di questa formazione.Alla matrice heavy rock si affianca quella più seventies e atmosferica di band quali Pink Floyd o Hawkwind, in una continua alternanza tra momenti distesi, dove fanno la loro comparsa tastiere e svariati effetti a creare un clima quasi onirico, delirante, che cede poi il passo all’incalzare rock dalle forti tinte doom delle bellissime iniziali “Acid Darkness” e “Hypnopriest”. Col procedere del disco fanno il loro ingresso altri elementi, quasi prog rock, come nella variegata “Paeah” o nei numerosi intermezzi che scandiscono l’incedere di un lavoro senza schemi e assolutamente libero sotto tutti gli aspetti. Magistrale, è il caso di ripeterlo, il cantato, nonché la vibrante interpretazione al basso, di Convulsion, dotato per natura di una timbrica evocativa e ammaliante, facilmente accostabile a quella di un certo Bobby Liebling e dotata della stessa carica interpretativa dell’illustre referente. Non da meno l’espressività degli altri due strumenti e del sapiente uso di effetti e tastiere, come nell’apocalittica “Clong” o la precedente “Centre Of Thunder” dove la tensione si fa più accesa e l’interpretazione più vibrante ed evocativa. Una certa carica ancestrale e mistica che richiama Black Widow e High Tide permea l’intero lavoro, nel quale non è difficile scorgere le dichiarate basi e intenzioni jammistiche che conferiscono una maggior naturalità e spontaneità alle comunque articolate composizioni che danno vita all’album. Un album che vivamente spero possa a breve essere a disposizione del grande pubblico, essendo questa una copia promozionale e la band ancora in cerca di un contratto, ma credo che con questo potenziale i Midryasi non faticheranno molto a trovare qualcuno in grado di supportare questo bellissimo lavoro. The Witchfinder
MIKELL’S PLOT – Monster on my wall
Vengono dal New Jersey i Mikell’s Plot, band formata da Mike O’Connor (voce), George Rivera (basso), Mike Mondano (chitarra), Isander Vega (batteria) e Dan Chrzan (chitarra). Amano spaziare in varie direzioni sonore: nel loro esordio “Monster on my wall” c’è molta carne al fuoco, forse anche troppa. Ed è proprio questa mancanza di lucidità la componente che penalizza un prodotto del genere.Certo, c’è ottima tecnica ma le canzoni stentano a decollare. La title track apre il disco rubando il giro a “Anarchy in the U.K.” per poi evolversi in un rock piuttosto canonico. Piacciono le atmosfere notturne di “Shadows of the past”, disturbano “Shit list” e “Lazybones”, hard sound abbastanza incolore, scritto e suonato bene ma senza guizzi memorabili o che facciano gridare al miracolo. “Time to change” e la funky “Just show me funk 50” odorano della pioggia di Seattle, quella che ha reso celebri Eddie Vedder e i suoi Pearl Jam. Con un ulteriore accorgimento nell’inserimento di delicate vocals femminili. Ma tutto si limita ad esercizio sterile, come nel caso della scanzonata e divertita “One-sided”. Dove si nota un miglioramento è nel carattere smaccatamente pop dell’intrigante “Give me a reason”, nelle cadenze southern di “Backstabber” (la mente vola alle sonorità di Lynyrd Skynyrd e Steve Miller Band) e nelle vibrazioni dark della conclusiva “Tidal waves”. Ancora troppo poco per poter convincere su tutti i fronti. Aspettiamo dovuti miglioramenti. Alessandro Zoppo
MILLIGRAM – This is class war
Assolutamente devastante. Un disco che spazza via tutte le tendenze e le visioni estreme di fare musica nel panorama sonoro odierno. Basta poco più di mezz'ora e i Milligram, giunti al secondo album dopo un esordio che già faceva ben sperare, annichiliscono le orecchie dell'ascoltatore con la loro formula sprezzante e brutale. Una produzione grezza e sporca, la voce al vetriolo di Jonah Jenkins, le chitarre graffianti di Darryl Sheppard, una sezione ritmica veloce e incazzata, formata da Zephan Courtney alla batteria e Jeff Turlik al basso, rendono questo "This is class war" un concentrato di pura e cocente aggressione. La formula scelta è un mix di stoner rock, punk e hardcore che si lascia andare solo di rado a slanci melodici (le uniche tracce che ne fanno trasparire un vago segno sono "Let's pretend we don't know each other" e "Nice problem") e trova la sua unica pausa riflessiva in "Summer of lies", episodio che lascia da parte la convulsione metropolitana dei rimanenti pezzi per affrontare un momento decisamente più sereno. Il resto è un susseguirsi di bordate deflagranti che richiamano tanto la sfacciataggine di un gruppo di culto dell'hard rock degli anni '70, i mitici MC5, quanto la violenta e selvaggia franchezza di colossi degli anni '80 quali i Black Flag. Su tutti i brani però si eleva oltre la media una mazzata come "The resentinel": pochi minuti di massiccio sludge doom come non se ne sentiva da tempo, un distillato di cattiveria, acidità e prepotenza. "This is class war", mai titolo poteva essere più adatto: brutalità, minaccia sociale, violenza urbana…se siete arrabbiati, se credete che il mondo giri in un verso diverso da come dovrebbe, beh, allora i Milligram fanno al caso vostro! Alessandro Zoppo
MIND OF DOLL – Low Life Heroes
Grande rock'n'roll dalla Finlandia per i Mind of Doll. Quartetto tutto velocità e freschezza nato a Vantaa nel 2000, con un ep alle spalle ("Bad Habits Are Golden", anno 2003) e una marea di concerti che a quanto pare riscuotono successo di critica e pubblico. Il 2007 è il momento giusto per la Tuhma Records, etichetta finnica che mette sotto contratto i quattro e fa uscire questo "Low Life Heroes". Disco che in effetti colpisce fin da subito per due fondamentali motivi: l'incisività della produzione (ma in questo i gruppi scandinavi sono ancora una spanna sopra gli altri) e l'intensità dei brani. Dieci canzoni che in mezz'ora sintetizzano in pieno l'attitudine rock di Visa (voce, chitarra), Sakke (chitarra), Daisy (batteria) e Öre (basso).Motorhead, Hanoi Rocks, Guns N' Roses e The Hellacopters come numi tutelari, un pugno di riff e soprattutto il guizzo giusto quando si tratta di scovare la melodia che fa subito presa. Questi i meriti dei Mind of Doll, che per il resto non si inventano certo qualcosa di nuovo o sconvolgente. Sono come appassionati operai di una materia incandescente, trattata senza alcuna paura di bruciarsi. Pezzi come "Lack of Change", "Marks on my Face" e "Sick Girl Sad Case" cavalcano hard rock, sleaze e attitudine street per una miscela davvero accattivante, che viene esaltata quando "Trouble Maker" fa breccia nelle nostre orecchie con gran potenza e le sue ritmiche sporche. In conclusione troviamo anche una ballad strappa lacrime come "Lovers", suggello definitivo di un lavoro che lancia i Mind of Doll quali nuovi alfieri del rock più stradaiolo e colorato. Da tenere d'occhio, specie per chi teme che l'epopea di Backyard Babies e Hardcore Superstar sia tramontata. Alessandro Zoppo
MIND WARP – Searching For Some Light
Dietro il nome “Mind warp” si nasconde la mente di Alexander Ernst, artista gitano del rock e girovago nella scena, con una gavetta che sfiora i tre lustri, assorbita tra progetti diversi in altrettante parti d'Italia ed Europa differenti tra loro.
MINDBLIZZ – Promo 2005
Vengono dalla sempre prolifica Svezia i Mindblizz e si propongono nel panorama hard & heavy con questo promo autoprodotto composto da cinque brani. La formazione ruota sulle chitarre di Peppo e Peter (anche vocalist), mentre le ritmiche sono opera di Bjorn (basso) e Anders (batteria). Quanto alle sonorità proposte, siamo di fronte ad un hard rock robusto e coriaceo, spesso imparentato con il metal, imperniato su riff solidi ed una base ritmica possente. La voce di Peter è aggressiva quanto basta, anche se ancora incapace di modulare vari spettri sonori. In più si aggiunge una registrazione abbastanza amatoriale che riduce di molto l'incisività dei pezzi. Per migliorare in futuro è questo un aspetto che va assolutamente levigato.Le composizioni oscillano invece tra solidi ed oscuri episodi hard (l'iniziale "Unholy ground", la languida "Vampire", la tiratissima "Nowhere man") ed un gusto da approfondire per variazioni dal taglio doomy ("Fire rain", miglior pezzo del lotto, richiama spesso e volentieri ossessioni "sabbathiane" e la furia cinerea targata Pentagram). La conclusiva "Flowers" è viceversa un momento di acuta variazione sul registro: i riff sono sempre possenti ma abili inserti psichedelici rendono l'atmosfera liquida e rarefatta, come nella migliore tradizione heavy psych ereditata dagli anni '70. Buona band i Mindblizz, con un pizzico di cattiveria in più (ed un suono migliore…) potrebbero togliersi parecchie soddisfazioni. Alessandro Zoppo
MINDWARP – Mindwarp
Uno flusso candido di basso, batteria e leggeri accordi di chitarra introducono l'omonimo EP dei Mindwarp, band brindisina che colleziona un 4 pezzi straordinario in combutta con Acid Cosmonaut Records, vero faro dell'heavy psych nostrano. La band nasce con l'idea di lasciarsi andare al flusso sonoro del momento, nell'improvvisazione costante, ognuno concentrato sul proprio strumento e con le orecchie tese verso il mood dei compagni, facendo saltare il concetto di canzone a favore di una struttura allargata. L'estetica è quella dei viaggi cosmico-interstellari à la 35007, ma ciò sembra essere il punto di partenza e non quello d'arrivo. Si ha questa percezione verso la fine di "Haarko - Haari", dove qualche reminiscenza Tool traghetta il brano verso un finale inaspettato funky smaccatamente Settanta. Come il riff di chitarra rubato a chissà chi (!) di "Adrenochrome" riporta a combinazioni saltate e a prevedibilità disattese, così il blues jammato del finale, con tanto di ficcanti guitar solos, risalta per curiosità e bellezza. Mentre la cosa prettamente anni Novanta risulta essere "Excuse Me, I Have to Go to Space Now", pezzo faro dei Mindwarp, immagine statica e dinamica allo stesso tempo, che rimanda a certo crossover sapientemente miscelato con liquidità stoner. "Iramocram" è determinante nel citare il rifframa di Adam Jones senza appoggiarsi a questo status per mero plagio. Anzi. Nell'intero lavoro la citazione viene usata per identificare uno stato espressivo e farlo proprio con operazioni di contaminazione e arricchimento, anziché come pretesto per mascherare una mancanza di idee. E i nostri ne hanno tante da mettere in pentola. Tanto che alla fine di questa mezz'oretta strumentale si ha la sensazione di aver trovato un nuovo pianeta oltre la linea di confine del nostro orizzonte. Eugenio Di Giacomantonio
MINOTAURI – Minotauri
I guerrieri del doom sono tornati nel mondo dei vivi! I Minotauri, spaventosa creatura partorita dal genio oscuro di Ari Honkonen, si riaffacciano nell’odierno universo musicale grazie al provvido intervento dell’attenta Black Widow, etichetta sempre in prima fila quando si tratta di riportare alla luce gioielli dal fascino misterioso ed inquieto.I Minotauri iniziano la loro storia nel 1995, quando il chitarrista e cantante Ari lascia i Morningstar per dar vita ad un progetto che rilegga gli stilemi più classici del doom (Black Sabbath, Pentagram, Saint Vitus, Trouble, Candlemass) attraverso riflessi metal (l’ala ossianica della NWOBHM) e la tradizione finnica dei Sarcofagus di Kimmo Kuusniemi. Diversi cambi di line up non stravolgono l’idea originaria che è alla base del gruppo, il quale si stabilizza solo da pochi anni a questa parte con Tommi Pakarinen al basso e Viljami Kinnunen alla batteria. Questo dischetto edito dalla Black Widow riunisce dunque tutte le esperienze discografiche dei Minotauri dal 2000 ad oggi e ci offre uno spaccato di doom metal che emoziona per passione e carica esoterica. I primi otto brani compongono l’album vero e proprio, un concentrato di riff plumbei e ritmiche ossessivamente lente, spezzate dalla voce evocativa di Ari e da qualche inserto di tastiere. Le storie horror narrate nelle lyrics ben si sposano con le sonorità cupe ed arcigne che fuoriescono dalle casse quando il cd inizia a girare nel lettore. “Singing in the grave” ne è perfetto esempio, oltre che un monolito doom dalla bellezza accecante. Così come “Black chakras” e “Nuclear siren”, composizione dove scatta anche qualche accelerazione, salvo poi rallentare e ripartire con break e assoli tetri. “Intro/Devil woman”, “My way”, “Backstabber” e “Lover from the grave” sono momenti altrettanto tosti ed incisivi: non prevale la lunghezza ma ci si gioca tutto sulla forza del riff, sulla compattezza dell’esecuzione, sulla marzialità dei tempi. Mentre “Doom metal alchemy” è una squisita e sincera dichiarazione d’intenti che introduce i Minotauri nell’empireo del doom con un organo sinistro e chitarre catacombali. “Cemetary shadows”, “Frustrated”, “Paid love” e “You will learn…” sono invece i quattro pezzi che compongono l’ep “Doom metal invasion”. Nonostante una registrazione che seppur rimessa a nuovo lascia l’amaro in bocca per qualche pecca (leggi pulizia sonora), si fanno apprezzare il solito lavoro sui riff di Ari e la classe cristallina di una band totalmente devota alle sonorità che più ama. È in particolare “Cemetary shadows” a sorprendere per la sua carica cinerea e possente. Gli ultimi tre brani sono infine le rocciose “Pain of life” e “Violence”, che fanno parte di un 7” del 2000, e la versione dal vivo di “Paid Love ”, tanto per dimostrare che i Minotauri danno il meglio di se stessi nella dimensione live. Playing doom metal it’s like a crusade But instead of cross we have the electric axe Being on stage it’s like being possessed The volume moves like a vortex in your head Into the void we’ll play our art Into the oblivion we’ll sing our songs Alessandro Zoppo
MIRSIE – El santo
Preparatevi ad esplodere perché “El Santo”, secondo disco dei piemontesi Mirsie dopo l’eccellente debutto “Aliens in a Bra”, si candida tranquillamente ad essere uno dei capisaldi dell’estate. Riff ribollenti, atmosfere torbide e tanta simpatia per un gruppo che non si prende mai troppo sul serio e proprio su questa grande dote costruisce la sua forza. Occorrono 40 minuti scarsi per farsi contagiare. Giusto il tempo di inserire il cd nel lettore e si viene catapultati in un mondo gioioso e godereccio. Il calore del blues, la potenza del rock, l’irruenza del garage ed una spruzzata di psichedelia (che non fa mai male…): ecco gli ingredienti. Basta poco (si fa per dire) ed il gioco è fatto. Il drink che viene fuori ha un tasso alcolico elevato, sbronza e stordisce, ma al risveglio ci si sente meglio, prede di un euforico distacco dal mondo. Le armi sono precise e letali: la voce al vetriolo di Luca, le ritmiche secche di Paolo (batteria) e Piè Love (basso), le chitarre graffianti di Ponch. Se si aggiunge la registrazione di David Lenci e la produzione di Fred Oglevitch ci si rende bene conto della elevatissima qualità del dischetto. Otto canzoni che stupiscono per freschezza e dinamismo, mai un accenno di stanchezza, mai un passo falso, mai un eccesso derivativo. I Mirsie sembrano aver già raggiunto la quadratura del cerchio. La prima pare del lavoro è assolutamente devastante. “Poke” è un hard blues deviato che provoca svenimento (con tanto di armonica suonata dall’amico Lenci); “Boots (The original wave)” è una maniacale filastrocca garage; “Happy ending love” è un languido omaggio a The Standells, The Kinks e The Nomads; “Everyday” ha un ritmo sincopato e fuzz debordanti che arrivano a far incontrare Rolling Stones e Mudhoney. Dopo tanta grazia era lecito aspettarsi un calo e invece “El Santo” continua a dispensare miracoli. Si passa infatti dalle melodie avvolgenti di “White and convetional” al libidinoso ritmo in levare di “I like your ass” (il titolo è tutto un programma…), fino ad arrivare al grezzo nervosismo sonoro di “Ko!” e alla psichedelia sensuale della conclusiva “Oh… Well… Yeah…”. Insieme a One Dimensional Man e Ojm i Mirsie si confermano il miglior prodotto tricolore da esportazione. A new wave of rock’n’roll! Alessandro Zoppo
MISS FRAULEIN – Aprofessionaldinnerout
Nuova fatica per la band calabrese che dopo un demo dalla registrazione “casalinga” registrato qualche tempo fa ritorna con un lavoro ben prodotto e registrato che mette in mostra le molte idee e qualità della band. Il sound del gruppo è caratterizzato dal fatto di innestare nella classica matrice stoner influenze di tipo diverso ed è così che spesso ci troviamo al cospetto di pezzi dove ritmiche martellanti vanno a braccetto con chitarre prese in prestito del grunge e dal post-rock e con voci che a volte ricordano al sottoscritto i Sonic Youth, altre gruppi più accessibili come i Placebo. A volte fanno capolino momenti più aggressivi di impronta punk/metal, altre volte si fanno largo le tinte fosche di una sinistra psichedelica che potrebbe riportare alla passione della band per i Tool, che con i “classici” Kyuss e QOTSA costituisce sicuramente la fonte primaria di ispirazione dei Nostri. Come dicevamo la registrazione e la produzione sono migliorate parecchio ed è ora possibile assaporare meglio alcuni pezzi che già apparivano in forma più grezza nel precedente demo, come "Circus Of Termites", "The Cavern", "Lover’s Time" e "All That You Make", qui affiancate da altrettanti pezzi nuovi. Un lavoro interessante a dalle molte sfaccettature del quale vi consiglio l’ascolto, vista la varietà di influenze e di chiavi di lettura offerte dalla band che sta procedendo sulla giusta strada per definire un sound molto personale. Unica nota di demerito: una delle copertine più brutte che mi sia capitato di vedere negli ultimi tempi! Bokal
MISS FRAULEIN – Tob was my monkey
Dopo due discreti demo I calabresi Miss Fraulein hanno finalmente realizzato il loro debutto sulla lunga distanza con l'aiuto del produttore Fabio Magistrali (Afterhours, Six Minute War Madness, Bugo), confermando tutte le buone promesse del demo "A Professional Dinner Out" e dimostrando di aver acquisito una certa personalità.La musica si presenta abbastanza varia partendo da un solido stoner di stampo scandinavo che caratterizza i primi pezzi (Gustavo, Not Really True) e arrivando a toccare influenze più grunge e alternative rock valorizzate da una certa ricerca della melodia (It Isn't A Tale, Tears Upon), caratteristiche che emergono soprattutto nella second aparte del CD. Una band dai molti volti dunque, qualità che sicuramente potrà essere apprezzata da un pubblico abbastanza eterogeneo , considerando anche che questi ragazzi suonano e cantano veramente bene e che la produzione è sicuramente brillante! Partendo dallo stoner e passando attraverso parentesi più noisy o più melodiche l'album si conclude con l'accattivante stoner lento e pesante di Wake Up!, che va a dissolversi in un'atmosfera di leggera psichedelia che ipnotizza l'ascoltatore negli ultimi minuti, per poi esplodere nel poderoso finale. Veramente un gran bel lavoro, buona fortuna ai Miss Fraulein! Bokal
MISSILES OF OCTOBER – Don’t Panic
Dopo due EP in due anni, arriva il debutto per il trio belga dei Missiles of October, composto da Lionel Beyet (basso e voce), Bob Seytor (batteria) e Mathias Salas (chitarra e voce). "Don't Panic", questo il titolo della release, si muove nella maniera più canonica e indolore nel territorio dello sludge duro e puro con qualche leggera, leggerissima contaminazione noise rock molto figlia dei primi '90. Pur non mancando l'intensità e l'adrenalina tipica dei generi sopracitati, tutto scorre nella maniera più anonima senza nessun momento degno di nota.
Il debito ai grandi dello sludge, Crowbar su tutti, è fin troppo evidente, e anche quando si prova a dare una sferzata buttandosi sullo stile Amrep (Steel Pole Bathtub, Surgery, Hammerhead) le cose non cambiano di molto. Se "Wannabe" e "Cheerleader" sono pezzi, nella loro monoliticità, comunque ascoltabili, il resto si dimentica facilmente. Un album quello del terzetto di Bruxelles che alla fin dei conti risulta essere un'occasione mancata e che va a perdersi in quel marasma di uscite, sludge e non, che peccano di mancanza di iniziativa e originalità. Giuseppe Aversano
MIST – Demo 2013
Il doom, quello tradizionale e vecchia scuola, ha sviluppato negli anni un'attitudine che va appannaggio del sesso maschile. Badate, con ciò non si intende che abbia connotati maschilisti, tutt'altro. Vero è che il genere spesso non ha riscontrato un adeguato interesse verso il gentil sesso, perlomeno in termini di audience. A rompere questa sorta di circolo unilaterale giunge dalla Slovenia una band all female traditional doom, le Mist. E a memoria si tratta della prima band interamente femminile a proporre questi suoni. Diverse sono invece le figure femminili in altri ambiti quali ad esempio l'occult doom o forme di doom con forti influenze psych e prog ed in altri sottogeneri dello stesso – ricordiamo ad esempio i Mourn, i Serpent Witch ed i Serpentcult di "Weight of Light". La proposta delle cinque giovani donne è doom puro e tradizionale al 100%. Le ragazze licenziano questa demo di due brani nella quale dimostrano tutto il loro valore e la passione per questo genere. Musicalmente quindi nulla di nuovo all'orizzonte, ma le due canzoni sono oneste e sufficienti a scaldare il cuore di ogni true doomster là fuori. Le Mist rendono omaggio alle band che hanno fatto la storia di questo genere: dai Sabbath ai Vitus, dai Pentagram ai Trouble, fino a Paul Chain e compagnia slow. Per la serie, non avrai altro dio all'infuori del doom!! Antonio Fazio
MISTER BONES – The extra heavy
A dispetto di una copertina e di un nome che facevano mal sperare, i Mister Bones si rivelano essere una band tosta e affiatata, che di sicuro non fa gridare al miracolo ma si dimostra capace di forgiare un sound coriaceo e robusto. Siamo al cospetto infatti di un heavy rock roccioso ma sempre melodico, spesso e volentieri influenzato dal metal e costruito sul muro di chitarre eretto da Alex Petrovic (anche vocalist dal tono roco e stentoreo) e Jeff Ohler. Se proprio vogliamo trovare dei punti di riferimento possiamo citare Black Label Society, Orange Goblin, Down e soprattutto Corrosion Of Conformity, influenza evidente nei fraseggi tra le due asce e nelle ritmiche cariche di groove della coppia Anderson Lunau (basso) e Aaron Palmer (batteria). Manca ancora la stoccata vincente per affrancarsi del tutto dai modelli sopraccitati, ma la passione e il sudore che emergono dalle sette tracce che compongono “The Extra Heavy” sono una buona premessa per il futuro della band. Tra tutte i pezzi del dischetto quelli che emergono con una certa prepotenza rispetto agli altri sono l’iniziale “Dr Anvil/Big bad axe”, devastante mid tempo portato avanti da riff soffocanti che si apre solo nel chorus arioso e piacevole, e “Taken from here”, altra batosta intrisa di umori southern e ’70 hard rock. Per il resto “Blown away”, “What I need” e “Bone structure” si fanno apprezzare per rabbia e compattezza metallica (una maggiore varietà compositiva le avrebbe tuttavia rese più dinamiche ed esplosive), mentre “Time unwinds” è una malinconica power ballad che alterna riflessioni acustiche e scossoni elettrici. A concludere il lavoro troviamo invece “Slow burn”, lunga cavalcata che si agita tra cadenze doomy e divagazioni psichedeliche. Magari da una band agli esordi si richiede qualcosa in più, ma tutto sommato i Mister Bones dimostrano di possedere forza e convinzione, doti che fanno presagire un futuro roseo. Un’unica accortezza però: abbellite l’artwork dei vostri cd! Alessandro Zoppo
MISTY MORNING – Martian Pope EP
Dall'oscura Cattedrale nel sulfureo e rosso deserto marziano si odono le voci dell'elezione del nuovo Pontefice. La fumata - nera in questo caso - è seguita da boati di acclamazione, tripudi di lisergica e sepolcrale approvazione da parte delle folle, riunite per tributare il nuovo Signore delle Galassie e delle genti che le popolano. Alfieri dell'epifania ecumenica sono i Misty Morning, trio dal granducato di Toscana (?), giunto per osannare con strabordanti riff e possenti giri di basso, il nuovo Papa.I loro maestri si riconoscono facilmente, ma è la grandissima capacità di fonderli e rielaborare la proposta, che permette loro di candidarsi come una delle nuove realtà più interessanti degli ultimi anni. Chi vi scrive li considera la rivelazione dell'anno domini 2008, grazie al loro "astral Stoner Doom n' Roll", figlio di Cathedral, Sleep ed Electric Wizard in primis, ma anche di Candlemass, Black Sabbath (e secondo voi il nome della band da dove deriva? per informazioni, si veda la seconda traccia dell'esordio) Metallica (del primo periodo thrash, in certi passaggi vocali e in alcuni assoli), High On Fire, fino a toccare lo sludge-southern di Down e Crowbar. Ma qui, signori, non ci troviamo di fronte a del mero citazionismo derivativo, bensì ad un concept interessante ed attuale, in cui i suddetti elementi acquistano vita propria e si legano in maniera ineccepibile tra loro, conferendo alla band un suono del tutto peculiare e meritevole di tantissima attenzione. Nel marasma mondiale, un'altra band italiana che può, alla pari di campioni tricolore come Doomraiser e Mydriasi, scrivere il suo nome nel panorama mondiale dello stoner-doom. Doom Saloon raffigura i gironi perversi e invitanti che compongono la galassia in cui viaggia la navetta che porterà il verde porporato entro i nostri confini: un tiro esasperato e una melodia godibilissima ci accompagnano tra sepolcri su cui ballano femmine umanoidi e cowboys spaziali, tra tequila che scivola nelle nostre arse gole direttamente dagli anelli di saturno. In questo doom saloon non vi è ritorno, il generale Custer in acido flirta con Buffalo Bill attendendo che il pianeta LSD collida , mentre insegue i vermi del tempo. Tutto è distorto, confuso e non vi è la possibilità di seguire il bianconiglio nella sua tana. Lo zenit del vostro incubo più deviato è contemporaneamente la vostra fase di accecante lucidità e di anestetica nevrastenia. Nel vostro sogno più malvagio (come in My wicked dream) cercate di afferrare la coda della mangusta drone e seguirla nel suo favoloso trip all'interno della corte del porno cobra, ma poco dopo vi accorgete di rincorrervi la coda, in quanto voi stessi siete ciò che inseguite. Liriche e muri di distorsione opprimente in pieno stile Sleep, lentezza esasperata e assolutamente affascinante in un vortice inesauribile di malsana atmosfera degna della Montagna Sacra di Jadorowski (il film più disturbante e paradossale che abbia mai visto in 23 anni di vita, un capolavoro nella sua specie). La voce funerea di Luca Moretti, annuncia la nuova apocalisse e la creazione di un novus ordo, come è giusto che sia e come è stato annunciato nelle scritture. Le parti di chitarra, sovraincise e di grandissimo effetto ed eterogeneità sono supportare dal basso ossessivo di Massimo Vendittozzi e dalla superba sezione ritmica di Francesco De Dominicis. Dopo che il completamento dei dieci minuti della suite, mantra di impressionante bellezza, il concistoro marziano deve compiere le sue abluzioni e preghiere, per consacrare definitivamente il nuovo santo padre: la cavalcata doom del necromante non può essere fermata, egli avanza inesorabile, accompagnato da arpeggi orientali e da roboanti riff che sorreggono il suo passo sicuro e determinato verso lo scranno. Le porte del mondo sono spalancate e il vento cosmico spazza ogni barlume di speranza dagli occhi e dai cuori degli stolti che cercheranno di resistere al potere dell'Uno. Egli congelerà le vostre menti e cristallizzerà le vostre emozioni e anime nell'algida ambra del nulla eterno. Tutto è compiuto, non resta che chinare il capo ed entrare nell'Astrosarcophagus, in cui l'incedere marziale alla electric wizard vi tramuterà in soldati agonizzanti, “costretti a combattere oltre la morte fino alla fine dell'universo”. Questo, e molto di più, nell'esordio folgorante dei Misty Morning. Rivelazione dell'anno, indietro non si torna. Nuntio Vobis Gaudium Magnum, Habemus Martianum Papam, Habemus Misty Morning. Grabriele "Sgabrioz" Mureddu
MISTY MORNING – Saint Shroom
"Saint Shroom", il fungo magico del doom. La nuova emissione dei nostrani Misty Morning consacra il gruppo tra i massimi esponenti della slowness acido lisergica. Questo 12" è edito dalla Doomanoid Records in vinile rosso trasparente in edizione limitata a 250 copie, un maxi single curatissimo e affidato alla splendida grafica di Ver Eversum Art Lab. Due pezzi che ci trascinano in un universo cupo e visionario, quel doom heavy psichedelico portato ad eterna gloria da gente del calibro di Cathedral, Church of Misery, Ocean Chief e Electric Wizard. Luke (chitarra, voce), Max (basso), Franz (batteria) e il nuovo arrivato Rejetto (tastiere) compiono un ulteriore passo in avanti rispetto al già ottimo esordio "Martian Pope" e fanno fremere d'attesa per un nuovo full lenght.Un arpeggio sinistro degno del miglior Mario Bava spalanca le porte al riff mastodontico della title track: odissea di oltre dieci minuti in cui si naufraga tra doom cinereo, psichedelia evocativa, fantasmi di Tony Iommi, danze macabre tra foreste dell'equilibrio e specchi eterei. Con tanto di synth dal sapore space prog e cambi di direzione avvolgenti quanto spiazzanti. "Jellotron" comincia come una marcia funebre per poi aprirsi ad un riff clamoroso, che muta subito pelle in un giro maligno, perverso, da orgia intergalattica. Non c'è nulla da fare, quando il Papa decide di mollare gli ormeggi e scendere da Marte non ce n'è per nessuno. Alessandro Zoppo
Moccasin – Last Leaf
Riverberi oscuri, echi di luoghi lontani, una musica senza tempo. È questa la sensazione che emana “Last Leaf”, opera prima dei Moccasin. Quattro ragazzi di Denver (Eddie al basso, Ryan chitarra e voce, Scott alla chitarra e James alla batteria) capaci di sinterizzare in otto canzoni ben quarant’anni di rock. D’altronde basta partire dai padri della psichedelia (Pink Floyd, Velvet Undergound), passare per le svolte di mezz’età (Spacemen3, Loop, Chrome, Swervedriver, Sonic Youth) e giungere alle colorate, visionarie emanazioni odierne (Dead Meadow, Comets On Fire, The Black Angels). Ecco trovata la soluzione. Il risultato è davvero sorprendente, soprattutto quando superbe melodie vengono servite su un piatto di fuzz, wah wah e ritmiche infuocate (“Ezra’s Ghost”, “Above the Sound”, la meravigliosa “Tudor Moon”). La paralizzante bellezza di brani come “Call the Captain” e “Emeral Shadow” fa il resto. Anche perché quando c’è da affondare nella pura astrazione acida ci pensano “RTF” e la delicata, struggente “Written in the Wind”, con la loro andatura piacevolmente soffocante. “Last Leaf” è un misto di acid, indie e psych rock che seduce ascolto dopo ascolto. Come ha detto qualcuno, i Moccasin sono i Dead Meadow che sbattono contro un palo elettrico. Disco rivelazione del 2006. https://www.youtube.com/watch?v=1j01J3hKgI0&ab_channel=Moccasin-Topic

Alessandro Zoppo

MOJO WAVES – Lo and Behold!
Davvero interessante l'album di debutto dei finlandesi Mojo Waves. "Lo and Behold!" rappresenta una fresca ventata garage rock dal groove formidabile, derivato da chiarissime influenze stoner e psychedelic rock, che non potete perdere, in quanto scaricabile gratuitamente dalla loro pagina Bandcamp. Il disco parte diretto e senza fronzoli con "Shout" a presentare il sound fuzzato ma altisonante del trio, dovuto al cantante e chitarrista Arttu Kantola, che da il meglio di sè in "Skylights", pezzo catchy sino al midollo, in pieno contrasto con le successive "Moustrap" e "Great White", dall'aspetto più aggressivo e ritmi più veloci.L'accoppiata "Tidal" e "Greens" fomenta al punto giusto perché entri "Flowers", un altro picco del disco prima della sparatissima "It's Just a Road, Yeah!", che lo va a chiudere lasciando come un senso di vuoto, ma solo perchè ora c'è tanta curiosità di ascoltare altro loro materiale in futuro. E soprattutto scatta la bramosia di vedere come si evolverà ulteriormente la loro raison d'être, ovvero il sound. Nient'altro da aggiungere, tranne che la copertina è notevole e chi scrive l'ha già testato per i party. Risultato: va alla grande! Ascoltatelo! Gianmarco Morea
Mojuba – Astral Sand
Un sano e robusto compendio hard stoner è “Astral Sand” dei Mojuba. Debitore di quel genere orfano dei Kyuss nato in prossimità dello sciogliersi dei maestri di Palm Springs, il sound della band ci riporta a quella ondata di gruppi che volevano ristabilire l’ortodossia: Lowrider, Orange Goblin, 7 Zuma 7, Celestial Season, Spiritual Beggars. Con qualcosa in più. Che siano gli intermezzi contaminati (“Adobe Santann” è puramente desert, così come “Sesa Woruban” è puramente space-ritual) o la costruzione di mini suite (“Drowning Slowly” è un viaggio di dieci minuti all’interno dell’universo Mojuba), i nostri danno prova di avere subito influenze in molte direzioni. Lo stile di Francesco alla chitarra, per quanto Seventies, dimostra di aver apprezzato certo metal assassino degli Ottanta/Novanta. La voce di Pierpaolo è figlia legittima di un Ben Ward alcolizzato e Fabrizio e Alfonso (basso e batteria) dimostrano di non essere semplici gregari, ma giusti traghettatori del mood del pezzo. Prendiamo la title track: nata da un suono e un riff di chitarra proto metal, nel bel mezzo scivola verso una penombra doom lenta e malsana, per riemergere poco dopo in un solo arcigno ed ispirato alla Mike Amott. Così come la chiosa di “La Morte Nera” è un urlo disperato in odore di grunge che per qualche ragione ricorda i pezzi acustici di album propriamente thrash (ricordate le gemme “Veil of Deception” e “A Room with a View” in “Act III” dei Death Angel?) come a far scoprire una profondità di emozioni anche nella musica più aggressiva (anche se poi il pezzo finisce nel magma cerimoniale dei Candlemass). Il gusto di stare dalla parte dei duri e puri: ecco “Astral Sand”. Eugenio Di Giacomantonio
MOMBU – Mombu
Prendete gli Zu, mischiateli con l'afrobeat e quei riti primordiali che Jacopetti e Prosperi ci mostravano nei mondo movies. Shakerate il tutto con la consueta spruzzata di folle jazz core che tanto piace a John Zorn ed il cocktail saporito si chiamerà Mombu. Nuovo progetto partorito dalla mente di Luca T. Mai (sax e m'bira) e Antonio Zitarelli (batteria e percussioni), con la fascinazione per l'Africa "oscura e misteriosa", o meglio, con il preciso obiettivo di incidere «musica grassa e torrentuosa, con ritmiche magiche, ipnotiche, barriti da rituale voodoo ed uscite di rigore africano (ostinati/unisoni), il tutto con una chiave di lettura prettamente dettata dall'esperienza musicale di entrambi».Pare facile… La verità è che ormai Luca T. Mai è come Re Mida, qualsiasi cosa tocca si tramuta in oro. Le otto tracce del lavoro scuotono, attraggono, rimangono impresse nel cervello fino a provocare un feroce, benevolo mal di testa. Merito anche della produzione di Matteo Spinazzè e del mastering di James Plotkin. Garanzia di qualità quando si parla di sonorità estreme. È un piacere lasciarsi colpire dalla violenza incontrollata e monolitica di "Stutterer Ancestor", dalle percussioni primitive e dagli scatti impazziti di "Orichas" e "Kemi", dai passi incombenti di "Regla de ocha". Sulla stupenda "Radà" (l'apice del disco) viene voglia di ballare per sfogare istinti ormai repressi, mentre il riff che penetra "Mombu Storm" è una tormenta mentale dal vigore (e rigore) impressionante. Come la conclusiva "The Harpoon's Ritual", solenne e reiterato arrivederci al prossimo viaggio avventuroso. Altro che maschere tradizionali, pigmei cattivi ed esploratori bolliti in pentola. I Mombu sono la negazione assoluta dello stereotipo. Il sax è la spada, le percussioni sono lo scudo. Per i luoghi comuni non c'è scampo. Alessandro Zoppo
MONDO DRAG – New Rituals
Oggi nel mondo del rock non c è quasi più niente da inventare. Tutto è stato detto, ormai lo sappiamo. Quello che importa è la personalità, l’attitudine e la freschezza della proposta. Rileggere i grandi del passato non vuol dire necessariamente copiarli ma trasmettere con intelligenza quei suoni inossidabili ai giorni nostri. La musica deve necessariamente catturare l’immaginazione. Lo hanno capito i Mondo Drag, cinque ragazzi provenienti da Davenport, che giungono al debutto con questo affascinante “New Rituals”.Detto ciò possiamo senz’altro procedere all’ascolto di queste undici tracce che abbracciano lo spazio temporale che va da fine anni Sessanta ad inizio Settanta. E questo lo si nota subito dalla palpitante “Fade Out (Into Space)”, non molto lontana da quanto proposto recentemente dai Radio Moscow (tra l’altro loro amici). La title track viaggia nel cosmo incontrando prima i Blue Cheer poi i Pink Floyd, infine gli Hawkwind. “Come Through” è uno stupendo bozzetto acustico che ci fa respirare nuovamente i giorni magici di Led Zeppelin III. Ed in mezzo a tutte queste celebrità poteva mancare sua maestà Jimi Hendrix? Certo che no. Ecco allora sopraggiungere “Light as a Feather” ad allietare le nostre orecchie anche con l’ausilio di un sax a fare da contorno. Ma se pensate che i nostri si fermino qui vi sbagliate. “Love Me (Like a Stranger)” e “True Visions” richiamano quelle sonorità rock vintage con venature prog che i Black Mountain hanno saputo magistralmente riadattare ai nostri tempi ed anche “Tallest Tales” (avvalendosi altresì di una graziosa e gentile voce femminile) si mantiene su queste coordinate ma nel finale ci apre suggestive visioni cortigianesche quasi sullo stile dei maestri Witchcraft. La sognante “Apple”, posta in chiusura, ci fa tenere gli occhi socchiusi prima di salire pian piano d’intensità per poi terminare successivamente in un delirio psycho blues da brividi. Di fronte a questo disco qualcuno storcerà il naso. È vero, siamo ormai giunti alle soglie del nuovo decennio, quindi è lecito probabilmente aspettarsi qualcosa di più, almeno sempre secondo qualcuno. Ma fate finta di niente e noncuranti proseguite convinti con l’ascolto di band come i Mondo Drag. Poiché questa è la vera musica dell’anima e della mente. Potete starne certi. Cristiano Roversi
MONDO GENERATOR – A drug problem that never existed
Fortunatamente il nuovo lavoro dei Mondo Generator è esattamente quello che ci si poteva aspettare da un bassista "psicopatico" che suona rock e fa uso di sostanze stupefacenti. Coadiuvato da un cast di tutto rispetto, Nick Oliveri compie un passo avanti nella composizione strutturale delle canzoni rispetto a "Cocaine Rodeo", le sue urla in alcuni frangenti si trasformano in un cantato melodico e dolce (Me and You). Me le radici punk nel complesso non vengono abbandonate.
Mondo Generator – Fuck It
Fuck It. Non poteva avere titolo (e copertina) più eloquente il ritorno in pista (ogni riferimento è puramente casuale) dei Mondo Generator di Nick Oliveri. L'ex bassista di Kyuss e Queens of the Stone è accompagnato in questa cocainica avventura da Mike Amster (Nebula) e Mike Pygmie (John Garcia and The Band of Gold), presentati nelle note stampa della Heavy Psych Sounds Records (che ha ormai adottato Oliveri da tempo) come dei "desert rock patrons". Assente dalle scene con i Mondo dai tempi di Hell Comes to Your Heart (era l'estate del 2012), il bassista dal lungo pizzetto rosso ha registrato questo Fuck It al Pink Duck Studio dell'amico Josh Homme e non si sposta di una virgola dal suo consueto stile punk rock'n'roll disperato e strafottente, drogato e malsano. Ascoltando le 14 tracce di Fuck It ci troviamo davanti ai consueti brani nervosi e schizzati tipici di Nick, come l'iniziale Nowhere Man, la nichilista Turboner (memore delle esperienze di Dwarves e Turbonegro), la frenetica It's You I Don't Believe e l'addio molesto della conclusiva Disease with No Control. Non mancano autentiche sfuriate hardcore quali Up Against the Void, When Death Comes e la spassosa S.V.E.T.L.A.N.A.S., perché è bene ricordare che female punk is not dead. Quando i toni si rilassano e l'amaro della polvere bianca svanisce, Nick accende uno spinello e trova il tempo di riscrivere la sua storia personale da prime mover della scena stoner (o robot rock, o chiamatela come vi pare), che ha contribuito a generare in maniera fondamentale ai tempi di Blues for the Red Sun. Lo fa con l'ironia che lo contraddistingue, mettendo fine all'heavy psych con l'emblematica Kyuss Dies! (una canzone da canticchiare sotto la doccia), tornando a battere la strada abbandonata dai Queens nella title track e in Death Van Trip (ma quanto ci mancano le sonorità dell'omonimo e di Rated R?) e fornendo una dose di stramba e contorta psichedelia pesante in Listening to the Daze. Qualche piccola variazione alla formula ormai collaudata la presentano soltanto l'oscura Silver Tequila / 666 Miles Away, la spigolosa There's Nothing Wrong (che ricorda i bei tempi dello split diviso tra QOTSA e Beaver) e Option Four, brano dall'andamento marziale e dal sapore quasi metallico. Se pensate che Cocaine Rodeo e A Drug Problem That Never Existed siano due classici, Fuck It è il disco che fa al caso vostro. Bentornato, Nick. Una sola raccomandazione: stavolta non farti arrestare. https://www.youtube.com/watch?v=VM74kbqqdgo

Alessandro Zoppo

MONDO NAIF – Essere sotterraneo
L'essere sotterraneo, sottoposto a mutazioni terribili e ad incubi da città contaminata, è il bambino che troviamo in copertina, fiero di essere un mostro e orgoglioso di rappresentare un unicum. I Mondo Naif sono maestri nel sondare le creature dell'underground, sia che si tratti di musica "post", sia maneggiando la poesia ermetica, e tramite la Go Down Records riescono a portare in superficie questo freak, donandogli la cittadinanza onoraria tra i vivi. A corredo della sua permanenza sulla terra emersa ci sono dieci pezzi di musica verace e sperimentale, più un intro recitato, che vanno ad abbeverarsi a qualsiasi influenza incontrata nel loro cammino: "Eloise" mischia i Verdena primordiali con una vena a la Smashing Pumpkins risultando convincente anche se fortemente protesa verso un pubblico teenagers; "Deuteria" le fa la controparte e appoggia su temi ancor più meditativi riguardanti l'amore e il rapporto con il gentil sesso.Meglio quando lo stesso argomento è gestito in maniera più ruspante come in "Violenta" dove una scrittura musicale diretta ed ad alto tasso adrenalinico scartano lateralmente il rischio di cadere nel patetico ed offre un'occasione di cantare in italiano senza pagare pegno alle band anni Novanta che hanno fatto scuola. Piacevole il risultato di "Come me" dove il saliscendi ritmico produce notevoli effetti di coinvolgimento emotivo e la successiva "Mario" (Ligabue free) che aleggia su una certa spensieratezza alla Eagles of Death Metal distorti ed amplificati. Altre gemme raffinate sono "Boblalito" – blues in dodicesima battuta con testo da riderci su – e "La terra trema", vera e propria minisuite dove, tra piano e forte, viene affrontato un discorso compositivo ad ampio respiro innestato su un testo che omaggia romanticamente la propria terra, anche se può dimostrarsi ostile, e con essa la relazione che lega l'umanità alla radici in cui cresce e germoglia. Chiusura morbida ed elegante con "Y Fire" fa pensare che possiamo aspettarci belle sorprese dal trio e che l'antica combinazione basso/chitarra/batteria ancora non smette di essere efficace anche in un paese che con il rock non ha mai fatto caposcuola. Magari in futuro, chissà. Eugenio Di Giacomantonio
MONDRIAN OAK – Demo
In attesa di continuare ad ampliare il loro repertorio, i Mondrian Oak incidono questo primo rehearsal demo di oltre 16 minuti e dalla qualità di registrazione ben oltre la sufficienza, ovverossia un antipasto servito dai tre freaks (insieme dall’autunno 2007), che hanno ricevuto diversi elogi nelle profondità dell’underground nostrano, partecipando anche a festival come Vibes From The Hill e Homeless Rock Fest.Il progetto sperimentale Mondrian Oak si inserisce nell’attuale scena che in Italia sta finalmente trovando lo spazio che merita, grazie a gruppi eccellenti come Vanessa Van Basten, Three Steps To The Ocean, At The Sundown, Last Minute To Jaffna, Morkobot (giusto per citarne alcuni), molti dei quali raccolti nella fondamentale compilation NeuroSounds. Non ci sono violini, synth, tastiere, voci femminili e strumenti etnici, ma la suggestione evocativa post-psichedelica si concentra negli intrecci strumentali tradizionali, forte dell’alternanza tra riff pesantemente angoscianti e intimiste divagazioni acustiche, capaci di allargare gli orizzonti spazio-temporali con la dovuta perizia. I riferimenti d’obbligo sono Neurosis, Jesu, Isis e Pelican, anche se la cattiveria metallica con cui esplode la tregenda di “Planets Collide” rimanda pure a oscure esperienze avantgarde black-doom come Aarni e Unholy, o altri nordici colossi privati delle componenti industrial e/o gothic (Opeth e Red Harvest), prima di sopirsi in frattalici arpeggi psych. L’angosciante, impenetrabile “Harvest” si inoltra definitivamente in questi sconfinati territori sovradimensionali, e l’interiore melanconia di “Drift” cita liberamente Irepress e Asva, con la chitarra tagliente e mesmerica di Francesco ancora in evidenza, degnamente supportata dalla potente (e già dotata di buona fantasia) sezione ritmica di Stefano e Matteo. The rest is silence Roberto Mattei
Mongoose | Jahbulong – Split Series #1
Gustoso split in casa Go Down Records elargito da Mongoose e Jahbulong, entrambe formazioni veronesi, entrambe power trio, entrambe band spacca sassi. I Mongoose risolvono in cinque pezzi una sintesi space psichedelica di matrice Sons of Otis al peperoncino. Hanno dalla loro una capacità di far fare headbanging anche al banchiere appena ritornato a casa (“The Fall”) e nutrono una certa disciplina in fase di composizione dei testi (“Knowledge Is Not the Solution”). Molto affascinante il fatto che questo sound possente derivi anche da Serena Zocca, dietro le pelli, impeccabile e potente al tempo stesso. Offrono anche il fianco a certe sirene alternative in “Final Exodus” che alleggeriscono l’heavy rock, colando in contesti melodici più leggeri. Gli Jahbulong, come è dolce affogare nelle paludi della Louisiana, sono degli incazzatissimi Earthride temperati da una voce chiara di Pierpaolo “Paul Vinegar” Modena. I tre pezzi offerti all'altare sabbathico sono potenti e orrorifici: sentite l’assolo acido sul finale di “Black Horses Run”, vi si rizzeranno i peli dal terrore. Sembra che qualcosa di brutto debba accadere da un momento all'altro, qualcosa striscia nel buio, con flash gialli accecanti (“Green Walls”) e poi qualcosa accade davvero (“River of Fall”): siete caduti nelle spire di un fiume nero come la pece. La tradizione occult rock di matrice italiana ha mantenuto vive le sue discendenze. Eugenio Di Giacomantonio
MONKEY3 – Monkey3
Solitamente l’estate è un periodo di magra per le uscite discografiche. Ma è proprio quando meno te l’aspetti che dal nulla arrivano dei piccoli gioielli a risvegliare dal torpore estivo. I Monkey 3 sono una band svizzera che qualche anno fa aveva fatto una sporadica apparizione nel panorama stoner con un mini di quattro pezzi. Il debutto definitivo giunge solo ora e ravviva un periodo altrimenti statico: i nove brani che compongono questo cd vi faranno davvero uscire fuori di testa! Oltre un’ora di psycho stoner rock come raramente se ne sente, interamente strumentale, visionario e lisergico, carico di poteri psicotropi altamente suggestivi. Chitarre che graffiano e accarezzano, basso sempre pulsante, drumming ora sfrenato ora pacato e dei giochi di tastiere e sampler che rendono il tutto ancora più allucinato. Gorghi di fuzz e wah-wah che accompagnano in una dimensione liquida, sospesa, dove la calma viene spezzata solo quando necessario e prende forma di un vortice caleidoscopico e multicolore. Heavy psycho rock astratto e dilatato, che pesca tra le varie esperienze di questo genere, del passato (Pink Floyd, Jimi Hendrix) come del presente (Kyuss, Ozric Tentacles, Ufomammut, 35007, questi ultimi letteralmente omaggiati in “35007” appunto…). Un unico ininterrotto flusso di cibo per la mente, luogo di meditazione e di trascendenza che trascina dall’oasi sonica di “Last gamuzao” alla tempesta cerebrale di “Darkman’s nose”, passando per l’eterea meditazione di “Electric mistress” e la trascinante dimensione onirica di “Narcotic jam”. E’ inutile descrivere i brani uno ad uno, si tratta di un ascolto da vivere tutto d’un fiato, magari a luci spente e sotto effetto di qualche sostanza stordente…giusto per rimarcare lo spirito che anima Boris (chitarra), Walter (batteria), Picasso (basso) e Mister Malpropre (keys) vi basti sapere che la track che chiude il lavoro (prima di una ghost song altrettanto mesmerica…) è una cover di “Lividity”, ossessione rumorosa e folle dei Melvins di “Stoner witch”. Monkey 3, welcome to the ultimate psychostoner experience… Alessandro Zoppo
MONOLITH – Louder
I Monolith nascono a Modena nella primavera del 2010. Dovranno aspettare fino al 2013 per consolidare la formazione attuale e, con essa, pubblicare il primo EP ufficiale: "Louder". Quest'ultimo, uscito ufficialmente il 20 marzo del 2014 per Hazy Music in collaborazione con il Centro Musica di Modena, è composto di tre tracce per una durata totale di tredici minuti. La prima dei Monolith prende le mosse da "The Scarred": song che svela un sound robusto, moderno e metallico con, al suo interno, chiare influenze provenienti da band come Alice in Chains, Queen of the Stone Age e System of a Down. "If? ", traccia numero due, rimane stabile sulle stesse sonorità. La sua trama però, più elaborata e ricca di varianti, mostra le buone capacità compositive della band. "Smelly Desert" è la canzone che più si avvicina ad un sound smaccatamente stoner: non solo per il titolo, ma principalmente per l'attitudine space/mantrica (in apertura) e per l'aggressività dei riff in piena esplosione, accompagnati da un vero solo di chitarra. "Louder" è solo l'assaggio di una pietanza apparentemente saporita ma che tuttavia, rimane un assaggio. Aspettiamo buone nuove! Enrico Caselli
MONSTER MAGNET – Monolithic babies!
Su tutte le riviste e webzine nazionali di varia estrazione (dal metal al puro garage-rock), l’ultima fatica degli “eroi” magnetici è stata salutata in coro come un esempio di rock autentico, come non se ne sentiva ormai da venti anni. Una bella soddisfazione per i numerosi ascoltatori (storici o no) dei Monster Magnet, diffusi capillarmente anche nella nostra penisola, ed è il segno che il gruppo di Wyndorf, Mundell e Calandra è entrato stabilmente nel gotha di questa musica. E’ bene precisare che dobbiamo parlare del terzo periodo artistico dei Monster Magnet, iniziato nel ’98 con il tellurico “Powertrip”, proseguito due anni dopo con il più abbordabile “God Says No”, e adesso approdato al terzo album con “Monolithic Babies!”, che dopo diversi ascolti risulta il migliore dei tre. Difatti assistiamo, oltre a durissime fasi metalliche e al recupero del garage-rock’n’roll, anche ad una sintetica reintroduzione della psichedelia cosmico-mantrica di cui i Magnet sono stati indiscutibili maestri in ambito space-stoner rock in album storici come “Spine Of God”, “Superjudge” e “Dopes To Infinity”, precisando però che la caratteristica dei loro attuali brani è molto subordinata alla forma-canzone, un fattore compositivo che non è poi così limitante data la caratura del gruppo. Veramente trascinanti e sessiste “Slut Machine” e “Supercruel”, che nel loro approccio garage/rawk non risultano neanche troppo levigate per compiacere i nuovi trend neo-revivalisti. “On The Verge” e “Monolithic” si avvicinano a certi impenetrabili Blue Oyster Cult, almeno per la loro straniante epica metropolitana commista ad arie orientali, e il singolo “Unbroken (Hotel Baby)” è un bel brano di puro Hard dei tardi Settanta, di quelli che a rivolta mancata potevi almeno esaltarti con un bel ‘fanculo al mondo. Stoner rock di scuola New Jersey per “Radiation Day”, tanto per ricordare come suona l’originale ai vari Solace e Solarized, mentre tirata e con un maschio tocco space-glamour suona “The Right Stuff”, songs che danno una bella mazzata se ascoltate in condizioni “ideali”. Di alto livello la cover della floydiana (epoca Gilmour) “There’s No Way Out Of Here” che dovrebbe far breccia nell’audience (oceanica negli anni ‘80) della psichedelia melodica; “Master Of Light” cerca una nuova via epica e oscura nella storia dei MM, e almeno ha il pregio di riportarli in una dimensione siderale, così come “Too Bad” ricorda ai più distratti che un certo raga-rock stralunato era a loro appannaggio da epoche remote. Idem dicasi sia per “Ultimate Everything”, in cui ritornano le influenze storiche dei nostri (dai Grand Funk agli Hawkwind) - anche se siamo un gradino sotto all’irraggiungibile “Dopes To Infinity” - , che per “CNN War Theme”, consueto cameo per la visionaria passione di Wyndorf verso le colonne sonore. Per tutti gli altri il gruppo che più rappresenta l’essenza del rock. Per gli stoners invece, i ciclopi hanno già fatto la loro rivoluzione, e adesso dominano la superficie. Roberto Mattei
MONSTER MAGNET – Tab…25
Lo spazio ha questo nome perché di spazio lì ce n’è a carriole. Nello spazio, avendo tempo: puoi spaziare da una cosa all’altra per una vita intera, anche due, volendo. Ognuno ha il suo spazio nello spazio, perché nello spazio, lo spazio, c’è a carriole. Sulla terra, molto meno. Sulla terra, la gravità fa vittime ogni giorno: se cade un palazzo nello spazio non succede nulla, sulla terra, muori. La forza d’impatto, nello spazio, è notevolmente ridotta: meno morti per incidenti fra navicelle, meno danni per un cazzotto. Pesi di meno, nello spazio: meno assilli per diete, meno soldi a Vanna Marchi, più consumatori contenti. Lo spazio, a vederlo da fuori, è bello. L’erba del vicino è sempre la più buona, e se dal vicino non ci andrai mai, tale rimarrà. La terra, tirando le somme, ha più difetti.Il sole è una stella. Una fra le tante, una fra milioni. Una qualunque. Tirando le ipotesi, se ci sono tanti soli, ci sono tante terre? Non si sa. Beneficio del dubbio: non si sa. Ammesso e non concesso che ci siano tante terre quante sono i soli, tu, amico mio, qua, cazzo combini? “Ho alternative solide?”, risponderai. “Solide no, mentali sì”, replicherò. Perché, se ci pensi bene, è bello fantasticare, no? Se la risposta è “no”: ok, bravo, beato te. Se la risposta è “sì, mi piace viaggiare oltre, anche se è solo fantasia”: Monster Magner, twentyfive point point point point point point point point point TAB. Il prossimo de-meeting è fissato sulla nebulosa di Andromeda: io ci sarò, e tu? Psychedelic rock music, nulla di meno, nulla di più. Psychedelic rock music, perché non cerchiamo qualcosa di più. O sarà perché non esiste, qualcosa di più? Beneficio del dubbio, idem come sopra: per ora, non so. O meglio: per ora, no. Ma proprio: no. Pier ‘porra’ Paolo
MONSTERNAUT – Monsternaut
Il biker che scaracchia all'inizio di "Dog Town" prima di accendere la moto è eloquente su dove vogliano andare a parare i Monsternaut: musica sanguigna e incazzata nel migliore stile biker movie anni Settanta. La miscela che alimenta il motore è una buona mescola tra hardcore, Black Flag, Black Sabbath e spirito punk (chi ha detto Fu Manchu?), facendo risultare il viaggio dei nostri una parallela dei King of the Road più conosciuti.
Non si deve cadere mai nella puerile e facile polemica sull'originalità delle composizioni e se il gruppo finnico (di Kerava) sia più o meno ruffiano, dato che il divertimento e la voglia di suonare battono sempre questioni di questo tipo. Quindi lasciamoci andare ad una compatta "Mountain Doom", riuscita ed eccitante come poche altre composizioni sul tema, a "Volcanos" fuzzosa e veloce con un bagno nel whisky motörheadiano e a "Mexico", buona per farsi un joint e perdersi negli effetti space e rallentamenti da THC. I finlandesi hanno la strada spianata davanti a loro: speriamo che la carovana continui il giro attorno al deserto. Attraversando la California, lasciando perdere i Segni della Potenza Infinita che non solo altro che segni di infinito decadimento. Eugenio Di Giacomantonio
MONTEZUMA – Montezuma
Abruzzo: terra dell'orso marsicano e dei travocchi, terra in cui mare e monti si fondono armoniosamente, terra di braccianti agricoli, di pescatori, di uomini rudi. I Montezuma sono forti, sono rudi, hanno le mani crepate da virili solchi, ed è difficile che qualcuno riesca a togliermi questa idea dalla testa, neppure se mi vengono a dire che nelle loro fila milita una donna. Nessuno può contraddirmi, quello che i Montezuma mi trasmettono con queste sette tracce sono virilità e veracità.Partenza affidata alla godereccia "Last Mammoth (Died For Cold In L'Aquila)", la giusta via di mezzo tra Cathedral e Orange Goblin, di assoluta presa in ambito live, così come la bella "The Man Who Fall From The Clouds", pezzo più classicamente stoner. Negli altri brani i numi tutelari che si riescono a rintracciare qua e la sono senza dubbio i Clutch senza ovviamente dimenticare l'eredità lasciata dai Kyuss, utile ad ogni band stoner che si rispetti. Personalmente i brani migliori del lotto sono la fiera "Orange Sky" e la conclusiva "The Call Of Montezuma", con speciale menzione per l'imponente finale in cui tutto risulta quadrato e potente, dalla sezione ritmica (Sara al basso e Gabriele alla batteria) alle sei corde di Frenzis e Josh, fino alla voce abrasiva e primitiva del Conte, che riesce a dare il meglio laddove c'è il climax liberatorio ed onirico. Diversi i difetti di questo primo capitolo discografico, dalle chitarre talvolta troppo secche, alla voce potente che talvolta necessiterebbe di maggiore educazione, soprattutto sulle parti più bluesy e melodiche. Ma sono dettagli che al sottoscritto non interessano. Certo, mi aspetto un salto di qualità col prossimo lavoro, ma considerando le idee e la grinta presenti su questo cd, non posso che attendere fiducioso. Nel frattempo continuo ad ascoltare questa prima, godibile prova dei Montezuma. Davide Straccione
MOON, THE – In phase
Storia affascinante quella degli svedesi The Moon. Nascono e muoiono nel giro di pochi anni intorno alla figura di Fredrik Ronnqvist (chitarra), ex membro dei fantastici Qoph. Desideroso di nuove avventure sonore, Fredrik decidere di cambiare aria e lo fa assoldando l'amico Anders Franzén (voce) ed in seguito Kent Klang (chitarra, basso) e Federico Da Costa (batteria), anch'essi nel giro Qoph. Siamo tra il 1995 e il 1997, periodo di deflusso, in cui il grunge ha abbattuto e fatto ricrescere e il rock ripensa a se stesso.Ai quattro ciò interessa poco perché la magia di un disco come "In phase" porta chiari ed evidenti i richiami al passato. La grande psichedelia degli anni '60, l'hard rock dei '70, la gloriosa tradizione del progressive. Il tutto elaborato con una vena romantica e al tempo stesso oscura, che evoca gli immensi paesaggi scandinavi innevati durante lunghe e fredde notti. Tanto che Ronnqvist dopo lo scioglimento della band ha abbandonato completamente il mondo della musica e si è rifugiato nel suo "Dark countryside" (uno dei brani più convincenti del disco, abile miscela di prog psichedelico, estasi chitarristica, melodie sotterranee e rock cupo). Si tratta proprio di uno dei primi pezzi composti dal gruppo, insieme all'iniziale, evocativa "An experience" e alla lunga, elaborata "Honeymoon's end", tutta ritmiche dinamiche, chitarre sognanti e un vivace inserto di armonica. "Beatify me" ha un impatto melodico notevole, che rimane impresso sin dal primo ascolto. "World full of joy?" e "Moonstruck masquerade" sono episodi di trainante heavy blues come solo Cream, Mountain e Blue Oyster Cult erano in grado di comporre. "Karma" vive di un esotismo lisergico tanto caro a gruppi quali East Of Eden e Blues Magoose, mentre "Open closet doors" è una sorta di epitaffio malinconico per ciò che non c'è più. È dunque un ascolto stimolante quello di "In phase", lavoro che ci restituisce un gruppo di cui ci auguriamo sentir parlare anche in futuro. Per ora un sentito ringraziamento va alla Nasoni Records che ci ha restituito questo tesoro sepolto in una lussuosa edizione in vinile. Alessandro Zoppo
Moon’s Mallow – Long Lost
Sembra essere qualcosa in più di una semplice band rock. I Moon’s Mallow sono qualcosa di catartico, esistenziale. Vuoi per la voce ed il carisma della vocalist Gioia Coppola, vuoi per la classe innata di Claudio Colaianni (That’s All Folks!, Anuseye, Colt 38) al songwriting, coadiuvato da Michele Rossiello (That's All Folks!, Atomic Workers) al basso e Damiano Ceglie (Anuseye) alla batteria. I dieci pezzi di “Long Lost” non lasciano indifferenti: travolgono, coinvolgono, facendo abbandonare all’ascoltatore tutte le difese verso l’esterno e trasportandolo in flutti organici e psichedelici. Certo, lo stile di Claudio emerge distintamente (e meno male!) e si sentono gli echi delle sue band (“Morning Moon” ha un finale degno dei That’s All Folks!) ma non c’è solo heavy psych. La personalità di Gioia tinge di un colore arty tutto il progetto, e con ottimi risultati. Quando la sua voce diviene protagonista, come in “What You See” e “White Daises”, si sente un’interpretazione attoriale, da mattatrice, figlia di donne forti come Polly Jean Harvey e Lydia Lunch. È difficile trovare dei riferimenti perché, come racconta Claudio, il progetto si sviluppa intorno ad “un rock a 360°”, dove 50 anni di storia e personaggi musicali vengono mescolati insieme alle proprie attitudine e capacità. Basta prendere ad esempio “Move On”, un classic rock che potrebbe stare bene in un album Settanta americano. Ma qualcosa per gli amanti dei viaggi interstellari e gli stoner addicts è disseminato in tutti i dieci pezzi che compongono “Long Lost”. “Glue” con la sua struttura e con le chitarre acustiche si abbevera da quella infinita fonte cosmic psych di Lorenzo Woodrose, così come “Tuned” e la finale “Gone” hanno qualche spezia di Eddie Glass dei Nebula. La band è ben rodata, pronta per calcare i palchi della penisola anche perché “Long Lost” è il secondo album e viene dopo un anno esatto dal precedente “Against All Gods”, che sin dal titolo ci fa capire come la pensano i nostri. Hasta siempre, Moons! https://www.youtube.com/watch?v=H5-Q0eWj6xk&ab_channel=Moon%27sMallow

Eugenio Di Giacomantonio

Moon’s Mallow – Out of the Foxholes
Al terzo album dopo Against All Gods e Long Lost, i Moon’s Mallow raggiungono una certa maturità con Out of the Foxholes. Gioia Coppola, la deus ex-machina del progetto, è istintiva, selvaggia e viscerale. Preferisce un’espressione sentita e partecipata, piuttosto che tecnicamente perfetta e qui, possiamo metterlo per iscritto, risiede la forza del suo progetto. Fuori dalla tana della volpe c’è una nuova vita, forse. Una vita più giusta ed inclusiva. I suoi testi parlano di libertà, serpenti elettrici e stregoni, mentre la musica è libera di volare dove vuole. Veramente. Cyclamen Joe è arricchita da archi e pianoforte, risultando un classico noir, dove Gioia prende a prestito i registri di Diamanda Galas, facendoli suoi. Raw e Hawks hanno una patina quasi prog, così come No Mediation e Invite Me sono frutto dell’acid rock d’eccellenza. Gioia canta come se quella fosse l’ultima canzone sulla terra (Our world is dying, dying… declama letteralmente) e offre tutta se stessa. Non ho memoria di chanteuse italiane che abbiano lo stesso feeling sporco e sanguigno, applicato al rock underground. Queste canzoni nascono da mappe emotive molto forti a cui viene data una veste fruibile e contingente. Sono il frutto di un percorso interiore a cui Claudio Colaianni (chitarra e voce), Stefano Pomponio (tastiere e synth), Michele Rossiello (basso) e Damiano Ceglie (batteria) hanno dato significato, veste e struttura, producendo un album di rara bellezza. Farsi travolgere da queste onde è catartico e liberatorio: sia per Gioia, che per noi. Nota conclusiva: sulla pagina Bandcamp dei Moon's Mallow è disponibile anche la alternate version di Out of the Foxholes con la versione alternativa di I Know a Man come bonus track. https://www.youtube.com/watch?v=2Mw_tEK9M0M

Eugenio Di Giacomantonio

MORKOBOT – Morto
Si potrebbero citare la teoria del corpo nero di Planck, le cavità interstiziali, la maledizione di Dexter Ward, l'universo in curvatura, l'antimateria, l'agonia di un cosmonauta, un genocidio avvenuto nella preistoria e le pulsar poste a incommensurabile distanza, ma il titolo migliore l'hanno scelto proprio i Morkobot, che per chiudere la loro trilogia si affidano al totale annientamento di ogni forma vivente, o meglio rendono palpabile il confine tra disfacimento materico e alterato space-drone.
MORKOBOT – Mostro
Secondo disco per la creatura Morkobot, “donatore di forze magnetiche e regolatore ancestrale dei flussi di coscienza”. Il “Mostro” creato da Lin (basso, synth), Lan (basso) e Len (batteria) - che simpatiche canaglie, sembrano i Residents italiani… - è frutto del sodalizio nato con la Supernaturalcat, nuova etichetta che gravita nell’universo Malleus/Ufomammut. E proprio agli Ufomammut e al loro heavy sound slabbrato e magmatico i Morkobot guardano, con le dovute differenze di stile e aggiungendo una discreta dose di originalità nella scrittura, nell’esecuzione e nelle influenze più o meno nascoste che si celano nei meandri del loro suono.In “Mostro” c’è la fondamentale base space psichedelica, c’è un certo fascino per il noise, il free jazz e il post rock, ci sono evidenti suggestioni kraut, c’è una piena attitudine sperimentale e rumorista (chi immagina certi Melvins, Don Caballero e Kinski non sbaglia). Lo dimostra fin da subito “Tobokrom”, intro lunare ed isterica seguita a ruota da “Zorgongollac”, missile flippatissimo (il kraut filtrato dalle Desert Sessions e dai primissimi Queens Of The Stone Age?), ultra lisergico e super distorto, dominato da ritmiche irregolari e fuzz debordanti. “Kaklaipus” è la celebrazione del dio Sunn e della materia elettronica, mentre “Cammut” suona come i Pink Floyd che si danno al noise sotto effetto dell’mdma. “Skrotokolm” è l’heavy jazz che ascoltano gli abitanti di Urano (o la musica che diffondono di nascosto i juke box del bar galattico di Star Wars?), gli oltre 20 minuti della conclusiva “Poldon” una lenta, lugubre, minacciosa marcia di avvicinamento e distruzione che segna il collasso definitivo del pianeta. La lava che scorre tra i microsolchi di “Mostro” è liquida, bollente e abrasiva. Con qualche ulteriore accorgimento nell’elaborazione di tale matassa (che ne dite delle vocals?) i Morkobot potranno davvero ambire al controllo totale delle galassie. Alessandro Zoppo
MORPHIA DROPS – Morphia Drops
Si presentano bene questi sardi (da Olbia) Morphia Drops!La band si forma nel 2002 e,dopo aver partecipato ad Olbia Rock,registrano questo demo di 3 tracce.Proseguono il loro percorso partecipando alla manifestazione Sottosuoni 2003,perdono la finale ma condividono il palco con i Meganoidi e questo da nuove energie ai 5 per andare avanti.Concerto dopo concerto i Morphia Drops conquistano la finale ad Arezzo Wave Sardegna e la finale a Sottosuoni 2004 (oltre all’invito a partecipare al Rock TV Tour con Persian Jones e Pornoriviste e il support ai Livello Zero).Nel luglio 2004 vincono l’Olbia Rock Festival,mentre nell’agosto 2004 la band,oltre alla vittoria del festival “Arte Set Sonos” di Ruinas che garantisce loro la presenza al MEI 2004,viene selezionata da Rock TV per l’ I-Tim Tour. A gennaio dovrebbero ultimare l’album d’esordio che verra’ supportato,a partire da febbraio,dal videoclip della song “Morfina” (in rotazione sul circuito Rock TV). Veniamo al promo,intitolato “Morphia Drops” e composto da 3 tracce (“Family”,”Morpfina” e “Un’Ora D’Aria”) si potrebbe inquadrare in quel filone definito dagli stessi:Nu-Rock. I cinque si rifanno infatti a band quali ultimi Machine Head e primi Soulfly ma con un’attitudine piu’ rock che metal,il che li rende decisamente piu’ morbidi ed accessibili (questo grazie anche ad alcuni inserti elettronici che non sfigurano affatto). Premetto che non sono un estremo conoscitore del genere (genere che non segue la linea editoriale di Perkele tra le altre cose…),ma posso affermare con estrema sicurezza che questi tre pezzi sono ottimamente prodotti e ben arrangiati. Molto belli i suoni di batteria e chitarre.Il basso,sempre presente,fornisce quel groove giusto e gli inserti elettronici rendono i pezzi piu’ freschi e mai monotoni. Le due voci,una pulita che canta in italiano,l’altra urlata (growl,molto metal) che canta in inglese,si intrecciano bene e forniscono quella giusta dose di potenza ai pezzi. Apre il demo la traccia “Family” che ci accoglie con dei sample vocali su un beat elettronico niente male,man mano che si prosegue entrano i vari strumenti ed il pezzo inizia a prendere forma.Nulla di nuovo,ma la traccia e’ buona e piacevole all’ascolto. Segue la song “Morphina”.Qui,purtroppo,non ci siamo.Il cantato in italiano e’ molto simile ad una cantilena e stanca subito come la parte centrale della canzone…senza idee e decisamente sottotono.Unica nota positiva il growl in inglese. Con la terza traccia,”Un’Ora D’aria” ci si riporta invece su buoni livelli.Un arrangiamento curatissimo ed un basso ipnotico vengono supportati da un’ottimo testo e da un growl molto potente e furioso nel finale. Nel complesso un buon promo per una band che,presumo,si fara’ conoscere presto grazie anche a tutti i riconoscimenti ottenuti.Insisterei un po’ di piu’ sulla contaminazione con l’elettronica se fossi in loro,in modo da potersi distinguere dalle miriadi di bands che propongono questo genere musicale. The Rawker
MORVIDA – Super Muff Ep
Arrivano da Pesaro e il titolo dell’ep è una carta scoperta: alternative rock aromatizzato allo stoner. Partenza poco incisiva con “The Circle”, brano rock ‘n roll dal sapore retro che però fatica a decollare. Molto bella e piena di groove invece la successiva “Age Of Empire”, suoni rotondi e corposi e testa che tiene il tempo con leggeri e costanti movimenti, per il miglior episodio dell’intero dischetto. La strada è ormai spianata visto che anche “Ghost C.” si assesta su livelli soddisfacenti, buon gusto e tanta genuina semplicità (l’unico pezzo a sfiorare i 5 minuti di durata, mentre tutti gli altri non raggiungono i 3 minuti). Finale con piede schiacciato sull’acceleratore e vento tra i capelli per “The Picture”, ultimo brano del lotto, ed anche il più veloce.Fin qui la parte strumentale. Ora passiamo ad analizzare l’elemento vocale. La voce di Paolo (anche chitarrista) poco si presta al genere dei Morvida, anche se comunque in grado di distribuire buone melodie, ma troppo fioca e fuori dai canoni. Forse è proprio questo che permette ai Morvida di apparire “diversi”, ma a mio avviso è una proposta che necessiterebbe di maggior grinta e minore dolcezza dietro al microfono. Per il resto la band ha energia da vendere ed il loro rock è fatto bene! Davide Straccione
MOS GENERATOR – Mos Generator / The late great planet earth
Sono davvero una folgorante rivelazione i Mos Generator, trio americano composto da Tony Reed (voce, chitarra, tastiere), Shawn Johnson (batteria) e Scooter Haslip (basso). Il loro rock è possente e variopinto, tosto e melodico al punto giusto. Ad una tecnica strumentale impeccabile uniscono la capacità di scrivere canzoni mai banali e la voglia di viaggiare veloci sulle corde più colorate della psichedelia. I Mos Generator hanno ascoltato tantissimo l’hard rock dei ‘70s (e si sente…), hanno appreso la lezione dello stoner e l’hanno fusa con influenze più disparate. Dimostrano qualità sin dal primo disco omonimo, sette brani registrati nel 2002 che convincono sin dal primo ascolto.“!Lumbo rock” parte al fulmicotone sorprendendo per dinamismo e melodia, la stessa formula che viene adottata quando il chorus coinvolgente di “Stone county line” inizia a martellare il nostro cervello. “Acapulco gold” di primo acchito sembra un pezzo ‘smooth’, da club fumoso su una spiaggia assolata, salvo poi tramutarsi in una travolgente mazzata heavy psych che ricorda i colossi Monster Magnet. La band di Dave Wyndorf è chiamata in causa anche nelle sonorità di “Sleeping your way to the middle”, mentre “F-1” e “Y’juana” risvegliano quegli antichi, classici sapori hard rock che gente come Firebird e Josiah non ha mai dimenticato. La conclusiva “Pentagramagraph” sfoggia 8 minuti abbondanti di acid rock ultra psichedelico che delizia cuore e mente. Le premesse positive create dal primo lavoro vengono confermate con il nuovo “The late great planet earth”, edito stavolta dalla sempre attenta Nasoni Records. Lo stile del gruppo si è fatto eterogeneo, molto personale nell’elaborare una matassa heavy in continua evoluzione. D’altronde l’album è un unico flusso, un magma psichedelico nel quale i brani confluiscono uno nell’altro creando uno stordente stato d’ipnosi. L’iniziale “On the eve”, “Opium skies” e “The myopic” sono episodi di grande rock psichedelico, caratterizzati dalla voce molto ‘Dave Wyndorf style’ di Tony e da stupendi intrecci tra ritmiche e chitarra. “Six billion people dead” ha l’ennesima, bellissima melodia a presa rapida; “Closed casket” è un funereo, eccitante tributo alla divinità Black Sabbath; “Fall of Megiddo” e la sua coda dissonante “Zero to infinity” vanno oltre i limiti di Pink Floyd e King Crimson fondendo atmosfere liquide, passaggi blues e deviazioni ‘isteriche’. La stessa title track, le cui derive confluiscono in “Golden chariots” e “Exit the atomic age”, varia ancora registro, andando ad immergersi nel pieno caos cibernetico forgiato ‘voivoda’. La conclusione affidata alla psichedelia oscura di “The world set free” è il dovuto punto d’approdo di una band che con queste potenzialità può affermarsi in maniera definitiva nel panorama hard & heavy odierno. Alla ricerca di un nuovo mo(n)do di intendere il suono della mente. Alessandro Zoppo
MOTHER MISERY – For the crow
I Gluecifer si saranno anche sciolti e i Monster Magnet un po’ persi per strada, ma per fortuna le nuove leve non tardano a riempire i vuoti lasciati, per un motivo o per l’altro, alle spalle di grandi nomi in evidente eclissi. Ci pensano tra i tanti gli svedesi Mother Misery, dei quali il debut Grandiosity del 2003 aveva colpito piacevolmente per personalità, freschezza e per la carica sprigionata già al disco d’esordio. Con certe premesse era lecito aspettarsi una continuazione all’altezza e anche qualcosa in più, e infatti il presente EP For TheCrows, uscito per la Daredevil Records sul finire dello scorso anno, è una gradita conferma di quanto di buono gli svedesi avevano offerto col debut album. Le 5 tracce che compongono questa nuova uscita restano saldamente ancorate all’heavy rock più energico e melodico dell’odierna scena contemporanea, nel quale non mancano certo i richiami, già evidenti in Grandiosity, ai maestri Monster Magnet e all’aggressività a tratti garage di Hellacopters o Gluecifer, il tutto rivisitato con una buona personalità e concentrato all’interno di canzoni dall’elevato potenziale. La title track o una “My Soul” non sfigurerebbero di certo come vincenti hit per la loro semplicità, freschezza e per il facile piglio, mentre la conclusiva “Pray for Them Pigs” si lascia andare verso brevi ma intensi momenti melodici e più introspettivi di sicuro effetto.Insomma, come verifica del presente stato di salute della band, questo For The Crows permette di ben sperare in un ritorno col botto da parte dei Mother Misery, realtà sempre più interessante del panorama rock internazionale. Witchfinder
MOTHER MISERY – Grandiosity
Che mazzata "Grandiosity"! E chi se lo sarebbe mai aspettato da un gruppo al primo passo sulla lunga distanza?! In verità i Mother Misery di esperienza già ne hanno poiché sono nati dalle ceneri dei Nosedive, altra eccellente band uscita fuori da quel calderone musicale ribollente che è la Svezia. Tuttavia un disco di questo calibro, così tosto e ben inquadrato, è veramente una piccola sorpresa. Pestano duro i Mother Misery e lo fanno con una convinzione ed una forza comune a pochi. Il loro è un rock elettrizzante, tirato, esplosivo, melodico. Qualità che si riflettono in un songwriting lucido e sempre ispirato: nessun calo di tono o punto morto, i 50 e passa minuti del dischetto volano via che è un piacere e giunti alla fine dell'ascolto il dito torna immediatamente sul tasto play del lettore… I quattro mettono insieme i cocci del rock più sporco attaccandoli con del collante catchy e dannatamente travolgente. Tanto per dare un'idea, immaginate una fusione tra l'hard rock ruffiano (nel senso buono…) degli ultimi Monster Magnet, l'irruenza rock 'n' roll di Turbonegro e Hellacopters, le derive "soft" dello stoner di Sea Of Green e El Caco, ampie spruzzate di Seattle sound ed otterrete le vibrazioni di "Grandiosity". Il tutto tenuto insieme da una grinta incredibile e da una spiccata personalità. Vocals anthemiche (ottimo il lavoro di John), chitarre sparate a mille e un senso ritmico eccezionale sono gli elementi distintivi che fanno dei Mother Misery una realtà stupenda. D'altronde basta ascoltare l'avvio di "My enemy" per rendersene conto: un potenziale hit che con la sua melodia avvincente si insinua sin dal primo ascolto nel cervello prima di uscirne con estrema difficoltà. Ma di tali gioielli ne è pieno l'album, come si può notare ascoltando la bellissima "Black holes", la malinconica "It comes again" o la riflessiva "On the outside". Un feeling notturno e vizioso in puro stile Turbonegro ammanta invece " Get it right", "Dead end" e "Be a god", brani da cantare a squarciagola all'apice di una sbronza. Suggello di un disco con i fiocchi è però "1000 Suns", smeraldo psichedelico che abbaglia con i suoi intarsi visionari. Rock senza fronzoli, diretto e piacione, che puzza di alcol e di benzina. Questi sono i Mother Misery, cosa chiedere di più? Alessandro Zoppo
Mother Nature – Double Dial
I tarantini Mother Nature sono in giro dal 1993: hanno accumulato decine di concerti e moltissimi riscontri positivi. Dopo varie vicissitudini nel 2017 hanno ripubblicato il primo disco, Double Dial, dopo l'arresto delle attività del 2003. In loro sentiamo il concentrato di tutto lo street rock di metà anni Ottanta con una velata di zucchero a velo souther rock. Aerosmith, D.A.D., The Black Crowes, The Cult, Tigertailz, Cinderella: hard provocatorio, sessualmente spinto e sfacciato, con alta carica di eccitabilità. I Mother Nature ambiscono a diventare una band FM e si percepisce dalla passione che mettono nel fare le cose per bene. Pearl dimostra come anche la lezione garage dei primi Duemila arrivata da band come Hives e Turbonegro possa essere riportata nello stile glamy and sleazy del gruppo. Oggi come allora la vera matrice del groove è nel blues (sentite un pezzo come Everything Will Follow per capire come le dodici battute siano propedeutiche per tutto l'hard rock che sentiamo oggi) e oggi come allora non viene dimenticato il passaggio nei territori pomicioni con ballatone strappalacrime (Ask Yourself è tanto Faster Pussycat, quanto Soul Asylum). Non si tralascia neanche il crossover dei primi Novanta (più Red Hot Chili Peppers che Jane's Addiction ad onor del vero) in pezzi come Boy, We Gotta Handle This. I ragazzi suonano alla grande quello che gli piace ascoltare e che hanno assimilato nella loro lunga carriera; che male c'è se poi i pezzi puntano verso David Lee Roth o Mr. Big o i toxic twins? La musica serve a nutrire l'animo, anche con il divertimento. https://www.youtube.com/watch?v=5U5lK_CwAdI   Eugenio Di Giacomantonio  
MOTHER OF GOD – Anthropos
La scrittura di un album è senza dubbio un percorso difficile, coinvolgente a tal punto da mettere a nudo la propria identità sia come singolo uomo, portatore di credenze e valori individuali, sia come parte integrante di un insieme di soggetti presumibilmente teso verso il progresso della propria condizione di vita ed inesorabilmente legato alle sorti del mondo che lo ospita. Il disco in questione sembra voler racchiudere entrambe le facce della medaglia. "Anthropos" è il titolo del primo full-lenght dei Mother of God, quartetto svedese nato nel 2008 che in breve tempo pubblica due EP di indiscusso valore, tanto da invogliare un'etichetta come la Small Stone, ad accogliere la band sotto la propria ala protettiva. Nonostante le buone premesse e i ripetuti ascolti, l'album fatica a decollare.Articolato in dodici tracce mediamente di breve durata, il disco affonda le proprie influenze prevalentemente tra le strade grunge di Seattle (Soundgarden ed Alice In Chains su tutti), lasciandosi per brevi tratti suggestionare da sonorità degli anni 60 e 70 (The Doors, Led Zeppelin) e da rievocazioni sabbathiane. Il risultato finale evidenzia un sound in cerca d'identità, intrappolato tra la rilettura in chiave stoner del proprio bagaglio artistico (efficace in brani come "To Live" e "Lucy") e la ricerca di nuove vibrazioni, più moderne, forse non ancora del tutto affinata. Ci consoliamo con il fatto che i Mother of God, lasciano trapelare sensazioni d'incompiutezza e buoni margini di miglioramento. Infine, alcune informazioni di servizio: la band, attualmente impegnata in tour europeo in compagnia della band Abrahma, ha reso disponibile "Anthropos" in formato digitale che sarà pronto fisicamente per febbraio 2013. Enrico Caselli
MOTHER PROPAGANDA – Perpetual
Carlo e Tommaso sono come fratelli. Abbiamo diviso l'esperienza Mahatma (jam band psycho doom alla maniera degli Electric Wizard sotto sedativi) oltre che tempo e vizi. Ci siamo trovati a Bologna, per l'università. Io da Teramo, loro da Verona. Con lo stesso background di ascolti e sensibilità. Avevamo in mente di tramortire quel cielo bolognese perennemente bianco con liquide visioni quadricromatiche influenzate dall'acido. Il progetto dei Mother Propanga, al tempo dei nostri primi incontri, esisteva già, abbozzato in qualche decina di concerti e in equilibrio precario tra cover mascherate e pezzi originali. Un duo: chitarra baritona + batteria. Tommaso + Carlo. Dai primi ascolti emergeva qualcosa di unico: l'atteggiamento di Tommaso. Una ricerca. Tommaso prende la musica come uno strumento per decodificare l'uomo. Sia la natura emersa, sia la natura sommersa. Carlo è in questo equilibrio una controparte fondamentale. Istinto, forza e coraggio. Quindi passione nella maniera più primordiale possibile. Decidemmo di dedicarci ai Mahatma insieme e, per il momento, il progetto Mother Propaganda andava a riposo. In tre eravamo come cuspide infilata nel culo dell'universo. Ci trovavamo a suonare in festival punk core dove un nostro pezzo durava come tutto il set di due band messe insieme. Come dire: facciamo ciò che ci piace in tutti i contesti, anche quelli più borderline. Due album, anni passati insieme, scoperte, nutrimenti e piccole soddisfazioni. Poi la vita emerge con il suo carico di richieste (lavoro, famiglia, mangiare, dormire) e le distanze, soprattutto fisiche, mai spirituali, aumentano. La fenice dei Mahatma ha riportato in superficie i Mother Propaganda che, ripercorrendo la strada a ritroso sui propri passi, pubblicano un cinque pezzi da paura a nome "Perpetual". Devo essere sincero: per la prima volta, la mia "deontologia professionale" di recensore, va a farsi fottere. Per me, ora, è impossibile ascoltare questo lavoro senza un alto tasso di coinvolgimento emotivo. Riconoscere la natura di Tommaso in una serie di fraseggi assassini, sempre ricercati, è quanto più vicino alla vera gioia. Come risentire quella scimmia depilata di Carlo fare "primitivismo" dietro le pelli! Comunque sia, eccoci qua. "Pilgrimage of the Worlds" è puro Wino style. Quindi Black Sabbath meets Hellhounds doom band. Con un appeal verso l'occult rock più sornione, privo di tutte quelle cazzate sataniche. "Tantra of Universe" mette in risalto la passione di Tommaso per la musica prodotta dalle campane tibetane. Siamo dalle parti di una vera e propria preghiera. Bellissima e trascendentale. Sette minuti di saliscendi con un finale che tramortisce gli Ufomammut con lo stesso linguaggio. "Voice of Brahma" flippa da parecchio tempo nelle teste dei nostri e presenta un'altra particolarità: la voglia di sperimentarsi al canto di Carlo alla maniera OM. Echi di futuri primitivi. Echi di mondi lontani. Uno spirito di genuinità e di semplicità affiora tra le partiture di "Baali Demon", come se Brant Bjork avesse deciso di interpretare la sua musica alla maniera europea, impastata non più con deserti e dune ma con boschi e faggi. E sempre in ambito post Kyuss spinto, rimaniamo nel finale con "Unknown Frontier": fratelli miei fate una cosa, spedite sto pezzo a John Garcia che sta aspettando un riff così da quando il circo levò le tende! Mi permetto di darvi un consiglio: andate a cercare "Perpetual" in giro per gli squat, i centri occupati o chiedetelo direttamente agli autori. Passerete un mezz'oretta in loro compagnia e vi accorgerete che sono bravi e belli. Io, da par mio, posso solo che rallegrarmi. "Bentornati Carlo e Tommaso! Mi siete mancati!". Eugenio Di Giacomantonio
MOTHER TRUCKER – The last ride of Dr. Sanchez
I Mother Trucker rappresentano senza dubbio una boccata d'aria fresca nel panorama underground inglese. Non perché al momento non esistano band valide nel sottobosco britannico, ma solo perché questi quattro ragazzi di Birmingham hanno dalla loro grinta, classe e determinazione. Il debut "The last ride of Dr. Sanchez", completamente autoprodotto in classico stile DIY, affascina e sorprende a partire dallo strano ed intrigante titolo. Un lotto di sei brani per oltre mezz'ora di musica che incanta con il suo mix interamente strumentale a base di heavy psych, indie e post rock.Immaginate un connubio dove si fondono la sublime grazia stoner dei Kyuss, l'astrazione psichedelica di Pelican e Isis, le derive delicate dei Mogwai e la potenza (senza cattiveria) dei Karma To Burn. Il risultato che esce dallo shaker è il prodotto Mother Trucker. Un cocktail che non nausea né annoia, anzi, produce rimpianti per l'esigua durata. Tanto che quando il lettore si ferma alla fine del cd si è ansiosi di un nuovo sorso… D'altronde tanta acutezza compositiva ed esecutiva non è roba da tutti i giorni. Già la sola traccia iniziale ("Truckers of steel") vale di per sé l'acquisto: riff e ritmiche corpose che prima scuotono, poi cullano, infine gettano l'ascoltatore nel mondo dei vivi. Stesso schema che fa la fortuna di "Waxing the shaft" e "Sex wound", brani in cui convivono felicemente rock aggressivo e pause psichedeliche, fisicità muscolare e viaggio onirico. Un punto in più lo merita anche il fatto che l'assenza della voce non si fa rimpiangere, essendo ben rimpiazzata dalla cascata di note prodotta dalle chitarre e dalla base ritmica, davvero forsennata nelle sue escursioni maggiormente tirate ("Truckasaurus rex"). Insomma, tutto funziona alla perfezione. Anche perché quando i feedback e i bassi lisergici che chiudono "Fan on fan off" giungono alla fine si ha la netta sensazione di aver assistito ad un fantastico spettacolo. Davvero bravi i Mother Trucker, sentiremo presto parlare di loro. Alessandro Zoppo
MOTORPSYCHO – It’s a love cult
Il 2000 ha già tre anni suonati e i Motorpsycho l’hanno scandito con la regolarità di altrettanti uscite imboccando un sentiero che ormai, con questo It’s a Love Cult, non può più dirsi retrò sebbene peschi a piene mani nel vorticoso decennio ’65-’75 (anno più, anno meno..). I tre norvegesi hanno ormai raggiunto uno standard qualitativo talmente elevato da aver reso ‘quella’ musica moderna, e bella soprattutto. Andare a cercare queste o quelle influenze nel passato d'oro risulta sterile sebbene faccia parte del nostro compito di giornalisti. Quindi cuore e orecchie spalancate! Apre le danze “Uberwagner” sostenuta e scandita da liriche stirate, è un felicissimo ponte tra il pop di maniera di ‘LTEC’ e la psichedelìa di ‘Angels and Demons at Play’. Il cuore centrale dell’album però è acustico, con tutta la vacuità che questo termine ha. This Otherness, Carousel e The Mirror and the Lie hanno un approccio sognante, pacato, solo a tratti interrotto da un’esplosione di archi nel finale, come in ‘Carousel’, appunto. Necessario anche qui, come da alcuni album a questa parte, soffermarsi sulla qualità compositiva delle canzoni dei MP. Oltre alla nota coppia Saether/Ryan, da evidenziare solo i contributi dei singoli componenti, tutti di ottimo livello. Bent Saether lo conosciamo da un decennio ormai come grande scrittore di canzoni ma in questo album si supera anche nella prova vocale. Non raschia, non gracchia, va liscio e pulito come un novello McCartney; Ryan firma due splendidi brani tra cui il singolo Serpentine. Una canzone da rollercoaster, fragile e delicatamente popular, ricca di aperture e di spleen che pervadeva i momenti più rarefatti di ‘Blissard’; il batterista Gebhardt regala all’album una canzone finalmente non divertessement come What If. La seconda puntatina nei sixties più acidi, dopo la byrdsiana Neverland, è One More Daemon . Anche qui, odore di ‘Trust Us’ e fiumi di scosse elettriche. Nella famiglia allargata dei MP un posto al sole l'ha Bard, il quarto uomo che da alcuni anni cura le tastiere vintage dei loro dischi sia in studio che sul palco. In cabina di regia compaiono tutti i MP e il solito Deathprod, a sottolineare la coralità delle scelte della band anche in fase di produzione. Francesco Imperato
MOUNT CARAVAN – Translations of the divine
Convincente prova il debutto degli svedesi Mount Caravan, band i cui membri sono nel giro musicale da ormai diversi anni (hanno fatto parte di gruppi punk, grunge, metal e garage) ma che sotto questo monicker hanno iniziato a suonare insieme dal 1999. Le varie e molteplici esperienze dei cinque (Giowanni alla batteria, Vernon alla voce, Guy al basso, Duke e Kang alle chitarre) si fanno sentire nettamente in questo promo di cinque pezzi, nei quali viene data prova di coesione e personalità. Le composizioni oscillano tra bordate heavy psych e passaggi più lisergici, sottolineati da suadenti melodie vocali che rendono il sound magmatico e avvincente. Unica pecca è la scarsa qualità della registrazione, ma per essere un prodotto “casalingo” si può benissimo sorvolare e pensare solo alla musica. Un brano come l’iniziale “Endless room” infatti spazza via tutti i preconcetti: un wah-wah assassino di scuola Acrimony illumina i nostri occhi e si trascina in un moto circolare che si apre alle vocals vibranti di Vernon, il quale ha appreso bene dalle band della scena di Seattle come toccare le corde dell’anima di chi ascolta... Non a caso la successiva “Yarenaz” è un missile veloce e compatto che richiama alla mente i Sondgarden dei tempi che furono (magari con una maggiore estensione drogata…), mentre “Charles Bronson”, a parte il titolo ironico, è una splendida cavalcata mesmerica condotta da riff tellurici imbevuti d’acido, un fantastico caleidoscopio dove si incrociano l’operato di Kyuss e Alice In Chains. Come se ancora non bastasse, a dare il colpo di grazia ci pensa “Eightball”, song dilatata che parte da un ipnotico giro di basso e si adagia su una fitta coltre di chitarre, trapassata solo da dolci e malinconiche parti vocali. La breve strumentale “Hastorinfernor” chiude in maniera ultra psichedelica un esordio che non poteva essere migliore. Un solo avvertimento: questa è musica dopata per menti dopate… Alessandro Zoppo
MOUNT SALEM – Endless
Ci sono album che si potrebbero analizzare in poche righe: è il caso eclatante dei Mount Salem. Premettendo che oggi risultare originali e addirittura innovativi è arduo, non si capisce perché alcune band si ostinino a reinterpretare – poiché è questo ciò che fanno – una formula con annessi suoni, tematiche ed iconografia già e più volte riproposti. In alcuni casi può essere semplice passione, in altri caratteristiche tecniche che inducono a seguire determinati sentieri, talvolta è mera moda. I Mount Salem sono l'ennesima formazione occult female fronted, dunque piuttosto affine a Blood Ceremony, Jex Thoth, Devil's Blood, Witch Mountain e Hands of Horlac.Il gruppo di Chicago brilla sul piano tecnico; non altrettanto si può dire dell'aspetto stilistico. In diversi frangenti di "Endless", l'accostamento ai Blood Ceremony appare persino imbarazzante, seppure la band provi a staccarsi dal ruolo di replicanti. Non riuscendoci sempre. I quattro inglobano elementi sabbathiani e reminescenze di Black Widow e High Tide, risultando qualitativamente di buon livello. Ad emergere è soprattutto l'approccio horror romantico, unito ad un gusto psych che in qualche maniera salva l'album da un giudizio ben più severo. Se amate il genere e non vi attendete grosse novità e troppe pretese, "Endless" vi piacerà. Come detto la qualità ai Mount Salem non manca. Per la serie piccole Grace Slick e Sonja Kristina crescono e si moltiplicano... Antonio Fazio
MOUNTAIN MIRRORS – Lunar ecstasy
Ma che bel disco d'ascoltare! Ricco, psichedelico ed estremamente avvolgente. Una soffice ma perentoria dicotomia dal caos quotidiano, soprattutto per chi come il sottoscritto vive in una metropoli affollata e trafficata. I Mountain Mirrors sono un progetto portato avanti da Jeff Sanders, personaggio polivalente ed estremamente versatile sia sul piano strumentale, sia su quello creativo. "Lunar ecstasy" è una miscellanea di rock psychedelico, ambient ed un pizzico di elettronica. In esso troverete anche qualche robusto riff pesante fare la comparsa tra suoni sospesi ed ovattati. Le reminiscenze pinkfloydiane sono abbastanza evidenti, anche la voce di Jeff (molto bella), risulta assai vicina alla timbrica utilizzata da David Gilmour, ma, in ogni caso non risulta essere il solito plagio. Ascoltare per credere la title track. In che genere la collochereste una canzone così? Ma l'album è fatto di tanti altri "strani" episodi. "A Short Burst of Clarity", il brano di apertura, mi porta in mente alcune delle cose fatte dagli Orquesta del Desierto. Oppure il dolce e belliissimo arpeggio di "Your Sacred Space", che ci accompagna verso l'ingresso della sospensione eterea di "Apparition". Un viaggio nel vuoto. "Where the Green Meets the Blue" continua a farci volare. Tutto apparirà molto più leggero, soprattutto se l'ascolto verrà conciliato da un parsimonioso joint. Il tempo non avrà molta ragione di esistere anche di fronte alle note di "Afterlife", una sorta di colonna sonora per un viaggio visuale attraverso un passato medievale. Con "Last resort" ritorniamo improvvisamente ai giorni nostri, ma con uno stile ambient decisamente avvolgente. "Agent orange" è sicuramente il brano più marcatamente floydiano. I testi parlano di guerra e l'atmosfera non può che farsi scura e aggressiva. Ma la conclusiva "Rain" ci riporta la serenità in cuore. Uno stupendo arpeggio acustico di due minuti, senza nessun altro strumento che ci riconsegna alla nuda realtà di sempre. Ma come, è già finito? Io me lo riascolto!! I Mountain Mirrors sono fatti per pensare. Peppe Perkele
MOURNFUL CONGREGATION – The June Frost
Il titolo del disco nasce da un paradosso. Il gelo di luglio non può esistere, soprattutto quando la tua residenza è ubicata ad Adelaide, Australia. Proprio dalla forza evocativa di tale contrasto si dipana il nuovo lavoro dei Mournful Congregation. Chi aveva apprezzato i capitoli precedenti, ed in particolare “The Monad of Creation”, non rimarrà deluso. Il precedente full-length del 2005 era un disco opprimente, di soli quattro brani. “The June Frost” offre una maggiore varietà sotto questo profilo, un maggior numero di brani e pezzi mediamente più ‘brevi’, scanditi da interludi strumentali che garantiscono un miglior scorrimento anche ai neofiti del funeral doom.La campane mortuarie di “Solemn Strikes the Funeral Chime” rintoccano all'inizio del nostro cammino, introducendoci in “White Cold Wrath Burnt Frozen Blood” che, dall'alto dei sui diciassette minuti di durata, spiana il sentiero desolato attraverso il quale vagheremo per un’ora abbondante. Il senso di ossessione e annientamento pervade ogni solco ed ogni spigolo, un marchio di fabbrica della Congrega. Il viaggio prosegue verso gli abissi più remoti, con un imponente scarica di riff opulenti suonati con tizzoni ardenti: “Descent of the Flames” (già presente sullo split con gli Stone Wings). La contrapposizione fuoco-ghiaccio è l'emblema del disco, le sensazioni contrastanti che nell'uno e nell'altro caso rappresentano comunque strazio e sofferenza. La title-track si esprime in soli arpeggi delicati su cui poggia un assolo che in un certo modo ricorda la disperazione dell'ultimo Chuck Schuldiner; la fragile arte dell'esistenza, non a caso. “A Slow March to the Burial” (anch'essa precedentemente apparsa su uno split con i finlandesi Stabat Mater) è una dichiarazione di intenti. Chitarre gravide di perdita e gutturali sussurri angoscianti che squarciano il vuoto; il lentissimo e ossessivo riffing centrale in palm muting sancisce l'apice liberatorio dell'album. “The Februar Winds” altro non è che un intermezzo d'ambiente, meditativo. Sempre più lenti, sempre più sulfurei e mortiferi in “Suicide Choir”, nella quale fa capolino una timidissima doppia cassa, un ultimo guizzo di vita prima che la corda compia il suo dovere. L'ultimo canto degli angeli neri porta il nome di “The Wreath”, pura apocalisse color pece, breve appendice strumentale che chiude nell'agonia questa nuova prova del gruppo australiano. Dimenticate deserti e canguri e concentratevi sul misterioso gelo di luglio. Davide Straccione
MOURNFUL CONGREGATION – The monad of creation
Dopo averne pubblicato sul doppio cd antologico “The dawning of mournufl hymns” la passata produzione, l’etichetta giapponese Weird Truth immette sul mercato anche il nuovo lavoro (contenente comunque canzoni composte fra il 1996 e il 1999) degli australiani Mournful Congregation. Un gruppo di culto tra i fan del depressive sound, in quanto i nostri furono tra i primi (i loro esordi risalgono al lontano 1993) a seguire la strada tracciata dai primi Cathedral e, soprattutto, dalla coppia finlandese Unholy e Thergothon: ovvero doom metal lentissimo e sepolcrale, musica in grado di dare profonde sensazioni di disperazione all’ascoltatore.“The monad of creation” presenta il gruppo in forma, e le canzoni, pur lunghissime (la title track sfiora i 20 minuti) non risultano mai dispersive, ma sono anzi compatte nel loro infinito senso di tristezza ed abbandono. I Mournful Congregation potrebbero essere definiti come dei My Dying Bride al rallentatore (sembra incredibile, ma è così!); specialmente l’ottimo lavoro delle chitarre riporta infatti alle atmosfere contenute nei dischi del gruppo inglese, vista anche l’alternanza fra porzioni arpeggiate, lugubri riff e tragiche linee soliste, vero marchio di fabbrica del gothic doom di scuola inglese. Solo che poi il gruppo australiano ammanta tutto in un’atmosfera dannatamente funebre ed è difficile, se non impossibile, riuscire a scorgere la luce in fondo al tunnel nel quale i Mournful Congregation gettano l’ascoltatore. Un gruppo affine, specialmente per intenti, possono essere i nostri Void Of Silence, in particolar modo per l’attitudine assolutamente apocalittica che regna sovrana in ogni nota di quest’album. Se amate crogiolarvi in queste sonorità, per voi sarà una piacevole tortura perdervi fra le disperate note di “The monad of creation”. Marco Cavallini
MOURNING BELOVETH – Dust
Formatisi nel lontano 1992 ma praticamente in pista soltanto dal 1996, giungono dall'Irlanda i doomsters Mourning Beloveth. Con all'attivo due demos acclamati da tutti i magazines specializzati e un disco di debutto registrato con pochi mezzi a disposizione, i quattro hanno avuto la possibilità di riproporre attraverso la Sentinel Records il loro album d'esordio con una registrazione decisamente migliore e l'aggiunta di due bonus tracks. Appena il cd viene inserito nel lettore siamo avvolti da una coltre di nebbia e da paesaggi spettrali che si parano dinanzi ai nostri occhi: i Mourning Beloveth riportano alla luce quella forma di gothic death doom che nei primi anni Novanta gruppi come Anathema, Cathedral e Paradise Lost hanno elevato a perfetto compimento. Ma nel background della band irlandese c'è anche qualcosa in più: alcuni riferimenti vanno a pescare nella zona del doom cara ai Candlemass, fatta di ricami delicati, assoli epici e soluzioni soffocanti. Un senso di malinconia perdura per tutti i 74 minuti del disco, sottolineato dalla lentezza depressiva di macigni come "Dust", quattordici minuti di opprimente aggressività catatonica, o "Autumnal fires", imponente monolito dove melodia ed esasperazione si mischiano alla perfezione senza soluzione di continuità… La sezione ritmica (Tim alla batteria e Adrian al basso) accompagna con toni lenti e vaghe accelerazioni le progressioni della chitarra di Brian, mentre il vero punto di forza è rappresentato dalla voce di Darren: il suo alternare con intelligenza growls e clean vocals mette ottimamente in scena un amaro senso di frustrazione e disperazione, come evidente nel gioiello iniziale "The mountains are mine", fusione di atmosfere oscure, riff soffocanti e vaghi richiami ai grandi Abstrakt Algebra. "In mourning my days" inizia invece con un delicato arpeggio di chitarra che sembra evocare una quiete soffusa e rilassata, ma è solo un miraggio, perché subito un'esplosione fragorosa ci porta sotto un cielo cinereo mentre intorno la pioggia continua a cadere incessante…allo stesso modo "All hope is pleading" naviga in acque infernali, dividendosi tra growls pestilenziali, parti melodiche da brivido e un sottile filo di angoscia che ammanta tutti i suoi dieci minuti. L'unico momento di pausa da tale assalto arriva con "Sinistra", esperimento strumentale caratterizzato dal lugubre rintocco delle campane e da chitarre davvero emozionanti, capaci di creare un tappeto macabro e sinistro. Le due bonus tracks non fanno altro che confermare la verace vena compositiva del gruppo: "Forever lost emeralds" è tratta dal demo del 1998 "Autumnal fires" e propone gli stessi stilemi della band sotto una veste già matura e ancora più aggressiva, mentre "It almost looked human" è un antipasto del nuovo album "The sullen sulcus" e non si discosta poi di tanto da quanto proposto in precedenza, offrendo un concentrato di vocalizzi death, armoniose parti melodiche, ritmiche doom e ricami gotici. Un gruppo caldamente consigliato questi Mourning Beloveth, soprattutto a chi ama passeggiare in riva al mare scosso dai venti durante i giorni di pioggia… Alessandro Zoppo
MR BISON – We’ll Be Brief
"We'll Be Brief": saremo brevi, e anche belli cazzuti! Arrivano dalla Toscana i Mr Bison, terzetto stoner al fulmicotone in uscita con l'album d'esordio per la rediviva Dracma Records in co-produzione con la Go Down. Ed è un terzetto atipico, dal momento che non ci troviamo di fronte al classico trio chitarra basso e batteria: oltre alle pelli abbiamo infatti qui due chitarre che si rincorrono ed amalgamano creando un muro sonoro che proprio non fa quasi notare l'assenza del basso in formazione (potenza degli ampli splittati!). Dieci tracce di breve durata (mediamente tre minuti) cantate in inglese con le voci dei due chitarristi che, diverse ed allo stesso tempo complementari, ben si adattano allo stoner rock granitico di matrice californiana che permea l'intero disco: ascoltandolo, non potranno non venir in mente i Masters of Reality e soprattutto i Fu Manchu.L'iniziale "Today" mette già le cose in chiaro: un susseguirsi di riff potenti e precisi accompagnati da un cantato ficcante e una batteria incalzante. Queste saranno le coordinate sonore dell'intero disco, che forse potrà risultare abbastanza monocorde ma del resto l'intenzione e l'attidudine dei nostri al momento è chiara: stoner rock diretto e senza fronzoli! Degne di nota sono anche "Grocery Store", brano dove è presente l'unica e breve "frenata" del disco, altrimenti sempre incalzante e veloce; "Wait" dall'accattivante riff iniziale; l'indiavolata "Thin Line" e la rockeggiante e zeppeliniana "R & R Cobra". Molto belle sono anche la potentissima "Sweet Music", registrata con batteria ed una sola chitarra, e la conclusiva "Beat You Down", brano molto clutchiano che fa intravedere nuovi possibili percorsi musicali per la band. Un ottimo esordio questo dei Mr Bison (a proposito, menzione speciale per il nome della band e per l'artwork del disco), i ragazzi ci sanno fare e questo non è che l'inizio! Alessandro Mattonai
MR. PLOW – Cock Fights and Pony Racin’ / Asteroid 25399
Di fronte ad una band come i Mr. Plow non si sa mai come porsi: derivativi ai massimi livelli (scusate il termine ma in tal caso non se ne può proprio fare a meno!), al tempo stesso godibili e tosti sotto tutti i punti di vista (stilistico, compositivo, tecnico). Dopo aver ascoltato i loro due lavori non si può far altro che abbracciare il versante favorevole: questi quattro ragazzi di Houston sono dei simpaticoni. Suonano per passione dopo essersi sparati dosi massicce di Fu Manchu e Kyuss e la genuinità che li contraddistingue ripaga.Prima emissione è stata “Cock Fights and Pony Racin’”, nove tracce che fin dall’iniziale, travolgente “Festivus” mettono in chiaro gli intenti del gruppo: suonare uno stoner rock roccioso e divertente, vagamente psichedelico e senza troppe pretese. Tracce come “Master Blaster” e “Autozone” sono autentici tributi al sound dei Fu Manchu, altri episodi (“Ode to Carlo”, “Louder than Larry”) sparano riff e ritmi sostenuti sulla base di esilaranti storie personali (il Carlo Rossi dell’ode è un noto produttore di vino…). “The Dude” omaggia il grande Drugo Lebowski, la conclusiva “From the mouth of Gandalf” è una epica cavalcata ‘kyussiana’ di 12 minuti divisa in nove parti e dedicata ai miti creati da Tolkien. Tutto quadra dunque: un prodotto di genere da godersi senza farsi troppi problemi e premendo il tasto ‘off’ del cervello. Ben più sostanza ha invece il nuovo “Asteroid 25399”: la qualità delle composizioni è cresciuta, i brani girano a meraviglia, le soluzioni melodiche restano appiccicate fin dal primo ascolto. E cosa importante non vanno via… A fuzz e wah wah debordanti si affiancano pulsioni psycho grunge (ascoltare “Malachi” e la notturna “Ballad of Billy” per credere) e tentazioni heavy blues (resistere al fascino da loser della bellissima “Dead Eye Dick” è veramente difficile). La sostanza eccitante rimane però lo stoner duro e puro, quello che rende “Proteus” e “Telepathic Butterflies” pezzi da novanta, autentiche bordate suonate con sudore e sorriso sulle labbra. Ok, l’originalità non è di casa, però Greg (basso), Dave (batteria), Jeremy (chitarra, voce) e Justin (chitarra, voce) incarnano alla perfezione lo spirito verace del rock'n'roll, quello ‘cazzone’ e spensierato. Poi insomma, un gruppo che si chiama come Homer ‘Mr Spazzaneve’ Simpson non può non essere amato… Alessandro Zoppo
MR.BIZARRO & THE HIGHWAY EXPERIENCE – Hello Hell
Avevamo già parlato di Mr. Bizarro & The Highway Experience qualche anno fa, quando nel 2003 eravamo stati sorpresi dalla freschezza di una demo come “White star killers”. Ora torniamo sul gruppo veneto perché si rifà vivo con una nuova formazione (a Iuri - chitarra, voce - e Stefano - batteria - si affiancano Marzia al basso e Alessandra alla voce) e un nuovo lavoro. “Hello hell” contiene dieci brani che confermano l’ispirazione della band, sempre alle prese con il suo rock esplosivo e provocante influenzato dai vari Fugazi, Jesus Lizard, Sonic Youth e One Dimensional Man (non a caso Giulio Favero ha collaborato con i quattro nella produzione del cd).Ma la personalità è sempre molta e si fa largo con prepotenza lungo l’arco della mezz’ora del lavoro. “Pyshical riot”, “Psyco city”, “Too many BJs” e “Eleanor” sono un punto d’incontro tra noise, punk, hard, blues scalcinato, garage e rock’n’roll, il tutto in un mix isterico e altamente dopato. “Key?” e “La matador” (che giocoso quel fischiettio…) cercano una via insana e dannata alla melodia, mentre “Dispet”, “A sad sad story”, la strumentale “Stonerosa” (feedback asfissianti!) e la conclusiva “El diabolito” esplorano versanti più psichedelici, fondendo perversione sessuale e degrado metropolitano. Inferno, dannazione, libertà e conferme. Cosa chiedere di meglio? Ah sì, una cosa c’è: il disco è scaricabile gratuitamente sul sito dell’etichetta, Midfinger Records. Alessandro Zoppo
MR.BIZARRO & THE HIGHWAY EXPERIENCE – White star killers
Il Veneto si conferma terra di grandi promesse per il panorama italiano: dopo aver apprezzato molti gruppi provenienti da questa regione (tra i quali spicca il nome One Dimensional Man, con il quale Mr. Bizarro ha non poche affinità…) è giunto il momento anche per Mr.Bizarro & The Highway Experience di venire alla ribalta e farci assaporare il gusto acre della propria musica. Quanto proposto dalla band infatti è qualcosa di veramente tagliente e dissonante: nelle loro composizioni Flavi (basso, voce), Iuri (chitarra, voce) e Spino (batteria, voce) danno corpo ad una sapiente miscela di post punk, hardcore, noize e rock'n'roll, il tutto condito da spruzzate di psichedelia giocosa e frizzante. Giusto per fare qualche nome, verrebbe da dire in primis i Fugazi, ma anche l’operato di Shellac, Jesus Lizard e One Dimensional Man stessi, il tutto ovviamente filtrato attraverso un setaccio ricco di personalità e voglia di fare. Questa seconda uscita per il trio rappresenta già una piena fase di maturazione: se l’inizio affidato a “White star killers” e “Pixel” è giocato su tempi veloci e vocals al vetriolo, il gioiello “Teenage down is fuzzy” sterza subito verso percorsi sghembi ed obliqui che tanto fanno pensare a ODM quanto ai Motorpsycho del periodo “Blissard”. Tanta grazia continua nell’escursione rumorista della lunga “Panoramic suitcase”, grinta garage e feedback assortiti messi al servizio di una divagazione di natura prettamente psicotropa. A porre il suggello finale al tutto ci pensano quindi “Nobody remember” e un’assurda ghost track che condiscono di assordante stravaganza un piatto già stracolmo di follia sonora… “Mr. Bizarro è l’espressione della Vs personalità, in tutte le sue forme, è il modo in cui parlate, scrivete, mangiate, scopate, vi divertite, Mr.Bizarro è essere Voi stessi al 100%, è il momento in cui Vi sentite Voi stessi, è la realizzazione”. Come si fa a non amare dei ragazzi del genere? Alessandro Zoppo
MR.MAN – Belverde
Davvero interessante questa doppia uscita dell’etichetta indipendente Desert Fox che unisce due facce della medesima medaglia, i Mr.Man e gli Oak’s Mary. Si tratta infatti di due band piacentine nate dalla stessa costola, ossia dall’operato di Riccardo “Cavitos” Cavicchia, il quale nel 2001 dà vita ai Mr.Man (cimentandosi alla voce e alla chitarra) in compagnia di Paolo Ribecchi (basso). Ai due si aggiungono poi Carlo Cantore (batteria), Francesco “Franzisco” Mancuso (voce), Paolo Costanzo (violino), Andrea “Crave” Travedi (lap steel) e Giacomo Cavagna (percussioni e batteria aggiunta). Dopo un promo di 5 pezzi registrato nel 2002 a Genova negli studi di Tommy Talamanca, giunge ora il momento del primo full lenght ufficiale, “Belverde” (dal nome della cascina dove sono state concepite le canzoni). Ciò che ne viene fuori è un desert rock incisivo e suadente, capace di ricreare certe atmosfere sabbiose ma anche di spaziare nei vari registri che l’improvvisazione consente. Le influenze citate dalla band stessa sono le più disparate: Queens Of The Stone Age, Melvins, Mark Lanegan, Sophie Ellis-Bextor, Blondie, Astor Piazzolla, Tom Waits, i Doors… un miscuglio che in effetti riflette la grande varietà di stili presenti sul disco. Non a caso si alternano frizzanti episodi hard rock (l’iniziale “Cherry lady” con i suoi ammiccamenti allo stoner, il funky di “Pura vida”, lo sfrenato rock’n’roll da generator party di “Nods or finger”) a spunti contorti e cibernetici che strizzano l’occhio alle “regine” di Josh Homme e ai grandiosi Fatso Jetson (“Sweet sister”, “These visions of you”). Il violino di Costanzo dona grande raffinatezza alle composizioni e se spesso è il deserto (esteriore ed interiore) ad essere evocato (marinaresco in “Fatso buda”, afoso ma rilassante in “One more jingle”), in “Telling lies” vengono alla mente tenui scenari esotici. Dunque un eclettismo molto spiccato, dimostrato anche nel robotico indie rock psichedelico di “Runaway robot” e nello psycho rock strumentale della bellissima “Guns of Navarrone”. Da tenere d’occhio questi Mr.Man, non fosse altro per la loro abilità di songwriting che in un contesto come italiano al momento non ha pari. Alessandro Zoppo
MUDMEN – Crack of dawn
Skate, deserto e ragazze in bikini. Non poteva esserci immaginario più azzeccato per i Mudmen, trio proveniente dall’Indiana e giunto a “Crack of dawn” dopo un full lenght d’esordio (“Taint misbehaven”, uscito nel 2003) e un ep (“Dunewalker”). La creatura partorita da Joshua (chitarra, voce), Tommy (basso, voce) e Rick (batteria) è una realtà piccola ma davvero interessante. Anche perché i Mudmen vanno oltre gli archetipi (e gli stereotipi) classici del cosiddetto desert rock. Qui non c’è il fuzz esagitato di Fu Manchu e Nebula. Ma neanche le sonorità calde e pastose di Kyuss, Unida o Yawning Man.“Crack of dawn” è piuttosto una immersione totale nel più classico rock psichedelico, quello ‘trippy’ e lisergico, vissuto in totale libertà contemplando se stessi, i propri strumenti e il piacere di jammare in luoghi aperti ed incontaminati. Le sonorità del gruppo ci sembrano legate a quella sottile linea che parte da Grateful Dead e Pink Floyd e arriva a Phish, Colour Haze e Los Natas. Heavy psych nel senso puro del termine. Loro lo chiamano ‘dune rock’, ma la sostanza è la stessa. Jam polverose e slabbrate quanto basta, improvvisate, basate su canovacci che si dilatano non appena le note cominciano a fluire. Peccato per la registrazione di scarsa qualità e per qualche pecca in fase d’esecuzione, perché altrimenti avremmo avuto dinanzi ai nostri occhi (o meglio, alle nostre orecchie) un’autentica rivelazione. Ma anche in questo senso i Mudmen si confermano outsider di lusso, gente che se ne frega di tutto, attacca gli strumenti all’amplificatore ed inizia a viaggiare. Esemplari sono a tal proposito “Sky high” (e la sua appendice strumentale “Sky high 2”), “Brutus brown” e “Spag bohl”, tre lunghissime jam spontanee e liberatorie, da vivere in spazi sconfinati con un buon bicchiere e la giusta compagnia. “Holiday” e “Teacher’s pet” azzeccano il refrain giusto che si appiccica nel cervello all’istante, mentre “Can’t stop breathing” è una liquida ballata che ci fa sciogliere come neve al sole. Quando lo stress vi assale, i Mudmen sono la soluzione. Basta seguire il loro consiglio: kick back, relax and tune to the dune. Alessandro Zoppo
MURNAU – L’Angelo Memore
Dopo avere pubblicato l'interessante debutto "Supporto colore" dei partenopei Stella Diana, la piccola Seahorse Recordings dà voce ad un altro giovane gruppo italiano che basa le proprie idee e composizioni sulla delicata nostalgia dello shoegaze/dreampop. Che si stia forse, e finalmente, muovendo qualcosa nel genere anche nel nostro paese?"L'angelo memore" (da segnalare l'intrigante copertina) è il debutto dei Murnau, quartetto che strizza l'occhio a certo rock psichedelico cantato in italiano (si odono echi dei mai troppo lodati Karma) imbevendolo in un tessuto sonoro sostenuto da delicati arpeggi da un lato e scroscianti cascate elettriche dall'altro. Le ottime "Fragilità" e "Mùnter" vivono di questi continui contrasti d'umori sonori, trasportando lontano la mente. Altrove, come nell'iniziale "Il sentimento di Eva" e nella conclusiva "Uccidimi a Settembre" sono le atmosfere placide a farla da padrone, accompagnate da liriche che guardano al lato introspettivo dell'animo. Nulla di nuovo ed eccezionale, certo, ma fatto e suonato comunque con gusto. I fan del genere sapranno quindi apprezzare. Marco Cavallini
MUSCULUS – Six Pack
Dalla Finlandia con furore, un quintetto di ribaldi si lancia all'assalto brandendo sei pezzi di rock sferragliante o, a loro dire, sei "inni heavy psych rigonfi di testosterone". Fil rouge dell'EP d'esordio dei Musculus sembra essere il divertimento, e ce lo dicono il titolo, la copertina e, aspetto nient'affatto trascurabile, la musica stessa. Ma non fatevi ingannare, se l'addobbo è palesemente goliardico, il sound è di una compattezza mica da ridere: diretto, a tratti fosco, a tratti stemperato, ma sempre – perdonate il gioco di parole – muscolare. Quindi fate partire "The Matador" e abbandonatevi allo scapocciamento, perché questo è quel che preme ai Musculus.
"Knife to a Gun Fight" pigia sull'acceleratore, si palpa una scabrosità ai limiti del southern da un lato e dello sludge dall'altro. I nostri dunque puntano dritto alla gola. Non mancano riferimenti a Down, Alabama Thunderpussy e Halfway to Gone ma, soprattutto, viene da pensare (con una certa sorpresa) ai Canyon Creep, quelli di "Hijack the World!". Li ricordate? Seguono nel solco l'intransigente "White Lies" e la svagata "Shake Your Moneymaker", decisamente upbeat e a tratti punkeggiante. Lo spirito rock la fa da padrone nell'orecchiabilissima "Get Down", che scorre piacevolmente verso la conclusiva "All or Nothing", ideale summa dell'EP, dove le chitarre flirtano con l'heavy anni '80 e un azzeccato campanaccio sottolinea il groove della strofa.
Superano la prova i cinque finnici, ai quali lo spazio ristretto dell'EP permette di concentrare le energie senza scadere nella noia… Resta da attendere per sentire come se la caveranno con il full-length. Nel frattempo, se avete qualche minuto da perdere, andate a spulciare le foto dei live sul loro profilo Facebook! Davide Trovò
MUSIC BLUES – Things Haven’t Gone Well
Un titolo che è tutto un programma: "Things Haven't Gone Well". Cosi è intitolato l'album di debutto da solista di Stephen Tanner, bassista dei grandissimi Harvey Milk. Reduce da un periodo infausto della sua vita, e complice anche una visione nel mondo non propriamente ottimistica (lo si era già notato con i precedenti lavori degli Harvey Milk) Tanner, sotto il moniker di Music Blues dà vita ad un album che si fa racconto di fallimenti e sogni infranti, specchio di una certa America che ormai da tempo ha smesso di credere al proprio sogno. Emblematici anche i titoli delle canzoni che compongono questo disco, a detta dell'autore, fortemente autobiografico. Si va da "91771" che altri non è che la data di nascita di Tanner (9/17/71) e si dipana con un intro magniloquente in pieno stile Harvey Milk con le chitarre gargantuesche a farla da padrone. Sulla stessa riga prosegue "Premature Cesarean Removal Delivery", mentre "Teach the Children" è un intermezzo country, ma che di propriamente country non ha nulla. Tutto è distorto, malato. "Hopelessness and Worthlessness" insieme a "Trying and Giving Up" assumono la forma di un blues deviato, fortemente distorto, a tratti epilettico. "Great Depression" e "Failure" sono guidate da droni sinistri e batteria viscerale, non lasciano nessuna via di scampo all'ascoltatore. Dopo il breve interludio di "Death March", è la volta del duo "It's Not Going to Get Better" e "Tremendous Misery Sets In". Di gran lunga quanto di meglio il buon Tanner propone in questo suo debutto. Emblema della rassegnazione e della conseguente accettazione del fatto che nulla va come speriamo, e tutto tende al peggio; si presentano come delle digressioni tanto heavy quanto bucoliche con una chitarra a tratti struggente a tratti aggressiva che impreziosisce le due canzoni. "The Price Is Wrong" si avvale di una batteria aggressiva e sconclusionata. Pur non distanziandosi tanto da quello che ci ha fatto sentire insieme agli Harvey Milk in questi anni (tant'è che il materiale in fase embrionale di lavorazione era destinato al nuovo album dei Milk), Tanner fa centro. Ci racconta di una vita di stenti, in un luogo che ha perso tutta la sua innocenza. In fondo per racchiudere l'essenza di questo disco basta riprendere una frase che il padre era solito rivolgere al piccolo Tanner: "You think life sucks now, just wait". Giuseppe Aversano
MUSTANG SOULS – Promo 2006
Tre pezzi tosti e furibondi sono il biglietto da visita dei Mustang Souls, band di Goteborg che si presenta con questa demo senza troppi fronzoli. Ascoltando i brani qui presenti si gusta il sapore della strada, asfalto polvere e birra a fiumi. Un fanculo al perbenismo e alle ipocrisie insomma, è anche questa l’essenza del rock’n’roll. I Mustang Souls la incarnano con un sound abrasivo e veloce, figlio diretto del punk imparentato con l’hard rock e lo stoner.La registrazione non esalta certo la potenza delle song, a tratti intrappolate in una sporcizia sin troppo eccessiva. Tuttavia le capacità ci sono e la sfrontatezza soprattutto. “Saint Vitus dance” non è certo doom ma punk malsano che ricorda i Mondo Generator. “Let it be w.o.w.” viaggia dura e diretta, voce al vetriolo e chitarre grondanti sangue nella migliore tradizione degli ultimi Orange Goblin. “Evil rocker” è invece un siluro speed punk di scuola Zeke. Ci attendiamo il meglio da questi ragazzi di Goteborg, le premesse sono molto positive. Let’s ride, motherfuckers! Alessandro Zoppo
MY DYING BRIDE – A line of deathless kings
Tornano i “gods of doom” (almeno così li definisce l’etichetta) My Dying Bride. “A line of deathlees kings” segue a due anni di distanza l’ottimo “Songs of darkness, words of light” e conferma il gruppo inglese come maestro nel genere interpretato. I nostri rappresentano da sempre il perfetto incrocio fra il doom e il gothic metal: del primo ne hanno la lentezza e la pesantezza mentre del secondo ne possiedono la romantica oscurità. Questo nuovo “A line of deathless kings” non sposta di una virgola il raggio sonoro tipico del gruppo (la vena sperimentale abbozzata nel grande “34788% complete” è ormai quasi totalmente cancellata/dimenticata, dato anche l’insuccesso commerciale ottenuto da quel disco), e lo vede quindi intento a cesellare con classe le proprie caratteristiche. Doom orchestrale basato su chitarre “piangenti” dunque, unite ad una base sinfonico/atmosferica, il tutto interpretato dalla decadente voce di Aaron, il quale ha abbandonato quasi del tutto i toni growl (la sola “Deeper down” - scelta come singolo - presenta toni aggressivi).Le canzoni dell’album si attestano tutte su buoni livelli, dovendo scegliere segnaliamo “L’amor deiruit” e la seguente “I cannot be loved”, esempi perfetti di come il gruppo abbia sempre quella marcia in più rispetto ad altri interpreti del genere; canzoni dalla durata medio lunga costruite su perentori cambi di umore, dove è possibile passare dalla malinconia alla rabbia, dall’impeto alla tristezza nel giro di pochissimi secondi; una caratteristica questa che mostra il maggior pregio dei My Dying Bride, ovvero quello di essere pesanti senza risultare noiosi. Veramente ottima “The blood, the wine, the roses” (il finale aggressivo slega troppo evidentemente col filo della song e appare solo come un tentativo del gruppo di far vedere che quando vuole sa ancora essere estremo), che chiude il disco in un’atmosfera mesta che dà un forte senso d’insoddisfazione terminato il suo ascolto. È come sentirsi l’amaro in bocca: un amaro che per i fan sarà comunque dolcissimo assaporare. Marco Cavallini
My Dying Bride – The Ghost of Orion
Cinque anni sono un periodo piuttosto lungo per i My Dying Bride, una band che da sempre ci ha abituato ad una release ogni due, tre anni al massimo. Cinque anni è il periodo che separa il precedente Feel the Misery dal nuovo The Ghost of Orion, grazie al quale ritroviamo una band a livelli altissimi. Il chitarrista Calvin Robertshaw lascia la band poco prima delle registrazioni per cui l’album viene composto quasi interamente da Andrew Craighan; sorte simile toccò a Feel the Misery con l’abbandono di Hamish Glencross. Andrew ha quindi carta bianca e si conferma un compositore eccellente. Anche il batterista Shaun Taylor-Steels abbandona la nave prima di entrare in studio, ma fortunatamente il produttore Mark Mynett ha pronto un asso nella manica: Jeff Singer (ex-Paradise Lost) aveva il suo kit di batteria parcheggiato ai Mynetaur Productions, impara i brani in appena due settimane ed entra in studio, registra ogni parte ed entra in pianta stabile nella line-up. The Ghost of Orion non è un disco qualsiasi, ci sentiamo più che mai vicini alle parole di Aaron Stainthorpe, dopo aver vinto la battaglia contro il cancro della propria figlia. Strascichi di questa esperienza affiorano nella struggente Tired of Tears, che mostra l’anima più accessibile dal punto di vista musicale mantenendo la malinconia di fondo, la melodia del violino e delle chitarre offrono una solida base ad una voce da brividi. Menzione speciale per il lavoro svolto sulle voci pulite, disposte su più livelli, armonizzate tra loro al fine di donare una maggiore profondità al tutto. Nel caso di To Outlive the Gods, le melodie vocali giocano ancora una volta un ruolo cruciale, tra le tracce che rappresentano al meglio questo album, e non a caso scelto come secondo videoclip. Più centellinate invece le parti in growl, che fanno capolino in punti chiave di brani come Your Broken Shore, The Long Black Land e The Old Earth, senza mai rappresentarne l’elemento portante, ma irrompendo con una rabbia dirompente nel momento opportuno, accentuando la drammaticità dei singoli brani. Gli ultimi due brani citati sono intervallati dalla titletrack, che aiuta a far prendere il fiato tra le tracce più lunghe del disco (di 10 minuti ciascuna), grazie a 3 minuti di chitarre arpeggiate e voci sussurrate. Altra arma vincente di The Ghost of Orion sono le collaborazioni di due ospiti femminili di livello assoluto: Lindy-Fay Hella (voce dei Wardruna) e di Jo Quail, compositrice e violoncellista inglese di fama internazionale. The Solace è un insolito duetto tra la chitarra riverberata di Andrew e la voce ultraterrena di Lindy-Fay, in un ideale connubio tra il folklore norvegese e quello dello Yorkshire. Lo spazio dedicato agli ospiti è sacro, Lindy-Fay e Jo si intrecciano un’ultima volta in Your Woven Shore, di nuovo senza batteria e con l’assenza totale di strumenti elettrici, chiudendo in maniera insolita un disco che rasenta la perfezione. https://www.youtube.com/watch?v=F1DI7447ia0

Davide Straccione

MY HOME ON TREES – My Home on Trees
Si posizionano in quell'allargata zona dove si sovrappongono stoner e occult rock, esordendo con un demo ben curato (o se preferite EP) di 5 brani: loro sono i My Home on Trees e questo biglietto di presentazione risulta appetibile ai cultori dei vari Spacegoat, Witch Mountain, Black Moth, ossia a tutti coloro che apprezzano un robusto rock psych di antica tradizione riportato sugli scudi da una nuova generazione di validi musicisti. "Silence" è una sinuosa danza boschiva intonata dalla voce sicura di Laura e valorizzata dall'esecuzione ad effetto della band, tra rallentamenti melodici e riff di buona presa; la stessa concezione progressiva emerge in "Call the Doctor", nella quale i nostri mostrano ancor di più il loro attaccamento a certo proto sound e acid rock darkeggiante. "Earth" e "Night Flower" sono tracce più dirette ma dal feeling sempre gustoso, mentre "Countdown" torna sulle coordinate dei primi due brani, e nella quale si fa strada una struttura ariosa, articolata ed evocativa. Non siamo ancora a livello dei nuovi mostri sacri (emerge forse qualche prolissità), ma in definitiva non ci si può lamentare: l'attaccamento a certe sonorità sembra quello giusto. Sviluppi tutti da seguire. Roberto Mattei
MY LAST KEEN – Promo 2006
Storia complicata quella dei My Last Keen. La band nasce a Milano nel 2004 come progetto di Paolo ‘Paganhate’ (chitarre, tastiere), voglioso di dare sfogo creativo alla propria passione per il doom. Parte la ricerca di componenti adatti ed il primo ad essere reclutato è l’amico di vecchia data Rob (chitarrista dei Vexed e compagno dello stesso Paolo negli Alea Jacta durante gli anni ‘90). I due iniziano la stesura dei pezzi, si aiutano al basso e alla batteria (programmata elettronicamente) e trovano in Darkdoom (voce) l’uomo giusto per iniziare le registrazioni. Il risultato (dopo l’ennesima caccia al batterista fallita) è questo promo di quattro pezzi che mostra tutta la bravura di Paolo come compositore e musicista.Doom dicevamo, che paga dazio ai classici del genere (leggi Pentagram, Candlemass e scuola Hellhound) senza mai essere sterile esecuzione di canoni abusati. I quattro brani mettono in mostra potenza, attitudine, forza e una freschezza sorprendente per un gruppo al debutto. Speriamo solo che i My Last Keen scovino al più presto un batterista perché song come “My last keen” e “My skull in my hands” hanno bisogno di una propulsione ritmica maggiore. Comunque sia, quanto si ascolta fa impallidire tante band in giro per il globo. “The loom of silence” è un colosso doom intricato e sofferto, dieci minuti di grande musica replicata da “Beyond the world of opposites”, crogiuolo di accelerazioni, break oscuri e fulminee ripartenze. Con una voce evocativa e possente come quella di Darkdoom e con un lavoro di chitarre tanto prezioso il risultato non poteva che essere positivo. Insieme a Doomraiser, Midryasi e Thunderstorm i My Last Keen si candidano come nuovi alfieri della musica del destino. Auguriamo loro di trovare una stabilità necessaria per portare avanti un progetto di tale caratura. Alessandro Zoppo
MY SHAMEFUL – Of dust / The return to nothing
La Firedoom Music in sede di promozione ha definito “Of dust” come “l’album più depressivo del 2004”. Non siamo certo in grado di confermare questa sentenza, ma possiamo assicurarvi che se amate crogiolarvi nei suoni funerei e malinconici del depressive doom questo disco rappresenterà l’ideale colonna sonora per le vostre giornate. “Of dust” è il secondo capitolo per i My Shameful, solo project del finlandese Sami Rautio, e mostra confortanti segni di progresso rispetto all’acerbo debutto “Of all wrong things” (pubblicato nel 2003 su Firebox). La batteria elettronica è ancora presente, ma utilizzata decisamente meglio che in passato e le atmosfere si sono fatte più “adulte”, cancellando certe ingenuità presenti sul precedente lavoro.Le otto canzoni presenti devono molto alla ‘scuola’ finlandese Unholy/Skepticism e alcune soluzioni (specie le linee soliste di chitarra e certi tempi ultra-slow) rimandano al gothic/doom inglese di marca My Dying Bride/primi Cathedral. La chitarra piangente dell’iniziale title track è esemplificativa dell’atmosfera struggente che accompagnerà tutto l’ascolto del disco, che concentra nella sua parte centrale le song più riuscite (il trittico “Your darkness shine”, “One lost” e “I found nothing sacred” – la migliore in assoluto). Un disco da ascoltare/assaporare in assoluta solitudine, al fine di carpirne ogni minima, grigia vibrazione. Il successivo “The return to nothing” è il terzo album per i finlandesi, dopo “Of dust” uno dei gruppi più apprezzati nella recente ondata di artisti dediti al depressive/funeral doom. Il nuovo lavoro non sposta di una virgola la proposta dei nostri, diventati oggi un gruppo vero e proprio e non più un solo project del leader Sami Rautio. Lo stile è quindi sempre doom metal lentissimo e depressivo, ma rispetto al precedente album qualche differenza si nota: anzitutto l’ottima produzione, specialmente nel suono delle chitarre, le quali hanno acquistato maggiore corposità rispetto al passato. È andata un po’ persa la freddezza dei lavori passati, in favore di un’oscurità e densità dei suoni veramente notevoli. Le chitarre disegnano quadri sconfortanti, alternando linee di stampo My Dying Bride a porzioni psichedeliche che raggiungono spesso toni acidi echeggianti i maestri Unholy; il trittico iniziale “This same grey light”, “Day grow darker” e “No dawn” esemplifica bene quanto detto. Canzoni come la title track e “Silent” presentano pause arpeggiate squarciate da pesanti riff, il tutto ammantato da un’atmosfera terribilmente sconsolata. Insomma, l’ideale colonna sonora per accompagnare l’autunno e l’inverno che stanno arrivando. Il grande pregio di “The return to nothing” è quello di scorrere fluido, lineare e senza annoiare, al punto che una volta terminato avrete voglio di ricominciarne l’ascolto. Di quanti dischi depressive/funeral si può dire oggi la stessa cosa? Marco Cavallini
MY SLEEPING KARMA – My Sleeping Karma
Che sorpresa i My Sleeping Karma! Forse non tutti ricordano The Great Escape, fuzz rock band molto nota a livello underground grazie ad alcune interessanti uscite (“Ride on” nel 2001, “Escape from reality” nel 2003, “Nothing happens without a dream” nel 2005). Il gruppo ora non esiste più ma membri di quella formazione (Matte - basso - e Steffen - batteria -), unitisi a Seppi (chitarra) e Norman (tastiere), hanno dato vita ad un nuovo progetto, My Sleeping Karma. Dopo un EP d’esordio i quattro giungono al debutto sulla lunga distanza con questo album omonimo edito dalla sempre attenta Elektrohasch di Stefan Koglek. Quanto si ascolta nei 45 minuti di durata del cd è un heavy space rock strumentale super psichedelico che non mancherà di ammaliare e rapire chi adora Hawkwind, Ozric Tentacles, Liquid Sound Company e soprattutto i maestri 35007.Certo, non c’è grande originalità nella proposta del gruppo ma quanto si assapora tra questi microsolchi è manna dal cielo per chi ama il rock psichedelico. Lo dimostra fin da subito “Intention”, che parte in modo liquido e avvolgente per poi esplodere in una valanga ultra acida. Anche “23 Enigma” segue questa scia: avvio delicato e lisergico, eruzione vulcanica a base di riff magmatici, ritmiche impazzite e tastiere infuocate. “Hymn 72” sintetizza i tempi ma non i modi, puntando su un impatto stoner ricco di groove. “Glow 11” è un emozionante tour de force di oltre 7 minuti che fa volare alti nello spazio siderale, “Drannel Xu IIop” è la rappresentazione sonora del ciclo di morti e rinascite del Saṃsāra. Un aspetto spirituale quello dei My Sleeping Karma che trova definitivo compimento e totale esemplificazione nella conclusiva “Eightfold path”, il sentiero per raggiungere la fine delle sofferenze. Un percorso di meditazione che passa per un sound ricco di sfumature: aggressivo, ammaliante, teso, evocativo, riflessivo. Un caleidoscopio che mostra alla perfezione la purezza d’animo e d’ispirazione di questa grande band. Alessandro Zoppo
MYSTIC SIVA – Mystic Siva
Il recupero di strani oggetti non identificati degli anni Sessanta e Settanta sembra essere pratica comune a molti responsabili di etichette discografiche. Un po' per tracciare una continuum tra passato e presente, un po' per trovare ascendenze in altre epoche storiche/culturali e un po' per pura e semplice passione, chi scandaglia nel favoloso ventennio trova pepite di straordinaria bellezza. Lee Dorrian, una vita passata tra Cathedral, ricerca di nuovi talenti e archeologia musicale, con le sue relics ci ha donato pezzi da novanta come Luv Machine, Necromandus e The (Original) Iron Maiden (!), act heavy psych appena un gradino sotto la triade Led Zeppelin/Black Sabbath/Deep Purple. Anche in casa nostra il lavoro di Massimo Gasperini della Black Widow ci ha informato sull'esistenza di Andromeda (pre Atomic Rooster: una bomba!), Zess (invidiati a morte dal lord di Coventry per non essere riuscito ad aggiudicarsene la paternità) e rarità degli High Tide a nome "Open Season".
Il buon Chris Peters della World in Sound persegue questa strada aggiornando il proprio catalogo di vintage mushrooms con una band pazzesca, i Mystic Siva da Detroit, AD 1967. Marc Heckert, anni 14, alle tastiere; Craig Smith, anni 15, al basso elettrico (costui, purtroppo, non farà parte delle registrazioni dell'album che vedranno protagonista Art Thienel, anni 15); Al Tozzi, anni 15, alla chitarra e Dave Mascarin, anni 15, al canto e alla batteria. Questo manipolo di imberbi si chiude nella casa di Dave e in un giorno solo registra 11 pezzi di velenoso fuzz psichedelico. Loro lo chiamano orange rock, per merito della copertina totalmente arancio con l'immagine di Shiva, colui che distrugge e rigenera i mondi, come la musica prodotta dai nostri, sorta di schiaffo amoroso in bilico tra aggressività e dolcezza.
L'influenza di Hendrix, Cream e Traffic, per loro stessa ammissione, è forte: aggiungete qualche spezia Jefferson Airplane e tutta la West Coast in acido, qualche lacrima di Jim Morrison e un flow proto soul funk e l'alchimia è servita. "And When You Go" e "Find Out Why" aspirano ad essere gospel track con organo ecclesiastico in evidenza; "Supernatural Mind" è horror occulto che non sarebbe dispiaciuto ad un altro imberbe del periodo, Bobby Liebling dei Pentagram; "Keeper of the Keys", "Eyes Have Seen Me" e "Magic Luv" sono road trip della Beat Generation con arroganza e stile dove l'estro chitarristico di Al emerge cristallino. C'è spazio anche per il finale altamente psichedelico ed evocativo di "In a Room", luogo in cui questi quattro scapigliati adolescenti, saturi di THC, hanno concepito un album, in un giorno, dentro una stanza. Nelle parole della band che accompagnano questa gradita riscoperta: "The music does take us back – hope you enjoy!". Of course, Siva's! Eugenio Di Giacomantonio

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